Proposte per la scuola 2. GUERRA DI TRINCEA Sul fronte dell
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Proposte per la scuola 2. GUERRA DI TRINCEA Sul fronte dell
Consorzio Culturale del Monfalconese www.grandeguerra.ccm.it Proposte per la scuola 2. GUERRA DI TRINCEA [a cura di Massimo Palmieri e Angelo Visintin] Sul fronte dell'Isonzo Trincee austriache Alcune esperienze significative dei conflitti recenti guerra civile americana (1861-1865), russo-turca (18771878) e russo-giapponese in Manciuria (1904-1905) avevano già evidenziato l’efficacia della difesa passiva ancorata a fortificazioni permanenti o improvvisate e delle armi a tiro celere. Il pensiero militare europeo non ne aveva compiutamente avvertito la portata, influenzato com’era dal modello della guerra d’incontro, rapida, risolutiva, decisa dalla manovra (modello assolutizzato dagli esiti del conflitto francoprussiano). Le prove maturate sul fronte occidentale nel primo anno di ostilità inflissero una sferzata a convinzioni tanto astratte quanto cristallizzate, imponendo agli stati maggiori un affannoso aggiustamento tattico, organico, tecnologico nella conduzione del conflitto. complesso delle artiglierie, scaglionate a seconda della gittata e della potenza (Fabi, 1994). All’epoca, in ogni caso, la linea austriaca non era né continua, né completa, né omogenea per potenzialità difensive e capacità di proteggere le truppe; gli stessi comandi temevano per la sua tenuta. Tuttavia, i tentativi italiani di scardinare la rete dei reticolati, con l’esplosivo o i mezzi meccanici, si rivelarono inutili. Le mitragliatrici bene appostate e l’artiglieria campale rendevano impraticabile ogni approccio da vicino alle opere attive o lo rendevano troppo gravoso in termini di perdite. La posizione occupata difficilmente poteva essere tenuta, se il contrattacco avversario era vigoroso. Le prevedibili tecniche d’assalto e la carenza della preparazione di artiglieria degli italiani, la posizione dominante austro-ungherese facilitarono la resistenza. Quando poi considerazioni strategiche generali spinsero il comando asburgico ad assumere sul fronte meridionale una condotta strettamente difensiva rispetto agli altri teatri, la linea venne fortificata con maggior energia e meticolosità, sino ad essere costituita da un fascio di tre successivi ordini di posizioni trincerate. Alla difesa rigida nel corso dei mesi se ne sostituì una più elastica. Quando nel corso dell’estate 1916 crollò il fronte carsico, con la perdita di Gorizia, gli austro-ungheresi ripiegarono sulla linea arretrata Monte SantoHermada, sulla quale si sarebbe consumato un altro anno di guerra. [Angelo Visintin] Il prosieguo della guerra Trincea austriaca di quota 144, nei pressi del lago di Doberdò (Collezione R. Lenardon) Il primo contatto dell’esercito italiano con le nuove modalità della guerra, rispetto alle quali era impreparato, ebbe luogo, dopo le avvisaglie sull’alto Isonzo ed Isonzo centrale, con il tentativo di superare il bordo collinare e carsico, da Gorizia al mare, nel tardo giugno 1915. Le dense formazioni italiane, che avanzavano sul terreno scoperto, vennero respinte da trinceramenti allestiti in tutta fretta: si trattava di scavi poco profondi nella roccia carsica, preceduti da una coltre di filo spinato e protetti da sacchi di terra e muriccioli di pietra, abbattute di alberi e frasche, talora, nei punti più esposti, da protezioni di calcestruzzo. Nella zona retrostante, collegata alla prima linea, si ergeva una linea fortificata di resistenza, con opere in cemento e blindature, a sua volta seguita dalle retrovie, costellate di ricoveri, prima improvvisati poi in caverna, posti comando, depositi, centri di sanità, e, retrocedendo ancora, dal 1916, l’anno delle speranze L’infruttuosa campagna del 1915 non aveva intaccato le posizioni imperiali sull’altipiano del Carso e sui monti del medio e alto Isonzo, né tantomeno aveva determinato la rottura strategica che potesse aprire la strada per Lubiana. Terminata l’interruzione invernale delle operazioni, segnata da locali operazioni di razionalizzazione della linea di combattimento, le offensive italiane ripresero con la quinta “spallata” (marzo 1916), i cui esiti furono pari ai precedenti. Spostato il baricentro delle operazioni sugli altipiani, a causa della furiosa offensiva austro-ungarica (Strafeexpedition, “spedizione punitiva”) rintuzzata con molta difficoltà, lo