Riccardo Cepach

Transcript

Riccardo Cepach
Riccardo Cepach
Gli Indipendenti.
I romanzi ‘a otto colonne’ di Svevo, Cesari e Benco
Cominciamo con una citazione, anzi due:
La stanza di redazione era buia, tetra, quasi che sentisse la gravità del giornale. Nessuna eleganza:
tappezzerie vecchie, mobili vecchi, arredi vecchi: una desolazione. Attorno, sotto alle pareti oscure, dalla
tinta cupa, quattro scrivanie sonnecchiavano avvilite da un velo di polvere rotto qua e là da un pietoso colpo
di manica. E sopra, alla rinfusa, giornali di tutta Italia; qualcuno a brandelli, per i colpi di forbice del
redattore-capo, altri ancora intatti, ancora piegati, ancora umidi sotto la fascia colorata.
In redazione si lavora pochissimo: si discute, si chiacchiera e tra una boccata di fumo e un paradosso buttato
all’aria con grande sprezzo del buon senso, si taglia ai giornali di cambio qualche entrefilets, qualche notizia
di varietà, o si fondono due tre notizie, per formarne una corrispondenza particolare. Non si va più in là. [...]
Fuori di là: l’attività delle braccia; dentro: quella dei cervelli; fuori: la preoccupazione materiale del
lavoratore alla affaticata danza delle destre sulla cassa dei caratteri grigi, sporchi di lisciva e di inchiostro;
[…]. Dentro, la monotonia era grave, penosa; (Cesari 1892, 1; 36)
Sono due passaggi del romanzo Vigliaccherie femminili, opera d’esordio (destinata a rimanere unica
sua opera narrativa di un certo peso1) del giornalista triestino Giulio Cesari, che descrivono
l’atmosfera della redazione del quotidiano triestino “L’Indipendente”, storico organo
dell’irredentismo triestino. Per un lettore contemporaneo è un po’ difficile mettere insieme la
“monotonia grave e penosa” che ci descrive Cesari con la storia così travagliata di quel giornale: il
totale di 484 processi e 1016 sequestri, (Veronese 1932, 30; 99) oltre all’enorme numero di multe e
perquisizioni collezionate in 37 anni di attività mal si adatta all’immagine sonnolenta e polverosa
che ci viene offerta. In realtà la redazione dell’“Indipendente” era una ben oliata macchina da
guerra2 al cui interno si incontrarono e strinsero vincoli di collaborazione e amicizia diversi giovani
intellettuali accomunati dall’orientamento irredentista e dalla passione letteraria: Alberto Boccardi,
Riccardo Pitteri, Alberto Gentilli, Camillo de Franceschi, Giulio Ventura, Silvio Benco. Vi si
incontrarono e vi si legarono di amicizia duratura, in particolare, il giovane Ettore Schmitz, il già
ricordato Giulio Cesari e il poeta Cesare Rossi.3 E se per quanto riguarda il primo le attestazioni di
un lungo rapporto di collaborazione non mancano, visto il suo ruolo nella compilazione del celebre
Profilo autobiografico di Svevo nel 19284, per quanto riguarda il secondo c’è almeno una carta
inedita che attesta la prosecuzione del loro rapporto anche molti anni dopo la conclusione
1
La copertina della terza edizione del romanzo, di cui dirò, ricorda una precedente opera di Cesari intitolata
“Ricordanze” appunti e note, pubblicata fuori commercio ed “esaurita” a Trieste nel 1889 e ne annuncia una
successiva, il romanzo Suggestione, che non risulta aver mai visto la luce. Altrove (Deledda 1964, 981 n. 1) si apprende
che Cesari, prima del suo romanzo, aveva pubblicato almeno un’altra novella intitolata Acque morte, apparsa nella
“Tribuna Illustrata” l’8 maggio 1891.
2
In questo senso varrebbe la pena di rivedere almeno in parte la storia dell’“Indipendente” che è stata scritta
prevalentemente con intenti agiografici e celebrativi in tempi sospetti, ossia in epoca fascista (Veronese 1932 e Coceani
1932) e negli anni in cui la travagliata questione nazionale triestina non si era ancora risolta politicamente (Pagnini
1956; 1959); una prospettiva storica più moderna e ampia potrebbe portare a una miglior definizione del ruolo del
giornale come strumento di lotta e a un giudizio più equilibrato sulla travagliata guerra che la redazione combatté con la
censura austriaca. Addossare tutte le colpe alla vessatoria autorità asburgica (al netto dei durissimi provvedimenti
carcerari che vennero presi) non rende giustizia al lavoro della redazione che si impegnava perché l’ufficio censura
avesse quotidianamente modo di occuparsi del giornale.
3
Significativo, a questo proposito, è il confronto fra due esemplari della prima edizione di Una vita (Svevo [1892])
conservati al Museo Sveviano di Trieste dedicate rispettivamente “all’amico Giulio Cesari” e “al mio buon, ottimo
Cesare [Rossi] | Nunc et semper” entrambe siglate “Ettore Schmitz” ed entrambe datate “Trieste 12 novembre 1892”.
Come è noto, infatti, il romanzo era stato stampato nello scorcio di quell’anno ma gli era stata impressa la data
dell’anno successivo, il 1893. È anzi possibile che quella medesima data su due dediche ad amici che probabilmente
incontrava, a quell’epoca, quotidianamente alla redazione del giornale, segnali il giorno esatto della consegna delle
prime copie all’autore (e committente).
4
Per la complessa questione autoriale circa il Profilo rimando alla scheda di Clotilde Bertoni in Svevo 2004b, 14511453
1
dell’esperienza all’“Indipendente”; si tratta di un biglietto di Svevo a Rossi datato “Trieste li 26
gennaio 1921”:
Carissimo Cesare,
Oggi ricevo dal mio amico di Londra ch’egli a Londra è ritornato ma che smarrì la mia lettera contenente
l’indirizzo consaputo. Saresti così buono di darmelo una seconda volta? Così potresti avere l’informazione
che t’importa. Io ricordo esattamente tutto quanto mi dicesti e non mi occorre che il puro e semplice
indirizzo e il nome della signora.
Salutandoti caramente, tuo aff.
Ettore.5
Il messaggio di Svevo è destinato, io temo, a rimanere inaccessibile nella sua voluta enigmaticità,
ma testimonia appunto del perdurare di quei rapporti che si instaurano in quella redazione –
polverosa e sonnolenta o meno che fosse – in cui, se seguiamo la suggestione di Vigliaccherie
femminili, molto si discuteva d’arte, di letteratura e, soprattutto, di donne e di amori. L’ipotesi che
avanzo, suggerita appunto dall’ambientazione del romanzo di Cesari è che quell’ambiente abbia
funzionato da incubatrice per alcune opere narrative che intorno a esso sono sorte: in particolare per
i romanzi di esordio di Giulio Cesari e dello stesso Svevo cui, per certi aspetti che dirò, sarà utile
accostare La fiamma fredda, la prima opera narrativa di Silvio Benco, che alla redazione
dell’“Indipendente” si era accostato nel 1890 incrociando per la prima volta i percorsi dei due.6
In quell’anno 1892, come si è detto, vedono dunque la luce a Trieste due opere prime, Una
vita, firmato dall’esordiente pseudonimo Italo Svevo e Vigliaccherie femminili di Giulio Cesari che
invece accosta (ma soltanto in subordine e fra parentesi) al suo nome proprio lo pseudonimo
“Bonhomo” con cui probabilmente aveva già firmato prose e articoli per diversi quotidiani.7 Il
romanzo di Cesari è un’opera che ha qualche ambizione, scritto in uno stile abbastanza
convenzionale ma scorrevole, con una ricerca di effetti e di modernità8. L’autore ambisce da subito
5
Il biglietto fa parte del fondo della corrispondenza di Cesare Rossi conservata alla Biblioteca Civica di Trieste. Si
tratta di un foglio dattiloscritto (cm. 17 x 11) in inchiostro violetto (tranne la data topica “Trieste” che è in inchiostro
rosso); le parole “e il nome della signora” sono manoscritte a inchiostro nero, come la firma. Assieme a questo
dattiloscritto è conservato anche un biglietto da visita di “Ettore Schmitz” in cui il nome “Ettore” è cancellato da un
tratto di penna e sostituito da “Letizia”, manoscritto in inchiostro nero; seguono le parole manoscritte “annunzia al
compare la propria nascita”, si tratta pertanto della partecipazione a Rossi della nascita della figlia di Svevo, Letizia,
nata il 20 settembre 1897.
