Proposte per la scuola 2. GUERRA DI TRINCEA Sul fronte dell

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Proposte per la scuola 2. GUERRA DI TRINCEA Sul fronte dell
Consorzio Culturale del Monfalconese
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Proposte per la scuola
2. GUERRA DI TRINCEA
[a cura di Massimo Palmieri e Angelo Visintin]
Sul fronte dell'Isonzo
Trincee austriache
Alcune esperienze significative dei conflitti recenti guerra civile americana (1861-1865), russo-turca (18771878) e russo-giapponese in Manciuria (1904-1905) avevano già evidenziato l’efficacia della difesa passiva
ancorata a fortificazioni permanenti o improvvisate e
delle armi a tiro celere. Il pensiero militare europeo
non ne aveva compiutamente avvertito la portata,
influenzato com’era dal modello della guerra
d’incontro, rapida, risolutiva, decisa dalla manovra
(modello assolutizzato dagli esiti del conflitto francoprussiano). Le prove maturate sul fronte occidentale
nel primo anno di ostilità inflissero una sferzata a
convinzioni tanto astratte quanto cristallizzate,
imponendo agli stati maggiori un affannoso
aggiustamento tattico, organico, tecnologico nella
conduzione del conflitto.
complesso delle artiglierie, scaglionate a seconda della
gittata e della potenza (Fabi, 1994).
All’epoca, in ogni caso, la linea austriaca non era né
continua, né completa, né omogenea per potenzialità
difensive e capacità di proteggere le truppe; gli stessi
comandi temevano per la sua tenuta. Tuttavia, i
tentativi italiani di scardinare la rete dei reticolati,
con l’esplosivo o i mezzi meccanici, si rivelarono
inutili. Le mitragliatrici bene appostate e l’artiglieria
campale rendevano impraticabile ogni approccio da
vicino alle opere attive o lo rendevano troppo gravoso
in termini di perdite. La posizione occupata
difficilmente poteva essere tenuta, se il contrattacco
avversario era vigoroso. Le prevedibili tecniche
d’assalto e la carenza della preparazione di artiglieria
degli italiani, la posizione dominante austro-ungherese
facilitarono la resistenza. Quando poi considerazioni
strategiche generali spinsero il comando asburgico ad
assumere sul fronte meridionale una condotta
strettamente difensiva rispetto agli altri teatri, la linea
venne fortificata con maggior energia e meticolosità,
sino ad essere costituita da un fascio di tre successivi
ordini di posizioni trincerate. Alla difesa rigida nel
corso dei mesi se ne sostituì una più elastica.
Quando nel corso dell’estate 1916 crollò il fronte
carsico, con la perdita di Gorizia, gli austro-ungheresi
ripiegarono sulla
linea arretrata Monte SantoHermada, sulla quale si sarebbe consumato un altro
anno di guerra.
[Angelo Visintin]
Il prosieguo della guerra
Trincea austriaca di quota 144, nei pressi del lago di Doberdò
(Collezione R. Lenardon)
Il primo contatto dell’esercito italiano con le nuove
modalità della guerra, rispetto alle quali era
impreparato, ebbe luogo, dopo le avvisaglie sull’alto
Isonzo ed Isonzo centrale, con il tentativo di superare il
bordo collinare e carsico, da Gorizia al mare, nel tardo
giugno 1915. Le dense formazioni italiane, che
avanzavano sul terreno scoperto, vennero respinte da
trinceramenti allestiti in tutta fretta: si trattava di
scavi poco profondi nella roccia carsica, preceduti da
una coltre di filo spinato e protetti da sacchi di terra e
muriccioli di pietra, abbattute di alberi e frasche,
talora, nei punti più esposti, da protezioni di
calcestruzzo. Nella zona retrostante, collegata alla
prima linea, si ergeva una linea fortificata di
resistenza, con opere in cemento e blindature, a sua
volta seguita dalle retrovie, costellate di ricoveri,
prima improvvisati poi in caverna, posti comando,
depositi, centri di sanità, e, retrocedendo ancora, dal
1916, l’anno delle speranze
L’infruttuosa campagna del 1915 non aveva intaccato
le posizioni imperiali sull’altipiano del Carso e sui
monti del medio e alto Isonzo, né tantomeno aveva
determinato la rottura strategica che potesse aprire la
strada per Lubiana. Terminata l’interruzione invernale
delle operazioni, segnata da locali operazioni di
razionalizzazione della linea di combattimento, le
offensive italiane ripresero con la quinta “spallata”
(marzo 1916), i cui esiti furono pari ai precedenti.
