L`ARENA 14 maggio 2006

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L`ARENA 14 maggio 2006
L’ARENA
14 maggio 2006
Un commento
Don Monza e don Gnocchi, nulla è più bello dell’infanzia
Mentre nel grande Duomo di Milano un piccolo prete lombardo, don Luigi
Monza, viene solennemente elevato alla gloria dei beati, grandeggia con fama
crescente un altro sacerdote, già dotato di fascinante figura e differenza del
modesto don Luigi: don Carlo Gnocchi, che durante la guerra era stato
cappellano militare in Russia, e dopo si era dedicato, con appassionata
intelligenza, ai bambini colpiti da qualche mutilazione o dalla terribile
poliomielite.
Il tempo di vita dei due - la prima metà del Novecento - era stato pressappoco
lo stesso. Identica la motivazione che li muoveva, in direzioni solo
apparentemente diverse, mentre appariva provvida la quasi coincidenza dei
campi di lavoro apostolico prescelti, il mondo infantile meno fortunato. E in
quel lavoro, propriamente apostolico se pensiamo alle parole evangeliche di
Gesù il quale comanda di lasciare «che i bambini vadano a Lui, poiché di essi è
il regno dei cieli», praticato da sempre all’interno della Chiesa, sia don Monza
sia don Gnocchi dicono parole profondamente nuove. Nuove e innovative, se
pensiamo che, superati serenamente gli antichi confini della compassione e
della filantropia, Monza e Gnocchi capiscono che per fare bene la carità, ossia
per amare nel modo giusto, «moderno», è necessario coniugare le esigenze
del cuore con quelle del sapere scientifico.
I bambini di cui si occupò, dapprima, nel clima disumano della guerra che
falciava dovunque le vittime, specialmente innocenti, portavano nelle proprie
personcine martoriate i segni sanguinosi della violenza armata. «Mutilazioni»,
li chiamavano, con un diminutivo che lasciava intatta l’iniqua sofferenza. Come
di loro compagni malati di paralisi infantile o poliomielite, la loro sorte
comportava quasi inevitabilmente l’emarginazione, ossia una forma di resa di
fronte al male, e di inutilizzazione della piccola persona colpita, che si
destinava all’inerzia e all’insignificanza più o meno rassegnata.
I piccoli ai quali si rivolse preferibilmente, con coraggio tanto umile quanto
determinato, con Monza, coadiuvato da nuclei sempre più numerosi e
qualificati di donne, che diventavano inevitabilmente, col «suo» modo di fare,
delle specialiste insostituibili, soffrivano invece, piuttosto, di lesioni cerebrali, o
comunque nervose, risalenti per lo più alla gestazione o al parto. Un campo
terribilmente impegnativo, al quale la stessa medicina dei bambini cominciava
a destinare attenzioni più sistematiche, scientifiche e proficue di quelle finora
riservate dalla beneficenza tradizionale.
SI PARLA DI: LA NOSTRA FAMIGLIA
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L’assistenza, la cura, in molti casi il recupero almeno parziale dei bambini
malati fu, e continua ad essere, una delle risposte che coraggiosi uomini e
donne mossi dal vangelo davano al rassegnato o disperato, o comunque
inaccettabile provvedimento, troppo spesso preso ancor oggi, che si esprime
nell’interruzione della gravidanza, o della vita già nata, o nell’abbandono
sfiduciato del piccolo, sul futuro del quale non si osa spendere ricerche,
energie, impegni morali considerati improduttivi.
Uomini come don Monza e don Gnocchi sono peraltro riusciti, coi loro metodi
decisi ma sommessi, a far sì che un numero crescente, complessivamente
alto, di persone qualificate, già operanti nell’ambito medico-terapeutico, o ad
esso avviate, considerino prioritario, e più che remunerativo dal punto di vista
morale, ogni sforzo compiuto per la salvaguardia, il miglioramento, la
valorizzazione delle vite infantili, ancora facilmente esposte agli oltraggi
dell’egoismo anche dentro alle famiglie.
In questo senso la celebrazione religiosa che vedrà i due glorificati in Milano dove furono ambedue «promossi» dall’esangue fortissimo benedettino cardinal
Alfredo Ildefonso Schuster egli pure già «beato» - può assumere nel nostro
Paese, oggi un po’ più sbadato, pasticcione e materialista del solito, il
carattere di una presa di coscienza e d’una crescita di valori civili, se è vero
che nulla è più prezioso della vita, più «bello» dell’infanzia.
di Pietro Nonis
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