Un libro per economisti e storici

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Un libro per economisti e storici
Università Commerciale Luigi Bocconi
Econpubblica
Centre for Research on the Public Sector
SHORT NOTES SERIES
Un libro per economisti e storici
Roberto Artoni
Short note n.1
May 2013
www.econpubblica.unibocconi.it
UN LIBRO PER ECONOMISTI E STORICI
Giuseppe Berta [L’ascesa della finanza internazionale, Feltrinelli, Milano 2013] ha ricostruito la
storia della finanza internazionale della seconda metà dell’ottocento, raccogliendo e sintetizzando
materiali di diversissima origine (letterari, sociologi economici e politologici), fino a delineare un
quadro affascinante e stimolante per lettori di diversa collocazione professionale.
Confermando l’attualità della tesi crociana per la quale tutte le ricostruzioni storiche hanno carattere
di contemporaneità, il libro permette anche di gettare luce sulle più recenti vicende dei mercati
finanziari internazionali. Come ha sottolineato l’autore in una presentazione, all’origine di questo
libro sta una conversazione con un autorevole storico anglosassone, che sosteneva la radicale
contrapposizione fra la finanza ottocentesca, ispirata a corretti principi, e quella più recente in cui
comportamenti non commendevoli sembrano aver avuto significativo spazio. Al contrario, la tesi di
fondo di Berta è che notevoli elementi di continuità si possono riscontrare nel periodo che va dal
1870 al 1914, quando dominarono i merchant bankers inglesi, e in quello che si può far partire dal
1980 con l’ascesa al potere di Reagan, quando New York è diventata la piazza finanziaria centrale.
Affrontando solo alcuni temi presenti nel libro di Berta, vorrei sottolineare tre aspetti che mi
sembrano giustifichino in larga misura la posizione dell’autore: in primo luogo l’affermazione di
una piazza egemonica come fattore, sia pure temporaneo, di stabilità finanziaria globale; in secondo
luogo, l’efficacia di sistemi di regolamentazione e di controllo dei comportamenti devianti da parte
degli stessi operatori; infine, i meccanismi che possono tutelare i risparmiatori o circoscrivere gli
effetti delle febbri speculative.
Charles Kindleberger in molti suoi contributi ha sottolineato che un sistema finanziario
internazionale ben funzionante richiede l’esistenza di un paese o di un centro finanziario egemone,
che, nella recente definizione di DeLong e Eichengreen, richiede a dominant economic power able
and willing to take the interests of smaller powers and the operation of the larger international
system into account by stabilising the flow of spending through the…global economy, and doing so
by acting as a lender and consumer of last resort [New Preface to Charles Kindleberger, The World
in Depression 1929-1939, UC Press, Berkeley 2013(1973)].
Riprendendo spunti ampiamente presenti nella letteratura, ma integrandole con considerazioni tratte
dall’evoluzione della struttura sociale inglese, Berta riconferma il ruolo che la piazza di Londra
ebbe nel promuovere e gestire le grandi operazioni finanziarie nel mezzo secolo precedente la I
guerra mondiale. E’ opportuno chiedersi quali furono i fattori che consentirono l’affermazione
dell’egemonia inglese.
Certamente, un ruolo di protezione del ruolo di Londra deve essere attribuito all’esistenza
dell’impero britannico. Nel corso di un processo che vedeva l’indebolimento del predominio
manifatturiero inglese (se non altro per l’avvio della seconda rivoluzione industriale), il ruolo della
sterlina, e la salvaguardia delle riserve auree, furono garantite da avanzi commerciali con le colonie,
in particolare con l’India, che compensavano il disavanzo nei confronti degli altri paesi sviluppati
(su questo punto si rinvia a De Cecco, Moneta e impero, Il sistema finanziario internazionale dal
1890 al 1914, Einaudi, Torino 1979).
Il secondo fattore importante era dato dalla particolare configurazione politica dell’ultimo quarto
del secolo XIX: il ruolo della Francia era stato compromesso dalla sconfitta nella guerra francoprussiana; gli Stati Uniti, usciti da poco dalla guerra di secessione, non potevano esercitare un ruolo
di gestore dei flussi finanziari internazionali, anche perché affamati di capitali; la Germania
cominciava ad esercitare solo allora una funzione importante nello scenario mondiale. L’Inghilterra,
oltre a usufruire del controllo dei territori dell’impero, si trovava quindi ad esercitare un sorta di
egemonia di natura monopolistica.
Avrebbero potuto esserci alternative alla configurazione fondamentalmente finanziaria
dell’egemonia inglese? Il modello bancario francese del secondo impero (i Rotschild di Parigi
investirono direttamente anche nel nostro paese) o la banca mista tedesca (che a partire dalla fine
del secolo ebbe un ruolo di grande importanza nello sviluppo economico italiano) avrebbero potuto
costituire, in un altro contesto politico internazionale, alternative, ma non erano, come detto,
praticabili nell’ultimo quarto del secolo XIX per la vocazione finanziaria e imperiale
dell’Inghilterra di quell’epoca.
