Il mulino del Po

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Il mulino del Po
Regia: Alberto Lattuada; sogg.: dal romanzo omonimo di Riccardo Bacchelli; sceneg.: Federico
Fellini, Tullio Pinelli; coll. sceng.: R. Bacchelli, Mario Bonfantini, Luigi Comencini, A. Lattuada,
Carlo Musso, Sergio Romano; f.: Aldo Tonti; scenog: Aldo Buzzi; mont.: Mario Bonotti; cost.:
Maria De Matteis; mus.: Ildebrando Pizzetti; inter.: Carla Del Poggio, Jacques Sernas, Giulio
Calì, Anna Carena, Giacomo Giuradei; prod.: Carlo Ponti per Lux Film.
Nella bassa emiliana, verso la fine dell'Ottocento, mentre nascono e si sviluppano i primi
movimenti di rivolta dei mezzadri contro i proprietari terrieri, si consuma il dramma di Berta,
sorella di Princivalle e fidanzata con il contadino Orbino. I mezzadri, che nulla hanno
ottenuto, quasi per una forma di vendetta, se la prendono con Berta e i suoi, responsabili di
essersi estraniati dalla lotta. Princivalle, per sfuggire al fisco, incendia il suo mulino ed è
arrestato. Una volta uscito dal carcere, credendo Orbino responsabile di aver abbandonato
Berta, lo uccide e poi va a costituirsi. La sorella lo perdona.
Per trasportare sullo schermo anche solo un episodio della trilogia di Bacchelli Il mulino del
Po, occorrevano buone reni. Alberto Lattuada lo ha fatto senz'ombra di sforzo, confermandosi
un regista ottimamente preparato a tradurre in immagini grandi opere narrative. L'episodio
raccontato dal film è-quello di Orbino, giovarne mezzadro della pianura ferrarese, e del suo
sfortunato amore per Berta, figlia di molinari. Dissensi famigliari e beghe politiche vietano la
felicità di questi Romeo e Giulietta campagnoli; anzi il destino avverso si imbestia nel
formidabile Princivalle fratello della giovane, che messo su da un ignobile calunniatore
rovescia la sua terribile forza sull'innocente giovinetto, uccidendolo a forza di pugni. La
vicenda è inquadrata nell'accorta e mossa ricostruzione del primi conflitti di classe, che
annunciarono negli ultimi anni del secolo l'alba del socialismo. Di qua proprietari
inarrendevoli, di là contadini testardi; e comizi, e scioperi, e squilli di tromba. Non è aria,
poveri Orbino e Berta, per fare all'amore. Il film tiene a bada parallelamente il tragico idillio e
le turbolenze sociali, riuscendo nella pittura di queste più evidente e incisivo. Il paesaggio,
liricamente sentito, non è mai inerte, ma è introdotto a mettere accenti e respiro in questo
gran dramma corale. La scena della campagna negletta nei giorni di sciopero, e quella dei
soldatini che puntano le armi sulle tetragone contadine ferraresi, rivelano un forte e
appassionato narratore. Vivace, varia, amabile, è la caratterizzazione dei tipi, di cui il più felice
à il sanguigno Princivalle, impersonato a dovere da Giacomo Giuradei, Carla del Poggio e
Jacques Sernas, gli infelici amanti, sono due fervidi protagonisti.
(Leo Pestelli, «La Stampa», 9 novembre 1949)
Il mulino del Po vuol essere, anzitutto, il ritratto di un'epoca e di una società, vuol illustrare
una condizione ed un fenomeno, quale quello delle prime rivendicazioni del proletariato
agricolo, che cominciava ad assumere una coscienza di classe. Rispettoso della impegnante
ampiezza del quadro, non meno che persuaso dalla distaccata vena del romanziere, Lattuada
si è imposto uno scrupolo di obiettività, cercando di far propria la «ragione degli altri», di
descrivere con un massimo di chiarezza e di partecipazione la posizione del proprietario
agricolo, come quella dei mugnai, come quella dei braccianti. Non è detto che le predilezioni
di Lattuada rimangano del tutto celate, che una più alacre simpatia non affiori qua e là, che un
intento critico non sia rivelato da certo ironico gusto caricaturale applicato alla borghesia (e
pericolosamente incline alla stampa fine a se stessa, da cui il regista dimostra non essersi
saputo completamente distaccare). Ma l'insieme del ritratto vuole aspirare ad una validità
storica, ad un distacco appassionato: certi aspetti di quel proletariato, di cui si tende a
spiegare i moventi del risveglio, sono presentati senza la preoccupazione di renderli simpatici
ad ogni costo. [...]
Occorre avvertire però che, in pratica, il vagheggiato ritratto storico, pur nella sua
inconsueta e attenta ampiezza di respiro, non finisce di appagare, a causa di una impossibilità
inerente nel proposito stesso. Poiché al narratore cinematografico mancano taluni di quei
sottili strumenti di analisi, che consentono al romanziere di fondere serenamente le esigenze
del saggio storico con quelle del puro racconto, di scendere addentro nei moventi più remoti
di certi fenomeni, mancano talune facoltà «ragionative», che sono invece compensate da
pregnanti facoltà di sintesi oppure da suggestive possibilità di descrizione e rappresentazione
visiva. A queste si è affidato Lattuada, con provveduta precisione e coerenza espressiva, così
che il suo panorama, pur esauriente in un senso un po' esterno, e inconsuetamente allargato,
non può sottrarsi al pericolo di una non approfondita lena di indagine. Gli estremi di una
situazione complessa risultano così piuttosto «dati» che scrutati, il ritratto appare ad
«istantanea»; cristallizzato al di fuori di una possibilità di effettiva disamina di cause e di
effetti. Il che non è, naturalmente, bastevole a far muovere grave appunto al regista, per chi
tenga presenti gli accennati limiti dei mezzi a sua disposizione. Che gli sono invece valsi per
soddisfare una sua vena di «pastellista» equilibrato, il quale, tuttavia, scosse le lusinghe di un
compiaciuto calligrafismo, ha irrobustito la propria ispirazione al contatto con una realtà
ripetutamente affrontata. Così Il mulino del Po, pur essendo opera di sorvegliato gusto visivo,
di rilevanti virtù decorative, di notevole risalto fotografico, non appare viziato dal
compiacimento per la bella immagine. Questa risulta dalla intelligente fusione di un bruciante
paesaggio e di elementi umani, cui il costume conferisce spesso suggestivo fascino pittorico.
Ed è calata in una struttura narrativa assai più coerente e univoca che in opere precedenti
dello stesso regista, la cui attitudine ad un fervido narrare riceve ulteriore conferma da
episodi di esatta misura o di alto respiro come quelli del ballo paesano, dello sciopero, del
conflitto tra braccianti e forza armata.
(Giulio Cesare Castello, «Bianco e nero», n. 9, settembre 1949)