1 La lezione pedagogica di don Carlo Gnocchi. L`educare come

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1 La lezione pedagogica di don Carlo Gnocchi. L`educare come
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La lezione pedagogica di don Carlo Gnocchi. L'educare come processo vitale
Oliviero Arzuffi
Consulente editoriale Fondazione Don Gnocchi
"Perché considerare l'educando semplicemente come un soggetto passivo dell'educazione? L'educando è
un vivente. Come tale non può assimilare virtù e verità se non con un processo vitale e quindi
eminentemente attivo. L'educazione è un'opera di collaborazione tra l'educatore e l'educando, perché il
ragazzo non è una "cosa" ma una "persona"".
Quando parliamo di opera educativa nell'attività poliforme di don Gnocchi è certamente da questa sua
affermazione che dobbiamo partire, altrimenti rischiamo di cadere nella cattiva abitudine di dire che don
Carlo è stato un grande educatore senza riuscire mai a precisare in che cosa è consistito il suo sforzo
pedagogico. Proviamo ad analizzare con un po' più di attenzione i termini usati in questa sua affermazione
tratta dall'Educazione del cuore e scopriremo le "coordinate" precise del suo intendimento educativo.
La prima cosa che balza agli occhi è l'affermazione secondo cui l'educando non è una "cosa" ma una
"persona", ovvero "un inconfondibile ed autonomo microcosmo", come dirà altrove. Questo modo di
intendere l'allievo non è né scontato né privo di conseguenze. Dire persona è rimandare infatti ad un
"unicum" dotato di libertà e di capacità di mettersi in relazione con gli altri, ad un assoluto non riducibile a
strumento di niente e di nessuno. Un soggetto eminentemente attivo che "fa" la sua crescita attraverso un
"processo vitale", e che ha, come supporto ed aiuto, altri "viventi" come lui, al fine di "assimilare virtù e
verità", quali motori, e contemporaneamente fine, della sua stessa crescita. L'educazione così concepita non
può essere quindi che un "processo" fondato sulla collaborazione e sullo scambio. Non un processo
unidirezionale perciò, dall'educatore all'educando, ma circolare, dove il maestro aiuta sì il discepolo a
"venir fuori", secondo l'etimologia della parola latina che indica l'educare, ma che, a sua volta, viene da
quest'ultimo spinto a profondi cambiamenti di crescita nella "ricerca della verità, perché la mente umana è
fatta per la verità, come l'occhio è fatto per la luce e non per le tenebre". "E' educazione di tutto l'uomo",
aggiungeva don Carlo. Siamo nel 1936, quando l'educazione era ancora concepita o come indottrinamento
o come il "riempimento di un vaso vuoto", anche negli Istituti educativi più prestigiosi del tempo. Quello di
don Gnocchi è un modo di intendere l'educazione capace di far scuola anche oggi, tanto più se
consideriamo quanto le argomentazioni della metodologia, le conoscenze della psicologia e gli strumenti
della didattica circolanti nel mondo della scuola siano invece usati per produrre "figurini umani" abituati a
"pensare in serie", intenti a "creare un'aria di conformismo livellatore e di incoscienza festaiola da
asfissiare".
Donde tanta modernità della sua impostazione pedagogica? Certamente l'incontro con i Fratelli delle Scuole
Cristiane al Gonzaga è stato per lui decisivo, perché lo ha dotato di un metodo rigoroso affinandogli
quell'intuito pedagogico che, sia la sua costituzione psicologica che l'incontro con il personalismo di
Mounier avevano già ben radicato nel suo spirito. Ma ci sono altre chiavi di lettura che ci possono aiutare a
capire come il suo impianto pedagogico si configuri, più che un metodo dai contorni ben definiti, come un
processo in divenire che trova nella profezia la sua espressione più alta e più compiuta.
Alcune chiavi di lettura
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L'orfanezza
Questa è certamente la prima chiave di lettura.
L'orfano sa, per dolorosa esperienza nella propria carne, quanto sia difficile e faticoso crescere
senza una guida certa e sicura, senza quelle normali sicurezze affettive che solo la presenza di
ambedue i genitori possono dare, senza il riconoscimento sociale che una consistente figura
paterna garantisce per status. L'orfano deve assumersi la responsabilità di sé su spalle ancora
troppo fragili se vuol sopravvivere, e questo lo costringe a fare i conti molto presto con la dura
realtà quotidiana, con la difficoltà dei nostri processi di crescita e con le sue contraddizioni. Perciò
la sensibilità su questi problemi nell'orfano si acuisce, e il desiderio di alleviare questa fatica di
crescere attraverso la condivisione diventa contemporaneamente per lui strumento di
compartecipazione, spinta al confronto e occasione di conoscenza. Il rimando alla casa, alla
famiglia, alla paternità, evocati in quasi tutti i suoi scritti e presenti in molti discorsi di don
Gnocchi, così come lo stile di vita che voleva inaugurare nelle sue "Case" non sono casuali e
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tantomeno possono essere considerati dei richiami retorici, così lontani dal suo sentire, ma
l'espressione di un vissuto esistenziale che ha bisogno di essere condiviso per potersi comunicare.
