Flessibilità ineluttabile? Prefazione di Mireille Bruyère

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Flessibilità ineluttabile? Prefazione di Mireille Bruyère
Flessibilità ineluttabile?
Prefazione di Mireille Bruyère*
Sono stata spinta a dare il mio contributo all’opera di Grazia
Moffa perché i miei temi di ricerca sono incentrati sull’occupazione
e il lavoro ed anche perché sono di Tolosa, città in cui si è verificato
uno dei più gravi incidenti industriali avvenuti in Francia: l’esplosione dell’industria petrolchimica di AZF il 21 settembre 2001.
Questo importante sito industriale era un’impresa pubblica che si
trovava alle porte di Tolosa. Dopo la guerra, doveva colmare il ritardo dell’industria francese in materia di prodotti azotati che erano
in gran parte importati. Quando, negli anni Ottanta, c’è stata la
prima ondata di privatizzazioni delle imprese pubbliche, questo sito
di produzione è passato sotto il controllo di un grande gruppo privato: la Total.
Dopo l’esplosione, la Total decise di chiudere definitivamente
questo sito di produzione. La catastrofe uccise 33 persone e causò
ingenti danni in numerosi quartieri urbani. Essa rappresentò un
trauma per tutti gli abitanti di Tolosa, ma anche il simbolo di una
fra le più scandalose conseguenze della flessibilità del lavoro sulla
sicurezza. Delle 33 persone morte in questo incidente, 21 lavoravano nella fabbrica AZF e di questi 11 dipendevano da imprese subappaltatrici. Nel 2009, durante il primo processo1 contro la Total e
*
Mireille Bruyère è professore di Economia nell’Università di Tolosa 2 e membro
del laboratorio CERTOP-CNRS. È membro del Consiglio scientifico di ATTAC e del
collettivo Economistes Atterrés.
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Il processo in appello si è celebrato nel gennaio 2012, il giudizio sarà reso pubblico nel settembre 2012. Il primo giudizio si era concluso con un non luogo a procedere per la Total e i suoi dirigenti.
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il dirigente del sito AZF, Biechelin, l’accusa ha denunciato gli effetti
perversi che hanno avuto i subappalti sulla sicurezza di questo sito
industriale classificato Seveso. Il rapporto dell’ispezione del lavoro,
allegato all’inchiesta, denunciava un abuso di subappalti. Il capannone 221, dove ebbe luogo l’esplosione, era gestito quasi esclusivamente da imprese che lavoravano in subappalto.
Durante la sua audizione, l’ispettrice del lavoro che aveva redatto
questo rapporto dichiarò: «Subappaltatori? Sono stati spesso lasciati
a se stessi, male informati [...]. Vi è stata una perdita di visibilità di
ciò che stava accadendo sul sito. I dirigenti [...] l’avevano persa».
In effetti, i subappalti avevano assunto un ruolo importante nella
fabbrica. Riguardavano tutta una serie di attività che possono essere
molto tecniche (quali la manutenzione di diverse attività industriali
e di certe installazioni specifiche, l’assistenza per le reti informatiche e di comunicazione, ecc.), trasversali (la manutenzione delle installazioni industriali, la gestione dei rifiuti) e molte attività comuni
ad alcuni servizi conservati da Total, come la manutenzione, che potrebbe essere considerata un fattore all’origine dell’esplosione.
Per le famiglie delle vittime non ci sono dubbi: questa dispersione dell’organizzazione del lavoro e questa flessibilità sono i principali fattori alla base del deficit di sicurezza. Nel caso dei compiti di
manutenzione effettuati da salariati in subappalto, i controlli tecnici
possono non essere stati sufficienti. Come dimostra la sociologa Annie Thébaud-Mony, è proprio l’assenza di un collettivo di lavoro che
evidenzia il problema.
Per esempio, la circolazione delle informazioni tra i lavoratori è
molto complicata in questo tipo di divisione del lavoro. La conoscenza informale del sito è inesistente tra gli interinali che non
hanno alcuna anzianità. Infatti, essi cambiano spesso posto di lavoro
e sono isolati nelle loro mansioni.
Questi lavoratori non sono presenti nel Comité d’Hygiène de Sécurité et des Conditions de Travail (CHSCT), organismo preposto
ad occuparsi dei problemi della sicurezza. Sei mesi prima dell’incidente mortale, il sindacato CGT aveva già posto la questione alla direzione nel CHSCT per un altro incidente. C’era stata un’inchiesta,
ma soltanto all’interno della Total... senza coinvolgere anche le 25
imprese appaltatrici che lavoravano il giorno dell’incidente.
