Per non perdere - Roberto Maisto
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Per non perdere - Roberto Maisto
Per non perdere (di Roberto Maisto) Le luci delle sirene a tratti illuminavano la corsia preferenziale della superstrada che porta da Napphole all’hinterland nordest della città. La notte – per quanto potesse essere fredda una notte in un’estate come quella – non riusciva a rinfrescare l’asfalto bollente. Tutto sembrava fermo, neanche un soffio di vento a muovere le foglie degli alberi. Le ruote dell’ambulanza aderivano perfettamente al terreno durante la corsa senza quasi risentire dei fossi di cui era cosparsa la strada. Giunto all’incrocio dell’incidente il veicolo frenò in maniera così brusca che lo stridere delle ruote sull’asfalto riecheggiò in tutta la zona spezzando così quel silenzio così tipico delle sere d’estate. In pochi secondi le porte posteriori del veicolo si spalancarono e da dentro vi uscirono tre paramedici che sotto gli occhi di polizia e curiosi si diressero verso l’accaduto. La procedura di recupero fu veloce, pressappoco istantanea, compiuta in maniera quasi meccanica dagli infermieri tanto che andarono via senza lasciar traccia se non qualche macchia di sangue in più sull’asfalto e lo sguardo attonito degli astanti. Il commissario, da poco arrivato sul posto, si avvicinò ai suoi sottoposti con passo lento cercando di nascondere i segni evidenti di un frettoloso risveglio. “Allora, cos’è accaduto?” Chiese ad un novizio subalterno non ancora abituato all’eccessiva vista di sangue. “Un semplice incidente commissario. Non sappiamo se si salverà, ma stiamo studiando la dinamica del fatto. Dalle ricostruzioni sappiamo solo che il pirata si è diretto verso nord; verso la città.” “Allora sembra tutto risolto e possiamo tornarcene a dormire, giusto? Se non c’è nulla di strano da segnalare io mi avvio, spicciatevela voi qui. La procedura la sapete.” disse voltando le spalle alla matricola 020002698 Francis Lourance che all’età di nove anni decise di diventare poliziotto per combattere i cattivi. “A dire il vero, signore, una cosa da segnalare ci sarebbe.” Lo riprese timidamente il giovane. Così voltato il ragazzo non riuscì a capire cosa il comandante stesse dicendo né a leggerne il labiale, ma di certo non sembrava molto contento di quella notizia. “Avanti, cosa c’è ancora?” “Il ragazzo, signore, stringeva tra le mani questa” disse la matricola mostrando al commissario una serie di fogli sgualciti e macchiati di sangue. “Ed in più, signore, sembrava avesse pianto da poco.” “Dai qua, fammi leggere.” disse avvicinandosi con passo più svelto verso il ragazzo tanto che questi ne fu quasi intimorito. Diede un occhiata lenta allo scritto e quella lentezza offrì al giovane il tempo per osservare bene il volto del suo superiore ora illuminato dalla luce del lampione sotto la quale si era messo per poter meglio decifrare quella scrittura imprecisa e contorta, cercando di analizzare le parole leggibili tra una macchia di sangue e l’altra. “Non ci capisco una mazza Lourance, voi giovani scrivete male e perdete troppo sangue. E’ impossibile leggere le vostre memorie da moribondi. Leggimela tu, questo almeno lo sai fare?” “Certo signore.” disse riprendendosi dalle riflessioni in cui era assorto con una grattata di capo. L’ammasso di fogli sembrava una sorta di lettera scritta in fretta e furia su ogni tipo di materiale cartaceo che si possa trovare in una macchina. La maggior parte provenivano da pagine chiare di una rivista di qualche mese fa che magari giaceva dietro al sediolino del guidatore. Il restante del testo consisteva in qualche foglio allegato strappato dal libretto di circolazione. Il tutto era però ben numerato con tanto di numeri di pagina e rimandi ai vari foglietti allegati. Un romantico cut-up da moribondi. Effettivamente la calligrafia era abbastanza confusa, dovuta magari alla mancanza di forze del povero disgraziato che era sul punto di svenire, ma forse il commissario non riuscì a cogliere il gesto dello sforzo. Il poliziotto iniziò a leggere qualche frase sparsa sul primo foglio cercando di fare suo quel tipo di scrittura decifrando lettera dopo lettera le parole che di tanto in tanto venivano nascoste dalle macchie di sangue. Dopo un po’ lo sguardo ritornò all’inizio della lettera e da lì la matricola prese a leggere ad alta voce, rivolto verso il suo superiore: “Mi chiamo Zaccaria Mori ed uno stronzo mi ha appena tagliato la strada. Per ora è tutto quello che ricordo. Questa non vuole essere una lettera d’addio né un testamento; non ho ancora intenzione di morire. Questo è solo l’unico modo che conosco per sopravvivere. Scrivere. Non riesco ad alzare le braccia verso l’alto, verso la mia testa; mi sento