sforzo italiano riprese sull’Isonzo nell’agosto 1916 con l’operazione forse meglio preparata e condotta della guerra. La sesta offensiva riuscì dapprima a divellere la linea difensiva imperiale ai margini settentrionale e meridionale del campo trincerato di Gorizia (Sabotino e San Michele) e consentì poi la presa della città e lo spostamento del fronte oltre il Vallone. Lo sfondamento del fronte non fu tuttavia conseguito, anche se il significato bellico e simbolico dell’operazione fu di notevole risalto. Inutile dispendio di forze e risorse fu rappresentato Consorzio Culturale del Monfalconese dalle operazioni offensive dell’autunno: la settima, l’ottava e la nona battaglia non modificarono sostanzialmente il quadro strategico del fronte e costarono una pesante usura di forze. Le fanterie verso Monte Mosciagh, giugno 1916 (Il Territorio, anno XVII, numero 2, nuova serie, ottobre 1994, p.38) L’«annus terribilis»: il 1917 Le imponenti operazioni del 1917, che segnarono il culmine dell’impiego di armati e armamenti sul fronte giuliano, ebbero come obiettivo la corona di monti a nord-est di Gorizia e l’ostacolo posto sulla strada di Trieste, il Monte Hermada. Particolarmente drammatica fu l’undicesima offensiva, sviluppata con uno schieramento di reparti e d’artiglieria mai raggiunti prima. La parte più occidentale dell’acrocoro della Bainsizza fu occupata, ma il logoramento e la stanchezza dei reparti italiani raggiunsero il limite della rottura. Gli austro-ungheresi uscirono da parte loro pesantemente debilitati da queste prove. Il loro schieramento era stato in più occasioni sul punto di cedere e aveva tenuto solo grazie a sforzi condotti allo spasimo, ma concedendo terreno. La genesi di Caporetto sta anche in questi fatti. Una constatazione si arguisce dai due anni e più di guerra sul fronte dell’Isonzo: la sostanziale ripetizione da parte italiana di un’impostazione tattica, quella dell’attacco ad oltranza, che già dagli scontri del 1914 aveva mostrato la propria inadeguatezza e la necessità di trasformazioni di rilievo. Gli attacchi del 1917 furono condotti, ove non si consideri per un momento il più consistente sostegno dell’artiglieria e delle armi di squadra, senza essenziali modifiche rispetto ai criteri d’impiego della truppa di due anni prima. Se le condizioni dell’esercito imperiale su questo fronte, nell’economia strategica complessiva dell’esercito K. u k., rendevano in un certo senso obbligata la condotta difensiva, la dogmatica, pervicace continuità di scelte tattiche del comando italiano risulta difficilmente decifrabile, se non considerando il palese limite di un intero milieu cultural-militare, peraltro non esclusivamente nazionale. www.grandeguerra.ccm.it del 1917, l’esercito austro-ungarico non era più in grado di reggere un’ulteriore spallata italiana. La conquista italiana di parte della Bainsizza creava un saliente che minacciava la linea difensiva del basso Isonzo. Le truppe imperiali, dissanguate dai recenti combattimenti erano prossime al cedimento e la situazione di stallo sullo scacchiere orientale non consentiva ancora di volgere ad altri fronti i reparti colà impegnati. Caporetto nacque dunque sotto l’urgenza di guadagnare posizioni e spazio meno precari, di allontanare l’avversario da una linea ormai difficilmente difendibile. Un avversario che, nondimeno, soffriva di una diversa, ma nel fondo paragonabile, crisi di sostenibilità della guerra. L’operazione offensiva fu concordata con il comando germanico, che si affrettò ad inviare sulla linea dell’Isonzo truppe esperte: un segno dell’indebolimento dell’apparato militare dell’Imperatore. Preparata con molta cura, la sorpresa tattica riuscì pienamente. Precedute agli albori del 24 ottobre 1917 da un accurato quanto breve bombardamento, le truppe d’assalto austro-tedesche ebbero facilmente ragione delle difese più avanzate, tra Plezzo e Tolmino, e aprirono la strada alle fanterie. Sboccati nella valle di Caporetto, gli austro-tedeschi si incunearono di forza nello schieramento italiano della II Armata, determinandone la disgregazione. Le carenze di informazioni e comunicazione, gli ordini contraddittori, la leggerezza iniziale di valutazione da parte del Comando Supremo, la penuria di riserve resero ben presto non più recuperabile la situazione. L’offensiva locale diventa strategica Nella confusione più generale, per impedire l’avvolgimento della III Armata che operava