COME SI PU`O RACCONTARE A CLEO L` APPROCCIO DI G
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COME SI PU`O RACCONTARE A CLEO L` APPROCCIO DI G
COME SI PUÒ RACCONTARE A CLEO L’ APPROCCIO DI G. PERELMANN ALL’IPOTESI DI POINCARÈ, (PER I NON ADDETTI AI LAVORI) Tratteremo un argomento vasto che puó essere abbordato in varie maniere. Inizieremo con le superfici, ad esempio la sfera (la superficie del globo terrestre) o del toro (la superficie di un pneumatico) che sono oggetti familiari a tutti. Si dice che una superficie ha due dimensioni perchè, almeno localmente, due numeri, sono sufficienti per parametrizzarla. Pensiamo ad esempio alla longitudine e alla latitudine per la sfera, che denotiamo con S 2 ; su cui torneremo dopo. Ciò detto, la più semplice superficie a cui si può pensare è il piano, diciamo la superficie di questo foglio, esteso all’infinito. Contrariamente alla sfera S 2 (o al toro) che si chiude su se stessa, il piano che denotiamo con R2 è aperto. Questi concetti intuitivi possono essere resi, matematicamente parlando completamente precisi, ma non lo faremo quı́. In ogni modo nel piano R2 , se si sceglie un sistema di assi ortogonali ogni punto è rappresentato da due coordinate (x, y) e reciprocamente, ogni coppia di numeri determina un punto sul piano. Ma andiamo un pò più avanti e consideriamo una curva chiusa C del piano R2 . Consideriamo, ancora, il dominio U dei punti che sono nel piano R2 che sono all’interno di C, ma senza appartenere a C. Il nostro U è esso stesso una superficie, dal punto di vista di R2 la curva C è la frontiera di U ma, dal punto di vista di U stesso, la curva C è all’infinito. La nostra parte interna U è una superficie aperta senza bordo, ma che non si chiude su se stessa, esattamente come il piano R2 . Si può passare anche dalla curva C liscia a una curva frattale. Il dominio interno è ancora una superficie aperta con un infinito più complicato che quello di C. Si hanno inoltre analoghi unidimensionali delle superfici, queste sono le curve, ma ciò che è meno intuitivo è che vi sono delle analogie a n dimensioni, per n = 3, 4, · · · . Là si ha bisogno di n coordinate per caratterizzare (localmente parlando) un punto. L’esempio banale è lo spazio a n-dimensioni denotato con Rn (per n = 1 è la retta per n = 2 il piano per n = 3 il nostro spazio) dove senza ambiguità, questa volta globalmente, ogni punto è esattamente caratterizzato da n coordinate x1 , x2 , · · · , xn , che assumono qualunque valore. La distinzione tra locale e globale, in questa storia, è essenziale: su una carta geografica il sistema longitudine-latitudine o ancora altri sistemi analoghi che possono funzionare senza ambiguità, ma non ci sono sistemi di coordinate che funzionano bene globalmente, sulla superficie intera della sfera, la longitudine, per esempio non è ben definita ai Poli. Queste superfici n-dimensionali sono chiamate varietà a n dimensioni. Quello che è ancora meno evidente, è che una varietà Date: June 22, 2005. 1 2 UN a n dimensioni, si pensi soprattutto per n ≥ 3, si può chiudere su se stessa e non si estende fino all’infinito senza avere un bordo, come il cerchio o la sfera S 2 . L’esempio tipico è la sfera a n dimensioni: l’insieme dei punti di Rn+1 che sono a distanza 1 dall’origine; la geometria analitica elementare dice che la sfera si esprime con l’equazione x21 + x22 + · · · + x2n+1 = 1, e la sua parte interna è la palla a n + 1 dimensioni B n+1 che si esprime in coordinate cartesiane come x21 + x22 + · · · + x2n+1 ≤ 1. Si può considerare una superficie, o più genericamente una varietà facendo astrazione di ogni struttura geometrica soggiacente (come distanze, angoli , aree, ecc..) conservando solo le relazioni di continuità. Questo è il punto di vista della topologia che non vede differenza tra un pollone di calcio e un pallone di rugby. All’inizio del secolo XXmo, Henri Poincarè si rende conto dell’importanza e della ricchezza del mondo delle varietà, comincia a studiarle e pone un problema che diventerà celebre come ”La Congettura di Poincarè” . Si tratta del problema della caratterizzazione topologica della sfera S 3 , tra tutte le varietà di dimensione Tre. In maniera più precisa quello che la congettura afferma è che ogni varietà chiusa di dimensione 3 semplicemente connessa, cioè nella quale ogni curva chiusa si può deformare continuamente fino a che essa si riduce a un punto restando sempre nella parte interna della nostra varietà, una