stanco. Vorrei dormire, ho sonno, ma so che è tutto un brutto colpo basso della morte. Perdo sangue a vagonate, lo sento scorrere sulle guance, sul collo, le braccia. Mi taglia le ciglia, mi offusca gli occhi. Mi muovo come preso da convulsioni, ma non ha ancora vinto lei, è solo un modo per scrollarmelo di dosso tutto quel sangue, ma non perché abbia paura di lui. Anzi, mi piace il suo odore, ha un leggero retrogusto di ferro, come fosse condito dal taglio di lamiera contro la quale mi sono schiantato. E’ solo che tutto quel sangue che scivola giù, attratto dalla dannatissima gravità, complice di tutti gli schianti, mi impedisce di scrivere, mi dà fastidio, macchia i fogli. Piango, ma non ha ancora vinto lei, è solo perché le lacrime riescano a togliermi il sangue dagli occhi. Devo vedere ciò che ho intorno per continuare a scrivere. Devo farlo per non perdere. Sono stufo di perdere tutto. Perdere tempo, treni, chiavi, occasioni e sangue; la prima cosa che devo recuperare è il sangue. Sembra di stare in un film di Romero e credimi, la cosa, vista in soggettiva, non è poi tanto divertente. Le braccia sono troppo deboli per tamponare la testa e poi, sinceramente, non credo serva a molto. E’ necessario un intervento dall’interno e se non posso utilizzare i muscoli degli arti sono costretto ad utilizzare altre parti del mio corpo. Devo fare in modo da far circolare tutto quel sangue nel mio organismo, farlo correre senza sosta, senza fargliene accorgere che in quel sistema c’è un buco, una toppa. Sono troppo debole per correre o per fare qualsiasi altra attività fisica, quindi devo optare per qualcosa di metafisico. Devo pensare. Ciò che distingue un vivo da un morto è l’attività organica, ma ora come ora non riesco che a riflettere o a compiere piccoli movimenti. Oltre che a soffrire. In quello sono una cima. Il discorso fin qui filava liscio, ma il fatto era che non riuscivo a pensare a nulla se non al fatto che dovessi in qualche modo pensare a qualcosa da pensare, pena la morte. Si lo so, tu forse ti starai chiedendo il perché di tutti quei dubbi se già il pensare di dover pensare comportava un pensiero. Queste riflessioni semplici le lascio a te, lettore, che non perdi sangue mentre leggi. Io sono un moribondo sull’asfalto la notte. Io posso tutto. Presi carta e penna ho iniziato l’unica cosa che riuscivo e che sapevo fare da più tempo: scrivere. Scrivere e pensare per non perdere. Per non perdere tempo, treni, chiavi, occasioni e sangue; prima di tutto il sangue. Ho promesso a me stesso che avrei scritto talmente tanto che ogni globulo rosso, bianco o piastrina sarebbero diventati anelli di una grande catena compositiva, dedite solo a portare ossigeno al cervello, senza badare minimamente a quel foro che ho sulla testa. I macchinari buoni si vedono dalla meccanica ed io mi vedevo tanto come uno di quei motori a quattro pistoni tutti arrugginiti che avrebbero fatto sputare veleno e olio ai nuovi arrivati figli della tecnologia moderna. Che giorno è oggi? Non ricordo. E quante ore saranno passate dall’incidente? Non lo so. Questa non è una strada molto trafficata. Un’arteria secondaria della superstrada che collega la città con la provincia attraverso stretti passaggi, vie sterrate e piene di fossi. Con molte probabilità al massimo saremo in due, se non a conoscerla, per lo meno a percorrerla questa strada. Buffo poi che quando gli unici due che conoscono questa via si incontrano, uno dei due ci rimette pure la pelle. La cosa brutta di quando pensi di essere l’unico ad avere una determinata conoscenza è che vai tranquillo, forte del tuo monopolio conoscitivo e quando meno te lo aspetti qualcun altro ti taglia la strada sfrecciandoti avanti. Il vantaggio che hanno gli ultimi è che hanno sempre qualcuno da superare. Il sangue continua a scorrere dalla mia testa fregandosene delle barriere fisiologiche scavalcando ostacoli di peli, ciglia, sopracciglia e barba. Un rivolo mi sfiora l’angolo destro delle labbra tanto che mi è facile toccarlo con la lingua e sentirne il sapore. È amaro, cazzo. Ho usato le ultime forze rimastemi per tirar fuori una sigaretta dal sacrosantissimo pacchetto morbido ed infilarmela tra le labbra. Al primo tiro sento il sapore della nicotina mescolarsi a quello del sangue; aspiro e mai inalata di catrame mi sembrò più salvifica nella sua nocività. Sbuffo fuori il fumo con delicatezza per non perderne nemmeno un po’, tanto da sembrare un condannato a morte con la sua ultima richiesta prima di venir fucilato dall’ansia. No, non ora. Ora devo restare sveglio e scrivere, scrivere di tutto. Anche del tizio che ora è fermo lì di fronte e che mi guarda da un vetro rotto. Non so se in quel vetro c’è il mio riflesso o se è veramente il mio corpo