da Gorizia al mare, Cadorna ordinò il ripiegamento generale, non senza aver diffuso, ingiustamente e con malaccorto senso della psicologia collettiva, un comunicato in cui si accusavano di “mancata resistenza” i combattenti di reparti della grande unità ormai in rotta. Nei primi giorni di novembre tutte le energie furono riposte nell’organizzare e coordinare una ritirata il più possibile ordinata. Mentre lo sfilamento della III Armata procedette con una certa regolarità, pur con la perdita di tutto il materiale pesante e dei depositi, il ripiegamento delle altre unità ebbe luogo in un clima di abbandono delle elementari forme di disciplina, di perdita dell’inquadramento, di totale sconvolgimento degli assetti organici. È il volto vagamente ribellistico, insofferente e indifferente di Caporetto, su cui si sono esercitati diversi memorialisti convinti di aver vissuto l’ipogeo della storia della nazione e degli istinti umani. Caporetto come “Babilonia”, o come “rivoluzione” o ancora come “sciopero militare” per fuggire dalla guerra. Nulla di tutto questo, anche se la dimensione psicologica degli avvenimenti, concretamente legata al disagio del soldato italiano, obbligato all’offensiva in Caporetto È ormai assodato, dalle riflessioni del generale attacchi senza speranza, ha un suo specifico rilievo. Bencivenga in poi, che la sconfitta di Caporetto ha In realtà i fenomeni disgregativi rientrarono presto. motivazioni primariamente militari. Dopo le battaglie Scartati il Tagliamento e poi la Livenza come possibili linee di arresto, i resti dell’esercito di Cadorna si Consorzio Culturale del Monfalconese attestarono sul Piave e sul Grappa, mentre l’offensiva austro-tedesca perdeva di slancio. Il generalissimo venne esonerato dal comando. Sul nuovo fronte iniziarono la difesa disperata degli italiani e l’altrettanto disperato tentativo austriaco (quanto inutile) di forzare le difese. Trecentomila prigionieri erano caduti in mano agli imperiali, unitamente a enormi quantitativi di materiale. Si apriva la più difficile prova dell’esercito italiano e del paese nella guerra mondiale. Caporetto ha rappresentato un tema di riflessione costante nel dibattito civile e politico, dapprima nei termini di un chiuso dibattito sulle responsabilità militari della sconfitta, poi sulla sua paradigmaticità nel rappresentare o meno lo spirito della nazione. Dopo novant’anni Caporetto è ancora bene infisso nella coscienza collettiva, al punto che alcuni storici parlano di “mito” di Caporetto. La sua persistenza simboleggia una intossicazione dell’animus nazionale per molti aspetti non ancora superata. [Angelo Visintin] Linee contrapposte Trincee italiane Lo scenario del conflitto sul fronte isontino assunse dall’autunno del 1915 le caratteristiche della guerra di posizione: nelle forme del combattimento di montagna commisto a quello di trincea, da Plezzo sino al Collio; di un’azione esclusivamente di trincea, da Gorizia al mare. Sino a Caporetto, a parte alcuni limitati progressi da parte del Regio Esercito, il fronte dell’Isonzo mantenne una sostanziale staticità. Nell’impossibilità di superare di slancio le difese austriache anche gli italiani si aggrapparono al terreno, in un primo tempo con intenti provvisori. Le posizioni raggiunte vennero unificate, armonizzate nel tracciato, rafforzate, fino a costituire un enorme campo trincerato predisposto per preparare le offensive oltre il ciglione carsico, verso l’interno dell’altopiano, e resistere a possibili contrattacchi. Molti memorialisti austriaci, come Fritz Weber o Joseph Seifert, ricordano con ammirazione la capacità costruttiva e l’ingegnosità del Genio italiano nell’edificare le opere. Alle spalle, nella pianura del Friuli orientale, un imponente sistema di retrovia alimentava la guerra italiana. “Un macello senza esempio!”