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moderna in cui impera il culto dell’apparenza, in cui il superfluo è di moda,
in cui tutto scorre senza lasciare traccia,
è stata proposta nel nostro Centro parrocchiale
una mostra fotografica, realizzata a Bahr El Ghazal,
in Sudan, dal fotoreporter Marco Vacca che ci ha lasciati inermi e impotenti di fronte ai mali del mondo, ma nel contempo ha
determinato, in molti di noi, la voglia di opporsi a certe forme di ingiusti-
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Si è trattato di un sentito tentativo di fermare il tempo, di catturare gli sguardi, di
PAR sensibilizzare
gli animi, attraverso uno dei più magici ed antichi poteri della comunicazione,
LA l’immagine appunto.
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A
D Questi volti d’ebano, colmi di straordinaria dignità, esprimono un sincero bisogno di concretezza.
Questi volti d’ebano che ci inchiodano, rammentandoci quanto sia inutile limitarci a pensare alla gente che muore di fame quando poi sediamo a tavole imbandite di ogni prelibatezza.
Questi volti d’ebano che sono scavati dagli orrori che da tempo affliggono la loro terra.
Un’umanità dolente, ma che tiene intatta la sua dignità di popolo, lottando fino allo stremo per non scomparire.
Questa mostra, che è l’occasione di compiere un altro passo verso quei mondi dimenticati, dovrebbe consentirci di
vivere, cogliendola appieno, una tragedia che coinvolge e che sconvolge migliaia di vite umane.
Uomini che giorno dopo giorno assistono al loro genocidio.
Dando voce alle nostre coscienze non possiamo non pensare che ogni “uomo” ha diritto alla sua dignità di “uomo”,
ha diritto ad avere i mezzi di sussistenza e di progresso necessari allo sviluppo della sua persona.
Queste fotografie ci dicono che le cose non vanno propriamente così.
Queste fotografie costituiscono un documento agghiacciante
dell’egoismo dell’uomo.
Noi non possiamo permettere, da cristiani, che Cristo continui a morire così.
La speranza è che dinanzi a questi sguardi, di fronte a quest’umanità che ci interroga, la nostra mente provi a immaginare come potremmo essere noi al loro posto, quali le condizioni nelle quali vivremmo. Chiediamoci come reagiremmo
se al posto di quei bambini ci fossero i nostri figli, i nostri cari.
Siamo certi che la risposta sarà una sola.
SUD SUDAN ….EMBLEMA DELLE GUERRE DIMENTICATE
Ben 21 anni di guerra civile tra il Governo di Khartoum e l’Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese (SPLA)
hanno provocato carestie, malattie e sottosviluppo.
Secondo dati OMS, ogni mese perdono la vita tra le 6.000 e le 10.000 persone.
Inoltre il 2,6% della popolazione con un’età compresa tra i 15 ed i 49 anni è affetto da AIDS.
Nel Darfur il 20% dei bambini soffre di malnutrizione ed i tassi di mortalità sono ben 10 volte superiori ai livelli
registrati nel resto del Sudan: 1,4 vittime al giorno ogni 10.000 persone nel Darfur settentrionale, 2,9 nel Darfur
occidentale.
La diarrea acuta è legata al 75% dei decessi infantili. Febbre e infezioni respiratorie rappresentano le altre cause
primarie di morte. Il Sudan settentrionale è tuttora abitato da 200.000 schiavi, che cercano di sopravvivere in
condizioni disastrose.
Tra questi, il 70% delle femmine sopra i 12 anni ed il 15% dei maschi sopra i 6 anni hanno subito violenze sessuali.
In Sudan meridionale, infine, oltre 9.000 bambini soldato sono ancora oggi impiegati nei conflitti come combattenti. Questi i dati.
Al paralizzante senso d’impotenza che questi dati sconcertanti possono generare, vorremmo contrapporre un
innato spirito umanitario, fatto di azioni concrete e solidali.
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Lettera di Mons. Mazzolari
alla Comunità di Ghiaie
dopo la sua visita
del 7 novembre 2004
Diocesi di Rumbek, 16 nov. 2004
Carissimo don Davide,
grazie della generosità, ma soprattutto per il profondo spirito di solidarietà presente nella comunità cristiana di Ghiaie. La mia breve presenza,
specialmente nella celebrazione eucaristica mi ha
dato nuova energia.
La vostra accoglienza non solo di me, il pastore,
ma del mio gregge ci forma sempre più una famiglia unita in Cristo e nelle opere che Cristo ci suggerisce.
Benedico di cuore.
Mons. Cesare Mazzolari
SUDAN:
LA PACE, FORSE...
Combattono da decenni per restare africani. Aspettano una pace più volte rinviata. Così, per un intero
popolo, oggi il ritmo della vita ha una sola certezza:
il sorgere del sole.
La pace non è mai stata così vicina.
Sui monti Nuba, nel cuore del Sudan, la aspettano
da almeno vent’anni. Da quando questo popolo di
quattro milioni e mezzo di persone ha cominciato a
lottare per sopravvivere.
Sopravvivere non solo alla “pulizia etnica” scatenata dal governo di Khartum, alla deportazione dei
bambini, al furto della terra, agli stupri, ma anche
all’azzeramento della loro identità da parte di un regime islamico accecato dal male.
In Sudan ci sono uomini ai quali la guerra ha cambiato tutto, tutto nelle loro vite è cambiato, tranne la
convinzione di voler continuare ad essere ciò che
sono sempre stati: africani.
Ora aspettano una firma al tavolo delle trattative in
Kenya; data per imminente a dicembre scorso, ma
di continuo rinviata.
Per arrivare nelle terre collinose del Sudan bisogna
superare molti ostacoli, i permessi ufficiali sono inesistenti, anche le organizzazioni umanitarie si muovono senza protezione.
Qui vive un popolo diviso in una cinquantina di etnie
dai nomi diversi.
Gente troppo a lungo dimenticata, coinvolta in una
guerra dimenticata.
A pagare le conseguenze più dure del conflitto, che
in tutto il Sudan ha tolto la vita ad oltre due milioni
di persone, sono come sempre donne e bambini.
Ora una grande speranza si sta facendo strada, quella
che dopo anni di sofferenze e innumerevoli accordi
naufragati, la via verso la pace sia finalmente stata
imboccata.
La cautela naturalmente è d’obbligo: quella del
Sudan è infatti la più lunga guerra civile del continente africano e gli accordi annunciati e falliti nell’arco di pochi giorni non si contano nemmeno, ma
la speranza che questa volta possa essere diverso rimane.
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