quello mentre ciò che resta di immateriale, di pensante, di razionale del mio essere se ne sta volando via piano, lentamente, strisciando tra le lamiere contorte, mischiandosi al fumo che esce dal radiatore. È tutta una finzione, Zack, non preoccuparti, poggia la mano a terra e sentirai che sotto di te c’è il suolo, l’asfalto bollente e ruvido, quello sporco che ti gratta le dita e ti sbuccia le ginocchia da quando eri un bambino. Però è buffo notare come le cose non cambino per certi aspetti. Passano gli anni, cadi da seggioloni, biciclette, precipitosi voli pindarici, auto; ti sbucci di tutto, mani, gambe, cuore, ossa e ti dici che il tempo servirà a curare le ferite. Lo dici perché lo hai sempre sentito dire in giro, lo hanno detto in televisione e l’hanno pure scritto in qualche canzone. Ma tu ora stai morendo e tu solo sai la verità. La verità è che il tempo non serve ad un cavolo da solo; non è mercurio cromo che ti risana dai dolori dopo ventisette giorni, sei ore, quarantatre minuti e otto secondi. In questo caso si chiamerebbe mercurio crono. Il tempo è un concetto astratto, misura relativa per scandire i nostri giorni, qualcosa da contare in mente mentre camminiamo verso la fine. C’è sempre qualcosa da contare: scale da salire, libri non letti, occasioni perse. E chissà come mai il numero esatto noi non lo sapremo mai. Il tempo, quella si che è una perdita. Il dolore invece no, quello non è un passatempo creato dall’animo umano. I cani con le zampe rotte non contano il tempo prima di riprendere a correre, loro si leccano le ferite, cercano di rimediare. Il dolore è concreto, non c’è bisogno di contarlo. È quella cosa che ti fa capire se sei sveglio o ancora dormi. Non puoi curare un male con il tempo, sarebbe una lotta impari. È una formula matematica scritta sulle lavagne di tutte le aule dell’università della vita. Il dolore si cura solo con le passioni. Più forte è il dolore che ti ghiaccia l’animo e più deve bruciare la passione per sciogliere il torpore che ti blocca. Non importa che faccia abbia la passione, nociva o benefica, l’importante è che arda talmente tanto da bruciare ogni pensiero, in modo tale che non ci sia più una sola cellula di te che pensi a quel dolore. Ho chiuso per un po’ gli occhi, ormai mi sono solo di ostacolo, mi fanno solo vedere ciò che non c’è. Li strizzo forte ancora un po’. Il tizio nel riflesso del vetro è sparito, portando via con sé tutte le preoccupazioni. Sotto il palmo della mia mano sento il ruvido dell’asfalto che gratta e perciò non posso essere che sveglio, ancora, per lo meno quel pizzico che mi basta per osservare la strada da questa prospettiva. Sembra quasi confondersi con la notte. Pensavo di conoscerla a memoria questa strada ma devo ricredermi, non l’avevo mai vista da questa angolazione, sembra tutto così tranquillo e calmo. Nella notte, in genere, la percezione della realtà diventa una lunga profondità di campo verso il buio. E' questo il momento, privo di rumori, ad immagine fissa, in cui tutte le ansie crollano. In questi momenti, se tendi bene l’orecchio, puoi riuscire ad ascoltare il battito del tuo cuore ed in certe sere particolarmente silenziose anche quello di chi ti sta vicino. Vorrei tanto tornare da lei. Lei che mi aspetta sveglia al buio facendo finta di dormire. I suoi occhi socchiusi intenti a sbirciarmi la tradiscono ed io sorrido perché non sa, e forse non lo saprà mai, quanta luce possono fare un paio di occhi come quelli anche nella più nera delle notti. Vorrei fosse qui ora non per farmi salvare, no, sarebbe solo uno spreco di tempo e di bei momenti. La vorrei qui per gustarmi un’ultima volta questo buio con lei. Con un sorriso, gli occhi socchiusi ed una frase sussurrata, prima di andare, da lei”. Il giovane poliziotto alzò lo sguardo dall’ultimo foglio osservando il suo superiore, “La lettera sembra finire qui signore, ci sono altre parole ma sono coperte dal sangue e non riesco a decifrarle”, disse. “Lascia stare ragazzo, vedi gli altri cosa hanno raccolto e dimmi se sono riusciti a ricostruire la dinamica dell’incidente. Ah, un’ultima cosa” riprese il comandante, “si sa chi ha segnalato l’incidente?” “No, sappiamo solo che si trattava di una voce di donna. Una ragazza. Ma non sappiamo chi.” Detto ciò la recluta si voltò dirigendosi verso le ispezioni. Il comandante Wood sembrava assorto nei suoi pensieri quando il gracchiare metallico di una voce proveniente dalla ricetrasmittente dell’auto lo fece ritornare alla realtà. “Wood, mi senti Wood?” Il comandante si diresse lentamente verso il veicolo. “Dimmi pure, ti ascolto.” “Abbiamo notizie dall’ospedale su quell’incidente di stanotte. Il ragazzo che hanno portato in ospedale è … bzzzzzzz”. Ricetrasmittenti del cazzo.