N.1 ottobre-novembre 2015 - Liceo Classico "F. Petrarca"

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N.1 ottobre-novembre 2015 - Liceo Classico "F. Petrarca"
DEDALUS
N°1
Ottobre-novembre 2015
Eppur si muove
Sommario
3. Editoriale
Alessandro Miro
4. A volte ritornano
17. Letteratura
stand by me-Chiara Celeste Nardoianni/Eleonora Ducci
Fantascienza o realtà?-Serena Convertino
Renzo Nuti
6. Riflessioni
“Qualche riflessione e divagazione non sistematica” -Martina Landini
“In questi tempi così ostili e incerti...” -Sofia Casini
“Cos’è veramente la bellezza” -Marta Nanni
9. Attualità
Bosnia-Alessandro Miro
13. Linguistica
“sull’evoluzione del sistema vocabolico in protoitalico” -Didier Natalizi Baldi
14. Minime Moralia
Enrico Fedeli
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2015 | Dedalus
19. Cinematografia
I figli degli uomini-Marco Tenti
Il cinema secondo Hitchcock-Alberto Ghezzi
Breaking Bad e declino dell’uomo moderno-Christian
Burroni
23. Musica
Lucia di Lammermoor-Costantino Benini
25. Sport
His Airness-Francesco Scrocca
27. Poesie
Love-Tommaso Caperdoni
Editoriale
COME OGNI ANNO il nostro Dedalus
torna tra i banchi scolastici. Voglio
innanzitutto ringraziare i due
redattori dell’anno scorso: Serena
Citernesi e Dejan Uberti, i quali
hanno svolto un ottimo lavoro per il
giornalino. Ora il testimone è passato
a me, a Sofia Casini e a Francesco Tenti.
Questa non è l’unica novità, mi
spiego: in primis collaboreremo con
un quotidiano locale, il “Corriere
d’Arezzo”, e con un altro giornalino
scolastico, quello del liceo scientifico
“Touschek” di Roma. Stiamo poi
avviando un progetto con alcune
classi delle scuole medie per portare
i nostri lavori e le nostre idee anche
al di fuori del classico. Come sempre
il giornalino verrà stampato grazie
all’aiuto della Provincia di Arezzo
e venduto presso la “Feltrinelli” di
via Cavour. Sfogliando le pagine
di questo primo numero, troverete
la pubblicità di diverse attività
commerciali. Questi sono i nuovi
sponsor che abbiamo trovato per
riuscire a pagare la carta, perché
purtroppo le casse del Dedalus sono
eternamente vuote. Comunque, al di
là dei progetti e degli sponsor, che
indubbiamente migliorano la qualità
del nostro Dedalus, non dobbiamo
dimenticare la causa imprescindibile
del giornalino: dare voce alle idee
dei ragazzi del liceo classico.
CHI VIENE E CHI VA’. Parto con i saluti.
Un grande in bocca al lupo agli exstudenti di quinta per la loro nuova
avventura universitaria. In fondo
spero che siate un po’nostalgici
di quella scuola che per cinque
anni vi ha fatto divertire su quelle
simpatiche versioni di greco e di
latino, comunque non disperate,
nel caso in cui siate veramente
nostalgici, noi del Dedalus vi
dedichiamo uno spazio apposito:
la rubrica “A volte ritornano”.
Non
posso non salutare il nostro expreside, Maurizio Gatteschi, che è
tornato a tempo pieno al liceo psicopedagogico. A ripensare al suo anno
di presidenza, mi viene in mente
la frequenza con la quale faceva il
tragitto dal “Colonna” al “Petrarca” e la
stanchezza con la quale affrontava la
terza rampa di scale del nostro liceo.
E’ stato indubbiamente un caparbio
centometrista. Una volta entrato
a scuola, saltava con scaltrezza
segretari e professori come se
fossero ostacoli e, infine, si barricava
nel suo studio, nemmeno il tempo di
esultare per la vittoria che subito lo
aspettavano scartoffie burocratiche
di ogni genere. Un giorno ha capito
quanto sia difficile amministrare due
scuole insieme e ha deciso di fare
un passo indietro. Sicuramente un
merito gli va riconosciuto:con tutte
le sigarette che ci ha fatto spegnere
a metà, ne trarremo grandi benefici
per la salute. Gli auguro una buona
annata al liceo psico-pedagogico.
