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Note critiche con riferimento alle opere: Via degli Ulivi (Ausonia, Siena, 1950) - La rosa nel bicchiere
(Canesi, Roma,1961) - Il canto dei nuovi emigranti (pubblicazione postuma su L’Europa Letteraria,
1965)
Presento il poeta Franco Costabile
Di Stefano Mangione
Se la vita influisce in qualche maniera sull’opera letteraria, se il tempo pregresso può riemergere e
improntare di sé, non soltanto la poetica, ma addirittura lo stile e il linguaggio dello scrittore, in
genere, del poeta, nello specifico, l’incidenza e la qualità sono determinate dalla condizione del
momento dell’autore, dalle modificazioni interiori e strutturali, dalla capacità di somatizzare gli
elementi culturali e dalla coscienza critica, da una sorta di distacco, dalle situazioni e dagli eventi,
che lungi dal disperderne il senso e il valore, impongono un punto di vista (di osservazione e di
riflessione) ampio e non vincolato (ove, naturalmente, non intervenga l’attitudine alla
mitizzazione), che attribuisce alla riflessione e alla valutazione un sufficiente grado di oggettività.
L’esilio del poeta Franco Costabile nella Capitale, assume in effetti, tale conformazione, che
nell’opera poetica rileviamo sporadicamente, ma significativamente, riguardo alla prima silloge,
Via degli Ulivi e, in maniera rilevante, in La rosa nel bicchiere e nelle poesie pubblicate,
successivamente su varie riviste e, postume, su L’Europa Letteraria. Sarebbe un marchiano errore
operare un’analisi critica sull’opera poetica di Franco Costabile considerando separatamente Via
degli ulivi, La rosa nel bicchiere e Il canto dei nuovi emigrati. Se è vero, infatti, che la prima
risente di tutti quei limiti che, in genere, sono legati alle cosiddette opere prime e giovanili, con i
pochi elementi di novità, che vanno ricercati in un tessuto che per stile e linguaggio, rimandano
all’esperienza, in specie ungarettiana, è anche vero che tali limiti non inficiano né la resa formale
né quella sul piano strettamente poetico. Il poeta, in un contesto nel quale facili sarebbero i riflussi
sentimentali, le nostalgie non sopite, non consente a questi alcuna possibilità di incidere e di
deformare i dati della memoria e le relative immagini, poiché nella rappresentazione e nella
valutazione di eventi e di sensazioni, traslati dal tempo pregresso fino a quello presente, vieta
l’immissione dell’elemento mitico. E questa resistenza al mito è, in sostanza, uno degli stigmi più
importanti e qualificanti dell’intera opera del poeta , al di la dei luoghi attraversati dalla sua
poesia, delle modificazioni formali e stilistiche, dei cambiamenti, che talvolta sono ribaltamenti di
prospettive. C’è da aggiungere, piuttosto, che con l’insistere sul valore civile della poesia di
Costabile, sulla maniera disincantata di porsi di fronte agli eventi, sulla lucidità estrema nella
descrizione degli uomini, sull’espressione spesso rastremata e scarnificata, sull’ironia che è
caratura non indifferente del suo stile, si rischia di incorrere in un vistoso abbaglio, che consiste
nel non considerare la natura lirica del poeta. Leopardi, d’altronde, a più riprese afferma, che
tutta la poesia finisce col non avere generi, perché tutto si risolve nella sostanza lirica e perché, in
ogni caso, è sempre il poeta, che riceve, decodifica ed esprime, i messaggi che provengono dal
mondo e li plasma secondo la propria intelligenza e sensibilità. In Costabile il tessuto lirico si
risolve, poi, in partecipazione ed adesione profonde, senza le quali il canto o il grido sarebbero
informi ed atoni e non avrebbero proiezioni oltre il limite del segno grafico, come accade in certe
poesie civili e patriottiche del Manzoni, che si fanno ammirare per l’equilibrio della composizione e
la perfezione formale, per la capacità di spiegare, anche ciò che non è spiegabile – soprattutto in
materia di fede (Vedi gli Inni Sacri) – ma che raramente conducono l’animo del lettore a picchi
emotivi. La misura del tono lirico emenda la poesia di Costabile dal retorico e dall’enfatico ed
elimina la sterilità del descrittivo e dell’oleografico, anche nei quadri nei bozzetti, frequenti nella
sua opera poetica.
