Il Giardino dell`Anima

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Il Giardino dell`Anima
Il Giardino dell'Anima
Come si respira l'aria dei limoni lungo le viuzze della Costiera,
così Cosima Wagner era in grado di fiutare il malumore di
Richard ancora prima che si palesasse.
Cominciava sempre allo stesso modo, scivolandole via
dolcemente: prima perdeva il dono della parola, risparmiando
soltanto qualche monosillabo, infine si abbandonava totalmente
al silenzio melodico che il paesaggio gli offriva.
Ma questa volta è diverso, rimuginò Cosima stringendo il
proprio diario. L'espressione del marito era priva di fermezza, e
lei l'aveva intuito da come aggrottava le sopracciglia, quasi
imploranti.
Era così da giorni, e forse adesso era arrivato al culmine del
suo malumore. Ma come dargli torto... doveva sembrargli di
essere diventato insensibile a ogni piacere umano. Da Napoli ad
Amalfi avevano goduto delle bellezze che tanto ispiravano
gli altri – sottolineava Richard, distanziandosene – artisti
europei. Avevano visitato luoghi storici come la cattedrale di S.
Andrea, e anche adesso, all'Albergo dei Cappuccini, il fascino
della Storia sembrava non avere riposo, mentre erano alloggiati
nella camera che in origine era una cella dei frati.
Insomma, c'era abbastanza materiale da ispirare il più scarso
dei poeti. Ed era questo che avviliva Richard.
Seduto a braccia conserte sulla terrazza dell'albergo, mentre si
stuzzicava un pelo incarnito sotto la barba, tentava di spogliare
la Costiera Amalfitana di tutto quel bello superficiale disponibile
a chiunque, ricercando qualcosa che solo lui potesse vedere, così
come il corteggiamento di una donna porta a godere privilegi
privati tra le lenzuola.
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Un luogo sospeso tra cielo e mare. Quella terra fatta quasi a
strati, con i terrazzamenti coltivati ad agrumi e le case che si
arrampicano l'una sopra l'altra fino a plasmare la cima di una
montagna, con il verde della macchia mediterranea che immerge
i piedi nel Tirreno, gli ricordava il Purgatorio dantesco. Un
luogo di redenzione. Dalle sembianze paradisiache.
Eppure nulla.
Mente e Anima non volevano proprio abbracciarsi. Se c'era
una non esisteva l'altra. Forse era davvero invecchiato. Tre
giorni prima avevano festeggiato a Villa d'Angri, dove
alloggiavano a Posillipo, il suo sessantasettesimo compleanno, e
lui aveva scherzato assieme all'amico Joukowsky: se era
scampato a una condanna a morte, allora non l'avrebbe certo
fermato qualche capello bianco in più.
Ma era vero? Senza Cosima forse sarebbe già morto da un
pezzo. Da quando a Marienbad aveva studiato le leggende del
Graal, la ricerca di quel Graal, il Parsifal, non l'aveva più
lasciato, e dopo il Lohengrin aveva ancora studiato, e cercato,
tanto che la sua salute ne aveva risentito.
Cosima era così paziente... quando a tarda notte Richard
vagava per i corridoi in preda ai pensieri, lei lo riportava al letto
con dolcezza e ascoltava i suoi farneticamenti, il fumo
scomposto delle idee, cogliendone anche il senso.
Lo curava e placava le sue emozioni senza crudeltà, senza
fargli pesare i suoi vent'anni in meno. Vent'anni che lui guardava
spesso con orgoglio e poi, a volte, come ora, con invidia. Invidia
per una Mente forte in un Corpo forte.
Che cosa gli era successo? Dov'era finito quel combattente
che se n'era fregato degli insuccessi, e che dalla tremenda
esperienza di una tempesta aveva trovato l'ispirazione
per L'Olandese Volante? Che non conosceva la paura ma anzi,
come un novello Sigfrido, desiderava trovarla, così da
assaporarne l'essenza?
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Ma la risposta era tutta lì, nella più banale delle verità. Un
eroe non ha forse bisogno di un nemico da abbattere? E di
problemi e dilemmi da superare? E adesso che Richard aveva
l'appoggio del monarca bavarese, adesso che il teatro a Bayreuth
era proprio come lo voleva, adesso che era famoso e benestante,
dopo anni e anni di povertà e umiliazioni, per cosa ancora
doveva combattere?
Per il gusto di farlo, forse?
No, è che mancava così poco.
È finito, continuava a ripetersi, il Parsifal è finito.
Mancavano l'orchestrazione e la scenografia del secondo atto,
sì, solo quelle! E così aveva detto anche a sua moglie e al Re
Luigi.
Parsifal che arriva nel giardino incantato; che viene
soggiogato dalle gioie erotiche della trappola del negromante;
che sfugge all'insidiosa Kundry e che infine riesce a fare crollare
il castello di Klinsgor.
«Allora, che ne dici?»
Una voce, che lui ignorò del tutto. Che ne diceva? Che la vita
lo stava lasciando, ecco cosa diceva! Non aveva mai riflettuto
veramente sulla sua morte. O per meglio dire, sì, soprattutto
dopo l'arresto del '48, ma ci aveva sempre riflettuto con fini
vendicativi, goduriosi, fantasticando sul mondo che avrebbe
scoperto il suo genio troppo tardi, pentendosene.
E ora che l'avevano riconosciuto, invece, e che forse gli
rimanevano soltanto uno, due, tre anni di vita? Cosa
sarebbe successo? Che un tizio qualsiasi avrebbe finito l'opera
per lui, infischiandosene della sua visione? No, quello era il suo
testamento, tutto ciò per cui aveva lavorato e...
«Papà, hai sentito?» domandò il piccolo Siegfried,
balzandogli sulle ginocchia.
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Il padre, inebetito, gli sfiorò i capelli biondi, indeciso se
accarezzargli la testa o spostarla perché copriva il paesaggio, e
sussurrò: «Che cosa?»
«Sordo come Beethoven» lo provocò Joukowsky. «Con meno
gusto, forse.»
«Che cosa?» vociò Richard, d'istinto, provando ad alzarsi col
figlio addosso.
Paul von Joukowsky era l'unico a potergli rispondere così; e
la cosa strana era che Wagner lo trovava pure divertente. Spesso
i due giocavano a scontrarsi in singolar tenzone, insultandosi
letteralmente per le rime, come due giovani Cecco Angiolieri e
Dante Alighieri, con Wagner che sosteneva sempre di voler
interpretare l’Alighieri per “doveri artistici e, perché no,
morali”.