Dopo aver
affrontato l’argomento “saluti” con
sana ironia, è giunto il momento di
passare ai nuovi arrivi. Un benvenuto
agli studenti del primo anno, che
aprono il Dedalus con tanta curiosità.
Spero che, col tempo, imparerete
ad apprezzare il giornalino e che
possiate dare un grande contributo
al nostro progetto. Insomma,
aspetto con curiosità i vostri articoli!
Un caloroso benvenuto anche
alla nuova Preside, Mariella Ristori,
appena arrivata dal liceo artistico
“Piero della Francesca”. Una premessa
va fatta: non ha sicuramente scelto
la strada più semplice, e già di
questo bisogna darle merito. Come
tutti sappiamo il Classico oggi si
è notevolmente ridimensionato
, ma è pur sempre un’istituzione
di grande prestigio. Lo sottolinea
anche lei: “ Io ho scelto questa
scuola perché mi piaceva. E’ vero che
siamo in un momento di crisi, però
dico ai genitori che, proprio ora, è
necessario puntare ad un’ottima
formazione. Il mio obiettivo è di
creare una scuola di eccellenza”.
ACQUA ALLA GOLA. E anche
quest’anno il destino della nostra
scuola è intrecciato a doppio filo con
un numero . Bella contraddizione per
noi classicisti che spesso lasciamo da
parte la matematica …
Senza
i famosi seicento iscritti perdiamo
l’indipendenza, e scusate tanto,
ma il Petrarca inglobato al Colonna
credo che nessuno lo voglia vedere.
E’ arrivato il momento di rimboccarsi
le maniche e pensare a nuovi
progetti, perché la nostra scuola,
vista da fuori, appare assolutamente
immobile. “La sfida è di conciliare
le materie del liceo con qualcosa
di più innovativo.”-commenta la
Preside a tal proposito-“ Gli ambiti
sui quali possiamo intervenire sono
di tre tipi: informatico, linguistico,
matematico-scientifico. Il più fattibile
è il terzo, dato che ha già portato
buoni risultati lo scorso anno.”
Non solo questo, per
la prima volta al liceo classico verrà
svolta l’alternanza scuola-lavoro:“
Inizieremo con le classi terze, poi
negli anni a venire, l’alternanza verrà
estesa a tutto il triennio. Abbiamo
intenzione di contattare musei,
biblioteche e altre associazioni
culturali come Rondine (la cittadella
della pace) o il FAI.” – spiega la
Preside-“ Questa è già un’occasione
per “spolverare” le attività del nostro
liceo.”
“MI PIACEREBBE CHE I RAGAZZI
proponessero qualcosa di nuovo per
migliorare la scuola. Entro gennaio”sottolinea -“dovremo presentare il
POF (Piano dell’offerta formativa),
il quale non sarà più annuale, ma
avrà validità di tre anni. Spero
che voi studenti, insieme anche
ai genitori, possiate contribuire
al miglioramento della didattica
e dell’organizzazione scolastica.”
Queste
parole sono apprezzabili, dobbiamo
essere in grado di coglierle, anche
perché noi studenti possiamo offrire
un punto di vista fondamentale
sulla questione: abbiamo la
capacità di guardare il problema
da un’angolazione differente, e
quindi interessante. A tal proposito,
sarei molto contento di pubblicare
sul Dedalus idee e progetti che
riguardano la vostra idea di scuola.
Sembrava impossibile, eppur si
muove!
Buon anno scolastico a tutti
Alessandro Miro
La mail: [email protected]
Redazione:
Sofia Casini
Alessandro Miro
Francesco Tenti
Dedalus | 2015 3
Quanto ancora?