6
È opportuno ricordare che, dopo l’incontro all’“Indipendente”, i nomi di Svevo, Cesari e Benco si ritrovano
nuovamente uniti nel 1918 come fondatori del nuovo periodico triestino “La Nazione” che viene ricordata nel succitato
Profilo autobiografico di Svevo: “E venne la redenzione. Dalle adunanze che prepararono l’accoglienza alle truppe
italiane fu anche decisa la creazione di un giornale veramente italiano: “La Nazione”. A direttore di tale giornale fu
designato Giulio Cesari, un antico intimo amico dello Svevo. Veramente un amico letterario, un autodidatta che a forza
di studii implicanti veri sacrifici s’era elevato dal posto di tipografo (lui ch’è uno dei pochi cui scorra nelle vene il
sangue di nobili antichi triestini) a quello di giornalista. Nell’entusiasmo dell’ora lo Svevo promise la propria
collaborazione.” (Svevo 2004b, 811).
7
La nota biografica più completa che sono riuscito a trovare su Giulio Cesari (1869-1943) è quella contenuta nella
sezione dedicata alla figlia, Aurelia Reina Cesari, autrice di un tardivo memoriale della guerra ’15-’18, in Curci – Ziani
1993, 244: “Da principio corrispondente triestino di giornali quali il “Secolo XIX”, il “Fieramosca”, la “Gazzetta
dell’Emilia”, Cesari entrò all’ “Indipendente” nel giugno 1889, quando i redattori del quotidiano irredentista vennero
arrestati in massa. Vi rimase fino al 1892, subendo molte noie e alcuni arresti per reati di stampa, ma riuscendo anche a
pubblicare un romanzo non insignificante, Vigliaccherie femminili. Divenne poi redattore capo del “Cittadino” e, infine,
dal 1895 fu per vent’anni redattore del “Piccolo”. Dopo l’incendio del giornale ad opera degli austriacanti entrò –
nolente, come altri giornalisti triestini – nella redazione dell’organo socialista “Il Lavoratore”; ma il 20 giugno del ’16
non poté sottrarsi alla morsa crescente dei provvedimenti di confino, e venne internato a Linz. Rientrato alla vigilia
della liberazione, fondò e diresse con Benco “La Nazione”, uscito dal primo novembre del ’18 al 1922, col preciso
intento di far sentire (assente ancora “Il Piccolo”, che riprese le pubblicazioni nel novembre del ’19) una voce
genuinamente italiana nel momento del grande trapasso.”.
8
Mi riferisco in particolare alla descrizione insisitita e articolata della stamperia del giornale, con un’attenzione al
funzionamento dei macchinari, ampio uso di termine tecnici e specialistici e la ricerca di un effetto d’insieme
“concertistico” che, non nella sintassi ma nella concezione, anticipa di molto alcune pagine dei futuristi: “le macchine
[che] rumoreggiavano in cadenza, mosse dalla forza del gas. I carri delle macchine correvano sulle rotaie opache,
ubbriache d’olio, con un monotono fremito di ruote pesanti, con piccoli cigolii rauchi di vite, e acri gracidamenti degli
2
a dimostrare dimestichezza con la grande tradizione letteraria inscenando la finzione del
ritrovamento, in un cassetto della redazione, di un manoscritto firmato da tale Giorgio Venturini –
nome che non apparteneva ad alcun giornalista presente o passato per quella redazione – di cui
Cesari avrebbe assunto la “gerenza responsabile” dandolo alle stampe9. Subito nella
autopresentazione del personaggio che dice “io” è dato riconoscere molti lemmi e temi cari alla
penna di Svevo, malattia, lotta, sogno:10 Giorgio Venturini è un letterato velleitario che ambisce a
riversare sulla pagina i dolori della sua ancor giovane esistenza ma lotta con una musa indocile e
una qualche atavica inettitudine. Un giorno però, a un tratto, si riscuote:
E volli pensare, sì, ancora, con la consueta voluttà, con la dolcezza consueta; ma pensare lavorando, pensare,
seguire l’idea, creare, soffrire, battagliare, vincere, ma non più con la mente soltanto, ma con la forza volente
dei nervi, volendo che quel pensiero mio si fermasse finalmente sulla carta, come sbocciava, come scattava
dalle cellule cerebrali. Volli! Allora venne la lotta nova del lavoro: l’uragano della volontà, e la disperata
resistenza del pensiero, che si intralciava, che si rifiutava di presentarsi con l’usata limpidezza, con la
vittoriosa freschezza della sua originalità”. (Cesari 1892, 8-9)
La parola “volendo” è un corsivo d’autore che ha una sua decisiva importanza, come vedremo.
Anche questa battaglia si risolve tuttavia in un fallimento: di tutto ciò che ha riversato a così alto
prezzo sulla pagina, dopo attenta e feroce revisione non resta che un unico, striminzito capitolo da
cui “scaturì un articolo di giornale!” contenente “una chiamata solenne: a lei, all’ignota anima sua”
(Cesari 1892, 14, corsivi dell’autore), alla donna ideale. A questo punto l’autore introduce i
personaggi dei colleghi di Venturini, Ricci e Mandelli, entrambi sofferenti d’amore e diversamente
delusi dalla vigliaccheria del gentil sesso11. All’inseguimento del suo “ideale” Giorgio li compiange
ma procede per la sua strada e pubblica l’articolo: la chiamata ottiene una risposta; una giovane
ragazza – che dapprima si firma “Melisenda” salvo poi rivelarsi per “Serafina” - inizia una
affettuosa corrispondenza col giornalista che a lungo rifiuta di incontrare finendo poi per dargli, su
pressante richiesta, un appuntamento. A tale incontro, tuttavia, Serafina non si presenta e fa invece
recapitare a Giorgio un biglietto:
ingranaggi, e violenti scossoni di volante, e affannosi brontolii dell’ampio e pesante tamburo, che girava impassibile a
baciare la forma stesa supina sulla piastra del carro.” (Cesari 1892, 38).
9
La finzione del manoscritto ritrovato viene abbandonata, tuttavia, nella terza edizione del romanzo (della seconda non
mi è stato possibile trovare traccia), pubblicata dallo stampatore triestino Ettore Vram (lo stesso di Una vita e Senilità di
Svevo) nel 1895. Al testo del romanzo, che ha stampa identica alla prima edizione risultando evidentemente dal
riutilizzo dei medesimi piombi (secondo l’economico procedimento che verrà usato da Vram anche per Senilità per il
quale riutilizza le righe composte per la stampa a puntate sull’“Indipendente”), Cesari antepone una nota in cui rivela
che, a differenza delle due edizioni del 1892, “in breve esaurite”, ha deciso di eliminare dalla terza la prefazione e la
dedica che vi aveva premesso “per giustificare con una vecchia finzione il soggettivismo voluto della storia” (Cesari,
1895).