. L’uomo, il campo di battaglia, la lotta I due avversari articolarono e consolidarono sul fronte giuliano le loro potenzialità militari ai massimi livelli, ma all’interno di uno schema sostanzialmente immutabile: offensiva italiana, difensiva austriaca. Livellati dalla logica della concatenazione attaccocontrattacco, i reparti italiani o imperiali dissipavano la loro forza nel guadagnare o conservare terreno, uniche e monotone finalità tattiche. Le perdite subite dagli assalitori e dai difensori furono ingentissime, neanche troppo lontane nel numero. “19 luglio (1915). Da impazzire! Morti, feriti, perdite enormi! È finita. Un macello senza esempio! Uno spaventevole bagno di sangue! Il sangue scorre ovunque e tutto all’ingiro www.grandeguerra.ccm.it morti e brandelli di cadaveri, così che…”: sono le parole, troncate, di un taccuino d’appunti, trovato sull’altopiano di Doberdò in mano ad un giovane ufficiale austriaco deceduto. L’inospitale terreno dell’altopiano carsico o del medio e alto Isonzo non concedeva favori ad alcuno. Le posizioni venivano prese, perdute, riprese. I vantaggi iniziali, o tecnici, o di forza numerica e materiali, o legati al tipo di condotta tattica, erano cancellati da una lotta all’estremo, in un ambiente ostile. I sistemi di trincee vennero progressivamente rafforzati e migliorati, armi o tecniche nuove (o antiche, per certi versi) vennero impiegate per sfondare o rendere imprendibile la linea di difesa. Padre Agostino Gemelli, figura di rilievo della cerchia cadorniana, riteneva che la massificante prassi di trincea potesse generare soldati passivi e rassegnati, spersonalizzati, inclini alla cieca obbedienza e perciò docili strumenti di una conduzione autoritaria della guerra. In realtà, rispetto alle labirintiche ed occulte strutture di trinceramento del fronte occidentale, dove sorsero vere cittadelle sotterranee, le fortificazioni carsiche e montane sulla linea dell’Isonzo non consentirono un ancoramento in profondità al terreno, a causa della sua particolare e scabra conformazione (rocce, caverne, doline) (Fabi, 1994). Si può presumere che ciò determinasse una minor dipendenza del combattente dalla trincea, ma, d’altro canto, in un terreno scarno di coperture, anche contegni meno prevedibili e maggiori escursioni comportamentali nel soldato. Solide trincee italiane in vista del monte Sei Busi; SFEI, 1916 (L. Fabi, La prima guerra mondiale 1915-1918, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 106) Per la sua durata, per l’impossibilità di essere militarmente risolutiva, per la consistenza dello sforzo produttivo e di mobilitazione umana richiesto al paese, per l’estensione dei servizi finalizzati al conflitto, per il logoramento imposto ai combattenti, la guerra di posizione si fissò, e appare ancora nel nostro immaginario, come l’espressione più tipica della “guerra totale”, ovvero di una tipologia di conflitto che solo la società di massa, del consenso, dell’industrializzazione - elementi raggruppabili in Consorzio Culturale del Monfalconese un’unica categoria di pensiero, la modernità - poté esprimere. La trincea fu, in questo senso, il luogo primario della nazionalizzazione delle masse, l’officina della trasformazione e del cambiamento. [Angelo Visintin] Vita in trincea La trincea La prima guerra mondiale è in sostanza una guerra statica: i fronti occidentali (franco-tedesco e italoaustriaco) in realtà non variano per tutta la durata del conflitto, se si eccettuano alcune avanzate, seguite da ripiegamenti, e la rotta di Caporetto. In un tale contesto è evidente che lo spazio di vita proprio del soldato-massa, come ormai si possono definire i combattenti, è la trincea. Le virtù richieste ai soldati in tale situazione sono pertanto obbedienza, pazienza e resistenza alle sofferenze, alle privazioni e all’angoscia di trovarsi sempre a un passo dalla morte. In genere si pensa alle trincee come a postazioni strutturate per la difesa degli occupanti, ma ciò vale solo per quei tratti del fronte in cui le autorità militari prevedono il verificarsi di scontri, ad esempio lungo le Alpi e al confine orientale italo-austriaco, e per le immediate retrovie delle prime linee. Le trincee all’inizio rimangono, tuttavia, per lo più scoperte, sono semplici fossati, scavati in fretta sotto il fuoco dei fucili, dei cannoni e degli shrapnel. Dall’analisi del territorio del fronte dell’Isonzo e dai documenti a disposizione (diari di ufficiali e soldati, prospetti di lavori di trinceramento, fotografie, ecc.) si coglie la precaria situazione dei soldati schierati in questo settore. Le trincee scavate tra le rocce, dove possibile, protetti da sacchi di terra e da altro materiale reperito in loco, non offrono certo un sicuro riparo, soprattutto laddove le prime linee distano solo pochi metri da quelle del nemico (una decina sul San Michele). E’ in esse che i soldati devono condurre la loro vita quotidiana, sempre in attesa: dell’avvicendamento, del rancio, della posta, dell’ordine di attacco. www.grandeguerra.ccm.it