Formato pdf - Il Porto di Toledo
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Die Verschollenen: la fuga senza fine di Karl Rossmann e Franz Tunda 1. Introduzione Il 1927 vede l’uscita di due importanti romanzi in lingua tedesca: Fuga senza fine di Joseph Roth e America di Franz Kafka. Nel secondo caso si tratta di una pubblicazione postuma, curata dall’amico dello scrittore praghese Max Brod, che diede anche il titolo al romanzo, che invece, nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto chiamarsi Der Verschollene, ovvero “Il disperso”. È sulla base di questo titolo che è possibile stabilire un paragone tra il sedicenne Karl Rossmann e Franz Tunda, il protagonista di Fuga senza fine (che di anni ne ha circa il doppio): anch’egli infatti è un Verschollene. A definirlo tale non è solo la sua condizione iniziale di prigioniero, ma anche il testo stesso in almeno due occorrenze: I dispersi [Verschollene] tuttavia hanno un fascino irresistibile. Un uomo presente, uno sano, un malato e in alcune circostanze anche un morto lo si tradisce. Ma un disperso in circostanze misteriose lo si aspetta fino a quando è possibile. Molteplici sono le cause dell’amore femminile. L’attesa è una di queste. Si ama la propria nostalgia e la ragguardevole dose di tempo investito. Ogni donna si disprezzerebbe se non amasse l’uomo che ha atteso. Per quale motivo, tuttavia, aspettava Irene? Perché gli uomini presenti sono di gran lunga secondi ai dispersi [Verschollenen].1 E ancora il fratello (solo biologico) di Tunda vede nella parola “disperso” (“Verschollene – was ein Wort!”) l’apoteosi della “conciliazione”, valore al quale egli ha improntato la sua intera esistenza. Tuttavia non è solo per una questione di termini che Franz Tunda e Karl Rossmann sono accostabili, ma anche perché seguono un percorso molto simile: il loro moto è quello di una fuga ininterrotta. Quali siano le modalità di questa fuga e come essa si configuri anche in rapporto con altri fenomeni culturali di poco posteriori e, tuttavia, ad essa affini, sarà qui oggetto di analisi. 2. La terra promessa It’s a place where you did not belong Where time itself was mad and far too strong Where life leapt up laughing and hit you head on And hurt you, didn’t it hurt you, Cassiel? Nick Cave, Cassiel’s song Karl e Tunda compiono entrambi un viaggio verso ovest, ma di segno opposto: per il primo si tratta, infatti, di un allontanamento dalla casa (alla maniera degli eroi fiabeschi) a seguito di un peccato (tuttavia senza colpa, come avviene di norma nei 1 Ioseph Roth, La leggenda del santo bevitore e Fuga senza fine, Newton Compton, Roma, 2010 p. 62 testi kafkiani e come avverrà anche qui ad ogni svolta del destino di Karl) mentre per Tunda si tratta di un ritorno a casa, che però si rivelerà impossibile. Kafka si confronta qui col mito dell’America, la nuova terra promessa (di cui egli ebbe solo una conoscenza indiretta), come sottolinea anche il riferimento a Ramses: E biblica è anche la valenza assunta da Ramses, la città che accoglie Karl dopo New York e che evoca l’amarezza provata nell’omonima località (secondo la testimonianza dell’Esodo, 1 , 1114) dal popolo ebraico schiavo d’Egitto.2 Il mancato inserimento di Karl dimostrerà il fallimento del sogno di libertà (la Statua della Libertà brandisce una spada) e di cosmopolitismo (la lite tra il fochista tedesco e il rumeno Schubal) rappresentato dal nuovo continente. Franz Tunda, invece, sta tornando in patria, a Vienna, capitale di quell’Impero Austroungarico ormai finito e fallito insieme alla possibilità di una coesistenza di genti diverse sotto una stessa egida. Franz non riuscirà a reinserirsi in quel mondo, che del resto ormai non esiste più, ma non si tratta solo di questo: Franz è diventato uno straniero. L’anonimo droghiere viennese vede realizzata nella sua figura l’immagine stereotipa del bolscevico. Allora, a ben guardare, anche Tunda si è in realtà allontanato da casa: ha lasciato Baranowicz, ovvero colui che sente come il suo vero fratello, per far tappa poi presso quel fratello di sangue mai amato. E ad un’ironica osservazione di uno dei signori che frequentano l’ambiente colto della città renana in cui vive Georg Tunda, Franz risponde con una secca e decisa professione di amore nei