tale varietà è omeomorfa (cioè topologicamente equivalente) a S 3 . Esiste un enunciato analogo in dimensione n che afferma: Ogni varietà di dimensione n che è una “sfera di omotopia”, cioè che ha le stessa proprietà della sfera S n , dal punto di vista delle deformazioni continue è omeomorfa a S n . In dimensione S n=5,6 questa congettura è stata provata (per n = 4, verso il 1982 soltanto) e la prova della congettura generalizzata in dimensione n > 3 è uno dei più clamorosi successi della matematica del XX secolo. Ma il fatto è che la Congettura tridimensionale, quella che Poincarè stesso aveva formulato, è ancora più difficile, questo è un soggetto di ricerca estemamente attivo in questo momento. Non parleremo del caso n = 2 che è banale. Una delle molteplici ragioni che fanno dell’Ipotesi di Poincarè un soggetto fondamentale di ricerca, sono le relazioni profonde con una buona parte del resto della matematica e, anche, con la fisica. Si può formulare, ad esempio l’ I.d.P come un problema puramente algebrico (nel quadro della teoria dei gruppi), senza fare alcun riferimento alla topologia. E ancora si può uscire dal quadro puramente topologico e “vestire” le varietà di strutture geometriche e da qui partire all’attacco della congettura. Vi sono ancora numerosi legami possibili ciascuno porta ad una approccio diverso al problema. A tutt’oggi qualcuna tra queste è rimasta inesplorata. Per entrare nel vivo di questo soggetto, inizieremo a parlare dei lavori di Grisha Perelmann di San Pietroburgo che sono venuti alla ribalta recentemente della cronaca scientifica di molti autorevoli quotidiani. Occorre tuttavia dire che una parola di prudenza si impone prima di tutto; perchè si tratta di un lavoro molto recente e di cui fino a oggi una buona parte non è stata ancora verificata ( e un’altra parte non è stata ancora scritta). Tuttavia, anche se i passi di Perelmann non condurranno verso l’ I. di P., si UN 3 sa già che il suo lavoro contiene idee nuove e importanti. In ogni modo il suo approccio si colloca di primo acchito nel quadro delle varietà “vestite” di una struttura geometrica e di cui parleremo ora. Sulla stessa varietà soggiacente si può indurre, in vari modi, una “geometria” i matematici dicono una metrica rienanniana. Si tratta di una ricetta per valutare la distanza tra due punti “infinitamente” vicini, a partire dalla quale si possono misurare le lunghezze, gli angoli, le aree i volumi ecc...: Ora, ciascuno di noi ha un’idea intuitiva di quello che vuol dire una superficie “curva”. Ma verso il 1830 Karl Friederich Gauss precisa questa nozione intuitiva esprimendo la curvatura della superficie S in ogni punto p con un numero R(p); quello che questo numero misura è lo scarto tra la geometria intrinseca di S in un intorno di p e la geometria classica di Euclide. In maniera più precisa, si considera un piccolissimo triangolo di S i cui lati sono geodetiche (= ovvero curve di lunghezza minima) contenente il punto p, il nostro R(p) è la differenza tra la somma degli angoli di questo triangolo e π , normalizzato rispetto all’area (del piccolo triangolo). Cosı́ sulla superficie delle sfera si trova che R > 0, sul piano (ma anche sul cilindro e sul cono) si ha R = 0, mentre sulla superficie di una sella R < 0. Quando questo R non dipende da p, come nel caso dei tre esempi considerati si parla di geometria ellittica, piatta (o euclidea) o iperbolica (o ancora di Lobachevsky). Verso 1850 Bernhardt Riemann introduce la metrica che porta il suo nome e, quello che più importante è che egli crea una teoria della curvatura per le varietà di dimensione n qualunque. Quando n ≥ 3 non si tratta più semplicemente di un numero R(p) come nel caso della curvatura Gaussiana, ma è un “tensore ”, un oggetto matematico più sottile e complicato: Diciamo che se nell’intorno di un suo punto p, è scelto un sistema di coordinate locali (x21 , · · · , x2n ) allora la curvatura di Riemann in p, in prossimità di p si esprime con una tabella di numeri aventi una certa struttura, con parecchi indici Rijk ciascuno dei quali varia sull’insieme 1, 2, · · · , n. La metrica di Riemann stessa è un tensore, ma molto più semplice e con meno struttura, possiede solo due indici e si scrive gij . Per parecchi i decenni le idee di Riemann sembrarono oscure e troppo astratte, ma nel 1915 Albert Einstein concepı́ il suo più importante capolavoro: la sua teoria della gravitazione (si chiama anche relatività generale) proprio