combattenti, arruolati tra il 1914 e il 1918, provenivano, infatti, in larga parte da un mondo nel quale la scrittura era prerogativa di pochi e in cui l’analfabetismo raggiungeva percentuali molto elevate. Per i soldati italiani, di estrazione prevalentemente rurale, la guerra fu il modo per avvicinarsi alla scrittura e alla lettura per mantenere un qualche contatto con l’ambiente di provenienza mediante la corrispondenza, sempre rigidamente controllata dalla censura. Il suo contenuto va perciò letto in controluce, in quanto per conoscere e capire la realtà della vita al fronte diventa più importanti il non scritto che l’espresso. Il bisogno di scrivere La scrittura risponde anche al bisogno individuale di definire la propria condizione in una vicenda che si presenta, anche agli occhi dei più semplici, come una svolta di portata mondiale. Da qui il fiorire della diaristica, la quale, in quanto scrittura intima, dovrebbe essere più libera dalle preoccupazioni per la censura. In realtà, anche in questo tipo di scritti affiora il timore di andare oltre i limiti; una sorta di autocensura impedisce di esporre con realismo fatti cui si è partecipato o assistito e ciò per non cadere nello sconforto e nell’angoscia. L’esperienza della trincea La vita in trincea è narrata da libri – basti ricordare Le feu di Henry Barbusse (1916), Trincee. Confidenze di un fante di Carlo Salsa (1924), Viva Caporetto di Kurt Suckert/Curzio Malaparte (1921), Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu (1945) – e presentata da famosi film All’ovest niente di nuovo di Milestone (1930), Orizzonti di gloria di Stanley Kubrik (1957), Uomini contro di Francesco Rosi (1971) – i primi, scritti da uomini che l’esperienza della guerra l’avevano vissuta e quindi rielaborata, i secondi, da registi, che attingendo a documenti ed esperienze vi hanno costruito un discorso critico, quasi sempre polemico In una trincea italiana – Museo della Guerra, Rovereto [L. Fabi, nei suoi confronti. F.Macchieraldo (a cura di), 1915-1918 cento foto una guerra, Ben diverso è il caso delle testimonianze offerteci dai Provincia di Biella - Eventi & Progetti Editore, p. 57) diari e dalla corrispondenza. Già il solo fatto che il primo conflitto mondiale ci restituisca un numero Si scrive nei momenti di riposo, si scrive elevato di registrazioni di esperienze scritte in prima nell’immediatezza dell’avvenimento, si scrive in persona da soldati semplici è di per sé significativo. I prossimità del campo di battaglia cosparso di cadaveri Consorzio Culturale del Monfalconese www.grandeguerra.ccm.it di compagni e nemici dilaniati e non ancora raccolti, si scrive mentre continuano i tiri di artiglieria. La stanchezza delle notti trascorse senza dormire esaspera la percezione dell’orrore. Si scrive mentre si aspetta il rancio che non sempre arriva, perché i pochi chilometri che separano le retrovie dal fronte sono esposte al nemico. Le condizioni di vita I pasti consumati dai soldati spesso sono freddi. Le razioni non sufficienti. Fumando si inganna l’attesa e la fame. A volte manca l’acqua per bere, non ci si può lavare per togliersi di dosso il fango e la sporcizia. Nulla di strano che in tali condizioni con il passare del tempo i soldati diventino sempre meno reattivi e cadano in uno stato di apatia. Se una certa dose di remissività è ben accetta ai comandi (il soldato in trincea deve saper sopportare i disagi e “spegnere” la propria coscienza), a lungo andare l’apatia può risultare pericolosa. Così, per ridare slancio allo spirito combattivo degli uomini si ricorre alla propaganda mediante cartoline postali, manifesti, giornali, ecc. Ma il trascorrere dei mesi e l’inutilità dei massacri fanno venir meno la fiducia nella conclusione rapida della guerra e nel conseguimento dei risultati. Anche chi si era arruolato con entusiasmo o sentiva la partecipazione al conflitto e alla difesa della patria come un “sacro dovere” è preso dal dubbio, dalla sfiducia, da un senso di frustrazione. Cerca solo di sopravvivere. L’identificazione con il reparto e lo spirito di corpo L’unica forma di conforto e di sostegno morale per il soldato è lo spirito di corpo, che crea rapporti di identificazione col reparto di appartenenza e di solidarietà con i propri commilitoni, tanto solidi da percepire la morte di uno di essi come perdita di parte di sé (E.J. Leed, 1979, 1985). A questa identificazione contribuiscono salmente paradossalmente