confronti della Russia. Verrebbe da chiedersi, dunque, cosa abbia spinto Tunda ad abbandonare la Russia. E infatti a questa domanda risponde il narratore (che, nella finzione, sarebbe l’autore stesso, amico del protagonista): Perché aveva abbandonato la Russia? Si potrebbe chiamare Tunda immorale e privo di carattere. Gli uomini che hanno una strada chiara e una meta morale, e anche coloro che hanno ambizione, sono diversi dal mio amico Tunda.3 Egli appare, infatti, lungo tutto il romanzo, piuttosto abulico e sembra che compia questo viaggio per dovere o per inerzia, e, comunque, malgrado se stesso. Così Karl, che viene sospinto da una parte all’altra suo malgrado, senza mai averlo voluto e, anzi, contro il suo desiderio di stabilità e i suoi sforzi (ed in ciò si differenzia dal protagonista di Fuga senza fine) a causa di qualche errore che non si è accorto di aver commesso e al quale non fa mai in tempo a rimediare. 2 3 Giulio Schiavoni, Introduzione ad America, BUR, Milano, 1990 p. 8 Joseph Roth, ivi, p. 86 3. La fotografia Cercai di richiamarmi alla mente il volto di Lucie [Weisberger], trovai il ricordo fuggevole dei suoi molli tratti infantili, e improvvisamente quel volto e la figura incerta di lei divennero una istanza perentoria […]. Peter Weiss, Punto di fuga All’interno dei due romanzi, un momento significativo è quello in cui il protagonista si ferma ad osservare la fotografia di chi è stato lasciato in patria. Per Karl si tratta di una foto che ritrae i genitori: egli si mette a contemplarla nel tentativo di tenersi sveglio per sorvegliare la valigia, ma nel momento in cui l’unico oggetto che lo lega a casa e al suo passato gli viene sottratto sarà lui ad offrire come riscatto tutti i suoi averi e cercherà in tutti i modi di riaverlo senza però pervenirvi. Nell’osservare la foto, il suo sguardo si sofferma prima sul volto del padre, che però resta inanimato ed impenetrabile; al contrario la figura della madre sembra quasi prendere vita e i sentimenti celati dietro il suo sorriso contratto appaiono evidenti quasi in modo osceno. In quest’occasione, Karl mette in dubbio il giuramento fatto a se stesso di non cercare mai più un contatto con la famiglia che lo ha mandato via e pensa di scrivere ai propri genitori, o meglio, cerca nei loro volti immobili la presenza di un desiderio di ricevere notizie del figlio. Anche Tunda è accompagnato nel suo viaggio dal ricordo di una persona in forma di fotografia. Si tratta di Irene, la sua fidanzata: Tunda avvertiva sul petto la confortante rigidità del cartoncino sul quale era ritratta la sua bella promessa sposa. La fotografia era stata scattata da un fotografo di corte che forniva alle riviste di moda ritratti di dame dell’alta società. In una serie intitolata “Spose dei nostri eroi” era da trovarsi anche la signorina Hartmann, in qualità di fidanzata del valoroso tenente Tunda; aveva ricevuto il giornale una settimana prima di essere fatto prigioniero. Dalla tasca della giacca Tunda poteva estrarre agilmente il ritaglio di giornale con la foto, ogni volta che era colto dal desiderio di contemplare la sua futura sposa. Già la piangeva, prima ancora di averla vista. La amava doppiamente: come obiettivo da conquistare e come una cosa perduta. 4 L’agile gesto di tirar fuori la fotografia verrà compiuto più volte all’interno del romanzo e si può dire che la ricerca della fidanzata perduta sia l’unico motivo che spinge Tunda a compiere il suo viaggio, tuttavia sempre più pigramente e con meno speranze. L’ex tenente, ex prigioniero, ex rivoluzionario, ex direttore di cinema, persino ex reduce rivedrà infine Irene Hartmann, ma senza riconoscerla, né esserne riconosciuto. Il rapporto che lui ha con lei, o meglio, col ricordo di lei è di tipo “romantico”, dove con questa definizione si intende il “piacere di vivere in una non realtà”5. È dunque ad un’Irene “che non figurava nemmeno all’anagrafe” che Tunda è rimasto fedele. 4 5 Ivi, p. 59 Ivi, p. 136 Questa fedeltà, ovviamente, non va intesa nel senso comune del termine: Tunda sarà legato a molte donne nel corso della sua fuga. Tra queste un ruolo particolare è ricoperto da Natasha Alexandrovna, giovane rivoluzionaria i cui tratti di aggressività, mascolinità, lotta e violenza, ma di sostanza borghese la pongono su un piano di affinità con Klara, la ragazza incontrata da Karl Rossmann nel terzo capitolo di America. 