«Hai ascoltato almeno mezza parola?»
«Come? Sì, certo...»
«Bene, allora ti va o no di...»
«Andiamo a Villa Rufolo, papà!» tagliò corto Siegfried.
«A Villa... Cosa?»
«Sì, papà! Lì ci sono i fantasmi!»
A Richard scappò una risata, sorpreso da quell'affermazione
ridicola. «Ma che state dicendo?»
«I fantasmi, papà! Li voglio vedere!»
«Chi ti ha detto queste cose?» lo rimproverò la madre, che
sapeva bene come la sua passione per le storie dell'orrore si
traducesse sempre in notti insonni.
«Ma è vero! Me l'ha detto Joukowsky.»
Cosima lanciò un'occhiataccia al pittore russo, il quale
intervenne subito mettendo le mani avanti: «Ehi, ehi... non ho
detto proprio così».
«Sì, invece!» protestò Siegfried saltando giù dal padre. «Hai
detto che ci sono i fantasmi che proteggono il tesoro!»
Cosima incrociò le braccia, divertita, e cercò di apparire
arrabbiata. «Un tesoro, davvero?»
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«No, no...» farfugliò Joukowsky. «Ho detto solo
uno. Un fantasma. E comunque è solo una leggenda.»
«Che spero tu non abbia raccontato a Fidi…» precisò
chiamando il figlio col diminutivo che gli avevano dato quando
era ancora in fasce.
«Soltanto uno???» si lamentò Siegfried.
«Sì! No!... No, nessun fantasma! È solo una stupida
leggenda.»
«Ma la voglio sapere, Jouko, dimmi che leggenda! E il tesoro,
quello c'è, vero?»
«Beh, il tesoro...»
«Joukowsky!» lo sgridò Cosima.
«Ma che c'è?! Neanche i tesori possono esistere?»
«Voglio vedere il tesoro!» gridò Siegfried. «E il fantasma!
Papà...»
Ma Richard si era alzato, e adesso sostava davanti alla
balaustra.
«Papà...» ripeté il piccolo, intimidito. «... domani possiamo
andare a Villa Rufolo?»
Ci fu un momento di silenzio, interrotto da un ferreo: «No.
Domani torniamo a Villa D'Angri».
«Come, di già?»
«Siegfried» disse Richard, e già il figlio aveva capito, perché
lo chiamavano per nome soltanto per sgridarlo. «Non siamo qui
per giocare.»
«Richard... non essere cattivo» lo pregò Cosima,
avvicinandosi.
Cattivo? Lui cattivo? E loro, che non facevano altro che
scherzare in barba alle sue angosce? Stava per risponderle a
tono, quando vide fra le sue braccia il diario su cui era solita
scrivere. Gli era sempre piaciuto pensare che se lui aveva
trovato la sua arte nella musica, così come Joukowsky nella
pittura, lei allora aveva capito che la sua espressione artistica si
sarebbe dovuta focalizzare proprio su di lui: Wilhelm Richard
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Wagner. E lui ne era così orgoglioso! E quanto diventava
ansioso mentre lei scriveva davanti a lui. Si chiedeva come lo
stesse ritraendo, e quando lei lo scopriva a sbirciare, gli lanciava
un sorriso divertito per rassicurarlo.
E ora che cosa avrebbe scritto? Che era cattivo? O forse,
ancora peggio... che aveva fallito? Che il Giardino
di Klingsor non era stato trovato e quindi aveva...
… fallito.
Fallitofallitofallito.
«Ahi, ahi, ahi» s'intromise Joukowsky, grattandosi la testa.
«Se hai tanta paura, caro amico, possiamo anche fare a meno di
andarci.»
«Prego?»
«Beh,» si schiarì la voce: «Se parlare di fantasmi ti terrorizza,
meglio non tirare troppo la lenza,
possiamo procedere anche senza,
così che ti possa passare la strizza».
Richard non continuò. «Non ho voglia di giocare,
Joukowsky.»
«Ma davvero? Secondo me invece hai paura di incontrare il
fantasma di Lorenzo Rufolo.»
«Si chiama così?» gridò eccitato Siegfried.
«Oh, certo. Lorenzo Rufolo. A Ravello lo conoscono tutti.» Si
chinò davanti al bambino e gli appoggiò una mano sulla spalla.
«Vuoi davvero sapere cos'è successo?»
«Sì, sì, dimmelo, dài!»
«Beh…» tentennò lanciando un’occhiata a Richard.
«No, Joukowsky, la prego» disse Cosima. «Che poi gli viene
paura.»
«Non ho paura! Quello è papà!»
«Bravo, ragazzo!» rise Joukowsky.
«Ah, sì? Allora poi vediamo se non vieni a...»
«Cosima» intervenne Richard con tono di sfida. «Lascialo
fare.»
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«Bene» sorrise il pittore. «È successo più o meno quarant'anni
fa, quando un mago» disse enfatizzando la parola, «scoprì che il
tesoro dei Rufolo veniva custodito proprio dal fantasma di un
loro discendente: Lorenzo.»
«E come ha fatto a scoprirlo?» domandò Siegfried.
«Beh, era un mago, no?» Si grattò la guancia. «Aveva con sé
un bastone magico o roba del genere... Ma fammi continuare.
Dicevo: allora sette esponenti di famiglie nobiliari decisero di
chiedere al mago come fare per trovare il tesoro, e il mago...»
«Cos'ha detto il mago?»
Joukowsky lo guardò storto. «Lo fai apposta? Dammi un
momento... Sì, e il mago disse», e indicò la luna «che per trovare
il tesoro avrebbero dovuto aspettare la prima notte di luna piena
– proprio come questa di oggi – e...», si passò il dito lungo la
gola «... versare il sangue innocente di un bambino.»
Nessuno parlò. Cosima si massaggio la fronte con la mano,
prevedendo guai.
«Un bambino come me?»
«Oh, beh, quasi, ma non un bambino qualsiasi: un bambino
biondo e...» si fermò, prestando attenzione all'aspetto di
Siegfried. «... forse è meglio fermarsi qui.»
«Ma non mi dire» intervenne Cosima. Strinse il figlio tra le
braccia. «Siete proprio uno stupido, Joukowsky.»
«Oh, ma dai, è solo una storia.»