Tuttavia la Total e la direzione della fabbrica ritengono di non
aver ecceduto nelle pratiche di subappalto se si fa riferimento agli
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standard industriali internazionali. In effetti hanno ragione, ma è
proprio questo il problema.
Da quanto detto emergono questioni essenziali: perché la logica
della flessibilità del lavoro si è tanto sviluppata in Francia e negli altri
paesi industrializzati? È il simbolo ineluttabile della nostra modernità
o è la conseguenza di specifiche scelte politiche ed economiche?
Cercherò di fare un breve richiamo storico e allo stesso tempo di
mostrare che la seconda opzione è quella valida. Per approfondire il
tema bisogna individuare le trasformazioni dei sistemi produttivi a
partire dalla fine degli anni Settanta. Si tratta di mettere bene in
evidenza che sono proprio le scelte politiche ad aver orientato le
evoluzioni economiche che noi conosciamo e non una qualche legge
di concorrenza universale.
Il decennio Settanta segnala le trasformazioni di numerose economie occidentali che passano da un capitalismo industriale, basato
su una divisione relativamente stabile tra capitale e lavoro e con imprese ancora ben radicate sul territorio nazionale, ad un capitalismo
prevalentemente finanziario.
Prima di questo passaggio, gli equilibri sociali ed economici si basavano su una progressione dei salari, della protezione sociale e
sulla crescita economica. Il tasso di disoccupazione era debole e le
disuguaglianze diminuivano. Questo equilibrio, spesso chiamato
compromesso fordista, aveva come conseguenza una diminuzione
della redditività del capitale. Negli anni Settanta, dopo un forte
aumento della produzione e dei consumi, la domanda di beni industriali comincia a rallentare. Il consumo finale delle famiglie si
orienta dunque verso consumi più collettivi come l’educazione e la
salute, ancora largamente finanziati dai servizi pubblici.
Questo fenomeno si accompagna ad un rallentamento degli aumenti di produttività e della crescita economica. La redditività del
capitale è dunque ridotta per un doppio effetto: minore crescita dei
beni di consumo e aumento del costo del lavoro (salari e protezione
sociale).
Noi facciamo l’ipotesi che un certo numero di decisioni politiche
prese durante gli anni Settanta-Ottanta abbiano condotto la nostra
economia su una traiettoria diversa da quella descritta qui. Si trattava di ristabilire la redditività del capitale parallelamente ad un aumento della crescita economica, di cui poteva beneficare tutta la società. Si possono prendere in considerazione differenti tipi di politi21
che economiche. La prima consiste nel cercare di migliorare l’allocazione del capitale allo scopo di ristabilire la sua redditività. Utilizzando lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione, i mercati di
capitali sono deregolamentati e desegmentati e i sistemi bancari sono in gran parte privatizzati. Con questi nuovi mercati di capitali
mondializzati, la grande mobilità del capitale tende a diventare un
potente mezzo di trasformazione delle grandi imprese e di recupero
dei tassi di profitto.
In Francia un dato può illustrare questa tendenza riscontrata sin
dalla fine degli anni Ottanta: i dividendi sono aumentati di 5,3 punti di PIL tra il 1982 e il 2007, passando dal 3,2% all’8,5% del PIL.
La seconda tappa sarà la riorganizzazione delle grandi imprese a
livello mondiale. La mondializzazione commerciale è soprattutto una
mondializzazione delle grandi imprese transnazionali. L’insieme delle
grandi imprese multinazionali produce attualmente più del 30% del
PIL mondiale. Queste gestiscono le loro imprese e le loro filiali a livello mondiale. Gli scambi commerciali sono per i due terzi dei casi
scambi commerciali e per un terzo scambi fra le stesse ditte.
Parallelamente, invocando la necessaria modernizzazione, numerosi Stati privatizzano le antiche imprese pubbliche intervenendo soprattutto nel settore dei servizi in rete (energia e telecomunicazioni).
Queste nuove imprese private sono diventate dei giganti mondiali
(ad esempio France Telecom e Orange). La riorganizzazione del tessuto produttivo coniugata allo sviluppo del mercato dei capitali fa
nascere il movimento di «finanziarizzazione» delle imprese. In effetti,
le imprese si rivolgono sempre di più verso il mercato dei capitali
per il loro finanziamento poiché le politiche monetarie restrittive
dell’epoca fanno salire i tassi d’interesse. Il finanziamento grazie all’indebitamento bancario diventava così proibitivo.