Ci possiamo chiedere a questo punto se analogie o suggestioni interpretative possono essere
individuate nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, a sostegno dell’interpretazione
fondamentalmente continuista di Berta. Nell’interpretazione corrente la crisi dei decenni compresi
fra le due guerre mondiali può essere ricondotta alla’assenza di un egemone benevolo: citando
ancora DeLong e Eichengreen, Great Britain, now but a middle power in relative economic
decline, no longer possessed the resources commensurate with the job. The rising power, the US,
did not yet realise that the maintenance of economic stability required it to assume the role.
Il ruolo egemone fu invece assunto dagli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, sia pure con
caratteristiche diverse nel corso del tempo. Nei primi due decenni postbellici l’egemonia è stata
esercitata in un contesto forti avanzi commerciali, cui corrispondevano deflussi di capitali verso i
paesi importatori netti di merci; la stabilità era così mantenuta evitando che l’avanzo degli USA
producesse effetti deflazionistici nel resto del mondo. In seguito la situazione si è invertita e tale è
ancora oggi: gli Stati Uniti sono diventati fortemente deficitari nel saldo commerciale (molto meno
nelle partite correnti), che è stato finanziato da imponenti afflussi di capitali. Parte di questi capitali
sono stati poi riversati all’estero attraverso gli investimenti diretti delle multinazionali statunitensi e
di portafoglio delle grandi case finanziarie americane.
Nonostante le vicissitudini degli ultimi anni, questo assetto finanziario commerciale, formatosi circa
50 anni fa (con l’opposizione verbale, allora, di De Gaulle) continua a dominare, ricordando nelle
sue linee essenziali la finanza internazionale della seconda metà dell’ottocento. Ci si deve chiedere
se questo assetto è destinato a durare nel tempo, o se in altri termini, un’egemonia di carattere
finanziario può durare prescindendo da un adeguato sostegno produttivo, rappresentato da flussi
commerciali e di servizi positivi. Si deve ricordare che l’erosione del potere finanziario
dell’Inghilterra, al di là degli effetti devastanti della Grande Guerra, fu determinato dal progressivo
rafforzamento dei due paesi che risultarono i grandi beneficiari delle rivoluzioni tecnologiche
dell’inizio del secolo scorso, Germania e Stati Uniti. Oggi la capacità di produrre e di creare
corrispondenti avanzi commerciali e finanziari sembra essersi ormai diffusa in aree geografiche
extraeuropee.
Il secondo tema importante dell’analisi di Berta è costituita dalla capacità di autoregolamentazione
degli operatori, distinta dal problema della manipolabilità dei mercati che affronterò
successivamente. Il sistema del merchant banking inglese, caratterizzato da un certo numero di case
che formavano la haute finance e da numerosi altri operatori di minore rilievo, non dovette
sopportare crisi sistemiche fino al 1890, quando la Baring, il secondo operatore per importanza
dopo i Rothschild, entrò in una crisi irreversibile. Di fronte alla possibilità che l’intera struttura
finanziaria inglese crollasse fu organizzata con straordinaria rapidità una rete di soccorso cui
parteciparono altre banche private e la Bank of England, sotto la guida del Tesoro. Il salvataggio,
per quanto riguarda il sistema, costituisce un esempio di quasi autoregolamentazione privata, dato
l’intervento di enti pubblici o parapubblici come la Bank of England.
Ma il problema dell’autoregolamentazione dei mercati finanziari è un tema di così stretta attualità
da indurre ovvie trasposizioni intertemporali, dal mondo dell’ottocento a quello corrente, dove le
dimensioni dei flussi finanziari si sono ingigantite nella dimensione nazionale e in quella
internazionale in un contesto di estesa e crescente deregolamentazione.
Su questo punto possiamo fare riferimento ad un recente intervento ad una conferenza dell’IMF di
David Romer dal titolo Reinventing the next catastrophe: Where do we stand?(aprile 2013). Dopo
aver ripercorso la storia dei mercati finanziari deregolamentati negli ultimi trent’anni, Romer
conclude che gli eventi tragici sono tutt’altro che rari: the events of the past few years are not an
aberration, but just the most estreme manifestation of a broader pattern. L’economista americano
non estende la sua analisi al periodo esaminato da Berta, ma elenca una serie di eventi che vanno
dalla crisi sudamericana degli anni ’80 con successivo emissione dei Brady Bonds, al crollo di Wall
Street del 1987 circoscritto nei suoi effetti dalla Fed, al fallimento delle Saving and Loans che ha
comportato forti oneri per il bilancio federale USA, al crollo del Long Term Capital Management
che ha provocato un intervento di salvataggio di altre istituzioni finanziarie, alle due bolle
speculative dell’ultimo decennio (dot-com e housing), per ricordare solo le vicende più importanti.
