Leggi il primo capitolo! - TERRE di MEZZO

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Leggi il primo capitolo! - TERRE di MEZZO
francesca scotti
l’origine
della distanza
La guerra, la vera guerra, dice Klaus, è questa: non l’odio
che getta le persone l’una contro l’altra, ma soltanto la
distanza che separa le persone che si amano.
pier vittorio tondelli
Ragazzi a Natale
戌
19-21 L’ora del Cane
Questa è l’ora in cui il cane comincia
a sorvegliare la casa
È agosto ma il sole su Kyoto tramonta presto. Anzi, mi
pare quasi che il tempo dell’imbrunire sia più breve rispetto a quanto sono abituata. La luce si trasforma subito
in buio, le ombre si allungano in un attimo fino a sparire.
Kyoto è un Giappone che non potevo prevedere, senza la
frenesia e le stranezze che mi sarei aspettata. Il caldo è
intenso e io trascino un trolley pesante. Sono impaziente
di raggiungere la mia stanza d’albergo anche se ci resterò
per poco: tra neanche un’ora ho appuntamento con alcuni spagnoli che ho conosciuto all’ufficio turistico. Anche loro, come me, erano in cerca di informazioni sui
festeggiamenti per Obon, la cerimonia in onore dei defunti che infiammerà la città questa sera. Nei giorni che
vanno dal 5 al 16 di agosto vengono accese candele nei
templi e fili di lanterne galleggianti costellano i corsi
d’acqua. Le luci faranno da guida agli spiriti affinché ritrovino la strada di casa. Ma a Kyoto succede qualcosa
di più, perché grandi kanji, i caratteri della scrittura giapponese, vengono incendiati sulle colline che abbracciano
la città.
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“Uno degli spettacoli più belli di questa stagione” ribadisce il ragazzo dell’ente turistico mentre mi allunga alcuni volantini. È magro, con gli zigomi alti e pronunciati.
La barba di un adolescente. Mentre si sforza di parlare in
inglese non mi guarda mai negli occhi.
“Il primo fuoco viene acceso sulle pendici del monte
Daimonji, sul lato est della città. Il significato dell’ideogramma è dai, ‘grande’.” Il tono del ragazzo è molto cortese anche se rimane serio. Mi raccomanda di non tardare
perché la festa inizia alle 20 e la città sarà piena di
gente.
“Qual è il posto migliore per guardarli?” chiedo.
“Le sponde del fiume Kamo, che attraversa Kyoto” risponde lui cerchiando alcuni punti sulla mappa.
Non so perché ma è in quel momento, mentre la sua
penna blu scorre sulla carta, che percepisco tutta la distanza che mi separa da casa. E ripenso all’origine di questo viaggio.
Quando avevo immaginato il mio arrivo in Giappone,
all’aeroporto doveva esserci Lorenzo. Si era offerto di
ospitarmi. Ma lui, a pochi giorni dalla mia partenza, aveva
deciso di modificare i propri programmi e di cambiare
continente.
Ci eravamo conosciuti in Italia durante le vacanze di
Natale, quindi non molto tempo prima.
Era un sabato mattina livido d’inverno. Avevo deciso
di uscire da sotto le coperte solo a condizione di ricevere
in cambio qualcosa di veramente speciale: per esempio,
fare colazione nella nuova caffetteria in stile americano a
pochi passi da casa. E Lorenzo, come avrei scoperto più
avanti, era stato mosso da un sentimento simile.
Ero arrivata davanti al negozio e le serrande erano ancora abbassate. Per un attimo avevo temuto che fosse
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chiuso per le festività. In vetrina, però, erano già state
posizionate torte voluminose dai colori sgargianti. Così,
dopo aver cercato invano gli orari di apertura, ero rimasta
ad aspettare stretta nel cappotto. Di auto in strada ne
passavano poche e la città sembrava vittima della mia
stessa pigrizia. Mentre i minuti scorrevano lenti e qualche
luce iniziava ad accendersi nel bar, alle mie spalle era
spuntato un ragazzo che si era messo ad attendere a pochi
passi da me. Impaziente avvicinavo il viso al vetro, facendomi schermo con le mani per vincere il riflesso e guardare dentro.