Spostato il baricentro delle operazioni sugli altipiani, a
causa della furiosa offensiva austro-ungarica (Strafeexpedition, “spedizione punitiva”) rintuzzata con
molta difficoltà, lo sforzo italiano riprese sull’Isonzo
nell’agosto 1916 con l’operazione forse meglio
preparata e condotta della guerra. La sesta offensiva
riuscì dapprima a divellere la linea difensiva imperiale
ai margini settentrionale e meridionale del campo
trincerato di Gorizia (Sabotino e San Michele) e
consentì poi la presa della città e lo spostamento del
fronte oltre il Vallone. Lo sfondamento del fronte non
fu tuttavia conseguito, anche se il significato bellico e
simbolico dell’operazione fu di notevole risalto.
Inutile dispendio di forze e risorse fu rappresentato
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dalle operazioni offensive dell’autunno: la settima,
l’ottava e la nona battaglia non modificarono
sostanzialmente il quadro strategico del fronte e
costarono una pesante usura di forze.
Le fanterie verso Monte Mosciagh, giugno 1916 (Il Territorio, anno
XVII, numero 2, nuova serie, ottobre 1994, p.38)
L’«annus terribilis»: il 1917
Le imponenti operazioni del 1917, che segnarono il
culmine dell’impiego di armati e armamenti sul fronte
giuliano, ebbero come obiettivo la corona di monti a
nord-est di Gorizia e l’ostacolo posto sulla strada di
Trieste,
il
Monte
Hermada.
Particolarmente
drammatica fu l’undicesima offensiva, sviluppata con
uno schieramento di reparti e d’artiglieria mai
raggiunti prima. La parte più occidentale dell’acrocoro
della Bainsizza fu occupata, ma il logoramento e la
stanchezza dei reparti italiani raggiunsero il limite
della rottura. Gli austro-ungheresi uscirono da parte
loro pesantemente debilitati da queste prove. Il loro
schieramento era stato in più occasioni sul punto di
cedere e aveva tenuto solo grazie a sforzi condotti allo
spasimo, ma concedendo terreno. La genesi di
Caporetto sta anche in questi fatti.
Una constatazione si arguisce dai due anni e più di
guerra sul fronte dell’Isonzo: la sostanziale ripetizione
da parte italiana di un’impostazione tattica, quella
dell’attacco ad oltranza, che già dagli scontri del 1914
aveva mostrato la propria inadeguatezza e la necessità
di trasformazioni di rilievo. Gli attacchi del 1917
furono condotti, ove non si consideri per un momento il
più consistente sostegno dell’artiglieria e delle armi di
squadra, senza essenziali modifiche rispetto ai criteri
d’impiego della truppa di due anni prima. Se le
condizioni dell’esercito imperiale su questo fronte,
nell’economia strategica complessiva dell’esercito K. u
k., rendevano in un certo senso obbligata la condotta
difensiva, la dogmatica, pervicace continuità di scelte
tattiche del comando italiano risulta difficilmente
decifrabile, se non considerando il palese limite di un
intero
milieu
cultural-militare,
peraltro
non
esclusivamente nazionale.
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del 1917, l’esercito austro-ungarico non era più in
grado di reggere un’ulteriore spallata italiana. La
conquista italiana di parte della Bainsizza creava un
saliente che minacciava la linea difensiva del basso
Isonzo. Le truppe imperiali, dissanguate dai recenti
combattimenti erano prossime al cedimento e la
situazione di stallo sullo scacchiere orientale non
consentiva ancora di volgere ad altri fronti i reparti
colà impegnati. Caporetto nacque dunque sotto
l’urgenza di guadagnare posizioni e spazio meno
precari, di allontanare l’avversario da una linea ormai
difficilmente
difendibile.
Un
avversario
che,
nondimeno, soffriva di una diversa, ma nel fondo
paragonabile, crisi di sostenibilità della guerra.
L’operazione offensiva fu concordata con il comando
germanico, che si affrettò ad inviare sulla linea
dell’Isonzo
truppe
esperte:
un
segno
dell’indebolimento
dell’apparato
militare
dell’Imperatore.
Preparata con molta cura, la sorpresa tattica riuscì
pienamente. Precedute agli albori del 24 ottobre 1917
da un accurato quanto breve bombardamento, le
truppe d’assalto austro-tedesche ebbero facilmente
ragione delle difese più avanzate, tra Plezzo e
Tolmino, e aprirono la strada alle fanterie. Sboccati
nella valle di Caporetto, gli austro-tedeschi si
incunearono di forza nello schieramento italiano della
II Armata, determinandone la disgregazione. Le
carenze di informazioni e comunicazione, gli ordini
contraddittori, la leggerezza iniziale di valutazione da
parte del Comando Supremo, la penuria di riserve
resero ben presto non più recuperabile la situazione.