4. La caduta C’est l’histoire d’un homme qui tombe d’un immeuble de cinquante étages. Le mec au fur et à mesure de sa chute se répète sans cesse pour se rassurer: jusqu’ici tout va bien, jusqu’ici tout va bien, jusqu’ici tout va bien. Mais l’important c’est pas la chute: c’est l’atterrissage. Hubert Koundé, La Haine, scritto da Mathieu Kassovitz Ciò che spinge un emigrante a partire è il desiderio di ascesa sociale. E anche Karl, benché non sia questa la prima ragione della sua partenza, vuole affermarsi e conquistarsi un posto nella società. Ad ogni nuovo stadio della sua “avventura” sembra poterci riuscire. Ogni tappa è accompagnata da una rinnovata speranza, ma di fatto egli viene a trovarsi sempre più in basso rispetto al punto in cui si trovava prima. La fuga di Karl è quindi in realtà un percorso di caduta. Egli si trova, a metà circa della sua storia, ad esercitare il mestiere di lift presso l’Hotel Occidental. Questo impiego ha la valenza simbolica proprio dell’ascesa sociale e, per Karl, si tratta, come si vedrà, dell’ultima chance, dell’ultima spiaggia prima della degradazione totale raggiunta nella tappa successiva: il soggiorno in casa di Brunelda. L’esperienza di Karl all’Hotel Occidental si conclude con uno degli episodi più “kafkiani” del romanzo: la tortura subita nella guardiola del portiere. Fino a questo momento, il lettore ha visto Karl più volte fuggire o salvarsi passando attraverso porte, la cui presenza veniva sempre sottolineata. Non sfugge allora l’importanza della figura del capoportiere e della frase da lui pronunciata: Del resto come capoportiere sono in certo senso posto al di sopra di tutti, da me dipendono infatti tutte le porte dell’albergo, il che vuol dire questa porta principale, le tre porte di mezzo e le dieci di servizio, per non parlare delle tante porticine e uscite senza porta.6 È evidente che qui per Karl non c’è scampo ed il capoportiere assume l’aspetto di un ben più noto portiere: Caronte.7 6 Franz Kafka, ivi p. 249 cfr. “Inferno heisst der Ort an dem wir sind/ Ich bin Portier hier und also solcher weiss ich/ in welchem Bau und welchem Herrn ich diene/ Wer eintritt hier der hat nichts mehr zu tun/ mit jenen die den Schritt mit uns nicht halten konnten/ und die gebunden liegen in Verzagtheit” Peter Weiss, Inferno, Mimesis, Milano - Udine 2008 p. 38 7 Anche il procedere di Tunda è un caracollare di posto in posto. Egli sembra “cadere come corpo morto cade”. Il ritmo di questa caduta è abbastanza sostenuto: nelle poche pagine complessive del romanzo, il protagonista compie un numero di viaggi piuttosto elevato. Questo viaggio, che doveva essere un viaggio di riconquista della propria identità, lo porta invece ad una condizione di completo straniamento (Entfremdung) così come è descritto nell’omonima poesia di Ingeborg Bachmann: Ich kann in keinem Weg mehr einen Weg sehen. Queste parole sono sovrapponibili a quelle con cui si chiude il romanzo: In quell’ora, il mio amico Tunda, trentadue anni, fresco e in salute, un uomo giovane e forte, dai molti talenti, si trovava sulla piazza della Madeleine, al centro della capitale del mondo e non sapeva cosa doveva fare. Non aveva lavoro, non aveva amore, non aveva desiderio, non aveva speranza, non aveva ambizione e nemmeno egoismo. Così superfluo come lui non c’era nessuno al mondo.8 Inoltre sia in italiano che in tedesco il termine straniamento o “Entfremdung” contiene l’indicazione di un qualcosa di straniero, “fremd”. Il protagonista di Fuga senza fine, infatti, è ormai diventato uno straniero assoluto: non lo è in relazione ad un solo luogo o a tutti i luoghi che non siano il proprio, ma è straniero dappertutto. Sia Kafka che Roth raccontano, dunque, una caduta, ma si fermano un secondo prima dell’atterraggio. Il primo lascia il romanzo incompiuto, mentre il secondo dà al lettore un finale in qualche modo aperto poiché non viene detto cosa sarà di Tunda. 