10
Una breve antologia di citazioni, ricche di parole-chiave, sarà sufficiente a darne un’idea; afferma Venturini: “era in
me la febbre dell’arte; una malattia atroce, che minava con lentezza, con terribile lentezza la mia anima” (Cesari 1892,
5) e poco dopo precisa “Noi tutti abbiamo dentro di noi qualche cosa: pensiero, idea, parola, malattia, non so: che ci
tormenta [...]”(Cesari 1892, 6); quindi aggiunge: “La stanchezza intellettuale del riposo mi dava delle irritazioni
profonde: avevo bisogno di lotta, di lavoro, di attività. E mi recavo in redazione a lavorare di cervello, senza toccare la
penna, producendo in fantasia lavori splendidi; soffrendo, godendo, estasiandomi nella persecuzione del sogno d’oro.
Così, ogni lavoro fantastico era una battaglia e un disastro, da cui uscivo con lunghe stasi di pensiero; quasi concessioni,
quasi riposi accordati. Poi mi buttavo nuovamente in quella lotta, con un gran desiderio di vittoria, e anche con un gran
desiderio di pace! Lo sa la vecchia scrivania, quanto ho sofferto in quelle ore perdute; lo sa la muta scrivania quanto
lavorai senza produrre nulla mai, nulla, nulla!” (Cesari 1892, 7-8). Pur rimarcando la differente tonalità della prosa di
Cesari rispetto a quella dell’amico, è difficile, leggendo questo passo, sottrarsi all’eco delle parole che Svevo aveva
scritto, il 17 novembre 1890, nel suo saggio Il fumo, pubblicato sull’ “Indipendente”, riguardo la sproporzione fra
desideri e atti nella vita del “sognatore: “I sogni saranno arditi e geniali, ma lasceranno una traccia sproporzionatamente
piccola in confronto al loro volume; sarà stato sognato un mondo e tracciata una nube, sognato una tragedia o
un’epopea e fissato un verso. Il sognatore non è mai conseguente a se stesso perché il sogno porta lontano e non in linea
retta mentre la persona conseguente a se stessa si move in uno spazio più ristretto e simetrico [sic]” (ora in Svevo
2004c, 1088).
11
“Ah, la vigliaccheria femminile! – scattò Mandelli con una contrazione ironica del ben visino dipinto di sangue come
quello di un pupattolo di porcellana. – Anche tu? – gli chiesi con interesse. – È naturale! Non vi sono eccezioni, o
sono... molto rare!” (Cesari 1892, 25).
3
....cinque colpi di stile s’infissero nel mio cuore che gemette sotto alla implacata maledizione misteriosa che
pareva raggiungerlo; cinque parole: cinque colpi di fulmine; cinque imprecazioni d’inferno; e una immensa
pietà e un turbinoso e delirante amore per la diletta, che trionfava e s’imponeva ineluttabilmente, per sempre!
Sottolineate, quasi luminose, sinistramente luminose, simili ad una demolitrice ironia, balzavano dalla
candida carta le cinque parole, il dramma della sua e della mia vita: “la tua Serafina è zoppa!”. (Cesari 1892,
103)
Giorgio accusa il terribile colpo ma il sentimento è in lui già troppo forte e i due si fidanzano.
Serafina però ha anche un altro amore: la letteratura. È una scrittrice che, più concludente di
Giorgio, ha appena pubblicato un suo romanzo intitolato Senza speranza!. Rapidamente: dopo una
serie di vicissitudine intrecciate ai filosofici commenti dei colleghi sulla natura della donna e
dell’amore, Serafina, sedotta dal successo letterario che improvvisamente le arride abbandona il
povero (nel senso di squattrinato) giornalista e sposa un ricco avvocato. Giorgio sprofonda nel
dolore e nella disillusione. In chiusura, nel corso di un ultimo incontro fra i due alla sede del
giornale, richiesto da Serafina che vuole la restituzione delle sue lettere compromettenti, la donna si
offre al giornalista che rifiuta sdegnosamente avviandosi a un destino di solitudine e covando, in
cuor suo, l’idea del suicidio.
Di Vigliaccherie femminili si è occupata anche Cristina Benussi, che ne ha scritto nella sua
Introduzione a una recente edizione di Senilità (Benussi 2009), argomentando efficacemente che il
romanzo di Cesari possa aver avuto un ruolo nella gestazione del secondo romanzo sveviano,
Senilità. A partire da una precedente proposta di identificazione che coglieva possibili somiglianze
fra uno dei personaggi di Cesari, il giornalista Mandelli, e la figura storica di Svevo (Gatt-Rutter
1991, 161), Benussi evidenzia una serie di possibili agganci biografici12 e di consonanze
tematiche13 cui si aggiunge l’eco di verosimili riflessioni poetiche condivise. Le vicende e le figure
rappresentate tanto in Vigliaccherie femminili che in Senilità affonderebbero le radici nelle
rispettive esperienze dei loro autori, esperienze reciprocamente note data l’amicizia, la familiarità e
l’assidua frequentazione alla redazione dell’“Indipendente” 14.
Un capitolo a parte merita, in questo quadro, la relazione epistolare che Cesari, che si firma
Giorgio Venturini come il protagonista del suo romanzo, nel marzo di quello stesso 1892, avvia con
la giovane Grazia Deledda,15 di cui qualcosa riusciamo a sapere attraverso il resoconto che la
scrittrice sarda ne fa in alcune lettere ad Epaminonda Provaglio (Deledda 1964, 980-990).16 Si tratta
di una relazione interessante dal punto di vista del romanzo anche se l’ipotesi più suggestiva, quella
che Grazia Deledda possa aver rappresentato un modello per Serafina, deve essere immediatamente
12
Fra questi il possibile apparentamento fra l’autore fittizio, Giorgio Venturini, e un altro collega di Cesari e Svevo
all’“Indipendente”, Giulio Ventura (Benussi 2009, 18), anch’egli entrato in redazione, come Cesari, nel 1889, a seguito
dell’arresto di buona parte della redazione da parte delle autorità austriache. Da ricordare che anche Ventura fu uno
scrittore, autore fra l’altro di un romanzo Dora Tirr (Ventura 1889) di cui avremo modo di riparlare.
13
Al confine fra i primi e le seconde si situa, invece, lo spunto sui nomi delle rispettive protagoniste femminili,
l’Angiolina di Senilità che richiamerebbe palesemente la Serafina di Vigliaccherie femminili per la quale ultima
Benussi propone una serie di possibili modelli fra le donne letterate che frequentavano la redazione dell’“Indipendente”:
Elda Giannelli, Ida Finzi (in arte Haydée) e Nella Doria Cambon (Benussi 2009, 22-23). Varrebbe la pena di accostarvi
anche i nome di Adele e Argelia Butti, scrittrice la prima, pittrice la seconda, intellettuali di ardente fede irredentista
(Curci – Ziani 1993, 59-73), amiche di Cesare Rossi (nel cui epistolario si incontrano lettere di entrambe) e vicine alla
redazione del giornale. È alla seconda che, forse, Cesari intende accennare quando dà il nome, neppure allora comune,
di “villa Argelia” alla dimora patrizia presso cui Serafina risiede in veste di istitutrice.
14
Di ciò è forse lecito leggere una conferma, più che una smentita nella citata premessa di Cesari alla terza edizione del
suo libro, visto che l’autore si preoccupa di “correggere un po’ l’opinione” che di lui si erano fatti molti che avevano
dato credito ai giudizi “di taluni critici della nostra regione e del vicino Regno sul carattere intimo di questo romanzo”.
