Françoise Sagan, pseudonimo di Françoise Quoirez, nasce nel

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Françoise Sagan, pseudonimo di Françoise Quoirez, nasce nel
Françoise Sagan, pseudonimo di Françoise Quoirez, nasce nel 1935.
A diciannove anni pubblica il romanzo Bonjour tristesse, un successo
planetario che la segnerà per sempre. Si sposa due volte, con l’editore
Guy Schoeller e con Robert Westhoff, da cui ha un figlio, Denis.
Personaggio tormentato della cultura francese, attratta dal mondo del
cinema, amante ante-litteram delle auto da corsa, della velocità e del
gioco, sempre sopra le righe, è nota anche per Le piace Brahms? e Un
certo sorriso e altri quaranta tra romanzi, drammi, sceneggiature, fino
a Musiche di scena, del 1996. Dopo varie vicende ha trascorso il suo
ultimo periodo di vita in solitudine e nell’indigenza, ed è morta nel
2004 in una clinica della bassa Normandia.
Gare du Nord
La frenesia e la multiculturalità della parigina Gare du Nord raccontano il
carattere composito della collana di narrativa contemporanea di Edizioni
Clichy, dedicata alla scrittura di stampo letterario, principalmente
francofona ma non solo: storie, esseri umani, vite, colori, suoni, silenzi,
tematiche forti, autori dal linguaggio inconfondibile, senza timore di
assumere posizioni di rottura di fronte all’establishment culturale e sociale o
di raccontare abissi, sperdimenti, discese ardite ma anche voli e flâneries.
«Un matin pour la vie et autres musiques de scène»
de Françoise Sagan
© 2011 Éditions Stock - Paris
Per l’edizione italiana:
© 2013 Edizioni Clichy - Firenze
Edizioni Clichy
Via Pietrapiana, 32
50121 - Firenze
www.edizioniclichy.it
Isbn: 978-88-6799-007-8
Françoise Sagan
Musiche di scena
Traduzione di Laura Mammarella
Edizioni Clichy
I racconti della raccolta Musiche di scena sono stati pubblicati per la prima volta da Flammarion, nel 1981 e vengono qui proposti per la prima
volta in Italia. Gli altri racconti, posti in apertura del volume pubblicato
da éditions Stock e finora inediti in italiano, sono stati rispettivamente
pubblicati su «Elle» nel 1962 (Un mattino per sempre), «VSD» (Storia
d’agosto), «Playboy» nel 1985 (Un vero macho) e «Revue de Paris» nel
1955 (Menu).
Un mattino per sempre
Mi chiamo Nicole Montagné, ma tutti mi chiamano
Delphine. è il nome che mi sono scelta. Lavoro a Vues,
un grande settimanale femminile, nella sezione attualità. Ho venticinque anni, e quel che si dice un bel fisico.
Inoltre so «darmi da fare». Non ho scrupoli da quel punto
di vista. Né complessi, né frigidità. Stipendio discreto, salute di ferro, genitori deliziosi. Non coniugata. Solo una
volta sono stata sul punto di sposarmi: con Jean-Loup.
Anche lui lavorava a Vues. È morto in maniera stupida
in uno stupido incidente aereo. Stavo bene con lui, forse
eravamo un po’ troppo intimi per la morale comune. Ma
alla nostra epoca... Insomma, il giorno della sua morte
ho avuto una grande pena d’amore, e mi volevo uccidere.
Piangevo talmente tanto ed ero così stanca che ci sarei
quasi potuta riuscire. E poi sono venuti gli amici: avevano paura che facessi «una sciocchezza». Si dice così anche
in quei casi. Era due anni fa. Di tanto in tanto, quando
me ne parlano (per sbaglio), ho un’aria distante. Ma la
sua fotografia sopra il mio comodino si è molto sbiadita.
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Non ho opinioni politiche ben precise. Ho quelle di
Marc, piuttosto a sinistra. Anche Marc lavora a Vues, assomiglia a Gérald Norton su «France-Soir». È il mio fidanzato, più o meno. Insomma, la gente dice spesso: «Voi
due, col tempo, finirete per sposarvi». Anche lui lo dice.
Anch’io. Detesterei perderlo.