A volte ritornano
di Renzo Nuti
“Quanto ancora? “ . Questa, a mio
giudizio, la domanda definitiva del
nostro tempo, il quesito che sottende
silenziosamente alla quotidianità di
ognuno di noi, vecchio o giovane, per poi
coglierlo di sorpresa, al calare della notte,
e ritirarsi nuovamente senza aver avuto
risposta. Due parole che riassumono
tutto lo spirito di questi tempi liquidi,
che continuano a sgocciolare via mentre
l’orizzonte si fa sempre più incombente
e minaccioso. Forse è solo un’angoscia
personale che sto inavvertitamente
proiettando su scala globale, forse vi è
chi non solo per ingenuità è francamente
convinto che il mondo possa continuare
ad andare avanti così come sta andando
ora, magari con qualche piccola, dovuta
correzione. Ma dubito che chiunque
abbia un minimo di sensibilità nemmeno
morale, anche solo logica o predittiva,
e si tenga sufficientemente informato
su ciò che il resto dell’umanità sta
vivendo, possa intravedere intorno a sé
le confortanti premesse di un futuro più
felice, o perlomeno di un futuro in cui una
felicità più “globale” sia compatibile con
un perpetrarsi dell’attuale stato di cose. “
Beh allora? Si sa che il mondo va male, è
da un pezzo che va male” – d’accordo, ma
il problema è ricordarsi che non sempre
è andato così male, e che il peggio non
è inesauribile. Che per la prima volta
nella storia dell’umanità il rischio che in
lontananza (ma nemmeno troppo) si
profila è il collasso del pianeta, dal punto
di vista ecologico, demografico, politico,
economico e chi più ne ha più ne metta.
Dalla cerchia più ristretta dei propri
interessi personali, approfondendo lo
sguardo fino ai problemi più complessi
di un mondo globalizzato, adesso
tutto sembra precario, radicalmente
compromesso alle fondamenta: la nostra
vita (precisazione: “noi”, “nostro”, e via
dicendo sono termini con cui, di qui in
avanti, mi riferisco alla supposta totalità
di coloro che, con tutte le sfumature e
imprecisioni della categoria, si ritengono
ancora oggi “occidentali”)si regola e
prosegue sulla base di strutture sociali,
economiche, politiche e culturali che da
tempo sussistono per pura inerzia, che
solo dall’essere state ricevono la propria
giustificazione ad essere ancora. L’inerzia,
e con essa l’ideologia, sono forse le altre
due parole che più dolorosamente e
significativamente colpiscono il cuore di
questo torno di tempo: l’inerzia, come
già detto, con la quale ostinatamente
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e con il paraocchi procediamo
nel pantano di un mondo ultrasecolarizzato, e l’ideologia che
proprio di quest’ultima si nutre
accompagnandoci in questo miope
incedere, l’incapacità di criticare gli
schemi intrinseci a tale moto, il dare
per scontata, in buona o in cattiva
fede, la persistenza nel futuro dello
stato di cose presente. “Crescita”
è forse la parola più ideologica e
inerziale di questi anni, o di questi
decenni. “Siamo tornati a crescere,
in barba ai gufi” esulta il nostro
premier: che il dato sia vero o no,
che ci siano davvero conseguenze
positive sulla vita della popolazione
o meno, nessuno mette in dubbio il
valore della parola crescita. La colpa
che si può attribuire al governo
può essere di essere preda di facili
entusiasmi o di edulcorare scenari
in realtà decisamente critici, ma
non certo di aspirare alla crescita.
Nessuno osa mettere in dubbio
che si debba continuare a crescere
economicamente, è quasi una
contraddizione logica affermare
“noi non dobbiamo più crescere”:
che altro può fare una società nel
ventunesimo secolo? Ma è proprio
l’apparente assenza o impraticabilità
di una qualunque alternativa che
testimonia un cortocircuito nel cuore
del meccanismo, che il gioco non
funziona più, che ci stiamo infilando
in un vicolo cieco. E in questo scenario
crepuscolare risuona sempre più
diffusamente quella domanda, “per
quanto ancora?”: quanto tempo
ci rimane prima di essere arrivati
in fondo al vicolo? Quanto ancora
possiamo condurre le nostre vite al
riparo dai conflitti che imperversano
sul pianeta, delle crisi economiche
improvvise e devastanti, dalle orde
di uomini neri che si radunano nei
deserti meditando atrocità, della
fame, della sete, della povertà?