anche le licenze, durante le quali il soldato prende coscienza che il mondo di pace, quale egli ricordava, non esiste più, perché l’intera vita civile è sconvolta. Semmai la guerra fosse finita, come sarebbe stata l’esistenza? Il suo rientro al reparto avviene in condizioni psicologiche peggiori di quando era partito, tanto da sentire come sua vera famiglia quanti condividono con lui le stesse condizioni di vita e corrono gli stessi rischi. [Massimo Palmieri] Controllo militare e fuga dalla guerra Alcuni dati del disagio italiano L’atteggiamento del soldato sul Carso e sulla linea dell’Isonzo, come quello dei suoi commilitoni di ogni nazionalità disseminati sui fronti della guerra europea, mostra aspetti mutevoli e quasi sempre contrastanti. Stati d’animo come l’atonia e l’attivismo temerario, la rassegnazione e l’entusiasmo, la violenza e la pietà, lo spirito di gruppo (“comunità di trincea”) e la disgregazione dei rapporti si fondono con le storie particolari degli individui.Gli stessi confini tra adesione Il macabro gioco inscenato da una camerata di Ampezzo che simula un'esecuzione (L. Fabi, G. L. Martina, G.Viola, Il Friuli del '15/18. Luoghi, itinerari, vicende di una provincia nella Grande Guerra, Provincia di Udine, 2003, p. 57) alla guerra e dissenso si mantengono labili e permeabili. Il primo conflitto mondiale, d’altra parte, pone in modo mai visto in precedenza i temi del consenso e della motivazione del popolo-nazione alla lotta, del controllo militarizzato della società, dell’uso di mezzi disciplinari e coercitivi negli eserciti di massa. Il problema delle manifestazioni di rifiuto della guerra diventò cronico nel momento in cui i caratteri della guerra di posizione e del conflitto di lunga durata si solidificarono: il senso ossessivo della morte incombente e casuale; i ritmi lenti e logoranti della vita di trincea, che lasciavano posto all’attesa e alla repentinità dell’assalto; la mancanza dell’avvicendamento e del riposo nei reparti; per gli italiani, infine, le modalità dell’offensiva ad oltranza, cui faceva da contrasto la sostanziale immobilità del fronte. La demoralizzazione e il senso di estraneità, imputabili ad una guerra poco comprensibile nelle motivazioni e negli obiettivi, inconcludente e apparentemente senza fine, nonché il contemporaneo ampliamento dell’apparato militare, determinarono la crescita dei reati militari. La giustizia militare italiana, che si avvaleva di un codice penale risalente alla metà dell’Ottocento, agì estesamente e in maniera repressiva: 350.000 procedimenti istruiti contro soldati, in gran parte per diserzione, 4.000 condanne a morte (750 eseguite) e 15.000 ergastoli comminati dai tribunali a soldati per gravi reati, alcune centinaia di sentenze di morte eseguite con procedure sommarie (molte durante la ritirata di Caporetto), e, sullo sfondo, un totale di diverse centinaia di migliaia di processi intentati per renitenza alla chiamata alle armi – molti emigrati non rientrarono dall’estero – e altre mancanze (Forcella-Monticone, 1968). Sono le cifre di un atteggiamento di grande severità, sollecitata dal Comando Supremo e richiamata continuamente da Cadorna attraverso missive e circolari interne, finalizzata sistematicamente alla prevenzione e alla dissuasione, a suscitare atteggiamenti di passiva obbedienza. La repressione attuata dalla giustizia militare era in realtà un aspetto estremo dell’articolato sistema di controllo attuato nella zona di guerra, tanto nel sistema delle trincee Consorzio Culturale del Monfalconese quanto nelle retrovie, dalle gerarchie militari e dall’apparato di sorveglianza (i carabinieri, che svolgevano un compito di polizia militare; gli Uffici informazione, che accertavano lo spirito della truppa; la censura degli scritti; nei casi estremi, la capacità repressiva dell’artiglieria e delle mitragliatrici). D’altro canto, le forme di estraniazione dalla guerra percorsero itinerari di psicologia individuale e collettiva più sotterranei: nevrosi, stress da trincea, invalidità psicofisiche. L’attesa di una rigenerazione politica dai tratti ingenui e millenaristici, spiccatamente dal 1917, e le posizioni mistiche e devozionali diffuse fra i soldati sono nel contempo indice di alienazione e speranza. Tuttavia, altre dinamiche interne, individuali o indotte, intervennero nella tenuta complessiva dell’apparato militare. Né l’esercito italiano, né gli altri eserciti in campo