Azione - Settimanale di Migros Ticino L`avventura comincia dalle radici

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Azione - Settimanale di Migros Ticino L`avventura comincia dalle radici
L’avventura comincia dalle radici
Alberi - Anche un pluri-centenario e gigantesco larice vive e prospera grazie a
milioni di radici millimetriche
/ 23.01.2017
di Alessandro Focarile
Roots, in inglese; racines, in francese; Wurzeln, in tedesco; korki, in russo. Radici, l’inizio di un
organismo vivente. Negli esseri umani le radici simboleggiano l’origine di tutti gli eventi positivi e
negativi nel decorso della loro vita. «D’una radice nacqui e io ed ella». (Dante Alighieri). Nel mondo
vegetale le radici sono il primo stadio della vita originata da un seme, che può avere dimensioni
millimetriche come nelle orchidee. Duplice e fondamentale è la loro funzione: assicurare
l’ancoraggio della pianta al suolo; permettere la trasmissione dell’acqua e dei nutrimenti (organici e
minerali) alla parte aerea della pianta stessa.
«Le radici formano un fronte in continuo avanzamento con innumerevoli centri di comando, cosicché
l’intero apparato radicale guida la pianta come una sorta di cervello collettivo, o meglio
un’espressione di intelligenza distribuita che, mentre cresce e si sviluppa, acquisisce informazioni
importanti per la sua nutrizione e la sua sopravvivenza. Ogni pianta è una rete internet vivente».
(Mancuso e Viola 2015). Nell’insieme della complessa e armonica architettura di un albero, la parte
aerea di sostegno – quella che vediamo – ha un volume di gran lunga inferiore a quella – che non
vediamo – sotto terra: la rizosfera, dal greco rhiza = radice.
Conosciamo alberi socialmente «amichevoli», che non si fanno concorrenza, salvo per lo spazio che
occupano. Per contro, conosciamo alberi che attivano, a livello radicale, una permanente lotta
chimica per il predominio del territorio. Come l’ailanto (Ailantus altissima – di cui si parla
nell’articolo apparso su «Azione» n° 24 del 13 giugno 2016) che sta creando non pochi problemi in
campo ambientale e forestale anche nel cantone Ticino. Oppure come il noce che non tollera la
presenza di altri individui. Non sono noti boschi di noci. In questo caso, attraverso le radici, si crea
un antagonismo biologico in virtù del quale sono elaborate e trasmesse sostanze tossiche quali lo
juglone, un alcaloide, che impedisce la presenza di altri alberi e di altri vegetali, anche nello strato
erbaceo. Una lotta continua a livello chimico inibitore, che si concretizza anche visivamente.
Conosciamo alberi che hanno un apparato radicale superficiale, «a pizza». È ben nota la congenita
modesta stabilità dell’abete rosso (Picea abies, peccio). E lo abbiamo constatato in occasione dei due
uragani Viviane (1990) e Lothar (1999), spettacolari per i loro effetti ambientali ed economici, che
hanno falcidiato l’abete rosso, i cui boschi di impianto artificiale, hanno subìto considerevoli danni in
Francia, nell’Altipiano della Svizzera centrale e fino in Cechia e in Polonia. Per contro, vi sono alberi,
come l’abete bianco (Abies alba) e i tigli, che hanno radici profondamente sviluppate verso il basso:
«a cavaturacciolo».
Le radici evidenziano le differenti esigenze ecologiche per quanto riguarda il clima locale, l’apporto
di acqua e di nutrimenti nel suolo, e le situazioni di impianto. Quelle del Pino cembro (Pinus cembra)
sono molto robuste e offrono un efficiente ancoraggio per la stabilità dell’albero nelle fessure delle
rocce e tra i massi in alta montagna, fino a 2900 metri di altitudine. Nei boschi alluvionali si creano
periodicamente variazioni di livello dell’acqua. Gli ontani, i salici e i pioppi possono produrre radici
avventizie sui tronchi, che restano a indicare chiaramente il livello dell’acqua di fiumi e torrenti nel
corso delle stagioni.