“Dovrebbero aprire alle dieci” aveva detto lui indicando
l’orologio dall’altro lato della strada. Mancavano pochi
minuti. Gli avevo sorriso.
Faceva molto freddo e il nostro respiro si condensava
nell’aria.
In quel momento le serrande elettriche avevano cominciato a salire lentamente.
Lui mi aveva lasciata entrare per prima.
“Cosa posso offrirti?” mi aveva chiesto restando dietro
di me.
Mi ero voltata, guardandolo finalmente in viso. In
quell’istante mi era sembrato che tutto di lui, dalla barba
leggermente sfatta alle labbra chiare, dal suo modo di
tenere le mani in tasca a quello di sorridere, stesse già
cominciando a piacermi. O forse desideravo che fosse
così.
Dopo quella colazione ci eravamo visti tutti i giorni, senza
annoiarci mai e senza pensare alla sua partenza imminente: poche settimane dopo sarebbe tornato a Kyoto,
dove lavorava.
L’ultima sera ci eravamo salutati senza accordi, piani o
promesse. Ma sulla porta di casa mia, con il taxi che lo
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aspettava in strada, mi aveva detto: “Ad agosto avrò altre
ferie, anche se solo una settimana. Questa volta però vieni
tu a trovarmi”. Lo avevo guardato aspettandomi un sorriso scherzoso, ma lui, non vedendomi convinta, aveva
ribadito: “Ti consiglio di prenotare già ora i biglietti, così
ti costeranno meno. Per il resto non preoccuparti, penserò
a tutto io”.
Da quel momento non avevo aspettato altro che
l’estate.
“Non te la prendere Vittoria, ma devo lasciare il Giappone
nel giro di qualche giorno.”
Mancava meno di una settimana alla mia partenza per
Kyoto quando avevo ricevuto la telefonata di Lorenzo.
In quel momento avrei voluto fargli del male, per restituirgli almeno in parte quanto provavo. Invece dall’altro
capo del telefono avevo solo sospirato. Avevo bevuto un
sorso d’acqua sperando di scioglierci dentro il magone.
Non avevo nemmeno provato a insistere per fargli cambiare idea: continuava a ripetermi che per lui andarsene
era diventato imprescindibile.
Mi aveva detto che non c’erano più le condizioni perché
potesse stare bene, che aveva cominciato a non riconoscersi più, che si era trovato in situazioni davvero al limite. Cose del genere.
Io non capivo nulla e tacevo.
I dettagli me li avrebbe raccontati in un’altra occasione.
Mentre Lorenzo parlava io pensavo a come cancellare
i voli. Avrei buttato tutte le guide che avevo comprato e
avrei nascosto la valigia nel punto più dimenticato della
cantina.
Secondo lui invece dovevo partire comunque.
“Il Giappone è un posto sicuro e, a modo suo, ospitale.
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Sono certo che non avrai problemi a viaggiare da sola” mi
aveva detto.
Io volevo solo raggiungere il letto e premere la faccia
dentro il cuscino fino a togliermi il fiato.
“L’itinerario lo scegliamo insieme. Sarà un po’ come se
ci fossi anch’io, vedrai ” aveva insistito.
“Mh” avevo risposto.
Mi trattava come una bambina che fa i capricci.
“Vittoria, ascolta, mi dispiace. Davvero. Ma non voglio
che per questo cambio di programma tu perda la possibilità di conoscere un Paese che ho amato molto.”
Parlava alternando frenesia a pacatezza. Perché ci teneva tanto che partissi comunque?
“Atterrando a Osaka potrai raggiungere Kyoto il giorno
stesso e arrivare per la notte di Obon. Vai a vedere il
fuoco del Daimonji, sarà emozionante.”