rimasero in trincea soltanto in ragione del sistema repressivo. [Angelo Visintin] “Scampare la guerra” I reati militari Diserzione, rifiuto di obbedienza, diserzione, defezione, autolesionismo e malattia, nevrosi, “follia” (impulso profondo, irrazionale alla fuga, reinterpretazione della realtà), “codardia”, sino ai rari sprazzi di rivolta ed ammutinamento, sono atti diversi, coscienti o meno, di una logica umana di sopravvivenza che comprendeva anche lo scegliere la buca o il riparo “giusti”, evitare il proietto nemico riconoscendone il suono prodotto, ricercare mansioni meno esposte (“imboscamento”). L'uccisione del maggiore Melchiorri in un fotogramma del film “Uomini contro” di Francesco Risi (M. Pluviano, I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, Gaspari Editore, Udine 2004, p. 145) In generale gli atti di indisciplina avevano luogo non tanto, come si sarebbe portati a pensare, “in faccia al nemico” o “in presenza del nemico”, nelle circostanze cruciali dell’attesa o dell’assalto, ma piuttosto nei momenti di riposo nelle retrovie. La mente sgombra dalla preoccupazione della morte vicina, l’allentamento della tensione, la mancanza del ferreo www.grandeguerra.ccm.it controllo e della sorveglianza attuati negli spazi angusti propri della prima linea, la presenza delle larghe distese della pianura friulana e veneta facilitavano la diffusione dei casi di fuga dalla guerra, talora anche privi di motivazione consapevole e frutto, piuttosto, di ingenuità e ignoranza delle regole. La giustizia militare però agiva impietosa: Saciletto, paese della Bassa cervignanese dove operava un tribunale militare della III armata e nei cui pressi avvenivano le esecuzioni, divenne tra i soldati, per assonanza, “Fuciletto”. Un ampio spazio di discrezionalità era consentito agli ufficiali nella gestione rapida della giustizia, in circostanze non ordinarie o in quelle urgenti dell’azione in prima linea o nelle zone immediatamente retrostanti. In caso di grave reato, l’autore era passibile di fucilazione immediata (Art. 92 del Codice militare penale). Esemplarità e dissuasione da comportamenti disgreganti (sedizione, sbandamento…) erano i criteri fondanti di queste procedure estreme, spesso prese nel corso del fatto d’armi. Esecuzioni sommarie e decimazioni appaiono con frequenza nella memoria della guerra. Nell’esercito imperiale Un esercito multinazionale, come quello austroungarico, era di per sé di difficile conduzione. Per una lunga consuetudine, il regime disciplinare nei reparti era rigido, anzi fondato sull’obbedienza cieca degli eserciti di professione. Erano in vigore forme di punizione corporale, come lo Zwei Stunden Abhanden (“due ore appesi”), e il controllo operato dall’ufficialità, circondata da un’aura di inflessibilità e distacco, era severo. La giurisdizione militare penale, che prima del conflitto - retaggio feudale - era riservata ai membri delle forze armate anche negli ambiti delle competenze generali della giustizia, venne estesa con le ordinanze del luglio 1914 all’intera popolazione per un’ampia serie di reati, che nel conflitto avrebbero potuto assumere significati militari o attinenti la sicurezza pubblica. La procedura penale, di recente introduzione, era invece ispirata a principi di garanzia per l’imputato, civile o militare che fosse, e talora si poneva in contrasto con l’apparato repressivo. Nella zona di combattimento, naturalmente, venivano poste in atto dai comandi con larghezza e discrezionalità le misure disciplinari sommarie, al pari di quanto accadeva nell’esercito italiano e negli altri eserciti in lotta. Il peso di un tale sistema penale sulla tenuta di un apparato militare esposto a tensioni nazionali è difficile a valutarsi. Ad esempio, i reparti sloveni e croati furono esenti da episodi gravi di sbandamento o sedizione (a differenza di unità ceche o italiane), pur se non mancarono diffusi episodi individuali di diserzione o fuga. Ebbero probabilmente una maggiore importanza altri fattori: il fatto che la lealtà all’impero era per molti soldati coniugabile con l’orgoglio per la propria “piccola patria”, o l’uso del motivo propagandistico, sul fronte di sud-ovest, della guerra di difesa della nazione slava dall’invasione italiana, o ancora il radicato fatalismo religioso e l’obbedienza propri delle popolazioni rurali. Consorzio Culturale del Monfalconese Nel 1917, però, l’alto numero di prigionieri consegnatisi agli