È molto difficile parlare di sé. Non me ne rendevo
conto. Dopotutto, non ho una vita grigia, nemmeno soffocante. Mi guadagno da vivere in un ambiente piuttosto
divertente, ho un ragazzo che mi ama, un grande amore
morto alle spalle, buoni amici. Ho una vita piacevole e,
come ho detto, se davanti a me parlano di politica, mi
difendo: in altre parole i miei genitori mi considerano
di sinistra, gli amici di Marc di destra e io in genere mi
limito a deplorare i soprusi da ambo le parti e a dire che
gli uomini non si rendono conto del prezzo del sangue.
Che siamo noi, le donne, a fare i figli, eccetera. Del resto,
è il mio unico lato femminista. Ovvero non dico, come le
persone della mia età: «Noi donne, voi uomini». Nessuno
ci pensa più. Né se ne parla più. E non mi piace inventare cose astratte. Mi piace stare al passo con i tempi, e
siccome sono di umore allegro e capisco in fretta, non è
difficile... Grazie a Dio, non ho più quattordici anni.
Perciò non scriverò niente che riguarda me.
Sono stata svegliata dal telefono stamani. Era Gladys.
Anche lei lavora al giornale. Ho afferrato il telefono con
un gemito, innanzitutto perché credevo lo avessero tagliato (crisi finanziaria, pigrizia, eccetera) e poi perché avevo
guardato l’orologio alzando il ricevitore: «Le nove di mattina, di domenica!». Inoltre il telefono è sul comodino,
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tra la fotografia di Jean-Loup e quella di Marc, e questo
mi mette a disagio ogni volta. È stupido, però ho l’impressione di tradire qualcuno, ma chi? Jean-Loup, Marc,
o me stessa? Infine mi sono accorta che la mia tenuta n.2,
quella in stile Chanel che avevo indossato ieri sera, era
scivolata dalla sedia. Insomma, un pessimo risveglio.
Gladys al telefono piangeva. Singhiozzava. Ho sentito
qualcosa d’impalpabile insinuarsi fra le scapole: la paura, il terrore. Per un attimo non ho voluto sapere niente.
Non ho voluto davvero sapere niente. Ma poi ho detto: «Gladys, calmati», e lei mi ha detto tutto: era stata
dichiarata la guerra, la guerra atomica. Il giornale era
chiuso, le comunicazioni interrotte, era la fine. Era inutile raccogliere il mio abito da sera. Fra un’ora sarebbe
arrivato il primo missile. San Francisco era sparita dalla
carta geografica, anche Leningrado. Gladys voleva dirmi
«Addio». Per un minuto ho creduto che fosse impazzita.
Poi ho pensato a Pierre, l’amico di Marc, quello tanto
brutto che parlava sempre della nostra inconsapevolezza.
Ho detto: «Non è vero, non è vero», automaticamente,
poi ho sentito una specie di singhiozzo e il rumore di uno
scatto. Questa volta la linea era interrotta sul serio. Ecco,
mi sono detta, ci siamo! Non perché avevo dimenticato
di pagare la bolletta, in quelle circostanze... doveva essere
successo in generale, ho pensato. A dire il vero, non ero
proprio sveglia. Mi sono vagamente chiesta che aspetto
dovesse avere un missile. Lo immaginavo come un disco
volante. Poi, d’improvviso, ho avuto paura e sono andata
a nascondermi sotto le lenzuola. Non era possibile. Mi
dovevo informare. Ho messo la mano sul telefono ma
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poi mi sono ricordata. Non potevo fare niente. Non avevo una radio. Marc dice che abbrutisce. Sono andata alla
finestra. Silenzio, deserto. Va detto che affaccia su una
corte. Ma nemmeno l’ombra di un portiere. Neanche di
un inquilino. Non c’era nessuno. Dovevo... sì, dovevo vestirmi, correre da mia madre, chiederle di proteggermi...
Lei diceva sempre che le armi nucleari erano come i gas
nel 1914, non avrebbero osato utilizzarle. E io che a tavola mi divertivo a fare previsioni sul futuro e dicevo...
Ma mia madre abitava a Issy-les-Moulineaux... Quanto
tempo ci voleva a piedi se la metro ci metteva un’ora... E
fra un’ora, il missile...