Definiamo rapidamente la grande impresa «finanziarizzata». Fino
agli anni Settanta, le grandi imprese erano grandi entità che concentravano le risorse finanziarie, materiali e umane in una stessa direzione. La loro organizzazione era molto gerarchizzata e i dirigenti
erano industriali che conoscevano a fondo gli specifici processi di
produzione dell’impresa. I lavoratori erano integrati e stabilizzati
nell’impresa grazie a carriere salariali progressive. Questo modello
d’impresa assicurava ai dirigenti una grande autonomia rispetto
all’azionariato e la loro gestione aveva come scopo la crescita della
dimensione dell’impresa.
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A partire dagli anni Ottanta, la finanziarizzazione delle grandi
imprese fa emergere un nuovo modello di gestione, la corporate governance, la cui principale finalità è l’aumento del profitto per l’azionariato. Questo orientamento della governance è una conseguenza
dell’accresciuto potere degli azionisti basato sulla minaccia della
mobilità dei capitali. Il primo vettore di questa trasformazione è
l’aumento degli investitori istituzionali (i fondi di pensione, per
esempio) sui mercati di capitali. Grazie alla loro dimensione, questi
investitori possono detenere la maggioranza del capitale delle
grandi imprese e assumerne così il controllo. Nel 1970, questi attori
detengono, negli Stati Uniti, il 10% delle azioni quotate; nel 2006,
questa quota è salita al 60%. In Europa, grazie alle privatizzazioni,
le più grandi imprese passano sotto il controllo degli investitori istituzionali stranieri, specialmente anglosassoni. Queste imprese acquisiranno progressivamente il modello della corporate governance.
Affinché i dirigenti abbiano gli stessi interessi degli azionisti, la loro
remunerazione è legata all’evoluzione in borsa dell’impresa. Il sistema delle stock options ne è l’esempio più emblematico. Queste
grandi imprese sono dette imprese finanziarizzate.
Chiaramente questa finanziarizzazione ha avuto l’effetto di scollegare l’evoluzione della produttività del lavoro da quella dei salari,
causando una diminuzione molto significativa della parte dei salari
nel valore aggiunto di alcuni paesi. Per esempio, in Italia questa perdita è stata dell’ordine del 10% negli ultimi trent’anni. In questi ultimi anni, questa perdita è importante anche in Germania. In Francia, si è manifestata soprattutto tra il 1974 e il 1985. Comunque l’aumento dei margini a favore delle imprese non ha prodotto un aumento degli investimenti nelle aziende. In effetti, la parte versata
agli azionisti è aumentata notevolmente. La crisi attuale non ha
modificato questa tendenza.
Queste trasformazioni del tessuto produttivo e gli orientamenti
delle politiche economiche hanno permesso di ristabilire la redditività delle imprese e quella del capitale. La redditività finanziaria
delle grandi imprese è molto migliorata. Queste imprese finanziarizzate mostrano un tasso di rendimento dei capitali propri (ROE,
Return On Equity) che si avvicina al 15%, i paesi europei si avvicinano al livello degli Stati Uniti alla fine degli anni 2000.
Una caratteristica di questa governance è che c’è un importante
effetto sulla flessibilità del lavoro: un focalizzarsi sulle attività più
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redditizie vendendo o appaltando quelle meno redditizie. In questo
modo, il tasso di redditività finanziaria appare più alto e si abbattono i costi fissi, costituiti ad esempio dalla gestione del personale. I
vecchi costi del lavoro diventano così delle semplici spese di consumi intermediari molto più flessibili nella loro gestione.
Questo approccio sbilancia completamente il compromesso salariale del XX secolo: un legame di subordinazione esplicito e identificato, inquadrato dal diritto del lavoro e ricompensato dalla protezione sociale. I lavoratori interinali come quelli in subappalto non
beneficiano della protezione del diritto del lavoro per quanto riguarda la sicurezza perché il loro datore di lavoro non è il dirigente
del sito di produzione. Oltre allo sviluppo del subappalto e del suo
corollario, il lavoro interinale, la riorganizzazione della produzione
di queste grandi imprese produce anche una decentralizzazione
della produzione al suo interno. L’organizzazione interna si basa su
unità autonome chiamate business units. Queste unità hanno rapporti quasi commerciali all’interno dell’impresa stessa. In tal modo,
nel processo di produzione, la logica commerciale e finanziaria domina largamente su altre logiche (sociali o tecniche). Infine questa
organizzazione contribuisce anche a rendere più difficile l’identificazione della responsabilità manageriale per i lavoratori delle grandi imprese.