L’offensiva locale diventa strategica
Nella confusione più generale, per impedire
l’avvolgimento della III Armata che operava da Gorizia
al mare, Cadorna ordinò il ripiegamento generale, non
senza aver diffuso, ingiustamente e con malaccorto
senso della psicologia collettiva, un comunicato in cui
si accusavano di “mancata resistenza” i combattenti di
reparti della grande unità ormai in rotta. Nei primi
giorni di novembre tutte le energie furono riposte
nell’organizzare e coordinare una ritirata il più
possibile ordinata. Mentre lo sfilamento della III
Armata procedette con una certa regolarità, pur con la
perdita di tutto il materiale pesante e dei depositi, il
ripiegamento delle altre unità ebbe luogo in un clima
di abbandono delle elementari forme di disciplina, di
perdita dell’inquadramento, di totale sconvolgimento
degli assetti organici. È il volto vagamente ribellistico,
insofferente e indifferente di Caporetto, su cui si sono
esercitati diversi memorialisti convinti di aver vissuto
l’ipogeo della storia della nazione e degli istinti umani.
Caporetto come “Babilonia”, o come “rivoluzione” o
ancora come “sciopero militare” per fuggire dalla
guerra.
Nulla di tutto questo, anche se la dimensione
psicologica degli avvenimenti, concretamente legata al
disagio del soldato italiano, obbligato all’offensiva in
Caporetto
È ormai assodato, dalle riflessioni del generale attacchi senza speranza, ha un suo specifico rilievo.
Bencivenga in poi, che la sconfitta di Caporetto ha In realtà i fenomeni disgregativi rientrarono presto.
motivazioni primariamente militari. Dopo le battaglie Scartati il Tagliamento e poi la Livenza come possibili
linee di arresto, i resti dell’esercito di Cadorna si
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attestarono sul Piave e sul Grappa, mentre l’offensiva
austro-tedesca perdeva di slancio. Il generalissimo
venne esonerato dal comando. Sul nuovo fronte
iniziarono la difesa disperata degli italiani e
l’altrettanto disperato tentativo austriaco (quanto
inutile) di forzare le difese. Trecentomila prigionieri
erano caduti in mano agli imperiali, unitamente a
enormi quantitativi di materiale. Si apriva la più
difficile prova dell’esercito italiano e del paese nella
guerra mondiale.
Caporetto ha rappresentato un tema di riflessione
costante nel dibattito civile e politico, dapprima nei
termini di un chiuso dibattito sulle responsabilità
militari della sconfitta, poi sulla sua paradigmaticità
nel rappresentare o meno lo spirito della nazione. Dopo
novant’anni Caporetto è ancora bene infisso nella
coscienza collettiva, al punto che alcuni storici parlano
di “mito” di Caporetto. La sua persistenza simboleggia
una intossicazione dell’animus nazionale per molti
aspetti non ancora superata.
[Angelo Visintin]
Linee contrapposte
Trincee italiane
Lo scenario del conflitto sul fronte isontino assunse
dall’autunno del 1915 le caratteristiche della guerra di
posizione: nelle forme del combattimento di montagna
commisto a quello di trincea, da Plezzo sino al Collio;
di un’azione esclusivamente di trincea, da Gorizia al
mare. Sino a Caporetto, a parte alcuni limitati
progressi da parte del Regio Esercito, il fronte
dell’Isonzo mantenne una sostanziale staticità.
Nell’impossibilità di superare di slancio le difese
austriache anche gli italiani si aggrapparono al terreno,
in un primo tempo con intenti provvisori. Le posizioni
raggiunte vennero unificate, armonizzate nel tracciato,
rafforzate, fino a costituire un enorme campo
trincerato predisposto per preparare le offensive oltre
il ciglione carsico, verso l’interno dell’altopiano, e
resistere a possibili contrattacchi. Molti memorialisti
austriaci, come Fritz Weber o Joseph Seifert, ricordano
con ammirazione la capacità costruttiva e l’ingegnosità
del Genio italiano nell’edificare le opere. Alle spalle,
nella pianura del Friuli orientale, un imponente
sistema di retrovia alimentava la guerra italiana.
“Un macello senza esempio!”. L’uomo, il campo di
battaglia, la lotta
I due avversari articolarono e consolidarono sul fronte
giuliano le loro potenzialità militari ai massimi livelli,
ma all’interno di uno schema sostanzialmente
immutabile: offensiva italiana, difensiva austriaca.
Livellati dalla logica della concatenazione attaccocontrattacco, i reparti italiani o imperiali dissipavano
la loro forza nel guadagnare o conservare terreno,
uniche e monotone finalità tattiche. Le perdite subite
dagli assalitori e dai difensori furono ingentissime,
neanche troppo lontane nel numero. “19 luglio (1915).