«Hanno ucciso un bambino?» lo incalzò Siegfried. «Come
me?»
«Oh, no, amore» lo rincuorò la madre con un bacio sulla
fronte. «Non hai sentito? È solo una leggenda. Una storiella che
si racconta per tenere a bada i bambini.»
Siegfried si staccò da lei. Sentirsi chiamare “bambino” l'aveva
infastidito. «Ma se è una storia qual è la morale?»
«La morale?»
«Sì, come in Cappuccetto Rosso. Alla fine Cappuccetto non
impara ad ascoltare i consigli della mamma?»
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«La morale, eh. Vediamo...»
«Che non si deve credere alle fandonie di un ciarlatano»
subentrò Richard, guardando l'amico. «Ovviamente il tesoro non
venne mai trovato. E gli assassini furono condannati. Fine della
storia.»
«Certo che, come crei la tensione tu, non la crea nessuno»
concluse Joukowsky.
Richard scompigliò i capelli del figlio. «E quel bambino era
più piccolo di te. Si chiamava Onofrio Somma, e aveva solo 7
anni. Inoltre,» indicò il cielo «la luna piena c'è stata ieri. Vedi?
Manca un pezzo. È quella che viene chiamata Gibbosa Calante.
Ma non mi aspetto molto da uno pseudo-pittore che non sa
distinguere le forme.»
«Meglio fidarsi di un compositore sordo come Quasimodo?»
«Prima non mi avevi paragonato a Beethoven?»
«Confermo. E con meno gusto, anche.»
«Ma il tesoro c'è, vero? E il fantasma?» ricominciò Siegfried,
che non aveva tempo per curarsi dei loro bisticci.
«Ti ho detto che sono fandonie.»
«Non è vero. Hai detto che il mago era un ciarlatano che non
sapeva trovare il tesoro. Ma non vuol dire che il tesoro e il
fantasma non ci sono.»
«Non fa una piega» commentò Joukowsky accennando a un
applauso.
«Voglio andarci, papà. Voglio vedere se c'è il fantasma!»
«Oh, Fidi» disse Cosima. «I fantasmi non esistono.»
«Ma come fai a saperlo se non li hai mai visti?»
«Appunto perché non li ho mai visti non...»
«Ma non è così anche col Signore?» azzardò.
Joukowsky mise le mani avanti per restarne fuori; Cosima
rispose: «Adesso esageri, Siegfried».
«Papà, per favore! Voglio andarci-iii.»
Richard rimase per un attimo incantato dalla sua espressione
estasiata. Vide se stesso; la fame di conoscenza, l'eterna curiosità
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pronta ad affrontare qualsiasi pericolo. Ingenuità infantile, forse.
Qualcosa che l'uomo non dovrebbe mai perdere nel tempo.
Siegfried, pensò. Siegfried non ha paura. Anzi, vuole proprio
scoprire cosa può fargli paura.
Non era un caso che l'avessero chiamato così. Quand'era nato,
Richard stava lavorando al terzo atto del Sigfrido, e quel
piccoletto era appena diventato il suo unico erede maschio.
Colui che avrebbe portato avanti la stirpe dei Wagner.
Ma mai come adesso gli sembrava che quel nome gli avesse
anche trasferito i valori dell'eroe norreno, e che proprio come
questi voleva conoscere ciò che poteva spaventarlo.
Quasi commosso, ma ancora titubante, disse: «Non è che
abbia tanta voglia di andare a Villa Rufolo...»
«In realtà il nome esatto sarebbe Palazzo dei Rufolo» lo
corresse Joukowsky. «O almeno, ai ravellesi di tutto rispetto
piace chiamarlo così.»
Richard digrignò i denti. Non gli piaceva essere corretto.
«Allora, papà, ci andiamo?»
Guardò il figlio, e poi la moglie, in cerca di supporto, ma lei
gli sorrise alzando il mento per incitarlo.
«E va bene» confermò infine. «Domani andiamo al... Palazzo
dei Rufolo. Ma solo per poco. Non ho tempo da perdere.»
«Sìììì!» urlò Siegfried; e iniziò a vagare sul terrazzo come
farebbe un fantasma.
«Perfetto» disse Joukowsky. «Ci stanno già aspettando.»
Fece per ritirarsi, ma si girò un'ultima volta verso il
compositore: «E poi dicono che lì ci sia uno dei giardini più
belli del mondo».
*
«So’ le sorbe e le nespole amare, ma lo tiempo le fa maturare,
e chi aspetta se l’adda magnà...» cantava Peppino, il servitore di
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Joukowksy. «Accussì so le femmene toste, che s’arraggiano
quanno le accuoste, tiempo e purchie le fanno ammollà…»
Richard adorava Napoli e la musica che la riempiva,
soprattutto la cultura dei “posteggiatori”, musicisti vagabondi
che suonavano al chiuso o lungo le vie della città.
Proprio in quel periodo aveva scovato in un ristorante un
certo De Francesco detto “'O zingarello”, dalla voce splendida, e
gli aveva proposto di seguirlo in Baviera. Insieme avrebbero
fatto grandi cose, anche se le voci che lo definivano uno
“sciupafemmine” lo preoccupavano abbastanza.
Ma non poteva resistere a una bella voce napoletana. E
doveva ammettere che Juokowsky aveva proprio fatto bene a
portarsi dietro Peppino. Alla quinta canzone ancora non si era
stancato. Da Te voglio bene assajie, all'Ariatella e adesso So’ le
sorbe e le nespole amare.
Richard si sentiva quasi riposato. La notte l'aveva passata
sveglio, come era solito fare, tamburellandosi il ventre a ritmo di
qualche canzone e lamentandosi mentalmente del viaggio che li
aspettava. Da Amalfi a Ravello era una bella salita. E la famiglia
aveva scelto di andarci a dorso di mulo, perché come aveva
detto il pittore: «Un'avventura è meglio farla per bene». Perciò
Richard già bofonchiava prevedendo la fatica.
Ma poi la vista dei vigneti, dei castagni, e del mare, che
salendo si faceva sempre più vasto, lo avevano curato. E adesso
non badava più nemmeno al tempo che passava e ai muscoli
doloranti dell'interno coscia.
La canzone di Peppino finì, e Richard si girò per chiederne
un'altra. Vide però Joukowsky in preda alla nausea, la mano
sulla bocca e il corpo in equilibrio instabile. «Ehi, Joukowsky»
rise. «Dov'è finito il tuo spirito d'avventura?»