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Proponiamo, traendoli da Ricostruzione di un poeta, di Gianpiero Nistico – Edizioni FRAMA SUD di
Chiaravalle Centrale – 1.a Edizione, 1979 – saggio dedicato alla vita e all’opera di Costabile, con il
commento dello stesso Nisticò (che pone l’accento sulla continua interferenza fra le liriche della
prima raccolta e quelle della seconda e di Il canto dei nuovi emigrati, a confermare una continuità
di poetica, che talvolta sembra far presagire la soluzione finale della propria esistenza e, spesso,
sconfessa l’immagine stereotipa della Calabria fatta di suono di chitarre e di passi stanchi che
risuonano, in cui il sogno si contrappone ad una realtà esistenziale che, invece di spegnerlo, lo
alimenta continuamente) lacerti del suo lavoro critico e frammenti di liriche: “ Non v’è solo un
senso di profonda malinconia (a mio avviso – di Nisticò - una delle costanti della poesia del
Sambiasino): la sera che guarda dai tetti di Cicale era già stata vista, sine titulo, così: Dai
campanili/dipinti di silenzi casalinghi/voce in paese non discende ormai/Rimane nel cielo di
lilla/che si vuota di rondini ogni sera./Non basta al cuore/il fumo dei comignoli/il passo di chi
torna/dalla via degli ulivi (da Via degli ulivi). Anche le rondini che via via scemano di numero nel
cielo di lilla, iscrivono la loro ombra veloce sui muri, come quei ragazzi/andati al Venezuela… (da
La rosa nel bicchiere – La loro ombra) ; fumano i comignoli in un’atmosfera di malinconia
virgiliana; un suono di passi non basta al cuore, non può bastare, perché pur esso si avvia a
divenire un passo d’ombre.” Ma chi non avverte il senso della sua terra, vero e proprio motivo
conduttore, ma sempre inquadrato in una sensibilità lirica, la cui chiave resta il discorso di Noi
dobbiamo deciderci ? “C’è, infatti, fin dalla prima opera, una coscienza lirica che fa giustizia delle
immagini volte al descrittivo, caratteristica fra le più deteriori nella letteratura meridionale, e le
rende essenziali per l’estrinsecazione del concetto di base. In rapida successione proponiamo
frammenti di Via degli ulivi, che anticipando tòpoi di La rosa nel bicchiere, confermano le
notazioni che li precedono: Ma, non udremo più nell’alba chiara/i colpi di fucile nella valle/né
passare nel cielo rivedremo/la rondine che ha voglia di balcone./ I nostri giorni sono fulminati
(versi che nell’incipit rimandano a Pavese)………………………………………………
Forse morrò sopra questa chitarra/che conosce il tumulto del mio sangue/E se bisogna
attraversare il cielo/l’appenderò sul corno della luna…
Questo breve canale di sogni/lentamente si spegne/nel risucchio/della grande riviera.
Si è accennato nelle pagine che precedono all’esilio del poeta nella Capitale, ma ora dobbiamo
aggiungere come tale condizione gli abbia consentito il necessario distacco per una valutazione
critica e quanto possibile oggettiva dei luoghi e della gente, che costituivano la sua Calabria, forse
il più grande problema della sua vita, il suo più grande amore. La crescita dell’uomo, anche in virtù
del distacco, comporta l’eliminazione di ogni complice indulgenza, di quella sorta di vittimismo
che denota le lamentazioni di molti uomini comuni, ma anche di gran parte del mondo
intellettuale, di scrittori e poeti (Presa di coscienza, che caratterizzerà importanti liriche come Noi
dobbiamo deciderci e che, pur nella naturale rivelazione del malessere e della percezione
dell’ingiustizia, tempererà il linguaggio e darà misura ad altre liriche come Calabria Infame,Sud,Ce
n’è di paesani, Mio Sud ecc. ecc.) Quanti scrittori e quanta letteratura, hanno insistito sul Sud
derelitto e diseredato, perché vittima della politica economica dei governi, che si sono succeduti
negli oltre cento quaranta anni decorsi dall’Unità d’Italia!- E se, talvolta, la rampogna e la protesta
sono e furono motivate, pressanti e attuali (si veda ad esempio, l’opera in dialetto di Mastro
Bruno Pelaggi – poeta dialettale calabrese dell’Ottocento - intensa ed efficace per motivazioni, per
analisi puntuali, ancorché espressa talvolta con enfasi e con la commistione di motivazioni
oggettive e reali con quelle presunte, nate dalla mente dell’uomo del popolo che giudica il potere,
partendo da una sua condizione particolare di disagio, ma che non conosce i meccanismi e gli
equilibri necessari per l’edificazione di uno Stato, tutto ancora da costruire) più spesso la
condizione del Sud è (fu) dovuta al lassismo, alla insufficienza di coscienza civica e critica dei propri
politici ed amministratori. In tale errore di valutazione non incorre Costabile (anche se in”1861”,
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vengono evidenziati i misfatti e i soprusi subiti dal Sud dall’Unità d’Italia in poi; ma è il solo
momento, è l’unico luogo della sua opera, nel quale egli cede alla tentazione di considerarsi
vittima, ove alla lamentazione, non fa equilibrio la coscienza critica, ma dove il discorso e, in parte,
riscattato dall’uso dell’ironia).Il tempo e la distanza, la crescita culturale, la vita in una società
evoluta, ove confluisce il meglio delle realtà provinciali, che è sede del Parlamento, nel quale si
