Puoi fidarti ancora, compagno di Fernando Santi Discorso

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Puoi fidarti ancora, compagno di Fernando Santi Discorso
Puoi fidarti ancora, compagno
di Fernando Santi
Discorso pronunciato al VI Congresso Nazionale della CGIL, Bologna, 31 marzo – 5 aprile 1965, in cui Santi
annuncia la sua decisione di lasciare la segreteria della CCIL.
Il cammino del sindacato in Italia
Questo Congresso è l'ultima occasione che mi è offerta per intrattenermi con voi. E non mi è facile
parlarvi, dar corso cioè in modo adeguato ai sentimenti che in questo istante si agitano in me. Siamo
stati molti anni insieme, fin dal lontano 1947. Insieme abbiamo camminato per le strade difficili,
lottato e sofferto. Comuni ci furono le amarezze degli insuccessi e le gioie delle vittorie. Comuni ci
furono e comuni ci restano le grandi attese ideali. In questo giorno di commiato, reso necessario dal
fatto che le mie condizioni fisiche non mi consentono di far fronte con pienezza di forze alle fatiche
sempre più impegnative della direzione confederale, voglio dirvi soltanto alcune cose. Non intendo
infatti intervenire nel dibattito congressuale, per un dovere di elementare correttezza. Sarebbe inoltre
cosa di cattivo gusto, per me che me ne vado. Non ho, d'altra parte, nessun testamento politicosindacale da affidarvi. Anche perché non sono morto, non intendo venire commemorato e tanto
meno commemorarmi. Né posso, infine, presumere di prodigarvi esortazioni e insegnamenti
particolari. Quel poco che benevolmente si dice e si dirà ancora per qualche giorno di me, per la mia
attività alla Cgil in questi 18 anni che restano indimenticabili nella mia vita: il senso del dovere, la
fedeltà alla causa dei lavoratori, l'attaccamento alla Cgil e all'unità sindacale e - aggiungo io - la stessa
ansia e talvolta la disarmante certezza di sentirsi impari ai grandi compiti e alle alte responsabilità, lo
devo sì alla mia fede di socialista e di sindacalista che mi accompagna dall'adolescenza, ma lo devo
anche al vostro esempio, di voi che avete lavorato, lavorate, lavorerete in condizioni ben più difficili di
quelle che si incontrano alla attività di direzione della Cgil.
Vi sono, compagni, nella vita di ogni uomo momenti nei quali è difficile mentire o tacere. In questi
giorni mi sono chiesto di frequente: se dovessi per singolare prodigio della sorte ricominciare da capo
la mia esperienza confederale, come mi comporterei? Quale linea cercherei di portare avanti? Rifarei le
cose che ho fatto? La mia risposta è: sì compagni, rifarei le cose che ho fatto. Certo mi sforzerei di
evitare gli errori commessi, brucerei i ritardi che si sono verificati, colmerei le lacune ed eliminerei le
insufficienze riscontrate. Ma non mi sentirei, nella sostanza, di mutare la linea di fondo portata avanti
dalla Cgil da allora ad oggi.
Per l'età che già mi pesa, ho il privilegio di essere stato uno dei pochi sindacalisti italiani che
all'esperienza consumata dalla Liberazione ad oggi, può sommare quella giovanile degli anni
prefascisti. Alla Camera del Lavoro di Parma nel 1920, alla segreteria della Camera del Lavoro di
Torino negli anni 1924-25, i tempi insanguinati di Brandimarte. Sono quindi in grado di misurare non nella veste di storico ma in quella assai più modesta di testimone talvolta - il cammino percorso
dal sindacalismo italiano, il suo divenire adulto, il suo maturarsi a rappresentare sempre più con gli
interessi dei lavoratori, quelli generali della collettività nazionale.