«Ancora un po' e sarà tutto sparpagliato per strada!» rispose il
pittore.
«Prepara la tavolozza, allora! È meglio raccogliere i propri
colori.»
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Si scoprì che Juokowsky non era mai salito su un asino,
soprattutto per fare una strada ripida, ma che non avrebbe mai
creduto di poter soffrire tanto il “mal di mulo”.
Richard allora ne approfittò per incalzarlo di «te l'avevo
detto», infischiandosene di sembrare un bambino, e si fermò
soltanto quando Cosima, seccata, lo rimproverò e si mise a
consolare il pittore. Passò allora il tempo che restava ad
accarezzare la scarsa criniera dell'asino, orgoglioso che il
proprio corpo avvizzito reggesse più di quello dell'amico.
Richard amava gli animali, anche quando non potevano
definirsi propriamente belli. Ricordava ancora quando il morso
alla mano del cane Leo lo aveva costretto a interrompere la
composizione dei Maestri Cantori per due mesi pieni. Non si era
arrabbiato ed era insorto contro chi voleva punire la povera
bestiola.
Però quell'infermità temporanea era stata davvero una brutta
esperienza, che ancora gli bruciava, perché non avrebbe mai
recuperato quei due mesi di sosta forzata. E inoltre la sensazione
d'impotenza era simile a ciò che stava provando ora, con la
mente in subbuglio e il corpo inerte.
Guardò Joukowsky, ancora nauseato. Aveva voluto preparare
sul mulo tutto il materiale da disegno, sostenendo che un pittore
doveva essere sempre pronto a immortalare il momento perfetto;
e in un certo senso gli aveva suggerito di non disperare, che il
Palazzo dei Rufolo lo avrebbe sorpreso.
Ma Richard non ci credeva, ed era contento che per una volta
l'arroganza dell'amico venisse punita. Perciò, ignorando i
richiami di Cosima, continuò a prenderlo in giro per tutto il
viaggio.
*
«Richard, dammi una mano, per piacere.»
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Richard si avvicinò al mulo di Cosima e tese le braccia per
aiutare Siegfried a scendere. Erano finalmente arrivati a Ravello,
e avevano deciso di proseguire a piedi fino al Palazzo.
«Non mi fido, mamma. Non può farlo Peppino?»
«Peppino ha già il suo da fare» disse Cosima; il servitore si
era allontanato verso un posteggiatore della via, e adesso stava
partecipando a quella che sembrava una gara canora.
«Sono abbastanza forte per farcela» insistette Richard.
«Forza, buttati...» Siegfried, insicuro, si aggrappò al padre.
«Visto? Non è stato...»
Siete voi?
Qualcosa, un sussurro, forse, flebile ma acuto, lo trascinò
indietro come una mano impaziente.
Siete voi?
Richard barcollò, perse l'equilibrio e...
«Piano, piano» disse Joukowsky, sostenendolo. «Tutto bene?»
«Lo sapevo che non ce la faceva!» strillò Siegfried
sciogliendosi dall'abbraccio.
«Richard, ehi, stai bene?»
Ma Richard era ancora inebetito; la voce, quella voce, Siete
voi, gli echeggiava ancora nelle orecchie.
«Stai bene?»
«Come?»
«Ti senti bene?»
«Sì... No. Perché... perché mi hai tirato indietro?»
«Io? Ma che dici?»
«Sì, tu... Mi hai chiamato. No, hai chiesto. Hai chiesto...»
«Calma, calma. Forse è meglio che ti riposi un po'. Mi sa che
non sono poi l'unico a soffrire il “mal di mulo”.»
«Ha ragione, Richard» sostenne Cosima. «Fermiamoci alla
locanda Palumbo per...»
«Sto bene!» vociò Richard. «Sto bene. Ho solo avuto un... Sto
bene.»
«Papà è vecchio, papà è vecchio!» canticchiò Siegfried.
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«Giramenti di testa» disse Cosima. «Forse un calo di
pressione dovuto a...»
«Sto bene, d'accordo? Sto bene. Dov'è Peppino? Mi serve
solo un po' di musica.»
Il servitore, restio a interrompere il duetto con il collega, non
arrivò immediatamente; ma improvvisò subito una nuova
canzone, la Cannetella, e i cinque s'incamminarono trainando i
muli.
Ravello, situato su una rupe, godeva di una grandiosa vista
panoramica. I monti di Scala, la vegetazione mediterranea, le
onde del mare quasi a sgorgare dalla gola di Pontone, i gabbiani
e le rondini nel cielo turchese.
L'aria ripuliva i polmoni, ma forse era stata proprio l'altitudine
a provocare a Richard quel capogiro. Gli sembrava davvero di
essere stato chiamato... Anzi, no: trascinato. Come se qualcuno
avesse avuto fretta di parlargli.
Decise di non farci caso, e per tutto il tragitto si evitò di
parlare, probabilmente per non infastidirlo. Solo Peppino
continuò a cantare, felice, con la gente che si girava a guardarlo
come se fosse l'elemento più eminente del gruppo. E un po' lo
era, perché di certo era l'unico che stava donando qualcosa al
suo passaggio.
«È quello, papà?» disse Siegfried quando arrivarono alla
Torre d'ingresso del Palazzo.
«A quanto pare...»
Un uomo sostava davanti al portone ogivale della struttura di
pietra. Stava fumando la pipa, e quando vide i turisti avvicinarsi,
agitò la mano per attirarli a sé.
«La famiglia Wagner, immagino» salutò, in italiano. «Vi do il
benvenuto a Villa Rufolo. Io sono il Custode.»
L'uomo, un giovane intorno ai trent'anni, dalla barba fluente e
il sorriso stampato in faccia, era vestito da contadino e aveva i
pantaloni sporchi di terra. Perplesso, perché nessuno gli aveva
risposto, disse: «Parlate italiano, vero?»
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«Sì» disse Richard, non sapendo più se usare la definizione
Palazzo o Villa, e cercando di non cadere nell'accento tedesco.
«Non ci ha detto il suo nome, però.»
«Che sciocco! Il mio nome è Luigi Cicalese, scusate. È che
sono così abituato a farmi chiamare custode che...», si pulì la
mano sul giacchetto e la tese. «... Beh, piacere di
conoscervi. Wagner, giusto?» ripeté.