Avevo appeso il telefono senza lasciargli iniziare una
nuova frase. Ma dopo qualche ora tra pensieri, email e
un’altra telefonata mi ero lasciata convincere. Anche perché avevo confidato alle mie amiche di essermi innamorata di lui e che avremmo passato l’estate insieme. I miei
compagni di università sapevano che quell’estate l’avrei
trascorsa in Giappone. L’idea di dovermi smentire mi faceva sentire a disagio.
E poi, a quel punto, una sorta di curiosa attrazione
aveva cominciato a mettere radici. Il Giappone lo aveva
accolto e poi lo aveva messo in fuga. Eppure non voleva
io che ne stessi lontana.
Lorenzo mi aveva proposto di stare a casa sua, nella
zona a nord di Kyoto.
“Il contratto non scadrà prima di alcuni mesi, e tu potresti risparmiare.”
Ma l’idea di vivere nel suo appartamento mi pareva
davvero pessima. Non avrei pensato ad altro che alla sua
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assenza. Così gli avevo detto di no, chiedendogli di aiutarmi a scegliere un albergo non troppo costoso, magari
vicino a una fermata della metropolitana. Lui mi aveva
prenotato un ryokan, un albergo tradizionale a gestione
familiare dove, mi aveva assicurato, parlavano un po’ di
inglese. La stazione era quella di Shijo e la padrona si
chiamava Midori. Mi stavano aspettando.
Ho volato per dodici ore. Poi, per lasciare l’isola artificiale
dove si trova l’aeroporto di Osaka ho preso il treno. Ora
mi trovo nella stazione ferroviaria di Kyoto, all’undicesimo piano di un edificio che contiene ristoranti, negozi
di abbigliamento, pasticcerie. Guardo oltre la finestra
dell’ufficio turistico. Una moltitudine di persone cammina
protetta da ombrellini parasole, il caldo umido mi fa incollare i vestiti alla pelle. In mano ho le cartine e le indicazioni per raggiungere il ryokan del quale non riesco a
memorizzare il nome.
Mentre scendo le scale della metropolitana penso a Lorenzo e al fatto che sì, questa sera vedrò i fuochi di Obon
illuminare la via.
Davanti alla porta dell’albergo mi accorgo di essere in
ritardo per l’appuntamento con gli spagnoli. La padrona
di casa deve avermi sentita arrivare perché non aspetta
che bussi per accogliermi. È vestita con un kimono azzurro e ha i capelli ancora neri nonostante la pelle sia
segnata dall’età. Sorride. Le spiego a fatica che salirò in
camera solo il tempo di lasciare le valigie. L’inglese non
lo parla bene come Lorenzo mi aveva fatto credere. Le
dico che non mi fermerò per cena, ma sembra non capire.
Mi indica la stanza dove mi verrà servito il pasto e mi
chiede a che ora preferisco. La sua espressione cambia
solo quando le dico che desidero andare a vedere l’accen10
sione del Daimonji. Solleva la mia valigia con facilità e mi
fa capire che devo uscire subito, devo fare in fretta.
Il buio si è definitivamente impadronito della città. Io
avanzo svelta, un po’ confusa, guardando la cartina alla
luce dei lampioni. Dovevo incontrare gli spagnoli una
mezz’ora fa e ormai è chiaro che non li raggiungerò. Mi
accorgo di non avere modo di avvisarli, anzi, di non aver
nulla per comunicare: in Giappone il cellulare italiano
non funziona, Lorenzo me lo aveva detto, e non ho schede
telefoniche. Ora che mi guardo intorno mi rendo conto di
non saper neanche leggere le indicazioni stradali. Mi sembra di stare dentro una bolla. Però capisco di aver quasi
raggiunto il luogo della festa: schiene femminili decorate
da grandi fiocchi floreali riempiono le vie. Se non mi sono
sbagliata dovrei essere a ovest del fiume. Finalmente,
dopo un paio di svolte, mi trovo davanti al lungo greto,
dove ragazze minute che paiono fuggite da una campana
di vetro restano in piedi, in cerchio, a fissare in alto in
attesa del fuoco sulla montagna. Lo spazio sembra saturo
di ragazzi seduti su teli cerati e anziani piccoli e curvi che,
con un vigore sorprendente, si fanno strada per cercare
un buon punto da cui guardare. I corpi sono caldi, le
bocche sanno di cibo fritto e frutta caramellata che decine
di bancarelle vendono lungo la strada. La corrente mi
trasporta e l’eccitazione sale anche per me. Però mancano
ancora una decina di minuti alle 20, così ne approfitto per
guardarmi intorno.
