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VRETE SENTITO NOMINARE il mio amico Jocelyn Tarbet, un tempo celebre romanzie-
re, ma suppongo che il suo ricordo tenda a sbiadire. Il tempo sa essere spietato
con la fama. È probabile che mentalmente lo associate a uno scandalo quasi dimenticato e alla vergogna. Non avevate mai sentito il mio nome, Parker Sparrow, un tempo ignoto romanziere, finché non è stato associato pubblicamente al
suo. Per pochi intimi i nostri nomi restano indissolubili, come le due estremità di un saliscendi.
La sua ascesa ha coinciso con il mio declino, pur non essendone stata la causa. La sua disfatta è
stata il mio trionfo in terra. Non nego il dolo. Ho rubato una vita e non intendo restituirla. Queste poche pagine valgano da confessione.
Per renderla appieno devo tornare indietro di quarant’anni, all’epoca in cui le nostre vite
coincidevano alla perfezione e sembravano destinate a correre in parallelo verso un futuro comune.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN ARTICOLO DI IRENE BIGNARDI
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UELLA VOLTA, PENSAI DI AVER CAPITO QUALCOSA: fu il pomeriggio in cui Amena mi raccontò il
suo segreto. Amena lavorava dieci, dodici ore al giorno, tutti i giorni, in un laboratorio tessile di Dacca, la capitale del Bangladesh, e non sempre riusciva a dar da mangiare ai suoi
tre figli. Così, quando non aveva niente, faceva ricorso a una piccola messa in scena: accendeva un fuoco, metteva a bollire dell’acqua, e ci metteva qualcosa, un sasso, un ramo. Mentre rimestava nella casseruola, diceva ai figli di farsi un sonnellino, che li avrebbe avvertiti
lei quando fosse pronto. I bambini, mi diceva Amena, si calmavano e, in genere, dormivano fino al mattino seguente.
Viviamo tempi balordi; non sappiamo bene che cosa desiderare, il mondo ci sembra ostile, minaccioso. Temiamo il futuro, e non troviamo nessun motivo per coltivare delle illusioni. A parte, naturalmente, quei progressi della tecnica che ci spaventano per il disastro del
nostro pianeta ma ci promettono di vivere centocinquanta anni, rafforzando l’illusione
che le cose accadano ovunque e in nessun luogo e che possiamo vivere sempre più lontani dai nostri corpi. E, per consolarci, il calcio, le serie televisive, il cibo — sempre più lontano dai nostri corpi.
Viviamo nell’Era del Cibo. Il cibo non aveva mai occupato
un posto così grande nella nostra vita; il business del cibo
non aveva mai prodotto tanti soldi; non c’è mai stato tanto
cibo. Non c’è mai stato tanto cibo non mangiato. Non lo dico
solo per lo spreco — enorme — delle nostre società, dove più
di un terzo degli alimenti finisce nella spazzatura; lo dico soprattutto per questa nuova caratteristica del cibo, trasformato in spettacolo. È affascinante vedere come il mangiare, questo esercizio quotidiano, ripetuto, con il quale forniamo energia e piacere ai nostri corpi, sia diventato soprattutto qualcosa che non si mangia: si legge, si guarda, si ascolta,
si immagina, si registra, si ricorda. Il mangiare, la cosa più
materiale, più intima, è entrato nella logica dello spettacolo
o della masturbazione. È un sintomo: passiamo ore a guardare da lontano ciò che prima toccavamo, annusavamo, inghiottivamo. Forse era la trasformazione necessaria per trasformare la gastronomia nell’arte del momento. Non è difficile: non è cara, non richiede educazione, crediamo di essere in grado di capirla e perfino di goderne. È una cosa nuova,
in ogni caso: il cibo è sempre stato importante, ma, in genere, ciò che contava era mangiarlo. Adesso no. È come se noi,
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dispeptici abitanti dei paesi più ricchi, volessimo riprodurre il rapporto con il cibo che hanno i denutriti dei paesi più
poveri: un rapporto il cui punto centrale è non mangiare.