«Tranne uno» si inserì Joukowsky, stringendo la mano. «Sono
Paul von Joukowsky, pittore. Ho avvisato io del nostro arrivo.»
«Oh, certo, il signor Joukowsky.» Poi strinse la mano a
Richard, a Cosima e addirittura a Peppino, il quale, forse perché
non se l'aspettava, ricambiò goffamente. «E chi è questo
ragazzo?» disse curvandosi verso Siegfried.
«Lui è il nostro Fidi» rispose Cosima. «Ma non parla ancora
bene l'italiano.»
«Fidi, eh. Un nome tedesco?»
«Sta per Siegfried.»
«Siegfried, capisco. Come per il Sigfrido?»
«Conosce il Sigfrido?» Richard era sorpreso. Il Sigfrido era
ancora sconosciuto in Italia, dove erano stati messi in scena solo
il Lohengrin, il Tannhäuser, il Rienzi e l'Olandese volante.
«Solo di nome, purtroppo. È stato il signor Reid a parlarmene.
È un suo grande ammiratore, il signor Reid. Dice che lei è il più
grande compositore vivente.»
Richard, mantenendo l’atteggiamento di chi non vuole
scomporsi troppo, ringraziò.
«Però io gli ho risposto che sì, sarà pure eccezionale, ma che
nessuno può eguagliare il nostro Verdi.»
Cosima abbassò il capo, sperando che il marito non
reagisse. Joukowsky rise apertamente, prolungando il sorriso del
custode, che non sapeva di avere appena offeso il compositore.
Richard, però, cercò di mantenere un certo contegno. Si
parlava fin troppo di Verdi, lì, e di lui ricordava soprattutto
quando alla terza replica del Lohengrin a Bologna, il Monti
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aveva gridato: «Viva Verdi!» spostando tutti gli applausi sul
compositore italiano.
«Però io non ne capisco tanto di musica.» Gli diede una pacca
sulla spalla, e Richard, indispettito, se la pulì, ma il custode non
se ne accorse. «Quindi questa è la vostra prima volta alla Villa?
È molto popolare, sapete? Riceviamo spesso visite di artisti.
Tutti in cerca d'ispirazione, a quanto dicono.»
«E ha mai funzionato?» domandò Richard.
Il custode sorrise, la pipa incastrata tra i denti. «Oh, caro
signore. L'ispirazione arriva soltanto a chi se lo merita davvero.»
Guardò oltre il portone, lungo il viale. «Ma diciamo che questo
luogo è colmo di magia. Merito di 600 anni di storia.»
Siegfried, riconosciuto il vocabolo magia, cominciò a tirare la
veste della madre.
«Che cosa dice?» chiese il custode.
«Oh, niente» disse Cosima bloccando il figlio. «È tutto il
giorno che fa così. Continua a chiedere di un certo Lorenzo
Rufolo.»
Il bambino prese a saltellare sul posto, credendo che glielo
stessero per presentare.
«Lorenzo Rufolo, davvero?»
«Sì, colpa del nostro amico. A Fidi piacciono molto queste...
storie. E adesso si è messo in testa di voler incontrare, beh,»
sussurrò «il fantasma.»
«E facciamoglielo incontrare allora!»
«Come?»
«Lorenzo Rufolo è il nostro ospite più importante. Anzi,
possiamo dire che, genealogicamente parlando, sia lui il vero
padrone della Villa. Ma non lo dica al signor Reid.»
«Vuole dire che... Lorenzo...»
Richard alzò gli occhi al cielo. «Cosima, ti prego.»
«No, no, no. La signora dice il giusto. Lorenzo è qui tra noi.
Sente?» Mise la mano a conchiglia accanto all'orecchio. «Sì,
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proprio come pensavo. Ai fantasmi non piace essere
dimenticati.»
«Non dica sciocchezze!» lo interruppe Richard. «Non ho
tempo da perdere. Ci faccia vedere la Villa e basta!»
«Richard, piano» disse Joukowsky. «Per favore, Cicalese,
prima il mio amico si è sentito male, e ora non è dell'umore
adatto per...»
«Ho detto che sto bene!»
Il custode riprese a fumare la pipa. «Fa male a non crederci,
sa? Potrebbe prendersi un forte spavento. Anche i giardinieri
della Villa non ci credevano. Ma poi l'hanno visto aggirarsi nella
Sala dei Cavalieri e hanno detto: “È lui... è proprio lui!... il
Secreto defunto!”»
«Quello è L'Amleto di Shakespeare!»
«Come non detto» disse, sbuffando fumo dalla pipa, e aiutò
Peppino a legare gli asini all'esterno.
*
La diffidenza iniziale fu subito sostituita dallo stupore.
La Villa li trasportò in un mondo nuovo, segreto e fiabesco.
L'ingresso riccamente ornato, il Chiostro Moresco decorato con
intrecci fogliati, le rose nell'aiuola al centro del cortile, vasi di
gerani e begonie sulle scale, e i viali costeggiati da mandarini.
Odori dolci e variegati che fecero ammutolire gli ospiti.
«È stato il signor Reid a rimettere in sesto la Villa» disse il
custode. «Forse non ci crederete, ma quando l'acquistò per farci
la sua residenza estiva, la trovò in uno stato deplorevole,
completamente abbandonata a se stessa. Non c'erano né le porte
né le finestre, e il cortile era sepolto dalle macerie. Sembra quasi
blasfemo immaginarla così. Ma poi gli venne l'Illuminazione –
come gli piace dire – di trasformare la Villa in un vero paradiso!
Piante locali accanto a piante esotiche, fiori rarissimi e
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coloratissimi, fontane e vasche coi giochi d'acqua. Ha fatto
costruire addirittura un acquedotto per la fontana pubblica a
Piazza Vescovado. Qui a Ravello gli sono tutti debitori.»
«E non è possibile parlare con il signor... qual è il nome
completo?» chiese Cosima. Stringeva la mano di Siegfried, che
aveva perso la voglia di fare i capricci.
«Francis Neville Reid» disse il custode. «Uno scozzese molto
educato. Ma molto permaloso riguardo al suo Giardino. Quindi
se volete esporgli delle critiche, beh, meglio di no.»
«Oh, non oserei mai. Si trova qui nella Villa?»