Sono ben note le formazioni arboree tropicali tipiche dei litorali marini, legate alle maree: le
mangrovie. Queste hanno radici avventizie sub-aeree che spuntano dal fusto e dai rami bassi degli
alberi, a differenti altezze in funzione del livello dell’acqua. La profondità delle radici può essere
notevole anche in alcune erbacee: quelle del granoturco possono raggiungere 130 centimetri in due
mesi, e quelle del verbasco (detto tasso-barbasso) fino a oltre tre metri!
E parliamo ora delle micorrize (dal greco mykes = fungo, e rhiza = radice). Queste pullulano negli
strati inferiori della lettiera decomposta di conifere e, soprattutto di latifoglie, dove il substrato è
ben aerato, non compatto, e agevola gli spostamenti di una ricca e composita mesofauna di
invertebrati, specialmente di insetti, che veicola le spore dei funghi e permette l’insediamento delle
micorrize. E questo grazie anche al valido e determinante ausilio dei millimetrici (0,7 – 1,3)
coleotteri ptiliidi, la cui presenza può raggiungere ben 320 individui in un chilo di lettiera
decomposta. Ricordiamo che, nel corso di un anno, nei boschi ticinesi cadono al suolo 270mila
tonnellate di materiale vegetale morto: fogliame, semi, ramaglia e legname.
Le micorrize costituiscono una convivenza mutualistica tra le ife dei funghi superiori «a cappello»
(come i boleti, le russule, le amanite) e anche i tartufi. Insieme a un altrettanto numeroso esercito di
piante per lo più legnose e arbustive. Queste produzioni si insediano sulle giovani estremità delle
radicelle dalle dimensioni di un capello (foto) che avvolgono come una sorta di manicotto (micorrize
ectotrofiche = che si nutrono dall’esterno). Le micorrize costituiscono, per le piante che le
posseggono, una necessità biologica, trattandosi di strutture nutrizionali e assorbenti. La micorriza è
preziosa in quanto consente l’assorbimento di sostanze minerali indispensabili, presenti nel terreno
ma poco mobili, quali il fosforo, il magnesio e il potassio. Infine, quelle benefiche impediscono
l’insediamento eventuale di funghi patogeni, che potrebbero compromettere la vitalità del vegetale.
In cambio di tutti questi favori biologici, il fungo (attraverso le micorrize) riceve dalle piante
carboidrati e una struttura di sostegno.
A un certo punto del cammino, l’uomo coltiva talvolta il desiderio ancestrale di conoscere le proprie
origini: da quale più o meno lontano antenato egli discende, e dove si trovano le sue radici. Il famoso
scrittore e giornalista nord-americano Alex Haley (1921-1992), discendente di un nero condotto
schiavo dalla natia Gambia (Africa occidentale), pubblicava nel 1974 con grande successo (sei
milioni di copie!) Roots, radici. Un libro straordinario che in cinquecento pagine ricostruisce la saga
famigliare durante duecento anni e sei generazioni «americane» di schiavi e di uomini liberi. Per
scrivere quest’opera, Alex Haley percorse quasi 600mila chilometri in tre continenti (America,
Europa, Africa) per ritrovare il villaggio natale del suo avo: le sue radici. E alla fine riuscì a scoprire
non solo il nome del suo antenato africano, ma anche la località precisa della sua nascita, e dove era
avvenuto il suo rapimento: il villaggio di Juffure, da dove nel 1767 all’età di 17 anni era stato rapito
da negrieri mercanti di schiavi, trasportato con molti altri infelici nel Maryland, e qui venduto a un
piantatore di cotone della Virginia, entrambi Stati degli allora nascenti USA.
Anche i salmoni dal mare devono risalire alle sorgenti che li hanno visti nascere, per assicurare la
continuità della loro vita.