Da impazzire! Morti, feriti, perdite enormi! È finita. Un
macello senza esempio! Uno spaventevole bagno di
sangue! Il sangue scorre ovunque e tutto all’ingiro
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morti e brandelli di cadaveri, così che…”: sono le
parole, troncate, di un taccuino d’appunti, trovato
sull’altopiano di Doberdò in mano ad un giovane
ufficiale austriaco deceduto.
L’inospitale terreno dell’altopiano carsico o del medio
e alto Isonzo non concedeva favori ad alcuno. Le
posizioni venivano prese, perdute, riprese. I vantaggi
iniziali, o tecnici, o di forza numerica e materiali, o
legati al tipo di condotta tattica, erano cancellati da
una lotta all’estremo, in un ambiente ostile. I sistemi
di trincee vennero progressivamente rafforzati e
migliorati, armi o tecniche nuove (o antiche, per certi
versi) vennero impiegate per sfondare o rendere
imprendibile la linea di difesa.
Padre Agostino Gemelli, figura di rilievo della cerchia
cadorniana, riteneva che la massificante prassi di
trincea potesse generare soldati passivi e rassegnati,
spersonalizzati, inclini alla cieca obbedienza e perciò
docili strumenti di una conduzione autoritaria della
guerra. In realtà, rispetto alle labirintiche ed occulte
strutture di trinceramento del fronte occidentale, dove
sorsero vere cittadelle sotterranee, le fortificazioni
carsiche e montane sulla linea dell’Isonzo non
consentirono un ancoramento in profondità al terreno,
a causa della sua particolare e scabra conformazione
(rocce, caverne, doline) (Fabi, 1994). Si può presumere
che ciò determinasse una minor dipendenza del
combattente dalla trincea, ma, d’altro canto, in un
terreno scarno di coperture, anche contegni meno
prevedibili e maggiori escursioni comportamentali nel
soldato.
Solide trincee italiane in vista del monte Sei Busi; SFEI, 1916 (L.
Fabi, La prima guerra mondiale 1915-1918, Editori Riuniti, Roma
1998, p. 106)
Per la sua durata, per l’impossibilità di essere
militarmente risolutiva, per la consistenza dello sforzo
produttivo e di mobilitazione umana richiesto al paese,
per l’estensione dei servizi finalizzati al conflitto, per
il logoramento imposto ai combattenti, la guerra di
posizione si fissò, e appare ancora nel nostro
immaginario, come l’espressione più tipica della
“guerra totale”, ovvero di una tipologia di conflitto che
solo
la
società
di
massa,
del
consenso,
dell’industrializzazione - elementi raggruppabili in
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un’unica categoria di pensiero, la modernità - poté
esprimere. La trincea fu, in questo senso, il luogo
primario della nazionalizzazione delle masse, l’officina
della trasformazione e del cambiamento.
[Angelo Visintin]
Vita in trincea
La trincea
La prima guerra mondiale è in sostanza una guerra
statica: i fronti occidentali (franco-tedesco e italoaustriaco) in realtà non variano per tutta la durata del
conflitto, se si eccettuano alcune avanzate, seguite da
ripiegamenti, e la rotta di Caporetto. In un tale
contesto è evidente che lo spazio di vita proprio del
soldato-massa, come ormai si possono definire i
combattenti, è la trincea. Le virtù richieste ai soldati
in tale situazione sono pertanto obbedienza, pazienza
e resistenza alle sofferenze, alle privazioni e
all’angoscia di trovarsi sempre a un passo dalla morte.
In genere si pensa alle trincee come a postazioni
strutturate per la difesa degli occupanti, ma ciò vale
solo per quei tratti del fronte in cui le autorità militari
prevedono il verificarsi di scontri, ad esempio lungo le
Alpi e al confine orientale italo-austriaco, e per le
immediate retrovie delle prime linee.
Le trincee all’inizio rimangono, tuttavia, per lo più
scoperte, sono semplici fossati, scavati in fretta sotto
il fuoco dei fucili, dei cannoni e degli shrapnel.
Dall’analisi del territorio del fronte dell’Isonzo e dai
documenti a disposizione (diari di ufficiali e soldati,
prospetti di lavori di trinceramento, fotografie, ecc.) si
coglie la precaria situazione dei soldati schierati in
questo settore. Le trincee scavate tra le rocce, dove
possibile, protetti da sacchi di terra e da altro
materiale reperito in loco, non offrono certo un sicuro
riparo, soprattutto laddove le prime linee distano solo
pochi metri da quelle del nemico (una decina sul San
Michele). E’ in esse che i soldati devono condurre la
loro
vita
quotidiana,
sempre
in
attesa:
dell’avvicendamento, del rancio, della posta,
dell’ordine di attacco.