In realtà il processo di rinnovamento del sindacalismo italiano che esige una permanente verifica della
realtà produttiva economica e sociale nella quale esso opera e che è condizione della sua efficienza e
del suo potere, ha seguito e segue una linea di sviluppo costante, anche se talvolta noi stessi avremmo
voluto imprimere a tale processo un ritmo più intenso e incisivo. Il sindacalismo italiano ha da vicino
adeguato la sua linea alle trasformazioni verificatesi in Italia, da paese agricolo arretrato a paese
agricolo industriale con punte di avanzata modernità, con tutti gli squilibri che ne conseguono. Ed è
mia convinzione profonda che la Cgil abbia saputo nel complesso marciare coi tempi e, sia pure con
taluni ritardi, salire a nuove e più alte responsabilità verso i lavoratori e verso il paese, elaborando e
rinnovando nella continuità una linea di politica sindacale aderente alle nuove esigenze e arricchendola
di iniziative che spesso apparvero illuminanti e precorritrici.
I compiti del sindacato
Sempre, ad ogni modo, pur operando in diverse condizioni storiche, il sindacato da noi ha assolto e
continua ad assolvere al compito per il quale, fenomeno sociale di maggior rilievo del mondo
moderno, il sindacato è sorto: la difesa degli interessi economici, professionali, sociali, morali dei
lavoratori in ogni momento e in ogni sede, difesa che chiede pertanto la presenza attiva e autonoma
del sindacato laddove si operano le grandi scelte che determinano direttamente o indirettamente le
condizioni del lavoratore nella fabbrica e nella società. In questo quadro assumono rilievo preminente
la natura, la politica e l'azione della Cgil erede naturale del sindacalismo dei nostri pionieri, fondendo
in sintesi unitaria le varie scuole e le varie esperienze: di chi voleva impaziente forzare le tappe e di chi
voleva marciare con passo più lento perché più sicuro.
Più che mai c'è da credere alla funzione del sindacato come stimolo permanente al progresso tecnico,
economico, sociale, culturale del paese. Se il sindacato non potesse liberamente e autonomamente
dispiegare tutta la sua forza di sollecitazione, lo stesso sviluppo del paese non potrebbe mai
raggiungere i livelli che caratterizzano oggi un paese moderno e progredito. Il sindacato nel suo
significato storico è anzitutto un fatto di democrazia e di libertà. Un fatto di civiltà. Un'immensa forza
liberatrice. Per me personalmente il nostro sindacato è stato anche una grande scuola di formazione
umana. Mi ha consentito di calarmi da vicino, direttamente, nella realtà viva della condizione operaia.
E più ho trovato questa condizione avvilita dalla miseria, dallo sfruttamento, dall'abbandono, più ho
trovato alta la fiamma delle aspirazioni, delle speranze più nobili e più vere. Solo chi ha fame apprezza
il sapore del pane, solo chi ha sete di giustizia sa dare alla giustizia il suo vero volto: giusto e umano.
Ma il sindacato oggi non si occupa di solo pane. Il benessere che vogliamo conquistare per i lavoratori
non è fine a se stesso. E' una delle condizioni per una dignità umana e sociale senza la quale l'uomo che per noi è il fine di tutte le cose - si sente lo stesso umiliato e offeso, estraneo al consorzio civile,
nemico agli altri e a se stesso.
Il sindacato è strumento naturale di democrazia. Ecco perché chiederci se siamo nel sistema o fuori
dal sistema è porre un falso dilemma. Per la somma degli interessi particolari e generali che
rappresenta, per i fini che si propone di giustizia sociale e di difesa della personalità umana, per il suo
operare nell'ambito della legalità costituzionale, il sindacato è un'autentica forza democratica, garanzia
di libertà.
Condizione perché l'iniziativa e l'azione del sindacato possano manifestarsi a ogni livello e in ogni
luogo - incominciando da quello di lavoro - è la sua autonomia da ogni e qualsiasi forza esterna:
padronato, partiti, governi. Riconosciamo che questa autonomia può essere quotidianamente insidiata
e che pertanto va salvaguardata ogni giorno. L'esigenza dell'autonomia effettiva del sindacato, così
come la sua unità, nasce dalla necessità del sindacato di non delegare ad altri quelli che sono i suoi
compiti naturali. Di non soggiacere alla pressione padronale, alle esigenze politiche di questo o quel
partito, di questo o quel governo. L'autonomia del sindacato trova concreta espressione nella sua
politica che deve partire dalla realtà obiettiva dei rapporti di lavoro, delle esigenze dei lavoratori e della
collettività popolare nazionale.