«No, no, il signor Reid viene a trovarci d'estate. Se vuole
scrivergli posso darle l'indirizzo. Io e il signor Reid ci scriviamo
regolarmente. Mi chiede sempre come vanno le cose al giardino,
se le rose sono pronte per l'innesto a occhio, se si può dare una
mano di verde ai cancelli e...»
… Continuò con aneddoti ed elenchi di piante per tutto il tour.
Spiegò che le piante rampicanti sui muri erano una vera rarità
(Hedera helix forma poetarum) ed era per questo che i frutti
apparivano gialli invece che neri; e che l'antica Torre Maggiore
alta 30 metri era la testimonianza del potere dei Rufolo, e un
luogo da cui scrutare tutto attorno, dalle montagne al mare.
Passarono allora per la Sala dei Cavalieri, lasciando per
ultimo il piano superiore, col Belvedere. Il custode stava per
esporre le caratteristiche delle arcate ogivali, quando...
Siete voi?
Siete voi?
Siete voi?
«Haben Sie gehört?» urlò Richard.
«Cosa gli è preso?» domandò sconcertato il custode.
Assordato, Richard spiegò l'accaduto, dimenticandosi di
parlare italiano, e Joukowsky tradusse: «Si sarà affaticato
troppo. Anche prima gli è parso di sentire una voce.»
«Una voce, eh?»
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Siete voi, la frase, ancora nelle orecchie, più forte e vicina.
Stava impazzendo?
«Forse si tratta davvero di Lorenzo» rise il custode.
«Le ho detto di farla finita!» Richard si toccò l'orecchio. «Ho
solo... non lo so, sì, sarò stanco.»
«Le ripeto che fa male a non crederci. Ai fantasmi non piace
essere dimenticati. E più fa resistenza, più loro insistono.
Lorenzo Rufolo è una presenza autorevole qui. Me l'ha detto il
signor Reid.»
«E lei crede a tutto ciò che le dice il signor Reid, vero?»
«Non è solo il signor Reid a dirlo. Ha presente Giovanni
Boccaccio? Quarta novella della seconda giornata
del Decamerone.»
«Le piace citare gli scrittori, a quanto vedo.»
«Chi è il Landolfo Rufolo della novella, se non il nostro
Lorenzo? Boccaccio ha voluto ricordarlo così, con tanto di lieto
fine. Uno di quelli che a noi ravellesi piace tanto leggere.»
«Coincidenze.»
I fantasmi non esistevano, lo sapeva. Erano solo storie,
creazioni dell'uomo.
È questo che fanno gli uomini, pensò Richard, creano e
rimediano agli errori del passato. E questo giardino, oh...
Si bloccò.
Arrivati al giardino, quel giardino... Piante tropicali, roseti;
la Gloire de Dijon, la bengalensis, la Bella di Napoli; contrasti
tra il bianco del mughetto e il porpora della clintonia; la peonia,
la verbena, il ranuncolo. Colori accattivanti, sensuali; arancione,
viola, blu, rosso, giallo; si fondevano all'interno del verde degli
arbusti e degli alberi.
E poi, poco più in là, un pozzo con accanto due Palme di San
Pietro.
Richard avanzò, timoroso, e udì una musica soave,
provocante, crescere mentre si avvicinava. Le piante tropicali,
all'improvviso, iniziarono a mutare. I colori dei petali arancioni,
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viola, rossi, si stirarono in vesti sottili e svolazzanti, che
coprivano a malapena i corpi danzanti di fanciulle. Fanciulle
che, ridendo e ballando attorno al pozzo, invitavano
maliziosamente Richard a unirsi a loro.
E lui, riconosciuta la scena e l'intensità della sua follia, provò
a recitare: «Che dolci profumi... Siete voi fiori?»
«Siam del giardino gli spiriti aulenti. Cresciamo nel sole
d'estate. Sii il nostro tenero amico» risposero in coro le fanciulle
floreali.
Richard, in preda alla paura, chiese aiuto; le fanciulle e i fiori
crebbero a dismisura lasciandolo al centro del ciclone cangiante
e impedendogli di vedere i membri della compagnia. Cercò
allora di fuggire da quell'incantesimo, districandosi dalle risate
demoniache, ma una voce, quella voce, lo fermò.
«Richard!» disse. «Wilhelm Richard Wagner.»
Allora era vero. Era impazzito. Era caduto nella magia
del Parsifal. «Richard? Così in sogno mi chiamò mia madre»
rispose, ormai arreso.
Sapeva con chi aveva a che fare.
Era Kundry. La bellissima, sensuale Kundry.
«Avete paura, Richard?»
«Paura, Kundry?» disse calcando la pronuncia del nome. «Ho
solo paura di essere pazzo.»
«Non siete pazzo, Richard. Solo confuso.»
«Siete stata voi a chiamarmi quando sono giunto a Ravello?
Da quanto tempo sono malato? Mesi? Anni? Oppure da oggi?»
«Non siete malato, Richard... O almeno, non di mente.»
«Dove siete? Non riesco a vedervi. Fatevi vedere, Kundry!»
«Vi ho chiamato solo per chiedervi un...»
«Fatevi vedere!»
«... Come desiderate...»
Le fanciulle si dileguarono all'istante, e prima che Richard
potesse allungare una mano, qualcosa, no, qualcuno apparve al
loro posto.
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Un uomo.
Sembrava indossare una vestaglia lercia, ma così non era. Le
gambe, unite come il tronco di un albero, partivano sfocate da
venti centimetri d'altezza, e il loro colore marrone proseguiva
verso il busto per poi sfumare nel rosso sangue. Sangue che
sgorgava dalla radice del collo.
Il viso, pallido per contrasto, era però lieto, anche se
imbarazzato.
Richard non seppe cosa dire. Poi ruppe il silenzio: «Chi
diavolo siete?»
«Non gliene ha parlato abbastanza, Cicalese?» sorrise il
fantasma. «Sono Lorenzo Rufolo.»
«... Lorenzo?...»
«Rufolo.»
«Lorenzo...»
«Richard, non ha nulla da temere...»
«No, no, no» Si premette le mani sulle tempie. «Devo essere
impazzito. È l'unica spiegazione.»
«Richard...»
«Non vi avvicinate!» urlò Richard, tentando invano di
respingerlo.
Ma il fantasma si fermò comunque. «Non siete pazzo,
Richard.»
«Non togliermi l'unica cosa di cui sono sicuro! Se non è
pazzia, questa, allora che cos'è? Uno scherzo?!»