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combattenti, arruolati tra il 1914 e il 1918,
provenivano, infatti, in larga parte da un mondo nel
quale la scrittura era prerogativa di pochi e in cui
l’analfabetismo raggiungeva percentuali molto elevate.
Per i soldati italiani, di estrazione prevalentemente
rurale, la guerra fu il modo per avvicinarsi alla
scrittura e alla lettura per mantenere un qualche
contatto con l’ambiente di provenienza mediante la
corrispondenza, sempre rigidamente controllata dalla
censura. Il suo contenuto va perciò letto in controluce,
in quanto per conoscere e capire la realtà della vita al
fronte diventa più importanti il non scritto che
l’espresso.
Il bisogno di scrivere
La scrittura risponde anche al bisogno individuale di
definire la propria condizione in una vicenda che si
presenta, anche agli occhi dei più semplici, come una
svolta di portata mondiale. Da qui il fiorire della
diaristica, la quale, in quanto scrittura intima,
dovrebbe essere più libera dalle preoccupazioni per la
censura. In realtà, anche in questo tipo di scritti
affiora il timore di andare oltre i limiti; una sorta di
autocensura impedisce di esporre con realismo fatti cui
si è partecipato o assistito e ciò per non cadere nello
sconforto e nell’angoscia.
L’esperienza della trincea
La vita in trincea è narrata da libri – basti ricordare Le
feu di Henry Barbusse (1916), Trincee. Confidenze di
un fante di Carlo Salsa (1924), Viva Caporetto di Kurt
Suckert/Curzio
Malaparte
(1921),
Un
anno
sull’altipiano di Emilio Lussu (1945) – e presentata da
famosi film All’ovest niente di nuovo di Milestone
(1930), Orizzonti di gloria di Stanley Kubrik (1957),
Uomini contro di Francesco Rosi (1971) – i primi, scritti
da uomini che l’esperienza della guerra l’avevano
vissuta e quindi rielaborata, i secondi, da registi, che
attingendo a documenti ed esperienze vi hanno
costruito un discorso critico, quasi sempre polemico
In una trincea italiana – Museo della Guerra, Rovereto [L. Fabi,
nei suoi confronti.
F.Macchieraldo (a cura di), 1915-1918 cento foto una guerra,
Ben diverso è il caso delle testimonianze offerteci dai Provincia di Biella - Eventi & Progetti Editore, p. 57)
diari e dalla corrispondenza. Già il solo fatto che il
primo conflitto mondiale ci restituisca un numero Si scrive nei momenti di riposo, si scrive
elevato di registrazioni di esperienze scritte in prima nell’immediatezza dell’avvenimento, si scrive in
persona da soldati semplici è di per sé significativo. I prossimità del campo di battaglia cosparso di cadaveri
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di compagni e nemici dilaniati e non ancora raccolti, si
scrive mentre continuano i tiri di artiglieria. La
stanchezza delle notti trascorse senza dormire
esaspera la percezione dell’orrore. Si scrive mentre si
aspetta il rancio che non sempre arriva, perché i pochi
chilometri che separano le retrovie dal fronte sono
esposte al nemico.
Le condizioni di vita
I pasti consumati dai soldati spesso sono freddi. Le
razioni non sufficienti. Fumando si inganna l’attesa e la
fame. A volte manca l’acqua per bere, non ci si può
lavare per togliersi di dosso il fango e la sporcizia.
Nulla di strano che in tali condizioni con il passare del
tempo i soldati diventino sempre meno reattivi e
cadano in uno stato di apatia. Se una certa dose di
remissività è ben accetta ai comandi (il soldato in
trincea deve saper sopportare i disagi e “spegnere” la
propria coscienza), a lungo andare l’apatia può
risultare pericolosa. Così, per ridare slancio allo spirito
combattivo degli uomini si ricorre alla propaganda
mediante cartoline postali, manifesti, giornali, ecc. Ma
il trascorrere dei mesi e l’inutilità dei massacri fanno
venir meno la fiducia nella conclusione rapida della
guerra e nel conseguimento dei risultati. Anche chi si
era arruolato con entusiasmo o sentiva la
partecipazione al conflitto e alla difesa della patria
come un “sacro dovere” è preso dal dubbio, dalla
sfiducia, da un senso di frustrazione. Cerca solo di
sopravvivere.
L’identificazione con il reparto e lo spirito di corpo
L’unica forma di conforto e di sostegno morale per il
soldato è lo spirito di corpo, che crea rapporti di
identificazione col reparto di appartenenza e di
solidarietà con i propri commilitoni, tanto solidi da
percepire la morte di uno di essi come perdita di parte
di sé (E.J. Leed, 1979, 1985).