Badate bene che non tutti coloro che
si pongono tale quesito muovono
dalle stesse premesse. Senz’altro
tutti sono preoccupati, tuttavia
il discrimine si pone tra coloro
che lo sono perché vorrebbero
disperatamente (di nuovo: sia in
buona che in cattiva fede) che
le cose potessero continuare ad
essere così come sono e coloro che
invece si chiedono se sia giusto che
le cose siano così come sono, se lo
sconvolgimento imminente possa
essere in realtà una conseguenza
naturale, che forse troppo tardi è
stata presa in considerazione, di
certe vicende storiche di cui siamo
stati protagonisti, di certe pieghe
che la storia ha preso. Qualcuno
comincia ad avere la sensazione che
credere che la storia fosse finita sia
stato il più imperdonabile errore che
potessimo avere l’arroganza di fare, e
che forse si avvicina l’ora di pagarne
le conseguenze. Proprio gettando lo
sguardo nelle profondità della storia,
in effetti, difficilmente si incontrerà
un periodo in cui l’individuo medio
ha avuto così poca fiducia nel futuro
come ne ha ora, o ha sentito così
ingombrante e pervasivo il peso
delle vicende mondiali sulla sua
vita: questo l’effetto più immediato
dell’ingannevole
convinzione
di essere arrivati ad un trionfale
capolinea. Certamente vi è chi riesce
a restare spensierato e a condurre la
propria esistenza esattamente come
vorrebbe anche in un tale contesto,
ma questo genere di persona o se
la ride standosene al riparo di un
qualche rassicurante e cospicuo
capitale, oppure (e, guardandomi
intorno, è purtroppo questo il
caso più frequente anche tra i miei
coetanei) desidera raggiungere
tale stato di intangibilità e ha già
liquidato il mondo come qualcosa
che non lo riguarda e che lo
distrarrebbe dal conseguimento
del proprio obiettivo; in entrambi
i casi, magari senza rendersene
conto, è già approdato al “si salvi chi
può”. E questa urgenza di mettersi
al riparo non fa che evidenziare
ancora più crudamente quanto
diffuso sia il sentimento, per quanto
sotterraneo, che il cielo stia per
caderci sulla testa. In realtà tutti,
ogni giorno, diamo un po’ per
scontato il tranquillo perpetrarsi del
mondo che ci circonda, nonostante
le notizie che giungono da luoghi
sempre meno distanti ci facciano
tremare momentaneamente la terra
sotto i piedi; ma adagiarsi un attimo
è inevitabile e forse anche in parte
lecito. La mattina mentre andiamo
all’università o al lavoro, la sera
quando torniamo a casa o usciamo
con gli amici, mentre ci prepariamo
un pranzo veloce, mentre scriviamo
la tesi di laurea, mentre il dentista ci
visita o siamo in giro a fare shopping,
mentre ci sediamo al ristorante
o facciamo la fila alle poste: la
quiete della routine ci abbraccia
e circoscrive premurosamente le
nostre preoccupazioni, sino al raggio
del più semplice ma al tempo stesso
curiosamente pressante “oh, che
si fa stasera?”. Tuttavia ben più che
lecito, anzi decisamente prioritario,
è non lasciarsi fagocitare dal proprio
piccolo orizzonte: il che non significa
necessariamente non andare più a
lavorare, all’università, ritirarsi nella
misantropia di fronte agli amici
e sfasciare le vetrine dei negozi;
non sto invitando all’anarchia.
Significa piuttosto avere il coraggio
di farsi scuotere fino alle viscere
dal quel dirompente, angoscioso,
insopportabile “quanto ancora?”.