prendono le decisioni più importanti, politiche, economiche, amministrative e in sostanza dove si
crea il presupposto per lo sviluppo di intere regioni, forniscono a Costabile gli elementi per
un’analisi, talvolta rigorosa e illuminata sulle condizioni e prospettive del Sud e della Calabria, in
particolare. La critica alle decisioni del Parlamento di Roma, non impedisce al poeta, di denunziare
la corruzione, l’opportunismo, l’incapacità, della classe politica e amministrativa calabrese: dai
personaggi di poco conto e nel ristretto ambito locale, a quelli di rilevanza nazionale (deputati e
senatori, sottosegretari e ministri), colpevoli di dissipare le risorse messe a disposizione del Sud,
male impiegate o addirittura sottratte per il vantaggio personale o della propria fazione e l’inutilità
di taluni istituti, per i quali furono investite enormi quantità di denaro, come la Cassa Per Il
Mezzogiorno, che si rivelarono come carrozzoni politici e clientelari. Si è detto da taluni
osservatori dell’opera e della vita di Costabile, che il poeta di Sambiase non fu legato a una
particolare ideologia, né che fu militante; non si può negare, però, la sua simpatia - adesione verso
la Sinistra - Comunista o Socialista – ( Collaborò con L’Unità e sue poesie furono pubblicate su
Botteghe Oscure ). D’altra parte sotto accusa, nel discorso del poeta, finisce la Democrazia
Cristiana, e gli uomini che egli indica come responsabili dei mali della Calabria appartengono tutti a
questo Partito: Cassiani, Foderaro, Galati, Antoniozzi; e sostegno di essa, e ulteriore inganno per la
gente umile e senza cultura, le donne in specie, il clero ( La croce /sulla croce/diceva l’arciprete /
E una croce/sulla croce/segnavano le donne…quelle stesse che venivano abusate nei campi dal
padrone, che nel migliore dei casi, venivano date in moglie a un giovane del luogo, con la
ricompensa di un lavoro, duro e da bracciante, e di una casupola. Ed era frequente, nelle sere
d’estate, ascoltare le cantilene di ragazze con un bimbo al seno, il figlio del padrone…
Dei governi (e del partito egemone), degli amministratori locali, del sottobosco politico è, poi, la
responsabilità degli altri mali: il dissesto del territorio, la crisi dell’agricoltura, con l’abbandono
delle campagne, la disoccupazione, soprattutto, e l’emigrazione, che assume il rilievo della
diaspora biblica. Un’epopea tragica del popolo calabrese, nella quale il poeta nulla trascura: lo
sfruttamento da parte delle grandi industrie, la vita miserrima e umiliante nelle città del Nord e dei
paesi industrializzati dell’Europa; le file presso le questure e i consolati e le lunghe teorie di treni (i
più lunghi d’Europa), stipati di contadini e diseredati, strappati alla loro casa e agli affetti e
provenienti, soprattutto, dai paesi interni e della costa, poveri e meno poveri (Cropani/
Longobucco/ Cerchiara Polistena/Diamante/Nao/Ionadi Cessaniti/Mammola/Filandari…) ma
tutti con un solo miraggio: il riscatto dalla miseria, il tentativo di sopravvivere e che spesso, in
compenso, si vedono attribuiti gli stigmi della violenza, dell’inciviltà…Emigrazione e diaspora, che
comunque, sono già tentativi di cambiamento, scosse, un voler prendere le distanze da
condizioni di neghittosità e di inerzia,di accettazione supina di ciò che ristagna e degrada: (Troppo
tempo/siamo stati nei monti/con un trombone fra le gambe/Adesso ce ne scendiamo/muti per
le scorciatoie/ Dai Conflenti/dalle Pietre Nere di Ardore./Dal sole di Cutro/pazzo sulla pianura…/
Troppo tempo/ a gridarci nella bettola/il sette di spade/ a buttare il re e l’asso /Troppo tempo/a
raccontarci storie/chiamando onore una coltellata/ e disgrazia non avere padrone…( da Il canto
dei nuovi emigrati). Nella stessa poesia, Costabile enumera altri sfruttatori, le baronie latifondiste
(I Lucifero, I Conti Capialbi, I Solima, Gli Spada, I Ruffo, I Gallucci…). Qualsiasi tentativo, però,
sembra destinato a fallire (Ci sono raffiche/su vecchie facciate/che nessuno leva: l’occhio del
Mitra/è più preciso/del filo a piombo della Rinascita (riferimento all’altro male che è la mafia,
con le sue infiltrazioni nelle istituzioni, freno allo sviluppo e all’evoluzione di questa parte di
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Meridione) anche perché, forse, il poeta che aveva sperato nel cambiamento e nel riscatto, già
prepara la fuga da sé e dalla vita. La poesia, nella parte finale, assume il carattere dell’invettiva,
talvolta violenta, che non lascia margine per quel senso ironico, che in altri luoghi aveva aperto
varchi alla speranza ed eluso il riflusso depressivo. Il grido e la lamentazione sono però nobilitati
dalla partecipazione sofferta, da quel serpeggiare dell’elemento lirico, che rende più affilate le
lame della critica e della condanna, che rende più incisivo il bisturi che recide, come per un
tentativo di riscrivere la storia mentre la verifica e disperatamente vorrebbe cancellarla, come si
vorrebbero cancellare gli amori infelici, ma non può concludere che con un saluto che è un addio,
dalla sua terra e, forse, dalla vita: <Addio/terra,/Salutiamoci,/è ora.
Stefano Mangione