Interessante, in questo breve assunto, lo spazio dedicato al “soggettivismo” della narrazione (di cui il precedente
espediente del manoscritto ritrovato sarebbe stato una giustificazione) in una storia che secondo i critici, sarebbe narrata
“con troppo sentimento per non essere reale: una affermazione questa – commenta Cesari – che sembra negare le
prerogative dell’arte” (Cesari 1895).
15
Un cenno alla vicenda è già in Benussi 2009, 18.
16
Provaglio era allora redattore delle riviste dell’editore romano Perino, con cui Grazia Deledda collaborava, sicché a
lui Cesari aveva indirizzato la sua lettera per la giovane scrittrice con preghiera di inoltro.
4
rigettata per ragioni cronologiche.17 Ma un certo legame fra il romanzo e la relazione di Cesari e
della Deledda è messo in luce da altri particolari: ne possiamo seguire le tracce nella recensione al
romanzo che la stessa Deledda pubblica sul quindicinale “Vita Sarda” (Deledda 1892);18 ne
cogliamo un’eco nell’ambiguo giudizio che essa, sempre nelle sue lettere a Provaglio, esprime circa
le relazioni amorose epistolari in cui, da un lato si getta con passione e che, dall’altro satireggia;19
infine ne individuiamo una sorta di prefigurazione, ostando le date, nel romanzo stesso di Cesari
che anticipa i modi della sua stessa – e anche di altre – relazione sentimentale con Grazia Deledda.
La quale parlando nuovamente di Cesari, ancora nella lettera del 17 aprile, scrive a Provaglio:
Mi ha scritto tutta la sua vita: se è vero tutto ciò che esso mi scrive ha molto, ma molto sofferto: è quasi
ancora un fanciullo; ha molte illusioni che io, io stessa, non ho, eppure ha sofferto tanto, quanto uomo - bada
bene, umanamente e non fantasticamente, – può soffrire! Non so; io diffido di tutto e di tutti, eppure quando
ho letto la lettera in cui quel poverino mi ha raccontato la sua triste esistenza, ho pianto, così, come l’ultima
delle signorine sentimentali, io che non piango mai, mai! – Del resto, però, non gli ho dato alcuna speranza
perché... non sono ancora convertita, e perché c’è un altro perché, volgarissimo, ma che nelle realtà della
vita, è spesso arbitro delle sorti umane. Il mio lontano innamorato è povero! Ha la sua posizione, ha molte
speranze nell’avvenire, molto ingegno, coraggio e volontà; ma la mia famiglia pretende avvocati o dottori o
ingegneri piuttosto che romanzieri o poeti o giornalisti... tanto più che sa, per mezzo mio stesso, che la
letteratura non rende nulla. (Deledda 1964, 989-990).
Se poi il termine ‘prefigurazione’ suonasse un po’ rozzo in questo contesto si potrebbe forse
ricorrere ad altre, meno screditate categorie, quali quelle della memoria, che non deve essere per
forza tutta involontaria, quando non si volesse parlare addirittura di richiami, di rielaborazioni. Non
ricorda un po’ il drammatico biglietto di Serafina (“La tua Serafina è zoppa!”) quel lapidario “il mio
lontano innamorato è povero!”? Se è vero quanto dichiara in apertura della sua recensione, e cioè
che “qualche giorno dopo aver letto questo bizzarro romanzo [aveva] veduto il ritratto dell’autore”
(Deledda 1892, 6), quando scrive quelle parole a Provaglio Grazia Deledda ha già letto il libro20 e
certamente lo ha letto e recensito (ma non dimenticato) un anno e mezzo più tardi quando la
situazione si ripresenta identica con un altro amore lontano di Grazia: il giovane Andrea Pirodda,
afflitto dal medesimo problema di scarsezza di risorse economiche e incerta posizione, la cui sorte
di fidanzato è, quindi, ugualmente segnata. Da notare che, nel rivendicare la sua scelta di fronte al
17
La prima lettera di Deledda a Provaglio in cui si fa cenno a Cesari è del 28 marzo 1892, quando Vigliaccherie
femminili, se non è già uscito, è probabilmente in corso di stampa (gli estremi della stampa si collocano fra la data in
esergo alla citata introduzione in Cesari (1895): gennaio 1892, e la recensione su “Vita Sarda”, di cui alla nota seguente,
che esce il 12 giugno di quell’anno.
18
La recensione è preceduta dall’avviso: “La seguente rassegna è il primo saggio critico che esce dalla penna della
nostra assidua collaboratrice, e i lettori ci sapranno grado della primizia”. Deledda loda il romanzo senza riserve, vi
trova “un po’, forse inconsciamente della scuola psicologica del Bourget” e aggiunge che “v’è pure il soffio della
spirituale del Fogazzaro e si sente che l’autore ha già studiato un po’ di tutto, il verismo francese e la letteratura sociale
russa, arte e filosofia, e che comprende lo scopo del romanzo moderno” (Deledda 1892, 7). Alla sua prima prova la
giovane letterata sarda mostra un’ampiezza di riferimenti e una sensibilità critica considerevoli, soprattutto se messi a
confronto, per fare un esempio, con l’opinione che un altro recensore, l’insegnante irredentista spretato Paolo Tedeschi,
pubblica in settembre su “La Provincia dell’Istria”, in cui affianca senz’altro Cesari “alla scuola dei realisti”, benché
“con una certa tendenza a passare armi e bagaglio tra i Simbolisti” (Tedeschi 1892, 133).
19
Se infatti nella lettera datata “Nuoro, 28 marzo [1892]” Deledda esprime il suo entusiasmo di corrispondere “a quella
lettera da romanzo” che le ha mandato Cesari a costo di sfidare “le ridicole esigenze sociali” secondo cui “una signorina
ammodo non dovrebbe lanciarsi così, in fantastiche amicizie con giovinotti... d’oltre mare” (Deledda 1964, 981), in
quella successiva, del 17 aprile, mentre confessa di essere “gia alla terza lettera” e di essersi gia “scambiato il ritratto”
con colui che ancora chiama Giorgio Venturini, ricorda anche un suo recente “bozzetto” scritto “con l’idea sottile di
mettere un po’ in derisione gli amori alla Jaufré o Godefroy o Goffredo Rudel, gli amori lontani che son ritornati di
moda assieme al fantastico cavaliere provenzale e alla bella Melisenda di Tripoli.” (Deledda 1964, 988-9). Si ricorderà
che “Melisenda” è lo pseudonimo che anche Serafina sceglie per celare la sua identità a Giorgio nel romanzo di Cesari e
“chi più ignora la dolce e commovente istoria di Rudel e della Contessa di Tripoli?” si chiede Deledda nella sua
recensione (Deledda 1892, 7). L’amore del trovatore provenzale Jaufré Rudel per la contessa di Tripoli Melisenda, da
lui mai incontrata, era stato rievocato in prosa e in versi in Carducci 1888 e di lì a poco sarebbe stato al centro della
pièce La princesse lointaine di Rostand.
20
Perché appunto, come si è detto, nella medesima lettera dichiara di aver già avuto il ritratto di Cesari.