Perché? “perché chi resterà ferito
sarà colui che ha procrastinato;
fuori c’è una battaglia che infuria,
presto scuoterà le vostre finestre e
farà tremare i vostri muri, perché i
tempi stanno cambiando”. Proprio
così, i tempi stanno cambiando,
non hanno mai smesso di cambiare,
anche se noi abbiamo girato lo
sguardo e ci siamo adagiati sui
nostri privilegi. Significa (per citare
di nuovo Dylan, veramente grande
e tuttora insuperato nel sintetizzare
in poche parole tutta la tragicità del
mutamento storico; se qualcuno
non ha ancora scritto un saggio
del tipo Dylan e la dialettica del
mutamento storico state certi che ci
proverò io) ammettere che l’acqua
intorno a noi si è alzata e che faremo
bene a cominciare a nuotare se non
vogliamo affondare come pietre;
significa avere la forza di disperare
della vita che avevamo progettato
e sognato, ed accogliere nel nuovo
computo che di essa ci accingiamo
a fare un numero imprecisato di
variabili fino ad ora sconosciute
ma
tuttavia
decisamente
preponderanti.
L’imperativo
di
questo nuovo millennio, la sua
“idea regolativa”, dev’essere a tutti
i livelli “smetti di condurre la tua
esistenza a prescindere dal mondo,
smetti di postulare la gratuita
immutabilità della realtà che ti
circonda”. Certo, è vertiginoso e
terrificante dover convivere con
l’idea che il mondo possa in ogni
istante rovinarci addosso e toglierci
tutto ciò che abbiamo sempre avuto
a portata di mano, ma la gravità
della situazione ci impone di non
sottovalutare nemmeno lo scenario
più apocalittico, perché troppo
a lungo l’abbiamo relegato nelle
periferie del tempo e del pensiero. A
questo proposito Hans Jonas aveva
parlato di un’euristica della paura,
ovvero l’atteggiamento mentale che
prescrive, di fronte ai grandi problemi
contemporanei, di prospettare
costantemente
la
situazione
più disastrosa pur di scuotere le
coscienze e stimolarle a trovare
(in greco euriskein, appunto) una
soluzione in anticipo, o perlomeno
non in esiziale ritardo. Senza dubbio può
essere una strategia efficace, ma resta il
rischio che tale pratica degeneri in una
paralizzante paranoia o psicosi collettiva;
può darsi allora, che ciò di cui abbiamo
bisogno sia piuttosto un’euristica del
coraggio, perlomeno da affiancare alla
prima. Come ho già detto, il coraggio e la
forza titanici di mettere in questione tutto
ciò che abbiamo sempre considerato
dato e dovuto, e nonostante la vertigine
abissale, lo smarrimento, il dolore e sì,
la paura, riuscire comunque ad agire, a
vivere, con questa nuova consapevolezza
e tremenda responsabilità, in un
orizzonte fattosi infinitamente più
ampio. Il tramonto dell’occidente non
è una novità, ormai se ne parla da più
di un secolo. Ma possiamo fare in modo
che al tramonto non segua il pesante
sonno dell’ideologia e dell’inerzia, e
a quest’ultimo un inevitabile brusco
risveglio nel bel mezzo di una catastrofe
irreparabile: la storia continua e ad
un tramonto segue sempre un nuovo
giorno.
[piccolo corollario: per chi desidera
ricavare considerazioni prettamente
politiche a partire da queste riflessioni,
basta fare due più due per capire
che ogni ottuso e facile Salvinismo,
Lepenismo, Orbanismo e via dicendo
è rapidamente squalificato, almeno
sul piano concettuale, da chi si colloca
nell’ottica che ho descritto. Purtroppo
però i suddetti leader non sono puri
concetti, né è impugnando salde
argomentazioni sul piano concettuale
che costruiscono la loro fortuna politica:
altrimenti non staremmo qui a parlarne.]