5. I dispersi e i salvati Wohin gings, da’s nirgendhin ging? Paul Celan, Es war Erde in ihnen, in die Niemandsrose L’atterraggio avverrà qualche anno dopo, con la seconda guerra mondiale e la tragedia dei lager. Sia Kafka che Roth morirono molto prima che fosse attuata la “soluzione finale” e benché non si possa attribuire loro la capacità di aver profetizzato ciò che non era neanche immaginabile, tuttavia essi sembrano aver percepito e descritto con precisione il contesto dal quale pochi anni dopo sarebbe scaturito tutto ciò. Scrive Roth a proposito della Germania, vista attraverso gli occhi di Tunda: Sembravano aspettare, pronti al combattimento, un qualche nemico che, con loro grande rabbia non arrivava.9 8 9 Joseph Roth, ivi p. 139 Ivi p. 91 E così Kafka a Milena, traduttrice de Il fochista e grande amore dello scrittore: […] se mai potrei farti il rimprovero che degli ebrei che tu conosci (me compreso) – ce ne sono anche altri! – hai un’opinione troppo buona, talvolta li vorrei cacciare appunto perché ebrei (me compreso) tutti insieme nel cassetto del canterano, poi aspettare, poi tirare un po’ fuori il cassetto per vedere se sono tutti soffocati, altrimenti richiuderlo e continuare così sino alla fine. 10 Ebbene, sembrerebbe che dopo questo tipo di atterraggio, a causa di questo tipo di atterraggio ci si debba rialzare per riprendere la fuga. Ma è ancora possibile fuggire? Materialmente forse sì, tanto è vero che molti degli scrittori di lingua tedesca del dopoguerra vivranno una vita deterritorializzata. Si pone tuttavia la questione della legittimità di questa fuga e della sua rappresentabilità. Nel romanzo, di stampo autobiografico, Punto di fuga, Peter Weiss descrive così l’opera di un amico: Nei quadri più recenti, dipinti dopo la fuga, la stanza si era dissolta. Non c’era più nessun punto d’appoggio, nessun riparo, tutto avveniva all’aperto. Le figure di persone erano divenute più umane, non quanto ai tratti e alle membra ma quanto al dolore, al loro grave soffrire.11 La fuga non può essere rimozione, i sopravvissuti non possono nascondersi da quel particolare senso di colpa dell’essere ancora in vita mentre altri sono morti senza che lo si sia potuto impedire. E allora la fuga diventa una mera forma e si ripiega su se stessa: L’arte della fuga di Bach ispira sia il già citato Peter Weiss sia il poeta Paul Celan. La poesia Todesfuge è composta infatti secondo quelle stesse regole: la struttura fugata prevede un eterno ritorno e ricombinazione degli stessi temi e quindi, in qualche modo, come si è detto, un avvitamento. Forse la chiave di volta, il “punto di fuga” può essere individuato nella lingua. Ciò che Kafka fa, secondo Gilles Deleuze e Felix Guattieri, del suo linguaggio, si può dire che lo faccia anche del personaggio di Karl: Lo si spingerà sino a una deterritorializzazione che non sarà più compensata dalla cultura o dal mito, una deterritorializzazione assoluta, anche se lenta, coagulata, vischiosa.12 Anche in Fuga senza fine c’è un’identità tra linguaggio e personaggio, dal momento che la lingua utilizzata da Tunda gli serve come documento di riconoscimento presso il consolato. 10 Franz Kafka, Lettere a Milena, Mondadori, 2006 p. 51 Peter Weiss, Punto di fuga, Einaudi, Torino 1967 p. 37 12 Gilles Deleuze e Felix Guattieri, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 1996 p. 47 11 Ed è grazie al “ritrovamento della propria lingua” che il protagonista di Punto di fuga riesce a salvarsi: La libertà era assoluta, io potevo perdermi in essa e in essa potevo ritrovarmi, potevo abbandonare tutto, ogni sforzo ogni solidarietà, e potevo cominciare a parlare. E la lingua che ora mi veniva spontanea era quella che avevo imparato all’inizio della mia vita, la lingua naturale che era il mio strumento, che sola ancora mi apparteneva e che non aveva più niente a che fare col paese nel quale ero cresciuto. Questa lingua era presente ogni volta che volessi e dovunque mi trovassi. Potevo vivere a Parigi o a Stoccolma, a Londra o a New York, e sempre portavo quella lingua con me, anche nel bagaglio più leggero.13 Questa palingenesi avviene, significativamente, a Parigi, allora la “capitale del mondo”. A Parigi si concludono anche il romanzo di Roth e la vita di Paul Celan. Entrambi gli autori moriranno, in un certo senso, per annegamento: uno sommerso dall’alcol, l’altro nell’acqua della Senna, forse anche per non essere riuscito a trovare una possibilità di espressione e di identificazione nella lingua dei carnefici. 13 Peter Weiss, ivi, p. 214