5
solito Provaglio, Deledda non ricorre più allo schermo della volontà famigliare per giustificarsi ma
si affida a parole che ricordano da vicino quella della Serafina di Cesari:
Io dunque non ho più alcuna speranza. Mi sono convinta che egli non potrà mantenere le sue promesse:
sicché non potrò neppure io mantenere le mie. Egli potrà benissimo diventar professore, ma sai come? fra
cinque od otto o dieci anni. Ed io in tutto questo tempo posso bene consumare la mia esistenza nel silenzio e
nell’attesa, e morire prima ch’egli abbia una posizione come la richiede la mia famiglia e come lo pretende
anche la mia ragione. [...] Egli non sarà mai altro che un povero insegnante, - e capirai bene che per me ci
vuol altro, perché io, nella mia carriera, ho bisogno di esser sorretta da un uomo forte, ho bisogno di
appoggio, di ajuto e di consiglio ed anche di una relativa agiatezza. [...] Nell’abbandonarlo, ora, che corre un
periodo triste, è forse una vigliaccheria, - ma cosa devo fare, cosa? Tutte le promesse che può dare una
innamorata io gliele ho fatte; egli avrà ragione di dirmi sleale e di confondermi con tutte le altre donne, ma,
ripeto, cosa devo fare? Sempre la colpa ricade sulla donna, nella rottura di un amore, - ma in realtà la colpa è
sempre degli uomini. Se essi non promettessero cose false, se non ci illudessero, inducendoci ad amarli per la
forza della speranza e dell’illusione, se essi stessi ci dessero sin da principio l’esempio della lealtà e della
sincerità, nessun disastro d’amore accadrebbe. (Deledda 1964, 1052-1053)21.
È vero: tutto questo ha più rilievo nella ricostruzione biografica e nella riflessione critica
sull’opera deleddiana che in quella sul romanzo d’esordio di Svevo o sulla stessa opera di Cesari.
Eppure io ritengo che, fatta salva – e forse rafforzata – l’ipotesi che Vigliaccherie femminili possa
aver avuto un ruolo nella gestazione di Senilità, certe caratteristiche di Una vita si inquadrino
meglio se le si pone in un contesto ambientale in cui l’autore aveva occasione di discutere con
l’amico Giulio Cesari di certi argomenti. Serafina ha molte più caratteristiche in comune con
Annetta Maller di Una vita che con l’Angiolina di Senilità.22 La figura storica di Grazia Deledda
non ha sicuramente dato niente al personaggio di Serafina (da cui potrebbe semmai aver attinto
qualcosa che poi riversa nel suo epistolario) e neppure ad Annetta, ma i temi salienti di quella
relazione – per quanto la si possa ricostruire mancando il carteggio diretto fra i due – sono tanto
palesemente presenti nei romanzi di Cesari e Svevo che ignorarli sarebbe un errore. Proprio perché
qui non si va alla ricerca di ipotesi di filiazione o di influssi diretti, ma si tenta la ricostruzione di un
contesto discorsivo in cui entrano, si accumulano e si sovrappongono esperienze personali, idee
filosofiche e riflessioni di poetica. Un contesto discorsivo, un’‘incubatrice’, come si è detto, cui a
questo punto conviene che io ammetta anche il terzo autore citato in premessa, il Silvio Benco de
La fiamma fredda, pubblicato dieci anni dopo, nel 1903. L’accostamento con i primi due romanzi è
ulteriormente rischioso, per il lungo iato temporale, per le caratteristiche formali, per gli influssi
(d’annunziani in primo luogo) e gli esiti diversi. Spero tuttavia che l’evidente riproposizione di
21
Ho riportato lungamente le parole di questa lettera dell’11 novembre 1893 perché il riecheggiamento del romanzo mi
appare davvero evidente, al di là dell’utilizzo, di per sé rivelatore, del sintagma “vigliaccheria”. Nei capitoli centrali del
romanzo a più riprese Serafina – che si sente nata per l’arte, giova ricordarlo, e ambisce alla gloria letteraria che le si
dischiude innanzi – rinfaccia a Giorgio la sua povertà e la sua misera posizione di giornalista squattrinato: “– Capirai:
l’ambizione sale. Sono molto cangiata!... È vero. Ma tu.... – Io?... Ah! Io sono sempre uguale... Sono rimasto
immutato... – Appunto: immutato: la medesima posizione: lo stesso grado di... miseria, scusami: è la verità; con molte
speranze e molte illusioni... Andiamo assai male!” (Cesari 1892, 157). In particolare Serafina rinfaccia a Giorgio la sua
impossibilità di esserle di sostegno nella carriera e, anzi, di opporsi espressamente ad essa come a cosa inadatta a una
fidanzata: “Quando si hanno di queste idee pel capo non si sposa un’artista. O pure le si offre una vita agiata: la
ricchezza... Se tu fossi in grado di sposarmi subito!... ma quanti anni dovrò aspettare!...” (Cesari 1892, 150), circostanza
che le fa preferire quello che secondo le parole di Grazia Deledda definiremmo “un uomo forte”, fonte di “una relativa
agiatezza” e di libertà: “ - Ma come siete bambino, Giorgio! Voi credete ancora che si si sposi per amore! Mano, ma no,
ma no! Ho sposato l’avvocato Veronesi perché egli mi voleva, perché era un “buon partito”, perché mi lasciava intera
libertà per ogni manifestazione artistica” (Cesari 1892, 195). Una soluzione pratica suggerita a Serafina (come a Grazia
Deledda) dalla stessa “Ragione”: “- Sì – continuò ella senza accorgersi della mia commozione – la Ragione: il nostro
matrimonio è impossibile. Sei troppo povero, Giorgio: non voglio offenderti, ma pensa anche tu: non vorrai mica
rendermi infelice!” (Cesari 1892, 158).
22
Lo rimarca la stessa Cristina Benussi che, pur muovendo in altra direzione, annota: “Non possiamo non ricordare che
Annetta Maller, che avrebbe voluto diventare autrice di best sellers, sceglie di sposare un uomo del suo ambiente,
avvocato anche lui. Entrambe sono donne dal basso sentire, calcolatrici piuttosto che fautrici di un’elevazione verso le
zone alte del sentimento. Che Svevo abbia tratto ispirazione anche da qualche vicenda occorsa al collega?” (Benussi
2009, 18-19).
6
caratteri simili, snodi tematici identici e, spesso, svolgimenti analoghi valga a sostenere la mia
ipotesi.
Veniamo ora, molto brevemente, alla trama dell’opera di Benco: protagonista indiscussa del
romanzo è Arsinoe Benazar, figura di donna capace e volitiva (fin troppo) malauguratamente afflitta
anch’essa da un grave handicap, in questo caso sociale: Arsinoe è… brutta, di una bruttezza
inappellabile e indegna di attenuanti di fronte all’intransigente tribunale della sua lucida
intelligenza.23 Per breve tratto questa sua ‘patologia invalidante’ sembra poter essere curata
attraverso la tradizionale medicina che il suo cospicuo patrimonio familiare le consente24: un
matrimonio di reciproco interesse con un conte decaduto causa deboscia25 e un figlio. Ma l’illusione
del riscatto per mezzo del supremo ideale femminile di moglie e madre è di breve durata: la spietata
lucidità di Arsinoe – contro ogni retorica del cieco amor materno – le mostra come il bambino,
lungi dall’essere un roseo tripudio di salute e bellezza, sia in realtà pallido, malaticcio e… brutto. Di
fronte a tale – come diremo? Riattivazione del trauma? – la personalità della donna evolve e
sviluppa la sua qualità più perspicua: la volontà. Arsinoe vuole il suo trionfo sociale ed è disposta a
tutto per ottenerlo. Seduce il noto poeta Mariano Ruda26 per mezzo di una provocazione
intellettuale per lui irresistibile: i suoi versi che celebrano la bellezza così come la sua dedizione alla
piacente e fresca vedovella sua amante sono indegni di lui! Se il suo intelletto e la sua arte non
sanno cogliere il vero, il nobile, l’eccelso – e quindi il bello autentico – lì dove gli altri uomini non
osano e non sanno guardare – ossia nella bruttezza di Arsinoe – quale mai sarebbe la loro
eccezionalità? Riesce quindi a catturarlo nel suo gioco perverso di paradossale femme fatale e se ne
fa un passaporto per il bel mondo in cui trionfa passando da “brutta” a “interessante” su su fino ad
“affascinante ed enigmatica” e collezionando ben tre spasimanti (al poeta si aggiungono il giovane
pittore Vansal e il maturo fanfarone generale Mentier) che la conducono alle soglie di una
compromessa immortalità come favorita del Re, mentre il suo malaticcio bambino, sommessa
catarsi finale, muore senza neppure il conforto di poterla riabbracciare.