Ho iniziato a piangere. Tutta sola, in camicia da notte, nella penombra. C’erano state, naturalmente, serate
in cui parlavo della morte come di una vecchia relazione,
con distacco, con gli amici, soprattutto dopo mezzanotte... Ma la morte alle nove del mattino... appena sveglia...
Marc abitava a Passy, c’era lo stesso problema. E poi non
avevo voglia di morire fra le sue braccia, me ne rendevo
conto inorridita. Vivere con lui sì, morire no. «Meglio
morire con te che morire con un altro» no, «meglio morire con te che vivere senza di te». Avevo ritrovato la mia citazione, mi sono sentita un po’ sollevata e mi sono seduta
sul bordo del letto. Mi ha sfiorato il pensiero di essere presto un vago ammasso di cenere. Ho messo la mano sulla
bocca, ho sentito pulsare il sangue, tutto mi è sembrato
assurdo. Grottesco. Ho mormorato, credo, parole sconvenienti verso J. F. Kennedy che, in generale, mi sembra
un uomo piuttosto bello, e verso Kruscev, che pare sia
pieno di umorismo (così ha detto Marc). Ho cercato di
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immaginare San Francisco vuota come nell’Ultima spiaggia, ma visto che non ci sono mai stata era molto facile.
O troppo difficile. E Parigi... la mia città. Sono andata di
nuovo su tutte le furie. Cercavo inconsciamente di mantenere quella collera, di farla durare: non potevo crollare
sul letto e mettermi a urlare... È una cosa che non si fa.
Se avessi almeno potuto fare testamento, con frasi solenni
e tutto quanto... ma chi lo avrebbe letto... chi? Forse un
pastore delle Cevenne, tutto storto... mentre un giorno
scopre le rovine di quest’antica città: Parigi. Ho richiuso
istintivamente la vestaglia: ho visitato Pompei, una volta,
e la cosa che mi ha abbattuto di più era l’ineleganza di
certe posizioni. Dopodiché sono entrata in bagno e, con
freddezza, mi sono tirata indietro i capelli. (D’altronde
so che nessuna depressione resiste a un buon shampoo,
sembra stupido ma è così), e poi, come dire, mi sembrava
una cosa molto elegante da fare. «Ah, stiamo per morire
tutti? Via, via, lasciatemi risistemare i capelli».
Mi passavano per la testa dei piccoli pensieri incontrollabili. Delle sciocchezze. Dentro di me doveva esserci
qualcosa d’impazzito che offuscava ogni iniziativa. Allo
stesso tempo mi dicevo che era necessario riflettere, proprio io che ho sempre trovato la riflessione così... come
dire, non una cosa secondaria, ma in ogni caso «sostituibile» sul momento. Dovevo riflettere. Stavo per morire.
I miei genitori stavano per morire, i miei amici, le mie
relazioni. Era grave. E intanto una piccola voce dentro di
me diceva che avevo dimenticato di ricomprare la spazzola con le setole dure. L’inferno, o chissà che altro, infuriava nella mia testa. L’incoerenza. L’incoerenza... Mi sono
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accorta che mormoravo quella parola con soddisfazione,
perché era la parola giusta. La parola corretta. Eppure
Dio solo sa se non era quello il momento di rallegrarmi
per la conoscenza del mio vocabolario, ma non potevo
farne a meno. Come dice mia madre: «Mia figlia è nata
con la penna in mano». Ho pensato al libro che un giorno
avrei voluto scrivere, avevo già un’idea... no, non ne sarebbe valsa la pena. Tutto distrutto, in un secondo... Era
una cosa inimmaginabile... Eppure, Leningrado già non
esisteva più. I campi, i fiumi intorno, le case di legno,
le isbe, si era tutto volatilizzato. Come San Francisco, e
presto Parigi. Parigi, dove avevano passeggiato Luigi XIV,
Napoleone e tanti altri. Quanti passi su queste strade...
Avevo le lacrime agli occhi, mi mordevo le labbra. Pensavo al mondo. Nel frattempo mi sono accorta che avevo
raccolto la mia tenuta n.4 e l’avevo messa su una gruccia.
Quella cosa mi ha mandato fuori di me, mi odiavo.