«Semplicemente la realtà, Richard. La realtà ai suoi confini.»
«No...» Si girò, per scappare, ma si bloccò spaventato
davanti al proprio riflesso in uno specchio.
No, non era uno specchio.
Era lui, il suo corpo.
E dietro c'erano Luigi Cicalese, Joukowsky, Cosima, Siegfried
e Peppino. Immobili, statue di carne. «Che cosa...» Scomparse le
fanciulle, il respiro degli uomini, il fruscio degli alberi, il canto
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degli uccelli... tutto taceva. Un silenzio assordante, quello di uno
dipinto sbalorditivo senza vita.
«Non abbiate paura. È solo una pausa nel tempo.»
«Ma io... Io...»
«Lei è lì, come lo è anche qui. Questa è la sua essenza
astrale.»
«... Il mio spirito?»
«Se così lo vuole chiamare.»
«E come dovrei chiamarlo allora? Sono uno spirito? Un
fantasma? Una creatura» guardò in basso, «senza gambe,
santiddio!»
«Non è importante» disse Lorenzo. «È solo temporaneo, per
lei. È l'unico modo che ho per comunicare.»
«Strapparmi dal mio guscio?!»
Il fantasma annuì. «Mi dispiace, non ho saputo resistere. Ma
non avrà ricordo di questo fastidio. È da tanto che aspetto
l'arrivo di un uomo con le sue caratteristiche. I cui desideri si
sposano bene con i miei fini.»
«Di che desideri sta parlando?... E quali sono i suoi fini?»
«Quello che ha visto, le dice qualcosa?»
Richard cercò di replicare, ma dalla bocca non uscì nulla. Il
pozzo, le fanciulle coi fiori, la musica... Era quello, sì, l'aveva
riconosciuto subito e n'era rimasto stregato. «Il Giardino di...»
«... Klingsor» terminò Lorenzo.
«Lei... No, lei non può...»
«Sì calmi, Richard. So che le può sembrare assurdo, ma se
esaudirà la mia richiesta posso assicurarle che l'unica cosa che
ricorderà sarà l'incanto del giardino, così come gliel'ho
mostrato.»
«E se rifiutassi...» disse, infuriato «... dimenticherò tutto?»
«Sento dell'astio nella sua voce.»
«Non mi piacciono i ricatti. Glielo chiedo di nuovo:
dimenticherò tutto?»
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«Non la sto ricattando, Richard. Sappiamo entrambi che il
Giardino di Klingsor era lì, nella sua mente. Ma a volte è
necessaria l'Illuminazione.»
«Il signor Reid...» capì Richard.
«Neville è un genio della botanica. E non immagina la mia
felicità nel vederlo acquistare la residenza. Ma voleva farne
solo la sua dimora estiva. E io, conoscendolo, non potevo
permetterlo.»
«E quindi, l'Illuminazione.»
«Gli ho mostrato cosa poteva essere il Palazzo dei Rufolo.»
Allargò le braccia. «E questo che vede è ciò che è diventato.»
«Ma a quale prezzo...» digrignò i denti.
Il fantasma, prima stupito, si mise a sghignazzare. «Oh,
Richard, mi sa proprio che ha sbagliato opera! Non siamo
nel Faust, dimentichi il Demonio.»
Richard, diffidente, non rispose.
«Oh,» rise ancora Lorenzo. «Mi ricorda il buon, caro
Giovanni. Anche lui era restio a fidarsi.»
«... Boccaccio?»
«E chi, se no? Cercava una novella per la seconda giornata,
e quando venne a Palazzo gli diedi l'ispirazione per il Landolfo,
chiedendogli però di farmi un finale felice.»
«... E quindi, cosa vuole da me?»
«Quello che desidero... No, quello che desideriamo, è che il
Giardino di Klingsor possa finalmente prendere vita. Non è
forse questo ciò che sta cercando?»
Sì, era questo, ma... «Non posso accettare... Non posso
comprarmi l'ispirazione. Non è giusto... nei miei confronti. Se
il Parsifal deve avere il suo Giardino, allora sarò io a darglielo.
E se così non è...»
«Richard» lo interruppe Lorenzo. «Il Parsifal è finito. E lei è
troppo tormentato per cogliere l'attimo, per giocare
d'istinto. Questo è il suo giardino. Lo guardi bene.»
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Anche senza l'illusione delle fanciulle, Richard riconobbe in
quel giardino la scenografia del secondo atto del Parsifal. Vide
la torre medievale sprofondare nel nulla e diventare un giardino
incantato; le piante tropicali trasformarsi in fanciulle seducenti
e, infine, il giardino stesso decomporsi in un deserto nell’attimo
in cui Parsifal uccide il negromante Klingsor.
Davvero avrebbe dimenticato quella visione? Davvero, una
volta tornato nel corpo, avrebbe proseguito senza accorgersi che
la soluzione alle sue angosce era lì, attorno a lui?
Era diventato cieco?
«Lo sta perdendo» disse Lorenzo. «Come sta perdendo questa
giornata con la sua famiglia. A causa del suo malcontento.»
Richard studiò da vicino il se stesso immobile. Un vecchio,
reso ancora più logoro dal broncio che stirava verso il basso le
rughe.
«Perché... perché vuole che utilizzi il suo giardino?»
«Perché...» esitò. Si toccò lo squarcio al collo, e il sangue fluì
tra le dita senza sporcarle. «... perché questo è il mio unico
scopo.»
Si voltò e prese a fluttuare per il giardino. Richard lo seguì, e
notò lo sfondo attorno a loro mutare in base alle parole di
Lorenzo.
«I colori erano cambiati. Gli Angioini vinsero la battaglia di
Benevento, e la Casata, per non perdere i propri poteri, giurò
fedeltà ai conquistatori...» Sul pulpito del Duomo appena
apparso, lo stemma dei Rufolo cambiò dal rosso al blu.
«Diventammo banchieri della Corona. Volevamo esibire a tutti i
costi le nostre ricchezze, che dovevano fare impallidire perfino
Re Carlo II d'Angiò.»
La scena si spostò in una sala da pranzo, con un banchetto
degno di un sovrano. Il vino e il cibo si sprecavano, e Re Carlo
guardava attonito Nicola Rufolo ordinare di buttare in mare le
posate d'argento, appena utilizzate, mentre ridendo assicurava di
potersene permettere di nuove a ogni pasto (per poi andarle a
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recuperare di nascosto assieme ai servi, grazie alle reti che
avevano preparato in anticipo).