Se accettiamo come plausibile questa prima chiave di lettura, allora anche quell' "opera di
collaborazione tra l'educatore e l'educando" della citazione fatta sopra, assume una valenza che
va ben oltre il senso immediato delle parole.
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La sperimentazione diretta del dolore
L'intera vita di don Gnocchi è stata attraversata dal dolore: dall'infanzia senza padre alla precoce
morte per cancro, passando per i numerosi lutti familiari, la guerra, l'opposizione di chi, non
volendo capire, si affidava non poche volte alla maldicenza per poterlo fermare.
Poi la fatica di una lotta costante con se stesso e con gli altri per essere coerente alle proprie
intuizioni e convinzioni, costellata da innumerevoli incomprensioni e amarezze che non hanno
però avuto il potere di piegarlo in alcun modo e in nessuna parte. La tragedia della guerra con la
ritirata di Russia segna l'apice di questa esperienza del dolore determinando anche una svolta
decisiva nella sua vita. Da direttore spirituale dei "rampolli dell'alta borghesia milanese", alla
Pedagogia del dolore innocente, dove anche l'incomprensibile, il dolore innocente dei bambini e
delle vittime, può essere strappato all'insensatezza e alla bestemmia se riletto alla luce della croce
di Cristo. Questo salto è decisivo ed apre a don Gnocchi nuovi orizzonti di ricerca e di
comprensione.
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La scontro con la natura umana
"In quei giorni fatali posso dire di aver visto finalmente l'uomo. L'uomo nudo; completamente
spogliato, per la violenza degli eventi troppo più grande di lui, da ogni ritegno e convenzione, in
totale balia degli istinti più elementari paurosamente emersi dalle profondità dell'essere.
Eppure, in tanta desertica nudità umana, ho raccolto anche qualche raro fiore di bontà, di
gentilezza e di amore, soprattutto dagli umili, ed è il loro ricordo dolce e miracoloso che ha il
potere di rendere meno ribelle e paurosa la memoria di quella vicenda disumana", scriverà in
Cristo con gli alpini ricordando la ritirata di Russia. Quella "vicenda disumana" l'aveva
profondamente sconvolto e il suo ottimismo sull'uomo e sulla sua capacità a crescere e a far
crescere, ne era indubbiamente uscito scosso. Di fronte a tanta barbarie occorreva trovare altre
griglie interpretative per rendere ragione della bontà della vita e della possibilità dell'uomo di
ritrovare se stesso per migliorare una storia che, a volte, sembra essere consegnata totalmente alla
morte. L'uomo infatti può regredire fino all' "imbestiamento" e distruggersi senza che nessuno
possa fermarlo. Le scene terrificanti della guerra gli dicono questo, ma gli mostrano anche che il
bene, con i suoi umili segni e la sua sotterranea presenza, è una forza più grande ancora di questo
male estremo ed è in grado di salvare la vicenda umana.
E' il momento in cui don Carlo scopre la "irrevocabile solidarietà con Adamo" di tutta l'umanità,
nel bene come nel male, dalla quale nessuno può tirarsi fuori "come se si potesse fargli una storia
e un destino a parte, diverso da quello del suo tempo e dell'umanità, a cui egli appartiene e che
egli pure compone". Il singolo uomo e l'intera umanità sono legati in un unico destino,
compartecipi della stessa colpa e della stessa storia di salvezza. Da qui la necessità di "rifare
l'uomo" attraverso un grande progetto educativo che ha come punto di partenza la constatazione
della nostra fragilità e come meta da raggiungere la promozione della vita in tutte le sue
manifestazioni mediante l'utilizzo dei mezzi che la coscienza e la ragione ci mettono a
disposizione. Ma che fondamento ha questa "pretesa" di don Gnocchi di restaurare la persona
umana?
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L'esperienza della fede
E' l'ultima, e per certi aspetti, più importante chiave di lettura.
In mezzo a tanta barbarie nella steppa russa don Carlo ha come una "folgorazione". Una di quelle
esperienze interiori che cambiano radicalmente la vita di un uomo e gli fanno vedere il mondo con
occhi nuovi. "Ho veduto il Cristo!", esclamerà davanti al corpo massacrato di un alpino morente.