È l’elemento più caricaturale dell’Era del Cibo, che è costituita anche da una certa idea della patria. Di che cosa è fatta
la patria, ultimamente? Di una lingua, di certi colori, del grido di un gol? Quando non c’è molto di cui vantarsi, con cui
rappresentare una nazione, il cibo sa rivestire questa funzione: definire caratteristiche nazionali, produrre orgoglio
patriottico facile. E dà un’idea di classe, di illusoria ascesa sociale: essere capace di degustare, sia pure senza il gusto, ciò
che mangiavano solo i più ricchi ti fa partecipe, in modo immaginario, della loro cerchia. Dà anche un’idea di conservazione: il ritorno alle agricolture “bio”, ai cibi tradizionali, offre il nuovo privilegio di schivare la valanga industriale che
produce cibo a buon mercato. Mangiare “come prima” è
mangiare come ai tempi in cui tanti mangiavano tanto poco, perché quei sistemi di produzione tradizionale, purtroppo, producevano meno di quelli attuali — e per questo, ancora oggi, si pagano molto più cari.
Il cambiamento nelle tecniche agricole ha prodotto il più
grande cambiamento storico, un cambiamento che la storia stessa sembra non registrare ancora: per la prima volta,
l’umanità è capace di sfamare tutti i suoi abitanti. Questo
non significa che lo faccia: no, quelle tecniche continuano
ad essere sequestrate per il guadagno di pochi. Al giorno
d’oggi, il mondo potrebbe nutrire dodici miliardi di persone; siamo 7,3 miliardi e, tuttavia, più di ottocento milioni di
persone soffrono di denutrizione. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, ha affermato che nove milioni di persone muoiono ogni anno per cause inerenti la fame.
Nove milioni l’anno, ovvero venticinquemila al giorno, più
di mille ogni ora che passa. Uno solo sarebbe già troppo.
Il vantaggio, per noi, è che capita ad altri, sempre ad altri: l’affamato non è mai tuo cugino, o il tuo vicino. Per questo è più facile che funzioni il trucco che sostiene tutto il meccanismo: convincerti del fatto che il modo in cui noi mangia-
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mo, il nostro modo di vivere l’Era del Cibo, non c’entra nulla
con il fatto che loro non mangino.
Convincerti che la fame di quelle centinaia di milioni di
persone non è il prodotto di un sistema di produzione e commercializzazione degli alimenti rivolto ai paesi ricchi — anche se questo comporta affamare i poveri. Un sistema di produzione globale volto a massimizzare il profitto di chi ne è
proprietario — non a fornire ad ognuno ciò di cui ha bisogno. La fame ha tante cause, ma la povertà non è una di esse. La povertà è la cornice; la causa principale della fame è la
ricchezza — di pochi, la nostra.
Un esempio schematico, per capirci: sappiamo che per
produrre una proteina animale sono necessarie dieci proteine vegetali. Se uno raccoglie dieci chili di cereali, può venderli a dieci persone, che ne mangeranno un chilo a testa, o
a un allevamento, che li darà alla mucca e a sua volta venderà il chilo di carne che ne verrà a una o due persone, in grado
di pagarla: così — con un’altra complessità, su un’altra scala — si concentra la ricchezza alimentare. E ci sono i grandi
sussidi che fanno sì che i produttori dei paesi ricchi possano
vendere a prezzi talmente bassi da impedire ai produttori
dei paesi poveri di competere, e quindi falliscono. E le grandi corporazioni che speculano sui prezzi delle materie prime alimentari e fanno sì che milioni di persone non possano
più pagare il loro pane o il loro riso. E le enormi quantità di
terre dell’Altro Mondo — Africa, Asia, America Latina —
che sono destinate a coltivazioni che si venderanno solo nei
nostri supermercati e che restano fuori dal mercato locale.
E poi gli usi della fame: milioni di persone che lavorano per
salari infimi, perché l’unica alternativa sarebbe patire una
fame ancora più grande e producono, per esempio, come
Amena, quelle camicie così belle ed economiche che amiamo tanto comprarci. Non ci importa: perché dovrebbe importarci? In fin dei conti, non è un problema nostro.
Ho avuto la debolezza di credere che lo sia, e ho trascorso
alcuni anni viaggiando in alcuni di questi luoghi per raccontare le storie di alcune di quelle persone. Ne ho ascoltate cen-
tinaia, che mi hanno detto come sia vivere in quel modo che
non possiamo nemmeno immaginare. E credo che sia cominciato tutto quel mattino in cui mi sedetti con Aisha davanti alla sua baracca, sotto il sole, in un villaggio del Niger.