Ora che li abbiamo brevemente ripercorsi (tutti tranne Una vita di cui, in questo contesto
risparmio al lettore e mi risparmio ogni tentativo di riassunto, per altro irto di difficoltà) possiamo
chiederci: di che cosa parlano Una vita, Vigliaccherie femminili e La fiamma fredda? Di molte cose,
d’accordo, ma parlano anche con piena evidenza di rapporti amorosi fra giovani uomini e giovani
donne dedicando una particolare attenzione a queste ultime. Il tema della donna nel contesto della
società capitalistica in evoluzione, se non è il principale argomento di queste opere né è certo uno
dei più significativi.27 Un tema sviluppato in almeno quattro direzioni riconoscibili.
23
“Lo studio del proprio corpo assumeva in lei l’austerità d’un esame di coscienza, allontanate com’erano da una mente
ardita e sveglia tutte le premesse illusorie. – Io sono brutta. – Perché brutta? Perché è brutta una donna? Perché le linee
della sua forma carnale non sanno combaciare con quanto l’uomo si va poetando nelle immaginazioni che gli
fomentano il desiderio? – Le linee d’Arsinoe, nel corpo e nel volto non combaciavano per fermo coi tipi dell’eterno
femminino a cui la fantasia s’innamora. […]– Brutta! – In una inflessione nuova, decisiva, la parola tornava in cospetto
al suo corpo come un cenno del fato. – Brutta.” (Benco 1903, 12-13).
24
Sulla dubbia origine delle fortune della famiglia Benazar Benco dissemina lungo il romanzo indizi che si assommano
a quelli sulla loro origine ebraica, caratterizzata secondo i più vieti stereotipi della propaganda antisemita dell’epoca; si
veda in particolare: “L’adunca e servile natura dei Benazar, prostrata nelle promiscuità secolari dei bugigattoli e
spelatasi nell’acri [sic] fumosità della Borsa e nella meccanica mentale dei calcoli” (Benco 1903, 74) e i successivi
richiami allo “sciaguratissimo errore della razza” (Benco 1903, 103), alla “lussuria della razza orientale” di Arsinoe
(Benco 1903, 147) fino all’esplicito richiamo al prestito a strozzo cui la famiglia doveva la sua prosperità: “Non sono
trent’anni che prestavano a usura sui gioielli” (Benco 1903, 247).
25
“Bello, giovine, nobile, il Vanderra: e anche sciupato e smunto dalla più oziosa gioventù che mai fosse trascorsa fra
guidare cavalli e allentar borse d’imprestito a tavolini da giuoco” (Benco 1903, 22).
26
Interessante figura di letterato che, ad onta del successo mondano che incarna, fa mostra di molte caratteristiche dei
personaggi sveviani: è astratto, sognatore, inetto e, come vedremo subito, facilmente soggiogabile.
27
In questo senso potrebbe risultare utile anche il confronto con il già citato Dora Tyrr di Giulio Ventura, opera sorta
nella medesima ‘incubatrice’ e molto mal giudicata da Charles.C. Russel (1978, 46) e, sulla sua scorta, da Gatt-Rutter
che parla di «pura fantasticheria ed evasione» per un romanzo «ambientato tra un’aristocrazia favolosa di una favolosa
epoca» (Gatt-Rutter 1991, 159). E invece è un riuscito e a tratti penetrante romanzo epistolare che richiama Le relazioni
pericolose di Choderlos de Laclos ma vive proprio nell’opposizione fra un mondo aristocratico e dissoluto e un milieu
borghese triestino, databile e riconoscibile se non proprio caratterizzato. Vi incontriamo una figura di filosofo e artista,
autore di «romanzacci immorali» (Ventura 1889, 98), scettico e materialista ma buono, che si incarica di proteggere la
dubbia virtù di una «celeste creatura» (ivi, 14), la Dora del titolo, che ha acconsentito a un matrimonio senza amore con
7
Innanzitutto isolerei la dicotomica suddivisione della donna fra ideale e natura, dal momento
che molto esplicitamente e, direi, programmaticamente i protagonisti maschili di queste opere
vanno alla ricerca del loro ideale femminino,28 raramente disgiunto da un richiamo all’immagine
materna (edipico ante litteram),29 e sempre si scontrano, riportandone danni e prognosi piuttosto
severe, con la realtà della donna nella sua natura, fatta di sensualità, egoismo, ambizioni,
sconcertante autonomia di giudizio e – il dato nuovo – maggiore libertà di scelta e d’azione.
Da questo tema generale discende direttamente la duplice visione di quello che è il
tradizionale terreno d’esercizio delle muliebri virtù (e dei nuovi muliebri vizi): l’amore. Che è di
volta in volta il principale strumento di elevazione spirituale e, appunto, di incontro con l’ideale e,
sul versante opposto, un semplice travestimento di un banale bisogno animale (“Una funzione
materiale!” secondo Mandelli in Cesari 1892, 24) nell’uomo e di inconfessabili appetiti sociali,
ansie di promozione e desiderio di cose materiali nella donna.30
Più univoco benché articolato è invece il tema della donna in rapporto alla spiritualità e
all’arte, nuovo e inaspettato terreno di esercizio della femminilità e, quindi, di scontro fra i sessi.
Tutti tre i romanzi mettono esplicitamente in scena (per mezzo di un comprimario, portavoce di un
diffuso sentire) l’opinione secondo cui la donna non è fatta per l’arte, per la filosofia, per la cultura.
In Una vita è Macario a ironizzare sulla vocazione letteraria di Annetta;31 gli fa eco ne La fiamma
fredda di Benco la riflessioni del poeta Ruda32 e in Vigliaccherie femminili la tirata di Mandelli che,
ancora una volta, appare più scoperta ed esplicita nell’attribuire alla cultura e all’arte – secondo una
tradizionale visione misogina – un ruolo pervertitore delle naturali buone inclinazioni della donna.33
Il romanzo di Cesari indica apertamente anche la fonte di tale opinione evocando il nome di Cesare
un ricco borghese perché «bisogna pur vivere», (ivi, 13). Non vi ritrovo, tuttavia, le altre caratteristiche comuni ai
romanzi in esame, quelle che maggiormente mi interessano e che è mi accingo a trattare.