sulle idee di Riemann di distanza e di curvatura. Nella teoria di Einstein (provata da innumerevoli prove sperimentali) lo spaziotempo è datato di una metrica riemanniana gij verificanti un certo sistema di equazioni differenziali alle derivate parziali non-lineari (le equazioni di Einstein) e il campo gravitazionale non è altro che il tensore di curvatura Rijk . Tra parentesi sia detto che l’idea che le equazioni di Einstein e l’ I. di P. siano fortemenete legate sono presenti nel lavoro di Perelmann e formalizzate già dal matematico giapponese YAMALE una sessantina di annni fa e hanno dato luogo ad un importante quantità di lavori. Per ritornare all’ I. di P. e alla geometria , nel 1970, William Thurston propone un vasto programma, non solo per dimostrare l’I di P., ma per comprendere globalmente tutte le varietà di dimensione tre chiuse: questo fatto 4 UN corrisponde ad una strategia che, più d’una volta è stata messa in gioco: se si vuole risolvere il problema x, si attacca piuttosto il problema X, che ingloba x. Thurston comincia per esaminare un catalogo di 8 geometrie di dimensione tre particolarmente simmetriche e belle. Le prime 3 tra queste otto geometrie sono quelle a “curvatura sezionale” costante, Rispettivamente K = +1, K = 0 o K = −1. Quello che la congettura di geometrizzazione di Thurston afferma è che ogni varietà di dimensione tre V 3 (chiusa) si decompone, o si “rompe” in maniera unica e canonica in un numero finito di pezzi ciascuna delle quali possiede una ed una sola delle 8 geometrie. Questa congettura è l’analogo 3-dimensionale di uno dei più famosi risultati di Poincarè stesso, il “teorema di uniformizzazione” che riguarda le superfici e l’analisi complessa. I lavori di Thurston hanno avuto una enorme ricaduta e parti importanti della congettura sono state dimostrate da Thurston stesso e da David Gabai e da altri matematici. D’altra parte se la congettura di Thurston fosse interamente provata avremo in un solo colpo anche la congettura di Poincarè. Ecco come si articolano le cose. Tra le otto geometrie di Thurston la sola che una sfera di omotopia può avere è quella con curvatura sezionale K = +1. Ma d’altra parte una varietà V 3 che ha una metrica con K = +1 che sia semplicemente connessa è proprio la sfera S 3 . Giunti a questo punto si può considerare l’ I. di P. o più generalmente la congettura di geometrizzazione di Thurston, sotto l’angolazione seguente. Partiamo da una varietà dotata di una metrica gij di Riemann. Domandiamoci come sia possibile trovare una maniera, preferibilmente canonica e uniforme, per cambiare questa geometria in una quanto più possibile “bella e simmetrica?” Ecco un esempio molto semplice e piuttosto intuitivo di come una tale procedura potrebbe funzionare. Partiamo dalla superficie la piú bizarra possibile (una patata) con i sui bassorilievi ma che si supponga tuttavia convessa. Da un punto P al suo 2 di centro P e di raggio molto grande che cirinterno si consideri una sfera SG 2 è tagliato dalla patata in due segmenti, conda la patata. Ogni raggio di SG di cui esattamente uno è esterno alla patata. Si può immaginare facilmente un processo di “gonfiamento” della superficie della patata lungo questi seg2 . Ma menti esterni fino a quando la patata non si trasformi nella sfera SG questo processo di trasformazione è molto particolare e assolutamente non canonico. L’idea allora è di deformare le gij in ogni punto p riducendo la media della curvatura sezionale nel punto p e questo fatto ci porta direttamente alla curvatura di Ricci Rj e alle idee di Richard Hamilton. Verso il 1980, questo matematico sviluppó un approccio nuovo per affrontare la congettura di Thurston e dunque l’ I. di P. Hamilton scopre una importante equazione alle derivate parziali non-lineari chiamate il flusso di Ricci. In parole, si parte da una varietà V 3 qualunque e si considerano sopra una tale varietà una famiglia di metriche riemanniane dipendenti dal tempo, diciamo gij (t). In ogni istante t le gij possiedono le proprie Rij (t) di Ricci e si trova che gij e Rij sono tensori dello stesso tipo. Si conviene anche che la velocità di variazione istantanea delle gij sono esattamente le opposte a Rij (t) (ovvero UN 5 −Rij ) che una delle forme dell’equazione di Hamilton. Il segno meno è essenziale perchè l’evoluzione di gij va verso una geometria “di più in più bella e simmetrica”. In fatti Hamilton ottiene dei risulatati molto spettacolari attraverso