A questa identificazione contribuiscono salmente
paradossalmente anche le licenze, durante le quali il
soldato prende coscienza che il mondo di pace, quale
egli ricordava, non esiste più, perché l’intera vita civile
è sconvolta. Semmai la guerra fosse finita, come
sarebbe stata l’esistenza? Il suo rientro al reparto
avviene in condizioni psicologiche peggiori di quando
era partito, tanto da sentire come sua vera famiglia
quanti condividono con lui le stesse condizioni di vita e
corrono gli stessi rischi.
[Massimo Palmieri]
Controllo militare e fuga dalla guerra
Alcuni dati del disagio italiano
L’atteggiamento del soldato sul Carso e sulla linea
dell’Isonzo, come quello dei suoi commilitoni di ogni
nazionalità disseminati sui fronti della guerra europea,
mostra aspetti mutevoli e quasi sempre contrastanti.
Stati d’animo come l’atonia e l’attivismo temerario, la
rassegnazione e l’entusiasmo, la violenza e la pietà, lo
spirito di gruppo (“comunità di trincea”) e la
disgregazione dei rapporti si fondono con le storie
particolari degli individui.Gli stessi confini tra adesione
Il macabro gioco inscenato da una camerata di Ampezzo che simula
un'esecuzione (L. Fabi, G. L. Martina, G.Viola, Il Friuli del '15/18.
Luoghi, itinerari, vicende di una provincia nella Grande Guerra,
Provincia di Udine, 2003, p. 57)
alla guerra e dissenso si mantengono labili e
permeabili. Il primo conflitto mondiale, d’altra parte,
pone in modo mai visto in precedenza i temi del
consenso e della motivazione del popolo-nazione alla
lotta, del controllo militarizzato della società, dell’uso
di mezzi disciplinari e coercitivi negli eserciti di massa.
Il problema delle manifestazioni di rifiuto della guerra
diventò cronico nel momento in cui i caratteri della
guerra di posizione e del conflitto di lunga durata si
solidificarono: il senso ossessivo della morte
incombente e casuale; i ritmi lenti e logoranti della
vita di trincea, che lasciavano posto all’attesa e alla
repentinità
dell’assalto;
la
mancanza
dell’avvicendamento e del riposo nei reparti; per gli
italiani, infine, le modalità dell’offensiva ad oltranza,
cui faceva da contrasto la sostanziale immobilità del
fronte. La demoralizzazione e il senso di estraneità,
imputabili ad una guerra poco comprensibile nelle
motivazioni e negli obiettivi, inconcludente e
apparentemente senza fine, nonché il contemporaneo
ampliamento dell’apparato militare, determinarono la
crescita dei reati militari. La giustizia militare italiana,
che si avvaleva di un codice penale risalente alla metà
dell’Ottocento, agì estesamente e in maniera
repressiva: 350.000 procedimenti istruiti contro
soldati, in gran parte per diserzione, 4.000 condanne a
morte (750 eseguite) e 15.000 ergastoli comminati dai
tribunali a soldati per gravi reati, alcune centinaia di
sentenze di morte eseguite con procedure sommarie
(molte durante la ritirata di Caporetto), e, sullo
sfondo, un totale di diverse centinaia di migliaia di
processi intentati per renitenza alla chiamata alle armi
– molti emigrati non rientrarono dall’estero – e altre
mancanze (Forcella-Monticone, 1968).
Sono le cifre di un atteggiamento di grande severità,
sollecitata dal Comando Supremo e richiamata
continuamente da Cadorna attraverso missive e
circolari interne, finalizzata sistematicamente alla
prevenzione
e alla
dissuasione,
a suscitare
atteggiamenti di passiva obbedienza. La repressione
attuata dalla giustizia militare era in realtà un aspetto
estremo dell’articolato sistema di controllo attuato
nella zona di guerra, tanto nel sistema delle trincee
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quanto nelle retrovie, dalle gerarchie militari e
dall’apparato di sorveglianza (i carabinieri, che
svolgevano un compito di polizia militare; gli Uffici
informazione, che accertavano lo spirito della truppa;
la censura degli scritti; nei casi estremi, la capacità
repressiva dell’artiglieria e delle mitragliatrici). D’altro
canto, le forme di estraniazione dalla guerra
percorsero itinerari di psicologia individuale e
collettiva più sotterranei: nevrosi, stress da trincea,
invalidità psicofisiche. L’attesa di una rigenerazione
politica
dai
tratti
ingenui
e
millenaristici,
spiccatamente dal 1917, e le posizioni mistiche e
devozionali diffuse fra i soldati sono nel contempo
indice di alienazione e speranza.
Tuttavia, altre dinamiche interne, individuali o
indotte, intervennero nella tenuta complessiva
dell’apparato militare. Né l’esercito italiano, né gli
altri eserciti in campo rimasero in trincea soltanto in
ragione del sistema repressivo.