28
Si ricorderà che Alfonso porta con sé dal paese natale un ingenuo ideale d’amore in base al quale intende “serbarsi
puro per porre ai piedi di una dea tutto se stesso”; un ideale cui solo apparentemente rinuncia per evitare il sarcasmo
della smaliziata filosofia cittadina, “così che Miceni a torto si vantava di aver operato una conversione” (Svevo 2004a,
72). Più determinato Giorgio difende il suo analogo ideale contro il cinismo di cui Mandelli dà prova dopo la delusione
patita a causa della “vigliaccheria” della “bionda Iddia” cui si era prostrato (Cesari 1892, 30). Significativamente poi,
entrambi i giovani protagonisti interpretano la loro ricerca dell’ideale non come un’attività cui ci si debba in qualche
modo dedicare ma come attesa che “l’ideale venga a loro” (cfr. Svevo 2004a, 73; Cesari 1892, 32-33), secondo una
teoria dell’attesa che Deledda riconduce a Spinoza (Deledda 1892, 7). Più ambigua e interessante perché fuori dalle
secche del vittimismo – tanto che il personaggio rimane l’unico carattere maschile de La fiamma fredda non destinato a
una disfatta morale senza appello – l’evoluzione/involuzione del pittore Vansal rispetto ai suoi ideali di gioventù, come
la si ricava da una conversazione con Ruda: “Sono molto mutato da allora! – sospirò Vansal alle nuvole, terminando il
sospiro ne’ begli occhi d’una passante che lo ricondussero in terra. – Quello che tu richiami dal passato era una mia
forma apocrifa. Quello che vedi adesso, è una creatura più miserabile della polvere e della muffa; ma genuina, vedi,
genuina come il succo dell’uva che spremi fra le dita. Io ero marcio d’illusione. Me ne sono poscia guarito sopra l’unica
via, sopra la via del piacere” (Benco 1903, 291).
29
Il tema, ben presente in Una vita, ancorché soltanto suggerito, è esplicitamente dichiarato nel romanzo di Cesari in
cui Mandelli declina come segue l’ideale femminile: “L’avevamo posta al disopra di tutto: fanciulla, sposa, madre: era
l’ideale.” (Cesari 1892, 183) e potentemente evocato in quello di Benco in cui la scena della seduzione del poeta
Mariano Ruda è intessuta di “lente carezze imperiose per le quali si ridesta nell’uomo il brivido di certi smarrimenti
infantili rifugiatisi a un grembo” e ad Arsione vengono attribuite qualità “materne” (Benco 1903, 116).
30
Non servirà aggiungere molto a quanto detto per quanto riguarda i personaggi di Serafina e di Arsinoe; per quanto
attiene a Una vita si ricorderà per lo meno, a questo proposito, la figura della signorina Francesca, governante e amante
del signor Maller e, centrale da questo punto di vista, quella di Lucia Lanucci.
31
“- La vedrà! È bellissima così. Passa mezza giornata a tavolino. Ecco almeno una vocazione che non inquieta
nessuno; fra qualche mese non ne parlerà più. Credo le abbia turbata la mente la fama conquistata in Italia da altre
donne. Queste donne! Una comincia e le altre seguono come le oche. L'esempio degli uomini non conta per esse.
Imitano questa, imitano quella, e mai s'accorgono d'imitare, perché i loro cervellini ne sanno tanto di originalità da
ritenerla equivalente ad esattezza, esattezza nella copia. L'originale fra loro è quella che per la prima imita gli uomini.”
(Svevo 2004a, 98).
32
“Non era ignota a Mariano Ruda la presunzione dell’ingegno femminile d’impersonarsi in ogni più vasto argomento e
talvolta, nell’ipocrisia di un detto garbato, aveva occulto malamente il disgusto per le sofisticatrici pettegole. Della
donna filosofante aveva scritto molto male nei suoi libri di prosa.” (Benco 1903, 41).
33
“Bada: l’idea del tradimento entra nel cervello della donna con l’acuirsi della sua educazione intellettiva. Dove vi è
alta cultura vi è pervertimento profondo. Una donna artisticamente colta cade con maggior facilità di un’altra.” (Cesari
1892, 181). Più smaliziato ma identico nel sentire il giudizio di Attilio, l’immoralista di Dora Tyrr, che maledice «i libri
così detti morali che strapiombano le idee delle ragazze!» (Ventura 1889, 22).
8
Lombroso, “gran mago moderno”,34 tuttavia è stato già dimostrato (Curti 2011)35 quanto tali
opinioni circolassero nella cultura dell’epoca: prima di Lombroso e ben prima della pubblicazione
del sempre citato Sesso e carattere di Weininger, in Schopenhauer si ritrovano con piena evidenza
le fonti delle citate dichiarazioni di Macario in Una vita:
si potrebbe chiamare il sesso femminile il sesso non estetico. Né per la musica, né per la poesia, né per le arti
figurative le donne, in verità, hanno realmente comprensione e sensibilità; ma è una mera scimmiottatura, ai
fini della loro civetteria, se esse fingono e pretendono di averle. (Schopenhauer 1983, 839)36.
L’attenta discussione nei tre romanzi di tematiche così note e diffuse negli ambienti intellettuali
dell’epoca ci interessa perché fa maggiormente risaltare la singolarità dell’ultima, difforme
caratteristica comune: l’attribuzione a questa screditata figura di donna – non più angelo, non più
madre, non più ideale – della facoltà cardine della volontà. A questa si contrappone la caratteristica
tipica dei personaggi maschili, cui è attribuita giurisdizione nella sfera del desiderio, una sorta di
volontà attenuata, di grado minore, che necessità di assistenza e di reciprocità per condursi a effetto.
In Vigliaccherie femminili “l’uragano della volontà” che per breve tratto possiede Giorgio si spegne
ben presto e il giovane rimane chiaramente soggetto passivo di fronte alla volontà di affermazione
personale di Serafina – benché a questa vengano attribuite le peggiori connotazioni dal punto di
vista morale – che alla fine rimprovera esplicitamente a Giorgio la sua debolezza.37 La stessa cosa si
verifica in modo esemplare ne La fiamma fredda in cui va in scena proprio il confronto fra la
‘fredda’, incrollabile determinazione della protagonista femminile e la passiva inettitudine di tutti i
personaggi maschili, dal padre di Arsinoe, Daniele Benazar, al marito Consalvo Vanderra,
proseguendo con i tre amanti già citati per arrivare alla stessa patetica figura del Re e dei suoi
dignitari. Non a caso un “morboso e indeciso desiderio” è la caratteristica distintiva del poeta
Mariano Ruda, “fatto artista dalla sua accidia” (Benco 1903, 87), che li rappresenta tutti nel
colloquio con la donna:
-
Molti sogni, futuri e passati, questi più vani di quelli: e la realtà accostata, non tocca, sempre in
apparenza d’una cosa lontana... Ciò avviene forse perché non s’è liberamente voluto...
Io ho sempre voluto fermamente e liberamente, - ella affermò compiacendosi, e attestò con un batter di
ciglio la voluttà interna di potersi esprimere così....
Avete voluto poco?...
Assai...
E allora noi siamo due creature diverse! (Benco 1903, 72).
Lo stesso peculiare punto di vista è in Una vita dove ad Annetta vengono esplicitamente attribuiti
caratteri maschili: “Non era una donna quando parlava di letteratura. Era un uomo nella lotta per la
vita, moralmente un essere muscoloso” (Svevo 2004a, 124) – e, soprattutto, una superiore capacità
di esercizio della volontà. Tanto da riuscire a piegare addirittura quella del padre, il banchiere
Maller, il quale acconsente ad accompagnare la figlia a Parigi seppure in piena stagione degli affari:
“Capisco che non ne sia lieto, – disse Annetta. – Quando però qui si vuole, – e si toccò coll'indice la
fronte, – basta” (Svevo 2004a, 37). Serve dire che quella medesima volontà, quella del signor
Maller, per Alfonso è semplicemente indiscutibile? Nella scena del confronto finale fra i due, là
dove ad Alfonso per la prima e ultima volta sarebbe possibile affermarsi (seppure col mezzo
indegno del ricatto), egli marca più esplicitamente e definitivamente la sua diversità, con quello che
mi appare un chiarissimo segnale semantico:
34
“Ah! non è questione di trasformazione. Non è ne pur questione di esaurimento, di insensibilità, di deficienza di nervi
o di anemia di pensiero. Lombroso, il gran mago moderno, ha dimostrato che la donna è meno sensibile dell’uomo, che
è falsa idea il credere una donna un essere dotato di eccezionale sensibilità...” (Cesari 1892, 183-184).