italiani durante la decima ed undicesima battaglia dell’Isonzo mostrò ai comandi i segni preoccupanti di una crisi che, dopo tre anni di guerra, cominciava a metter piede in una compagine sino ad ora solida e motivata. Il 1918 Dopo la ritirata sul Piave, la gestione di Armando Diaz è unanimemente riconosciuto dagli storici - significò tanto sul piano della condotta di guerra italiana (stretta difensiva) quanto su quello della direzione disciplinare (miglioramento delle dure condizioni del soldato e della vita in trincea) il superamento, certo resosi ormai necessario, dell’ossessivo sistema cadorniano. Non cessarono tuttavia le manifestazioni di disagio verso la guerra, le forme di fuga e rifiuto, la repressione degli organi militari. L’inasprimento delle pene e le condanne comminate dalla giustizia militare austriaca sul fronte del Piave e all’interno, nell’ultimo anno di guerra, testimoniano invece il processo di disgregazione in atto nell’Impero e la diffusione del malcontento sociale. Nell’inverno e nella primavera del 1918 ebbero luogo infatti gravi episodi di ammutinamento provocati dal disagio per la situazione materiale e di servizio e da una presa di coscienza rivoluzionaria - diffusa fra gli Heimkehrer, i prigionieri rientrati dalla Russia - o nazionale (Schindler, 2002). Una grave sedizione infiammò gli equipaggi delle navi da guerra in rada alle Bocche di Cattaro. I marinai si fecero promotori di precise rivendicazioni alle autorità (Was wir wollen, Ciò che noi vogliamo). Nel maggio, gruppi di militari sloveni e di altre nazionalità si ammutinarono a Judenburg, a Murau, a Radkesburg. Le rivolte vennero represse. Nel Finis Austriae aumentarono le diserzioni, sino a coinvolgere migliaia di soldati che si diedero alla macchia nelle zone impervie e boscose dell’interno (il cosiddetto Zeleni Kader). Nei centri d’addestramento continuarono le proteste. Prigionieri di guerra Le enormi masse di prigionieri di guerra catturati dall’avversario crearono sin dal primo anno di guerra gravi difficoltà ai governi. Le convenzioni internazionali imponevano ai belligeranti di trattare con umanità l’avversario che si era arreso e di provvedere al suo internamento in una struttura di prigionia. I governi, d’altra parte, dovettero provvedere alla cura dei prigionieri del proprio esercito, facilitando i contatti con le famiglie e l’inoltro dei pacchi. Aleggiava spesso negli ambienti militari ed anche presso l’opinione pubblica la convinzione che il soldato che si arrende “non ha ben meritato” la fiducia dei superiori, ovvero il sospetto che potesse aver abbandonato le armi. Questa forma mentale fu particolarmente diffusa presso le autorità italiane, che durante il conflitto lesinarono parecchio l’assistenza ai propri prigionieri, creando un filtro di impassibile chiusura nelle relazioni con i detenuti dei campi di prigionia. E la riprova si ebbe a guerra appena terminata, come testimonia www.grandeguerra.ccm.it l’inumano trattamento di oltre centomila prigionieri (“quelli di Caporetto”) concentrati nel punto franco di Trieste e poi sottoposti ad umilianti interrogatori e a forme di ulteriore internamento nei campi di raccolta di Castelfranco Emilia, Gossolengo, Rivergaro. Di più, il capitolo dei prigionieri è stato letteralmente cancellato dalla memoria per decenni, a non gettare un velo d’ombra sui fasti della vittoria. Le cifre ricorrenti parlano di 600.000 prigionieri, di cui forse un centinaio di migliaia morto per ferite e stenti durante e dopo il conflitto: una moltitudine. Il che indirettamente palesa i limiti della conduzione della guerra italiana, indirizzata ripetitivamente all’offensiva, e, al contempo, il senso, diffuso tra i soldati, dell’insostenibilità della guerra. Quasi la metà dei prigionieri fu catturata nel corso dell’offensiva di Caporetto e le dimensioni dell’evento mettono in risalto la gravità della sconfitta e la problematica tenuta della compagine militare dopo le ossessive offensive sull’Isonzo. I prigionieri austro-ungarici nel corso della guerra sul fronte italiano non superarono le 180.000 unità, e anche questo è spiegabile con la specifica tipologia di conduzione bellica da parte imperiale. Nelle fasi finali della guerra, ormai avviato il processo di sfaldamento dell’esercito asburgico, durante le operazioni dell’offensiva di Vittorio Veneto e successive furono fatti da parte italiana oltre 400.000 prigionieri. [Angelo Visintin]