L'unità del sindacato - ebbi già occasione di dirlo - quando è perduta non si rimpiange ma si conquista.
L'unità si conquista e si mantiene con una linea sindacale che porti avanti le giuste rivendicazioni dei
lavoratori, volute dalla maggioranza dei lavoratori, a quel momento dato, in quelle obiettive
condizioni, così come la realtà le promuove e le rende possibili come dimensione, e da conquistarsi
con un intelligente uso delle nostre forze e con metodi di lotta che siano accettabili dai lavoratori.
Io credo al valore dell'esempio, alla funzione delle avanguardie, sale della terra, che gettano luce su
domani ancora oscuri per molti. Ma teniamo presente che il compito delle avanguardie, anche se
talvolta può essere di sola testimonianza, non è, come criterio generale, quello di farsi isolare. Ma è
quello di aprire la strada al grosso dell'esercito col quale esse devono essere costantemente collegate.
Una delle caratteristiche sostanziali del sindacato è infatti quella di essere un'organizzazione di massa.
E' fatto di uomini, di uomini come noi esattamente, con opinioni politiche diverse o senza opinioni,
l'animo aperto a suggestioni mutevoli, con timori e speranze. Uomini che talvolta marciano a passo
diseguale ma che comunque vogliono andare avanti, che ogni giorno acquistano coscienza della loro
condizione e della necessità di mutarla.
Ecco perché io penso che vi è una legge invisibile che presiede - lo vogliamo o no - all'azione del
sindacato: la legge della gradualità. Il sindacato non può dare appuntamenti alla storia. I partiti lo
possono fare, ed entro determinati limiti anch'essi. Il sindacato deve ogni giorno rendere conto del
suo operato. Ogni giorno direi deve conquistare qualche cosa. Ecco perché dobbiamo rifuggire da
sterili impazienze come da abbandoni colpevoli. Io credo nella sicura conquista di ogni giorno, credo
nella necessità di trasferire nel costume, negli ordinamenti, nelle leggi le conquiste operaie perché
siano salvaguardate e diventino patrimonio civile di tutta la società nazionale. Non possiamo
rinunciare, per un malinteso senso di autonomia, a chiedere allo Stato quello che uno Stato
democratico ha il dovere di fare nei confronti dei lavoratori. I padroni non chiedono forse come noi,
più di noi, e non ottengono forse più di noi?
Perciò dobbiamo batterci per conquistare nei fatti e nelle leggi i diritti sindacali e democratici che
discendono dai principi generali di libertà che la Costituzione sancisce. Quella Costituzione che
afferma nel suo articolo fondamentale che l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Cosa
stupendamente bella in teoria, che vuoi dire, in teoria, che il lavoro - e i lavoratori dunque - sono la
base delle nostre strutture economiche sociali e giuridiche, che gli interessi dei lavoratori sono
prevalenti nei confronti di quelli delle forze sociali con le quali il lavoro si trova in una naturale
posizione di antagonismo. Ciò vuoI dire che chi attenta al lavoro, ai suoi diritti, ai suoi stessi interessi,
alla dignità dei lavoratori, attenta alle basi stesse del nostro ordinamento democratico. Cose queste
stupendamente belle, dicevo, che la realtà regolarmente smentisce. Perché manca la volontà politica di
realizzare la Costituzione in modo conseguente. Questa volontà, esplicita o meno, è nei lavoratori: noi
lottiamo dunque per aprire serie prospettive di rinnovamento e di progresso democratico del paese.