Fu più di dieci anni fa: Aisha, una trentina d’anni, quattro figli, mi raccontava che il suo cibo consisteva in una palla di farina di miglio impastata per ore con acqua e, quando
capitava, con qualche foglia di baobab per dargli un po’ di
sapore. Io allora — degno rappresentante dell’Era del Cibo
e delle sue conoscenze — le chiesi preoccupato se non variasse mai la sua alimentazione, se mangiava sempre la
stessa cosa e lei mi rispose di sì, certo, quando poteva. Mi
sentii uno stupido. E poco dopo, per sottolineare la mia stupidità, mi venne in mente di chiederle che cosa avrebbe
chiesto a un mago che potesse esaudire qualsiasi desiderio
e lei mi rispose una mucca. E mi spiegò: con una mucca
avrebbe potuto aggiungere del latte alla sua palla di miglio
e dare qualcosa di più ai suoi figli e perfino, se le avanzava,
fare delle ciambelle da vendere sulla piazza del paese. Sembrava così poco; le chiesi se non avrebbe voluto chiedergli di
più, dato che il mago poteva darle qualsiasi cosa. Mi chiese
se poteva darle davvero qualsiasi cosa e io le dissi di sì, anche se era un gioco, purtroppo era un gioco, e lei mi disse in
un sussurro: due mucche. E io ci rimasi così male, perché
pensavo a quanto è terribile la miseria, che ti impedisce perfino di desiderare qualcosa che vada oltre il bisogno più immediato, e provai pena e rabbia e decisi allora, credo, di scrivere quel libro. E lo scrissi, e raccontai molte volte la storia
di Aisha, e ci misi anni a scoprire che siamo tutti Aisha: perché non siamo capaci nemmeno di desiderare qualcosa sul
serio, di desiderare qualcosa che vada al di là di due mucche: un mondo senza affamati, per esempio, un mondo dove non vergognarsi di vivere. Un mondo in cui l’Era del Cibo
potesse significare che, finalmente, tutti hanno del cibo da
mangiare ogni giorno.
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l signor Norris, protagonista della prima storia berlinese di
Christopher Isherwood è il fratello maggiore di Sally Bowles,
l’eroina senza virtù di "EEJPB#FSMJOP (1937). E *MTJHOPS/PS
SJTTFOFWB è il primo (1934) dei due pannelli che formano la celeberrima sinfonia della città di Berlino iniziata da Isherwood durante il suo lungo soggiorno nella capitale tedesca a partire dal 1933.
Il libro doveva all’inizio intitolarsi 5IF-PTU, i perduti, e raccontare quella gioventù di expat che si muoveva senza scopo per il mondo alla vigilia di quella che sarebbe stata una tragica crisi globale.
Ma al di là della bravura di narratore di Isherwood, e della sua classica scrittura brillante, .S/PSSJTDBNCJBUSFOP ( questo il titolo originale del romanzo, allusione incomprensibile per i più ai cambiamenti di rotta politica del protagonista) propone come eroe /antieroe un personaggio ripugnante (vedi la descrizione dei suoi denti
malandati o i suoi toupet), e di morale ambigua, almeno come lo
vede e lo descrive pur con simpatia William Bradshaw, giovane britannico che si sta regalando un periodo di vacanza a Berlino prima
dell’età adulta, e incapace di cogliere la
drammaticità della situazione, e più attento alla commedia umana, al grottesco e al
colore.
Mr Norris , che Bradshaw incontra su un
treno diretto a Berlino e che dà segno di
avere qualcosa da nascondere, è un traffichino e quanto più lontano si potrebbe immaginare dall’idea di militante del Partito
comunista. Eppure questo assurdo profilo
umano è la divertente follia che porta avanti il romanzo, tra padrone di casa brontolone, amici inaffidabili, “compagni” menzogneri, spie ovunque, femmes fatales che
giocano sporco.