[Angelo Visintin]
“Scampare la guerra”
I reati militari
Diserzione,
rifiuto
di
obbedienza,
diserzione,
defezione, autolesionismo e malattia, nevrosi, “follia”
(impulso
profondo,
irrazionale
alla
fuga,
reinterpretazione della realtà), “codardia”, sino ai rari
sprazzi di rivolta ed ammutinamento, sono atti diversi,
coscienti o meno, di una logica umana di sopravvivenza
che comprendeva anche lo scegliere la buca o il riparo
“giusti”, evitare il proietto nemico riconoscendone il
suono prodotto, ricercare mansioni meno esposte
(“imboscamento”).
L'uccisione del maggiore Melchiorri in un fotogramma del film
“Uomini contro” di Francesco Risi (M. Pluviano, I. Guerrini, Le
fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, Gaspari Editore,
Udine 2004, p. 145)
In generale gli atti di indisciplina avevano luogo non
tanto, come si sarebbe portati a pensare, “in faccia al
nemico” o “in presenza del nemico”, nelle circostanze
cruciali dell’attesa o dell’assalto, ma piuttosto nei
momenti di riposo nelle retrovie. La mente sgombra
dalla
preoccupazione
della
morte
vicina,
l’allentamento della tensione, la mancanza del ferreo
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controllo e della sorveglianza attuati negli spazi
angusti propri della prima linea, la presenza delle
larghe distese della pianura friulana e veneta
facilitavano la diffusione dei casi di fuga dalla guerra,
talora anche privi di motivazione consapevole e frutto,
piuttosto, di ingenuità e ignoranza delle regole. La
giustizia militare però agiva impietosa: Saciletto, paese
della Bassa cervignanese dove operava un tribunale
militare della III armata e nei cui pressi avvenivano le
esecuzioni, divenne tra i soldati, per assonanza,
“Fuciletto”.
Un ampio spazio di discrezionalità era consentito agli
ufficiali nella gestione rapida della giustizia, in
circostanze non ordinarie o in quelle urgenti
dell’azione
in
prima
linea
o
nelle
zone
immediatamente retrostanti. In caso di grave reato,
l’autore era passibile di fucilazione immediata (Art. 92
del Codice militare penale). Esemplarità e dissuasione
da
comportamenti
disgreganti
(sedizione,
sbandamento…) erano i criteri fondanti di queste
procedure estreme, spesso prese nel corso del fatto
d’armi. Esecuzioni sommarie e decimazioni appaiono
con frequenza nella memoria della guerra.
Nell’esercito imperiale
Un esercito multinazionale, come quello austroungarico, era di per sé di difficile conduzione. Per una
lunga consuetudine, il regime disciplinare nei reparti
era rigido, anzi fondato sull’obbedienza cieca degli
eserciti di professione. Erano in vigore forme di
punizione corporale, come lo Zwei Stunden Abhanden
(“due ore appesi”), e il controllo operato
dall’ufficialità, circondata da un’aura di inflessibilità e
distacco, era severo. La giurisdizione militare penale,
che prima del conflitto - retaggio feudale - era
riservata ai membri delle forze armate anche negli
ambiti delle competenze generali della giustizia, venne
estesa con le ordinanze del luglio 1914 all’intera
popolazione per un’ampia serie di reati, che nel
conflitto avrebbero potuto assumere significati militari
o attinenti la sicurezza pubblica. La procedura penale,
di recente introduzione, era invece ispirata a principi
di garanzia per l’imputato, civile o militare che fosse,
e talora si poneva in contrasto con l’apparato
repressivo.
Nella
zona
di
combattimento,
naturalmente, venivano poste in atto dai comandi con
larghezza e discrezionalità le misure disciplinari
sommarie, al pari di quanto accadeva nell’esercito
italiano e negli altri eserciti in lotta.
Il peso di un tale sistema penale sulla tenuta di un
apparato militare esposto a tensioni nazionali è
difficile a valutarsi. Ad esempio, i reparti sloveni e
croati furono esenti da episodi gravi di sbandamento o
sedizione (a differenza di unità ceche o italiane), pur
se non mancarono diffusi episodi individuali di
diserzione o fuga. Ebbero probabilmente una maggiore
importanza altri fattori: il fatto che la lealtà all’impero
era per molti soldati coniugabile con l’orgoglio per la
propria “piccola patria”, o l’uso del motivo
propagandistico, sul fronte di sud-ovest, della guerra di
difesa della nazione slava dall’invasione italiana, o
ancora il radicato fatalismo religioso e l’obbedienza
propri delle popolazioni rurali.