Non lontano dal punto in cui mi trovo noto i ragazzi
che avrei dovuto raggiungere. Alzo la mano e faccio loro
un cenno. Sono due giovani, sui trent’anni, non molto alti
e abbronzati. Non si accorgono di me e preferisco lasciar
perdere perché quell’isolamento, quell’estraneità, in fondo
non mi dispiace. Però non smetto di osservarli: anch’io
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sono così evidentemente diversa? I vestiti, le movenze e
tutto il resto. È un po’ come se mi guardassi allo specchio.
La possibilità di mescolarsi, di nascondersi tra la folla mi
è negata.
Accanto ai due spagnoli una ragazza con un kimono
chiaro tiene per mano una bambina. Uno di loro la osserva mentre lei fissa il monte ancora buio. Appena lui
distoglie lo sguardo, però, sono gli occhi di lei a cercarlo.
La piccola le strattona il braccio, anche lei vorrebbe riuscire a vedere lo spettacolo. Ma è ancora presto per sollevarla oltre la folla. Intanto persone di ogni tipo si fanno
avanti, cercano vuoti che non ci sono. Mi accorgo che i
due hanno abbandonato il gioco di sguardi, ora parlano,
si sorridono. Lei con una mano si nasconde la bocca, abbassa il viso ma è allegra.
Finalmente i monti intorno alla città iniziano a bruciare.
Sulla collina compare prima solo una piccola fiamma. Poi
un fuoco rosso disegna i tratti del primo ideogramma.
Riluce nel buio, come un marchio prodigioso.
I presenti osservano e fotografano, restando composti
e con il viso rivolto verso l’alto.
Dopo un po’ l’entusiasmo comincia a diluirsi e così anche il mio. Riprendo a guardarmi intorno. Qualche anziano sta già voltando le spalle allo spettacolo per tornare
a casa. L’orologio segna le 20.30, è presto e la notte non
è ancora iniziata. Io non ho nemmeno mangiato e rivaluto
la possibilità di coinvolgere gli spagnoli per cena. Li cerco
con gli occhi. Uno di loro non c’è più, mentre l’altro chiacchiera ammiccante con la giovane giapponese. Posso
aspettare ancora un po’ o invitare anche lei. Ma non riesco a decidermi. Il pubblico lascia le rive disperdendosi
per strade differenti. Io osservo il fuoco smorzarsi.
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Lungo il fiume ormai siamo in pochi. Oltre a me, la ragazza con il suo nuovo amico straniero. Lei si volta sorridendo, si guarda intorno. In un istante l’allegria le si spegne sul volto: ha perso la bambina che teneva per mano.
Non è da nessuna parte.
L’acqua scivola lenta, gli addetti alla sicurezza stanno facendo defluire la gente fermando il traffico per strada. La
ragazza corre prima a destra, poi cambia idea e va a sinistra. Il kimono le si apre fino alle ginocchia, scopre la
pelle chiara. Si accuccia e si mette le mani sul viso. Il ragazzo spagnolo invece di raggiungerla la lascia sola e si
dirige verso di me, mi fa un cenno. Questa volta sono io
a fingere di non notarlo, gli volto le spalle e mi avvio sul
marciapiede.
Spero solo che i fuochi di questa notte rimangano accesi ancora un po’, il tempo sufficiente perché quella bambina ritrovi la sua strada. Io, invece, non ho nessuna fretta
di tornare indietro.
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