«Attirammo l'odio di molte famiglie del Regno, di Ravello e
della Corona... e dopo la guerra del Vespro, gli Angioini vollero
recuperare tutto il denaro vendicandosi di noi.»
Le scene divennero cruente. Richard le osservò come se si
trovasse davanti a un dramma magniloquente: la guerra,
il processo, le terre confiscate, la tortura di donne e bambini e
Lorenzo Rufolo, quel Lorenzo Rufolo ancora in vita, che dopo
aver tentato di lottare a fianco degli Aragonesi, tra le squadre di
navi che attaccavano i convogli, veniva imprigionato in un
castello della Calabria e infine… decapitato.
Arrivarono sul Belvedere, dove il giardino si affacciava sul
panorama del golfo.
«Per tutta la vita non abbiamo fatto altro che ostentare ciò
che possedevamo, e questo alla fine ci ha spezzato... Come ha
spezzato la vita del piccolo Onofrio Somma, 38 anni fa.»
«... Quindi, quel mago...» disse Richard, ricordando ciò
che Joukowsky aveva raccontato il giorno prima.
«Diceva la verità?» terminò Lorenzo. «Sì, in parte. Anch'io
ne rimasi sorpreso, quando la sua verga d'ottone rilevò la mia
presenza. Pensavo di aver trovato uno spirito affine, e invece mi
ero imbattuto in un Klingsor privo di classe. Il mago capì che
nascondevo qualcosa, un tesoro. Ma poteva, lui, con la sua
morale, scoprire quale? Niente deforma la verità come la
cupidigia.»
«... Perché non l'ha fermato? Avrebbe potuto impedire quella
tragedia! Avrebbe potuto...»
«Crede che non avrei voluto?!» tuonò il fantasma; ma si placò
vedendo l'espressione sgomenta del compositore. «Mi perdoni,
Richard. Caro, ingenuo Richard... Anche questo fa parte della
mia attuale esistenza. Posso comunicare soltanto con chi, come
lei, presenta le caratteristiche e la volontà di risollevare la
Casata dei Rufolo. Ma non posso interferire con chi la vuole
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distruggere... Con chi è alla ricerca di ciò che ha decretato la
nostra fine. Fa parte della mia Pena.»
Richard rimase in silenzio.
«Quelli che condividono il mio destino non possono
interferire col mondo che li ha ospitati. Ci è già stata data la
possibilità di fare la differenza. Tutto ciò che possiamo fare è
sperare. Sperare, e aspettare...»
Avanzarono lungo il giardino del Belvedere. Poi Lorenzo si
fermò e socchiuse gli occhi, come se stesse cercando di vedere
qualcosa.
«Ma...» riprese, e la voce tornò a brillare. «... Se me lo
permette, Richard... Se mi permette di essere la sua Ispirazione,
come lo sono stato per Giovanni e Neville, se mi permette di far
risplendere il Palazzo, e di espiare una parte delle mie colpe...
allora forse anch'io...»
Distese il braccio, e i fiori del giardino si tramutarono
nuovamente; ma non erano più fanciulle: era un pubblico di tutte
le età, dagli abiti variegati, che ascoltava estasiato una grande
orchestra, fiati, violoncelli, contrabbassi, e un Direttore
d'orchestra che dirigeva eccitato la musica, la sua musica,
il Parsifal!
«... forse anch'io potrò aspirare alla mia Redenzione.»
*
«Te voglio bene assaje, e tu non pienze a me!»
Giunti alla locanda Palumbo per riposare, Peppino, già brillo,
prese a cantare su di un tavolo, forzando gli astanti a seguirlo
mentre agitava un fiasco di Falanghina.
«Ma non si stanca mai?» borbottò Cosima, smettendo di
scrivere sul diario.
«Lo porto con me apposta» rispose Joukowsky. Stava
esaminando per l'ennesima volta gli schizzi del Giardino che
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aveva appena finito di disegnare, compiaciuto del fatto che gli
sembrassero ogni volta più belli. Era strano; c'era qualcosa in
quei disegni che lo rassicurava. Sentiva la buffa sensazione di
aver fatto finalmente centro, e di aver trovato un posto nella
Storia.
Cosima scosse la testa, divertita, e tornò sulle sue pagine: …
cavalcata a via S. Chiara fino al piccolo padiglione, con
fermata e cantata di Peppino, il panorama da quel punto per me
il più bello di tutti…
«È tutto molto bello» disse scontroso Siegfried. «Però io
volevo vedere il fantasma!»
«Ancora con questa storia? Lo vuoi capire o no che i fantasmi
non esistono?»
«No!»
«Esistono, non esistono» s'inserì Richard. «Che importanza
ha, Fidi? Oggi è un giorno di festa!»
«Per te, forse.»
«Non ha tutti i torti» disse Joukowsky.
Risero tutti, e alla fine anche Siegfried si riprese dalla
delusione.
Cosima non capiva che cosa fosse preso al marito. Era così
felice. Stranamente, stupendamente felice! Di solito era in grado
di fiutare i suoi cambiamenti d'umore... e invece, dopo aver
attraversato il Giardino, eccolo che se la rideva tutto contento,
come se le sue angosce fossero svanite nel nulla.
Che miracolo fosse capitato, non lo sapeva; se la Villa
avesse davvero dei poteri magici, o se lo stracitato fantasma li
avesse infine aiutati, non lo sapeva né le importava.
Le bastava vedere Richard felice.
«Dai, vieni.» Prese il marito per mano.
«Che stai facendo?»
«Hai detto che è un giorno di festa, no? E durante le feste si
canta!»
«No, Cosima, per favore, no...»
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Ma non seppe resisterle; Peppino lo accolse a braccia aperte e
insieme cantarono, bevvero e risero infischiandosene di chi li
voleva zittire.
Poi, quando stavano per andarsene, il locandiere al bancone li
fermò: «Scusate, signori, siete forse tedeschi?»
«Ho cantato così male in napoletano?» rise Richard.
Il locandiere sollevò un registro. «Vi va di firmare l'albo dei
turisti?»
Sulle prime fu restio; poi, sorridendo, ricordando qualcosa
che gli era apparso in sogno, scrisse:
Klingsor Zaubergarten erst gefunden
Il magico giardino di Klingsor è finalmente stato trovato
Richard Wagner
– 26 maggio 1880 –
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