Che ore erano? Nella mia mente quel pensiero ha sostituito immediatamente tutti gli altri. Che ore erano?
Quanto tempo mi restava? Ho rigirato di sfuggita le fotografie dei ragazzi - devo dire che erano la mia preoccupazione minore - e ho afferrato la sveglia. Le nove e
venti. Venti minuti... Avevo perso venti minuti, di cui
cinque a spazzolarmi i capelli e a mettere a posto i vestiti.
Mi sono rimessa a piangere a grandi singhiozzi stavolta, e
non la finivo più. Comunque non avrei passato altri cinque minuti a cercare un fazzoletto. Lo scherzo era durato
abbastanza. Ma quale scherzo? Mi sono sorpresa a mormorare: «Dio mio proteggici», io che sono atea dai tempi di Jean-Loup. Se avessi almeno potuto pregare... ma
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sarebbe stato disonesto. Non ci si riavvicina alle persone
così, all’ultimo momento, dopo averle «snobbate» cinque
anni. Quell’idea mi ha restituito un po’ di coraggio. Bisognava morire in modo degno. Tutto qui. Mia madre abitava troppo lontano, il telefono e la metropolitana erano
fuori uso e la mia Dauphine era nel garage di Marc. Ero
sola, stavo per morire da sola. Mi sono ritornati un po’ di
singhiozzi a quell’immagine di me stessa, ho detto: «No,
non voglio, non voglio», a voce alta; insomma ho sfiorato una crisi di nervi, il che per me è davvero eccessivo.
Mi sono soffiata il naso nel lenzuolo e mi sono alzata.
Per un istante ho pensato di andare da Corinne, abita
qui vicino e ha una terrazza. Mi vedevo già lì a guardare,
tranquillamente, arrivare il missile dal punto più lontano
dell’orizzonte. L’idea mi piaceva abbastanza. Poi ho pensato che Corinne doveva essere con suo marito, i suoi due
figli, sarebbe stata una scena spaventosa. La cosa migliore
era ritornare a dormire: sarei morta nel mio letto, come
si suol dire, con diecimila palazzi sprofondati intorno a
me. Per un attimo quell’idea mi ha fatto ridere. Sì, ridere.
In fondo, non era un’idea così cattiva: ho acceso il giradischi e mi sono sdraiata. Wagner? Certo non quello con
la copertina bella, ma nemmeno l’ouverture del Lohengrin, quello era nuovissimo. Non so nemmeno chi me
lo avesse regalato. Bisognerà che un giorno sistemi i miei
dischi... Quella frase, pronunciata così spesso, diventava
crudele, amara, lacerante... A un tratto ritrovavo la mia
bravura con gli aggettivi, quella che ha tanto successo al
giornale... Insomma, alla fine ho ascoltato un pezzo del
Lohengrin, cercando di non muovermi. Era proprio noio11
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so. Mi guardavo le vene della mano, pulsavano, pulsavano... In quel momento hanno bussato alla porta. Per un
attimo ho creduto che fosse Marc, è il tipo di persona che
fa tre chilometri correndo a piedi senza perdere fiato. No.
Erano Antoinette e Pierre (quello tanto brutto). Mi hanno guardato in modo strano. Io ho sorriso in modo triste.
«Che cos’ha il tuo telefono?» ha chiesto Antoinette.
«Lo hanno tagliato» ho detto «è normale. Sono due
mesi che non pago la bolletta».
Mi sembrava una questione triviale. Dopotutto erano
solo le dieci e un quarto del mattino.
«Lo sapevo» ha detto lei a Pierre. «Non ci ha creduto.
È ovvio. Tutta Parigi sa che oggi è il primo aprile. Non
valeva la pena di correre fin qui».
Ho guardato lei, poi ho guardato Pierre. Ho capito
come si poteva arrivare a uccidere, in un attimo. Ho capito Shakespeare e Wagner e un sacco di altre cose. Ma mi
sono ripresa in fretta.
«Sono un po’ mattinieri i vostri scherzi» ho detto.
Mi sono allontanata con la scusa di andare a fare del
tè. Appena arrivata in cucina, prima ho dato un bacio alla
teiera. Poi al muro.
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