Consorzio Culturale del Monfalconese
Nel 1917, però, l’alto numero di prigionieri
consegnatisi agli italiani durante la decima ed
undicesima battaglia dell’Isonzo mostrò ai comandi i
segni preoccupanti di una crisi che, dopo tre anni di
guerra, cominciava a metter piede in una compagine
sino ad ora solida e motivata.
Il 1918
Dopo la ritirata sul Piave, la gestione di Armando Diaz è unanimemente riconosciuto dagli storici - significò
tanto sul piano della condotta di guerra italiana
(stretta difensiva) quanto su quello della direzione
disciplinare (miglioramento delle dure condizioni del
soldato e della vita in trincea) il superamento, certo
resosi ormai necessario, dell’ossessivo sistema
cadorniano. Non cessarono tuttavia le manifestazioni di
disagio verso la guerra, le forme di fuga e rifiuto, la
repressione degli organi militari.
L’inasprimento delle pene e le condanne comminate
dalla giustizia militare austriaca sul fronte del Piave e
all’interno, nell’ultimo anno di guerra, testimoniano
invece il processo di disgregazione in atto nell’Impero
e la diffusione del malcontento sociale. Nell’inverno e
nella primavera del 1918 ebbero luogo infatti gravi
episodi di ammutinamento provocati dal disagio per la
situazione materiale e di servizio e da una presa di
coscienza rivoluzionaria - diffusa fra gli Heimkehrer, i
prigionieri rientrati dalla Russia - o nazionale
(Schindler, 2002).
Una grave sedizione infiammò gli equipaggi delle navi
da guerra in rada alle Bocche di Cattaro. I marinai si
fecero promotori di precise rivendicazioni alle autorità
(Was wir wollen, Ciò che noi vogliamo). Nel maggio,
gruppi di militari sloveni e di altre nazionalità si
ammutinarono a Judenburg, a Murau, a Radkesburg. Le
rivolte vennero represse.
Nel Finis Austriae aumentarono le diserzioni, sino a
coinvolgere migliaia di soldati che si diedero alla
macchia nelle zone impervie e boscose dell’interno (il
cosiddetto Zeleni Kader). Nei centri d’addestramento
continuarono le proteste.
Prigionieri di guerra
Le enormi masse di prigionieri di guerra catturati
dall’avversario crearono sin dal primo anno di guerra
gravi
difficoltà
ai
governi.
Le
convenzioni
internazionali imponevano ai belligeranti di trattare
con umanità l’avversario che si era arreso e di
provvedere al suo internamento in una struttura di
prigionia. I governi, d’altra parte, dovettero
provvedere alla cura dei prigionieri del proprio
esercito, facilitando i contatti con le famiglie e
l’inoltro dei pacchi. Aleggiava spesso negli ambienti
militari ed anche presso l’opinione pubblica la
convinzione che il soldato che si arrende “non ha ben
meritato” la fiducia dei superiori, ovvero il sospetto
che potesse aver abbandonato le armi.
Questa forma mentale fu particolarmente diffusa
presso le autorità italiane, che durante il conflitto
lesinarono parecchio l’assistenza ai propri prigionieri,
creando un filtro di impassibile chiusura nelle relazioni
con i detenuti dei campi di prigionia. E la riprova si
ebbe a guerra appena terminata, come testimonia
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l’inumano trattamento di oltre centomila prigionieri
(“quelli di Caporetto”) concentrati nel punto franco di
Trieste e poi sottoposti ad umilianti interrogatori e a
forme di ulteriore internamento nei campi di raccolta
di Castelfranco Emilia, Gossolengo, Rivergaro.
Di più, il capitolo dei prigionieri è stato letteralmente
cancellato dalla memoria per decenni, a non gettare
un velo d’ombra sui fasti della vittoria. Le cifre
ricorrenti parlano di 600.000 prigionieri, di cui forse un
centinaio di migliaia morto per ferite e stenti durante
e dopo il conflitto: una moltitudine. Il che
indirettamente palesa i limiti della conduzione della
guerra
italiana,
indirizzata
ripetitivamente
all’offensiva, e, al contempo, il senso, diffuso tra i
soldati, dell’insostenibilità della guerra. Quasi la metà
dei prigionieri fu catturata nel corso dell’offensiva di
Caporetto e le dimensioni dell’evento mettono in
risalto la gravità della sconfitta e la problematica
tenuta della compagine militare dopo le ossessive
offensive sull’Isonzo.
I prigionieri austro-ungarici nel corso della guerra sul
fronte italiano non superarono le 180.000 unità, e
anche questo è spiegabile con la specifica tipologia di
conduzione bellica da parte imperiale. Nelle fasi finali
della guerra, ormai avviato il processo di sfaldamento
dell’esercito asburgico, durante le operazioni
dell’offensiva di Vittorio Veneto e successive furono
fatti da parte italiana oltre 400.000 prigionieri.
[Angelo Visintin]