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La perfezione con cui è costruito il gioco
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delle spie e della miseranda realtà della
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condizione tedesca non toglie che il romanEJ$ISJTUPQIFS
zo di Isherwood sia assemblato freddamen*TIFSXPPE
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gio come Mr Norris. E sembra schierarsi
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con noi lo stesso Isherwood, che, anni do&630
po, accusava Bradshaw di essere un mostro che passava indifferente attraverso
una tragedia. Ma forse parlava di sé.
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uando si spara un colpo in bocca,
Romain GaryRomain Gary lascia
un bigliettino nella casa rue du
Bac: «Nessun rapporto con Jean Seberg. I
patiti di cuori infranti sono pregati di rivolgersi altrove». È il 2 dicembre 1980, quindici mesi dopo la morte dell’attrice americana icona della Nouvelle Vague. Chissà se lo
scrittore lo pensava veramente o tentava
solo di riscrivere – un’ultima volta – la sua
tormentata biografia: immigrato da Vilnius, eroe della Liberazione, diplomatico cosmopolita e mondano, romanziere vincitore di due Goncourt, di cui uno sotto pseudonimo (Emile Ajar). Il sipario di apre e si chiude, la verità sfugge.
«A rombu di sunnià a so vita, ellu diventò u sonniu di a so vita»,
dicono in Corsica a proposito dei romanzieri. Gary ha passato così
tanto tempo a immaginare la propria vita che ne è diventato il sogno, come racconta Ariane Chemin nello struggente omaggio .B
SJBHFFOEPVDFappena pubblicato dall’editore Equateurs.
La giornalista di -F.POEFha ricostruito il matrimonio di Gary
e Seberg organizzato quasi fosse un colpo di Stato il 16 ottobre
1963 nel paesino corso di Sarrola. Grazie alla complicità dei servizi segreti francesi, la diva venuta da Marshalltown e l’ambasciatore-scrittore riescono a convolare a nozze senza paparazzi, depistando Hollywood e i salotti parigini, con pochi, fidati testimoni.
Nello svelare per la prima volta, oltre mezzo secolo dopo, il retroscena di questa cerimonia clandestina, avventurosa ma già velata di malinconia, Chemin indaga anche il mistero di una passione
divorante, terribilmente letteraria, e di cui l’epilogo saranno due
suicidi.
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iulio D’Antona è uno dei più seri e profondi conoscitori
della letteratura americana contemporanea, e abita
parte dell’anno a Brooklyn, la città divenuta quartiere
di cui celebra il vitale disordine: nel primo capitolo di /POÒVO
NFTUJFSFQFSTDSJUUPSJ”, pubblicato in Italia da minimum fax,
ne mette in parallelo la topografia con quella di Manhattan, ordinata, potente e rigorosa.
Il libro, che porta nel titolo un’assonanza con il romanzo di
Cormac McCarthy, è un viaggio all’interno di un mondo letterario del quale cerca di comprenderne le caratteristiche intime, partendo dalla considerazione che, come dice Jonathan
Ames, «le persone normali non fanno gli scrittori». È un viaggio personale, lungo il quale l’autore impara insieme al lettore, sia nel percorso tracciato dagli scrittori di Brooklyn, che in
quello degli autori che hanno individuato a Manhattan l’unico
luogo dove sembra sia possibile vivere.
Il pessimismo appare un elemento fondante della condizione umana, e la ricerca del profitto non
minimizza la possibilità di realizzare
grandi risultati artistici, come raccontano i capitoli dedicati agli agenti e alle riviste letterarie. È un microcosmo pieno
di contraddizioni: i corsi di scrittura creativa si sono decuplicati nel giro di pochi
anni, il rapporto con cinema e televisione è ambiguo e Philip Roth rimane, come ampiamente prevedibile, il mito irraggiungibile.
Le pagine più affascinanti sono dedicate alla quotidianità delle case editrici
e ai lavori svolti da scrittori di fama: Ga/0/°
ry Shteyngart le definisce “vie di fuga”
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prima ancora che modi di sostentamen1&3
to. Arricchito da citazioni folgoranti, il
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testo pone costantemente interrogativi
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sull’autenticità culturale, e risulta in pri%"OUPOB
mo luogo un atto d’amore per New
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York, rispetto alla quale D’Antona ricor1"((&630
da una battuta di John Updike: «Il vero
newyorkese crede segretamente che
chi vive altrove lo faccia, in un certo senso, per scherzo».
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