35
Mi rifaccio al recente intervento di Luca Curti al XV Congresso Nazionale dell’Associazione degli Italianisti Italiani
(ADI) svoltosi a Torino fra il 14 e il 17 settembre 2011, gentilmente messomi a disposizione dall’autore.
36
Citato da Curti (2011).
37
“ Dovevate imporvi! La donna è assai debole. Bisogna che l’uomo da lei amato non sia più debole di lei. Se no: addio
amore, addio affetti, addio doveri: siete stato debole Giorgio!...” (Cesari 1982, 193).
9
-
Insomma ella vuole?
Maller s'era tranquillato all'aspetto spaventato di Alfonso e non appena tranquillo s'era affrettato ad
aggredire.
La domanda irritò Alfonso; era forse già un rifiuto?
Io non voglio, - disse con stizza. Io desidero, io prego di venir rimandato alla corrispondenza.(Svevo
2004a, 385, corsivo mio)
In termini strettamente sveviani l’attribuzione prevalente della facoltà volitiva al mondo
femminile risulta, una volta enunciata, quasi ovvia, e congrua all’intero arco di sviluppo della sua
narrativa. Da Annetta alla tabaccaia Felicita de Il mio ozio è sempre chiaro nella narrativa sveviana
chi è che vuole e ottiene e chi è che desidera e sogna. È tuttavia opportuno osservare che si tratta di
un’osservazione storicamente minoritaria nell’ambito della critica letteraria, annientata
dall’attenzione privilegiata per la suddivisione “antropologica” fra personaggi (maschili) lottatori da
una parte e sognatori dall’altra, con linee di demarcazione di volta in volta generazionali (i padri
versus i figli), fisiche (gli sportsman versus gli oziosi), mediche (i sani versus i malati), patrimoniali
(i ricchi versus i poveri) e professionali (gli uomini d’affari versus i poeti).
Dal punto di vista della ricercata intertestualità dei romanzi di esordio di Cesari, Benco e
Svevo, è un caratteristica estremamente interessante, proprio perché le sue ascendenze immediate
non sono così ovvie e presenti nel coevo dibattito sulla donna38 e quindi, secondo la mia ipotesi,
mostrano con maggiore chiarezza l’appartenenza di queste opere a un ambito discorsivo comune dal
quale si sviluppano in modo, certo, autonomo ma non indipendente.
Bibliografia
Benco, Silvio
1903 La fiamma fredda, Milano, Treves.
Benussi, Cristina
2009 Introduzione in Svevo I, Senilità, Milano, BUR.
Carducci, Giosuè
1888, Jaufré Rudel. Poesia antica e moderna, Bologna, Zanichelli.
Cesari, Giulio
1892 Vigliaccherie femminili, Udine, Del Bianco.
Cesari, Giulio
1895 Vigliaccherie femminili, Trieste, Vram (III edizione).
Coceani, Bruno
1932, Un giornale contro un impero: l'azione irredentistica de L'Indipendente dalle carte
segrete della polizia austriaca, Trieste, Soc. Edit. Mutilati e Combattenti.
Curci, Romberto, Ziani Gabriella
1993, Bianco rosa e Verde. Scrittrici a Trieste fra ‘800 e ‘900, Trieste, Lint.
Curti, Luca
2011, Profilo della narrativa di Italo Svevo, in La letteratura degli italiani. 3. Gli italiani e
la letteratura. Atti del XV Congresso Nazionale dell’Associazione degli Italianisti Italiani,
in corso di pubblicazione.
Deledda, Grazia
1892, Vigliaccherie femminili, in “Vita Sarda”, anno II, n. 10, 12 giugno 1892.
Deledda, Grazia
1964 Lettere a Epaminonda Provaglio, in Id., Opere scelte, a cura di E. De Michelis,
Milano, Mondadori, vol. 1.
Gatt-Rutter, John
38
Faccio solo un cenno alla possibilità che, abbandonando il terreno filosofico comune a Cesari e Svevo
(Schopenhauer, Lombroso) ci si debba indirizzare piuttosto al mondo del teatro, che lega piuttosto Svevo e Benco, negli
anni successivi al dibattito su Ibsen.
10
1991 Alias Italo Svevo. Vita di Ettore Schmitz, scrittore triestino, Siena, Nuova Immagine
Pagnini, Cesare
1956, I giornali triestini dal 1919 ad oggi: saggio bibliografico, Trieste, Smolars.
Pagnini, Cesare
1959, I giornali di Trieste dalle origini al 1959, Milano, Centro studi.
Russel, Charles C.
1978, Italo Svevo. The writer from Trieste. Reflections on his background and his works,
Ravenna, Longo
Schopenahuer, Arthur
1983, Parerga e paralipomena, Milano, Adelphi.
Svevo, Italo
[1892] Una vita, Trieste, Vram.
Svevo, Italo
2004a Romanzi e “Continuazioni”, Milano, Mondadori.
Svevo, Italo
2004b Racconti e scritti autobiografici, Milano, Mondadori.
Svevo, Italo
2004c Teatro e saggi , Milano, Mondadori.
Tedeschi, Paolo
1892, Appunti bibliografici, in “La Provincia dell’Istria”, anno XXVI, n. 17, 1 settembre
1892
Ventura, Giulio
1889, Dora Tyrr, Roma, Tip. Elzeviriana
Veronese, Luigi
1932, L’Indipendente. Storia di un giornale, Trieste, Spazzal.
11
Immagini
1. Il poggiolo dell’“Indipendente” listato a lutto per la morte di Umberto I di Savoia (da
L’Indipendente. Storia di un giornale di Luigi Veronese). Il giornale che omaggiava in tal
modo il defunto re d’Italia era lo stesso che, alla morte dell’Arciduca Francesco Carlo, padre
dell’imperatore Francesco Giuseppe, pubblicava in posizione defilata: “Decesso – Leggiamo
nella Bilancia di Fiume: L’arciduca Francesco Carlo, padre dell’imperatore è morto di diarrea.”
12
2. Ritratto di Cesare Rossi (da L’Indipendente. Storia di un giornale di Luigi Veronese) e riproduzione del
biglietto dattiloscritto di Svevo a Rossi (archivio Cesare Rossi, Biblioteca Civica “Hortis” – Trieste).
13
3. Quattro ritratti di Giulio Cesari (per gentile concessione della Sig.ra Ida Reina): intorno ai vent’anni, nel
periodo della pubblicazione di Vigliaccherie femminili e della corrispondenza con Grazia Deledda; nel 1918
(sul retro un’annotazione manoscritta: “Trieste Redenta | 8/12/’18 | Giulio Cesari”); in posa ‘dannunziana’
con paglietta; nel 1943.
14
15
16
4. La recensione di Vigliaccherie femminili di Grazia Deledda su “Vita Sarda” (12 giugno 1892).
17
18
19
20
5. La recensione di Vigliaccherie femminili di Paolo Tedeschi su “La Provincia dell’Istria” (1 settembre
1892), gentilmente segnalatami da Simone Ticciati che ringrazio.
21