Il sindacato per le riforme
La nostra lotta rivendicativa ha il suo punto di fuoco nella fabbrica dove passa la linea della battaglia
immediata per la ripartizione del reddito. Giusto. Ma dobbiamo riconoscere che l'azione salariale da
sola non è in grado di rompere o valicare le strutture esistenti, che reagiscono e si irrigidiscono
chiamando in loro soccorso tutte le forze politiche e sociali conservatrici. Noi dobbiamo lottare anche
per riformare queste strutture, aprire nel muro d'argento del sistema il varco attraverso il quale passare
con la somma delle nostre rivendicazioni quantitative e qualitative. E per questo fine non possiamo
rinunciare, pur nella nostra autonomia, al concorso di tutte le forze socialmente avanzate ovunque
esse si trovino collocate, all'opposizione e al governo. Riforme, riformismo, riformisti: certo nel senso
che spero traspaia da questo mio intervento, io sono un riformista. Vale a dire credo nella
trasformazione graduale democratica della società attuale in una società più libera e più giusta. Credo
nei valori permanenti di democrazia e di libertà che devono accompagnare l'ascesa delle classi
lavoratrici, a garanzia appunto dell'auspicata nuova società. Cerco di richiamarmi all'insegnamento di
quegli uomini del riformismo emiliano e italiano nella galleria dei quali si è voluto ieri - come atto di
stima e di affetto - collocare il mio ritratto. Uomini umani, civili, onesti, di fede ma, badate bene,
uomini tutt'altro che accomodanti, duri nelle lotte, intransigenti nei principi. Nobile razza che oramai
pare estinta senza lasciare eredi.
E credo nella autonoma funzione del sindacato in qualsiasi tipo di società civile, anche nella società
socialista, per il suo compito, ovunque necessario, di sollecitazione, di verifica, di rappresentanza degli
interessi specifici dei lavoratori. Come credo nell'esigenza dell'unità sindacale, nella unità della Cgil.
Ciò richiede effettiva autonomia, operante democrazia interna, tolleranza, libero confronto delle opinioni, onesto sforzo da parte di tutti, rispetto di ogni credenza politica o religiosa, politica sindacale
che sia genuina espressione delle esigenze dei lavoratori, rifiuto di qualsiasi strumentalismo. E non
escludo talvolta l'onesto compromesso che, volto al superamento di difficili situazioni contingenti che
magari la realtà si incaricherà di liquidare fra qualche mese, non può essere considerato deteriore
tatticismo.
E necessario anche accentuare gli sforzi per l'unità sul piano europeo, rimuovendo tutti gli ostacoli
veri e supposti, di comodo cioè, in funzione di alibi, che possono annullare questi sforzi. Se c'è un
movimento nel mondo per sua natura internazionalista, è quello sindacale. Noi riaffermiamo con
fierezza questo spirito internazionalista che ci rende compagni ai lavoratori di tutto il mondo, senza
distinzioni d'ideologia, di regimi sociali, di nazionalità, razza e colore. Operare sul piano europeo. Non
sorprendetevi se mi dichiaro europeista, fautore di una Europa democratica senza preclusioni suicide.
L'Europa diviene sempre più una realtà anche se questo processo in campo economico è ancora
promosso e dominato dai monopoli. Sono europeista perché la lotta della classe dei lavoratori varca le
frontiere e sale a livello europeo. Il giorno nel quale gli operai della Fiat, della Renault e della
Volkswagen sciopereranno insieme per comuni rivendicazioni, quel giorno l'Europa democratica e
popolare, quella che vogliamo noi, avrà cominciato a vivere e potrà collocarsi come elemento di pace
tra i popoli.
Ci attendono momenti difficili
Ma torniamo, per avviarmi a concludere, qui da noi in Italia. Per rilevare che molte cose si chiedono
oggi al sindacato. E da più parti. E da talune di queste parti certo in buana fede. Io dico che è giusto,
compagni. E' un riconoscimento della nostra forza, del nostro ruolo determinante nella società.
Senso di responsabilità ci si domanda. Siamo forse stati irresponsabili nel passato? Non lo credo.
Comunque io non mi spavento di questa parola. Se essa, come credo, vuoi dire quello che noi
intendiamo: autonoma capacità di decisione, autonoma capacità di scelte da operare nell'interesse dei
lavoratori, nel quadro degli interessi non dei gruppi privati ma di quello della collettività popolare e
nazionale. Compagni, non formalizziamoci. In realtà molte cose si possono chiedere al sindacato.
Soltanto una non può essere chiesta: che il sindacato rinunci ad essere se stesso, che rinunci alla sua
responsabile ma autonoma amministrazione della forza lavoro, che esso deleghi ad altri, partito o
governi, la propria naturale funzione senza la quale il sindacato decade e scompare.