A causa dell’aumento della disoccupazione in molti paesi, gli Stati
hanno messo in discussione la protezione sociale, giudicata troppo
onerosa per la competitività delle imprese e, dunque, per l’occupazione. In Francia, per esempio, la disoccupazione è passata da un
tasso inferiore al 5% prima del 1974 a un tasso superiore all’8% dopo il 1984 nonostante qualche periodo di alta crescita economica.
Senza legami tra causa ed effetto, la finanziarizzazione, la riduzione
della protezione sociale e l’aumento della disoccupazione si combinano per amplificare la capacità delle grandi imprese e dei loro
azionisti a imporre i propri interessi all’insieme degli attori del sistema produttivo. Così si afferma la necessaria flessibilità del lavoro
e dell’occupazione. La distanza tra i centri responsabili delle decisioni economiche e finanziarie e l’attuazione reale del lavoro sembra rendere inevitabile l’adattamento del lavoro e dei lavoratori alla
necessità della redditività del capitale. La flessibilità, considerata
inevitabile in un’economia mondializzata ipercompetitiva, diventa
un mito insuperabile con un carattere trascendente.
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Laurence Parisot, presidente del MEDEF (organizzazione francese degli imprenditori, l’equivalente della Confindustria), non esita a
dichiarare: «La vita, la salute, l’amore sono precari, perché il lavoro
non dovrebbe esserlo?». Alcune politiche di lotta contro la disoccupazione introducono una certa flessibilità nel diritto sociale e nelle
istituzioni del mercato del lavoro. A partire dagli anni Novanta,
numerosi paesi hanno creato e sviluppato dei contratti di lavoro più
flessibili come ad esempio i contratti a tempo determinato e a tempo parziale. La flessibilità di questi contratti avrebbe dovuto permettere una diminuzione della disoccupazione. I contratti a tempo
determinato si sono sviluppati. La quota di questi contratti è più che
raddoppiata negli ultimi trent’anni raggiungendo più del 15%
dell’occupazione salariale in Francia e un terzo in Spagna. Anche il
lavoro interinale e il subappalto sono aumentati in particolare nell’industria e nella grande impresa. Il lavoro interinale ha assunto
oggi un ruolo chiave nell’adeguamento rapido delle imprese alle
evoluzioni di attività. Il lavoro a tempo parziale riguarda un quinto
dell’occupazione salariale in Francia, un quarto nel Regno Unito e
in Danimarca, un terzo in Germania e la metà in Olanda. I mercati
del lavoro sono divenuti ovunque più flessibili ma con ritmi e modalità differenti.
Infine, la flessibilità dell’occupazione è mal distribuita, non fa
diminuire la disoccupazione ma colpisce i giovani, i meno qualificati
e le donne, contribuendo ad aggravare le disuguaglianze. Queste
politiche dell’occupazione hanno favorito anche la moderazione
salariale.
Tutte queste trasformazioni pongono il problema della loro sostenibilità. In effetti, il legame tra lavoro e salute è sempre più minacciato. La forte pressione finanziaria spinge alcuni dirigenti a
trattare la salute dei lavoratori come un fattore di produzione che
può produrre un valore per l’azionariato.
Questo lavoro di Grazia Moffa dimostra bene come la flessibilità
spinga inevitabilmente i lavoratori più precari a scegliere l’occupazione e la relativa stabilità dei propri redditi piuttosto che la prevenzione degli incidenti di lavoro e delle malattie professionali.
Anche facendo un ragionamento semplicemente economico, questi cambiamenti non sono redditizi per la società nel suo insieme.
Addizionando i costi diretti degli incidenti di lavoro e delle malattie
professionali dichiarati come tali, quelli non ancora riconosciuti e i
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costi indiretti legati all’assenteismo, al non coinvolgimento, alla diminuzione di produttività, alla fragilità delle vite familiari, i vantaggi in termini di redditività finanziaria sono largamente superati dai
costi per la società. Questo volume mette bene in evidenza la portata del problema e può favorire le scelte politiche per un migliore
equilibrio tra lavoro come fattore di produzione e lavoro come fattore di salute, integrazione ed emancipazione.
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