E aggiunge: "Da quel giorno, la memoria esatta dell'irrevocabile incontro mi guidò d'istinto a
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scoprire i segni caratteristici del Cristo sotto la maschera essenziale e profonda di ogni uomo
percosso e denudato dal dolore". L'accostamento diretto del volto dell'uomo sofferente al volto
stesso di Cristo, senza interposizioni di sorta e senza dotte intermediazioni, segna in lui un
passaggio esistenziale irreversibile e la ricomprensione di tutto. La devozione e il precedente
studio teologico, davanti al volto martoriato dell'uomo, ora si tramutano in fede. La sua
appassionata ricerca di Dio sfocia nella gioia, per averlo "intravisto" "negli occhi casti e ridenti
dei bambini…nel pallido e stanco sorriso dei vecchi…nel discorso dolente e uguale dei poveri e
degli afflitti…nel crepuscolo fatale dei morenti".
La storia umana, con tutte le sue contraddizioni ma anche con le grandi conquiste di civiltà, gli
appare ora come un'interminabile storia della salvezza, dove il faticoso cammino dell'evoluzione
umana viene interpretato come la sollecitudine di Dio per rendere sempre più l'uomo simile a Sé,
come il Cristo, e quindi sempre più uomo. Alla luce di questa "rivelazione" tutto si essenzializza.
Scrivendo al cugino Biassoni proprio dal fronte russo, arriverà a dire che "Dio è tutto qui: nel fare
del bene a quelli che soffrono ed hanno bisogno di un aiuto materiale e morale. Il
cristianesimo, e il Vangelo, a quelli che lo capiscono veramente, non comanda altro. Tutto il
resto viene dopo e vien da sé".
Persino il travaglio del mondo contemporaneo, che ci fa così paura, viene reinterpretato con
un'anima spalancata al più "solare ottimismo": "Questa crisi secolare però, ai nostri giorni, è
diventata ormai una crisi di passaggio a un mondo migliore, una crisi di promozione a una
civiltà cristiana. In questo tormentoso periodo della nostra storia, caratterizzato da guerre e
sommovimenti sociali di proporzioni ciclopiche e di violenza tellurica, qualche cosa di grande
muore e inesorabilmente tramonta; ma pure qualche cosa nasce di profondamente nuovo e
gaudioso. E' quello che si può chiaramente intuire assai più dai fremiti della veniente aurora
che dalle sue anticipazioni concrete; più dalle inespresse tendenze del nostro tempo che dalle
sue conquiste. L' Incarnazione, nel suo valore essenziale di equilibrio attivo tra i valori umani e
i valori divini, ancora non è stata pienamente attuata dalla civiltà. Quella medievale e quella
moderna hanno potuto sondare uno degli aspetti di questa realtà, ora l'umano, ora il divino, ma
tocca ai tempi nuovi di comporre in sintesi queste divergenti esperienze e di attuare pienamente
la legge dell'Incarnazione".
La legge dell'Incarnazione sta ormai al centro del suo pensiero e della sua vita. Una legge che è
riassumibile nel "sanare il dolore", che diviene "non…soltanto un'opera di filantropia ma
un'opera che appartiene strettamente alla redenzione di Cristo", nella consapevolezza che "dopo
Cristo non è più possibile altra redenzione che non sia cristiana". Il segno per rendere visibile
questa "legge" è una fattiva carità volta a contrastare il dolore e le forze della morte. Tanto che "la
lotta e la vittoria contro il dolore è una seconda generazione, non meno grande e dolorosa della
prima e che chi riesce a ridonare a un bimbo la sanità, l'integrità, la serenità della vita, non è
meno padre di colui che, alla vita stessa, lo ha chiamato per la prima volta".
La paternità assurge così a cifra per eccellenza dell'intervento educativo. Ma la paternità, tutta
protesa a dare la vita, è proprio il connotato essenziale del Dio cristiano di cui ogni uomo è
immagine visibile.
Il cerchio così si chiude: la Redenzione è l'espressione della paternità di Dio e la paternità diventa
il fondamento di ogni intendimento pedagogico che ha, come fine ultimo, la volontà di "creare la
vita che ancora non c'è, ma che ci potrebbe essere", proprio come fa Dio.
L'esperienza della fede si è tramutata per Don Gnocchi in progetto pedagogico e il progetto
pedagogico non può più prescindere dal dato di fede.
La cura come atto pedagogico
Quali le conseguenze di questo itinerario spirituale, culturale ed esistenziale di don Carlo? E' la sua stessa
vita dal dopoguerra, la sua morte con il dono delle cornee a due ragazzini ciechi e la sua Opera multiforme
a dircelo. Di più: è il suo messaggio che sta rivedendo la luce che ci dà la misura della "rivoluzione
pedagogica" che ha avviato.