Così come per Baring, la causa ultima di questi disastri deve essere attribuita ad una sconsiderata
assunzione di rischi in proprio da parte di intermediari finanziari operanti in contesti fortemente
deregolamentati. In tutto ciò, se si guarda solo alle crisi più gravi, possiamo riconoscere elementi di
continuità con il passato, anche se la scala, forse indotta dall’evoluzione tecnologica e dalla più
estesa
globalizzazione,
sembra
essere
decisamente
superiore.
Emerge comunque sia in passato, sia con maggior forza nel periodo più recente che meccanismi di
controllo o di autoregolamentazione affidati alla responsabilità degli operatori privati non possono
risolvere le crisi più gravi: il laissez faire finanziario o la deregolamentazione spinta possono
indurre euforia in alcune fasi storiche, ma sembra che contengano in sé meccanismi di
autodistruzione.
L’ultimo punto che vorrei richiamare riguarda le interconnessioni esistenti fra comportamenti dei
risparmiatori, manipolazione delle quotazioni degli strumenti finanziari e controllo degli eccessi
speculativi. I mercati finanziari inglesi furono nell’800 un formidabile strumento di organizzazione
dei flussi finanziari, con importanti implicazioni per gli equilibri politici globali (come già
sottolineato da Polanyi in The Great Transformation, ripreso appropriatamente da Berta), ma
furono anche meccanismo di arricchimento non del tutto trasparente degli intermediari a danno dei
risparmiatori. Un prestito all’Honduras sembra essere stato forse l’esempio più evidente di questa
manipolazione dei mercati, ma numerosi altri esempi potrebbero essere addotti. Insieme a
pubblicazioni che tentavano di aumentare nei risparmiatori la consapevolezza del rischio
dell’investimento azionario, già negli anni ’70 del XIX secolo più di una commissioni ufficiale
affrontò il duplice problema della correttezza degli intermediari e della protezione degli investitori.
Tentando di sintetizzare l’accurata esposizione di Berta, nessun intervento fu proposto per gli
intermediari (ci si rimetteva al loro senso di autodisciplina), mentre per i risparmiatori l’unica
soluzione praticabile era quella di migliorare la qualità dell’informazione, evidenziando i rischi
connessi ai singoli investimenti. Si sottolineava allora, e si continua a sottolineare oggi, che
l’investitore è comunque un cittadino consapevole, che aspira con investimenti anche rischiosi al
miglioramento della sua condizione economica; l’unico compito dell’autorità pubblica era appunto
quello di garantire che le informazioni disponibili fossero veritiere ed esaurenti (cosa che in molte
circostanze, anche nell’ottocento inglese, non si verificò).
Sotto il profilo della tutela dell’investitore, anche in un contesto di progressiva collettivizzazione
della gestione del risparmio, non sembra che molti progressi siano stati fatti: l’accento continua ad
essere posto sulla qualità dell’informazione; si può ragionevolmente affermare che ex post l’azione
delle autorità d controllo si è rivelata spesso carente nella quasi totalità dei paesi.
E’ certamente vero che esiste un’ineliminabile propensione dell’individuo al gioco rischioso o alla
ricerca indolore della ricchezza, ma ci si dovrebbe chiedere sulla base dell’analisi di Berta quali
sono i fattori ideologici, sociali ed economici che in certi periodi scatenano febbri speculative
praticamente incontrollabili (com’è accaduto in certi momenti nell’800 inglese e come si è ripetuto
nei periodi più recenti), e perché in altri periodi, con cadenze ravvicinate, si ritiene invece che la
remunerazione del risparmio debba essere di fatto connessa all’evoluzione reale del sistema,
mettendo in secondo piano per la generalità degli investitori le prospettive di debordanti guadagni in
conto capitale.
Possiamo al riguardo contrapporre l’atteggiamento del risparmiatore americano nei decenni
immediatamente successivi alla II guerra mondiale, a quello invece, che, sulla base di un crescente
indebitamento personale (che arricchiva gli intermediari), ha alimentato le ripetute ondate
speculative dell’ultimi trentennio. Ovviamente da quest’analisi dovrebbe emergere l’atteggiamento
delle autorità di politica economica che alternativamente potrebbero o assecondare le tendenze
all’azzardo , com’è stato fatto in alcuni casi, o circoscrivere la naturale propensione al rischio in un
ambito appropriato, definendo le sfere appropriate in cui le componenti speculative possono essere
sviluppate.
In conclusione, al di là di tutte le differenze riconducibili ai diversi riferimenti temporali, sembra
che l’argomentazione continuista di Berta sia sostanzialmente confermata. La conoscenza di certe
esperienze storiche e la loro trasposizione al presente sono comunque attività che gli economisti
dovrebbero esercitare con più assiduità: in questo senso il lavoro di Berta non è solo un significativo
contributo di storia a tutto tondo, ma è anche un utilissimo strumento per gli economisti desiderosi
di comprendere la realtà, lontani per impostazione culturale e intellettuale dai loro colleghi o
ideologizzati o dediti alle elaborazioni prive di contenuto.