Stanno davanti a noi momenti difficili, se pure è vero che il movimento sindacale non ha mai avuto
dinnanzi a sé momenti facili. Avrete letto le dichiarazioni del ministro Colombo a illustrazione della
politica dei redditi, che gli valsero gli applausi generali e convinti dell'assemblea della Confindustria,
alfine placata, paga, soddisfatta, liberata dalla grande paura degli anni '60. Nessun aumento di salari
che non derivi da un aumento della occupazione, rigido rapporto salari- produttività. Si tratta, ha
aggiunto Colombo, di passare ora dalle parole ai fatti. Ma Colombo non si illuda. Sulla strada dei fatti
ci saranno i lavoratori, i loro sindacati, ci sarà la Cgil. Momenti difficili dunque ci attendono, vi
attendono. Non saranno difficoltà di un giorno, di un mese, di un anno. Dureranno molto di più. Il
che accresce il nostro impegno, esige di unire e moltiplicare le forze dei lavoratori. Un ruolo
determinante spetta dunque ai lavoratori, compete alla Cgil.
Le difficoltà appaiono tanto più serie se pensiamo alle condizioni generali del movimento operaio e
democratico italiano, nelle sue varie articolazioni. Molti miti sono stati infranti, vecchie prospettive
sono cadute. Esperienze nuove sono in corso, guardate con fiducia da taluni, contrastate con
convinzione da altri. A mio avviso è necessario un profondo ripensamento delle esperienze
variamente consumate per creare nuove prospettive, reali e non illusorie, per tutto il movimento
operaio, inteso in senso lato. So che questo non è compito del sindacato. Se ne parlo qui è solo perché
in questo necessario ripensamento - o revisione se non abbiamo paura delle parole e io non ho paura se ne parlo qui, dicevo, è perché l'esperienza del sindacato, l'azione del sindacato, può essere non un
modello ma un punto di riferimento istruttivo per determinare nuove condizioni e nuove prospettive
che ridiano slancio alle masse popolari italiane per un serio rinnovamento della nostra società, un
rinnovamento sulla via della democrazia, della libertà, del progresso sociale. Ho detto che è un
discorso che non va fatto qui. Va fatto a livello politico, v'a fatto fuori di qui. E' il grande discorso
della sinistra italiana, nella sua complessa realtà; ma è un discorso che va fatto. Il tempo che ancora si
può perdere è poco sappiatelo, sappiamolo, lo sappiamo.
Compagni, vi saluto ancora una volta con affetto profondo. E saluto i delegati stranieri. Se volessi
essere patetico vi potrei dire con il linguaggio degli innamorati: vi lascio ma non vi abbandono. Vi dirò
invece: non vado in pensione. Non ho nessuna intenzione di andare in pensione. In campi diversi da
quello sindacale, in modi e forme diverse, sia pure con diminuite energie, io resto un militante
battagliero del movimento operaio e socialista. E lasciatemi l'illusione che anche fuori, lontano da noi,
dal sindacato, io possa fare lo stesso qualcosa per tutto il movimento sindacale e per la Cgil che resta
la mia organizzazione.
Un 'altra cosa voglio dirvi. Sappiate che i compagni che mi sostituiranno sono bravi quanto me, se
bravo io sono stato, fedeli quanto me alla causa dei lavoratori, alla causa della Cgil. Accoglieteli con
fiducia.
Ho ricevuto in questi giorni - che non sono di letizia per me - immeritate e numerose attestazioni di
stima e di simpatia. Dai compagni della segreteria confederale prima ancora che rendessi ufficiale il
mio ritiro, dai compagni della mia corrente dai quali ebbi prove affettuose ben superiori ai miei meriti,
dalle organizzazioni della nostra Cgil, da numerosi sconosciuti lavoratori. Potrei dirmi più che pago,
dunque. Ma vi confesso che sono uomo di molte ambizioni e che la soddisfazione più grande sarebbe
quella di potere avere la certezza che un bracciante, un operaio, un lavoratore solo, nei corso di questi
18 anni abbia detto, pure una sola volta di me: è uno dei nostri, di lui ci possiamo fidare. Per potergli
oggi rispondere: puoi fidarti ancora, compagno.