Infatti don Carlo non ha mai confuso l'educazione con l'apprendimento, e tantomeno con l'insegnamento,
anche se queste realtà sono tra di loro strettamente interconnesse, piuttosto, come abbiamo già visto, la
concepiva come un processo vitale di interscambio che coinvolge simultaneamente l'educatore e
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l'educando. Dopo la guerra però va oltre, affermando che questo processo di crescita dura tutta la vita e
coinvolge tutto l'uomo, perché educare è imparare ad amare e ad essere amati, dentro il cui processo
nozioni, metodi, esperienze, sentimenti e sperimentazioni si configurano come dei puri strumenti, sia pur
importanti, mentre la sostanza e il fine dell' educazione è l'amore: "L'educazione dell'amore non è una
lezione scolastica che si possa impartire in un'ora o in parecchie ore di insegnamento, assisi
cattedraticamente in poltrona, col piccino seduto compostamente dinanzi. Non è una lezione di
astronomia né un itinerario di viaggio. È l'educazione di tutto l'uomo e la vita appena può bastare a
iniziarla". Dunque: tutto l'uomo e per tutta la vita. Questa è l'essenza della pedagogia di don Gnocchi! La
vita si trasforma così in un percorso propedeutico ad un Oltre verso cui tendere e alla luce del quale tutto
acquista significato: nozioni, esperienze ed errori compresi. La vita intera di ciascuno costituisce solo il
prologo per imparare ad amare, sostanza di ogni sapere e principio di ogni processo vitale. Don Gnocchi
più esplicito non poteva essere: siamo su questa terra per iniziare ad amare. Ma si può veramente amare se
non si è sofferto? Noi diventiamo capaci di "vedere", comprendere e ascoltare chi ci sta vicino solo quando
siamo passati attraverso il crogiolo del dolore, piccolo o grande che sia. Lo sperimentiamo quotidianamente
e l'intera storia umana è lì continuamente ribadircelo. La scienza, la medicina, l'insegnamento, la politica,
l'economia e persino l'arte non sono, alla loro radice, un atto di compassione dell'uomo per se stesso, un
tentativo disperato di alleviare il suo "male di vivere"? Poi noi umani, e purtroppo lo facciamo spesso,
usiamo negativamente questi strumenti rivoltandoceli contro, ma l'intendimento originario della nostra
creatività è quello di sostenerci a vicenda nel faticoso cammino per uscire dall'animalità e per scampare alla
violenza: per essere uomini in pienezza, quali Dio ci ha sognato.
Se è questa è la prospettiva ultima dell'educare, comprendiamo bene perché don Gnocchi amasse ripetere
che "bisogna rifare l'uomo e, per farlo, bisogna restituirgli anche la dignità, la dolcezza e la varietà del
vivere, voglio dire quel rispetto della personalità individuale e quella possibilità di esplicare
completamente il potenziale della propria ricchezza personale". E perché "la cura degli ammalati, le arti
della medicina, la carità verso i sofferenti, la lotta contro tutte le cause dell'umana sofferenza sono una
vera e continua redenzione materiale che fa parte della redenzione "totale" di Cristo e di essa ha tutto
l'impegno e la dignità", che non è tanto la professione di fede di un sacerdote, quanto la presa d'atto che,
almeno fino a quando rimarremo esseri pensanti, il prendersi cura e il condividere costituiscono le
condizioni indispensabili per la nostra stessa sopravvivenza e per il nostro crescere in civiltà, senza delle
quali l'imbarbarimento dell'uomo è certo e le sorti del pianeta consegnate ad anonime e distruttive forze che
abbiamo scatenato, ma che non siamo più in grado di controllare.
Un'ultima provocazione, per chiudere: non è proprio questo modo di essere e di pensare il discrimine, lo
spartiacque tra la Fondazione don Gnocchi e le altre realtà pubbliche e private che si occupano della sanità
e dell'assistenza? Da noi gli interventi sul corpo del malato e l'assunzione delle disabilità delle persone non
possono mai ridursi alla meccanica della protesi o alla rianimazione di un organismo, devono invece
trasformarsi in gesti d'amore, che rimandano, come segni efficaci, pedagogici appunto, alla profondità di
noi stessi e contemporaneamente ad un Altro che ci è più vicino di quanto possiamo sperare. La formazione
degli operatori della don Gnocchi non potrà allora che partire da un fondamentale presupposto che don
Carlo aveva così esplicitato: "nulla vi è nell'uomo che sia esclusivamente spirituale e nulla che sia
puramente fisico", così che "il combattimento contro il dolore non è soltanto il complemento della
generazione umana, ma è altresì un complemento della redenzione cristiana".
Terapia come educazione e pedagogia come cura. E fede, che dà senso all'una e supporta l'altra in una
restaurazione di tutto l'uomo: finalmente una novità vera nel meccanicismo imperante oggi anche
nell'ambito formativo!