il flusso di Ricci. Ne cito solo uno. Si parte da una superficie chiusa S dotata di una metrica gij qualunque. Si lascia poi che gij evolvano nel tempo lungo il flusso di Ricci. Hamilton dimostra che, in un tempo finito, ci si ritrova con una metrica che ha una curvatura di Gauss costante ovvero ellittica, piatta o iperbolica. Ma in dimensione tre le cose si complicano molto, perchè il flusso di Ricci può “esplodere ” in un tempo finito. Il programma elaborato da Hamilton è quello di mostrare che all’atto dell’esplosione la varietà V 3 si rompe, e che il flusso puó essere “continuato” su i singoli pezzi e, dopo un tempo finito e un numero finito di esplosioni, si ritrova la varietà iniziale decomposta in pezzi e su ciascuno dei pezzi si ha una delle otto geometrie di Thurston. Se questo programma fosse portato a termine l’ I di P. sarebbe dimostrata con un approccio E.D.P. (equazioni alle derivate parziali). Quanto al flusso di Ricci esso è una equazione differenziale sullo spazio di dimensione infinita dato da tutte le metriche riemanniane possibili su una 3-varietà data. Cosicchè un punto di questo spazio di dimensione infinita è una geometria intera su V 3 . D’altro canto come ogni flusso, anche il flusso di Ricci può avere singolarità ovvero dei luogi dove il flusso cessa di scorrere. A condizione di normalizzare leggermente il flusso di Ricci le singolarità sono esattamente le metriche gij che verificano le 6 equazioni di Einstein (scritte in dimensione tre). D’alta parte la forma esplicita delle Rij , fa del flusso di Ricci un analogo non-lineare dell’equazione di propagazione del calore. Quest’ultimo descrive l’evoluzione della temperatura in un corpo riscaldato a partire da una distribuzione iniziale, cosı́ come il flusso di Ricci descrive l’evoluzione della geometria... Il programma di Hamilton ha dato luogo a molte ricerche ed è in questo programma che il lavoro di Perelmann di inquadra. Egli inizia d’acchito con un enorme progresso riuscendo ad eliminare o a controllare le esplosioni del flusso di Ricci che Hamilton non aveva saputo trattare. Nella parte iniziale del lavoro, Perelmann elimina dei “solitoni” indesiderabili del flusso di Ricci cioè delle geometrie “cattive” che si propagano restando uguali a se stesse indefinitamente lungo il flusso di Ricci. Il lavoro di Perelmann presenta delle analogie molto interessanti con la meccanica statistica e si ispira anche al gruppo di rinormalizzazione della teoria quantistica dei campi: In questa analogia il tempo del flusso di Ricci corrisponde a un potere di risoluzione crescente (quando la variabile tempo t decresce) di un microscopio, chiaramente astratto, con il quale guardando la nostra varietà V 3 appaiono tutta una serie gerarchica di strutture riemannane. In modo meno astratto e più concreto, l’analogia con la meccanica statistica conduce Perelmann a scoprire che il flusso di Ricci deriva ad una funzione gradiente. È il fatto che il flusso è un flusso gradiente, permette di eliminare i solitoni indesiderabili. Per spiegare tuttavia cosa è il flusso gradiente possiamo pensare ad una carta geografica di una montagna sulla 6 UN quale sono state disegnate delle linee di livello. Da ciascun punto disegniamo, sulla stessa carta, una piccola freccia con la regola seguente: la freccia è sempre ortogonale alle linee di livello e che punta verso il lato in cui il livello decresce (questa è una delle due possibili scelte) e la sua lunghezza è proporzionale alla densità locale delle linee di livello. Ovviamente là dove ci sono cime, colli,... la lunghezza del flusso rispettivo si annulla, questo corrisponde esattamente alle singolarità (del flusso). Infatti, il flusso definito dalle frecce scorre, in ogni punto, lungo le frecce rispettive, con velocità uguale (o proporzionale) alla lunghezza delle frecce. Questo è quello che si chiama flusso gradiente, e la funzione gradiente è quella che in ogni punto della carta, specifica l’altezza della montagna. È qui che l’analogia con la meccanica statistica entra in gioco per il flusso di Ricci, secondo Perelmann: l’analogo dell’“altezza della montagna” il cui il flusso di Ricci sarebbe il gradiente è una funzione intimamente legata all’entropia dei fisici. D. Cleo: G. Perelmann si intasca allora un milione di $ R. Secondo me sı́ l’approccio dell’uomo di Piter è esteticamente bello per non essere vero. (C.Tanasi) Department of Mathematics E-mail address, tanasi: @dipmat.math.unipa.it