Dedalus | 2015 5
Riflessioni
Qualche riflessione e dichiarazione
non sistematica di Martina Landini
Tra la polemica degli ultimi anni circa
l’utilità del percorso di studi che propone
il Liceo Classico e il piano di riforme per
la scuola emanato quest’anno, mi trovo a
pensare spesso al tema dell’educazione,
al significato che ha assunto nella nostra
società e all’inevitabile riflesso che ha
sulla nostra vita. Noi tutti la mattina
ci alziamo, carichiamo sulla schiena
il nostro pesante zaino e passiamo
metà della giornata qui, nella nostra
scuola. Leggiamo, prendiamo appunti,
ascoltiamo, tutto essenzialmente molto
tranquillo, come ci è richiesto, ed ogni
cosa concorre a far sì che così sia, se non
per inconvenienti che di tanto in tanto si
presentano sul piano pratico, mancanza
o mal funzionamento di attrezzature,
problemi di organizzazione, strutture
non idonee. Così, nel caso in cui una
problematica di questo genere si faccia
abbastanza ingente, spesso gli studenti
se ne fanno carico e con i mezzi a loro
disposizione mirano alla sua risoluzione.
Ed anche fin qui tutto bene, tutto
relativamente tranquillo, studenti che
hanno a cuore qualcosa, studenti che si
impegnano. Tuttavia, giunta al quinto
anno, non mi sento di poter dire “sì, va
tutto ed è tutto andato bene”. Non per le
ore perse a memorizzare i verbi irregolari
greci, o per il sei in matematica che
puntualmente tarda ad arrivare, o per
la classica settimana in cui si condensa
ogni possibile e immaginabile tipo di
verifica. C’è qualcosa di più fine, di molto
più triste e disturbante, non relegato
solamente alla mia personale esperienza
o alla nostra scuola, una polvere grigia ed
invisibile che ricopre, sporca ogni cosa e
si posa anche su di noi, sui nostri libri, le
nostre aule, contamina le nostre parole
e spesso anche quelle che ci vengono
dette. La mattina cammino per questi
corridoi e sento una voce flebile, subdola
e costante. Che non abbia bevuto
abbastanza caffè e stia ancora sognando?
Purtroppo penso di no. E questa voce mi
dice che si deve leggere e ripetere una
serie più o meno intricata di informazioni
se si vuol essere i migliori, e si deve essere
i migliori, il più brillante tra quei numeri
stampati sulla prova INVALSI, perché
sei un numero, vieni classificato con un
numero e sei qui essenzialmente per
farne crescere altri, di numeri. Quello del
PIL del paese, dei guadagni di un’azienda,
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2015 | Dedalus
insomma, di qualunque cosa che
rappresenti crescita economica,
produzione, competizione. Ora,
credo che nessuno gioisca di questo
sistema, fortunatamente almeno tra
le mura della nostra scuola, almeno
per le parole che capita a me di
sentire. Ma la voce continua con
il suo vile discorso e mi dice, con
toni rassicuranti, che non si deve
necessariamente essere d’accordo
con tutto questo, non è obbligatorio
condividerlo e sostenerlo. Ci
è concesso anche soltanto di
assecondarlo con distacco e
superficiale coinvolgimento, perché
questo sistema non è fatto per
essere invasivo e se uno si sforza di
passare sopra a ciò che non gli piace
non può che procurargli del bene,
serenità e spensieratezza adesso,
qualche sicurezza in più per il futuro,
senza incidere significativamente
e apparentemente sulla personale
esistenza. E così ci ritroviamo bloccati.
Scendiamo a compromessi, poiché
è difficile e, come abbiamo sentito
e risentito, sconveniente prendere
posizione. Magari non ci sarebbe
niente di così pericoloso ed eclatante
da fare, o almeno a me non viene in
mente niente di realmente efficace.
Ecco però un’idea, che magari non
concorrerà a cambiare qualcosa oggi
stesso, ma che potrebbe gettare una
differente base per un ipotetico
domani: dobbiamo cominciare a
produrre qualcosa noi. Proprio così,
dovremmo fare esattamente una
delle cose che ci chiede di fare e su
cui è improntato il sistema che sino
a questo punto è stato oggetto
della mia critica. Produciamo idee,
pensieri, scritti, arte, musica, che
siano sciatti, giovani e frizzanti,
liberi, che ci facciano a pieni polmoni
respirare, che non servano a nulla,
che ci facciano perdere tantissimo
tempo, che siano veri, pulsanti, vivi
e disordinati. Produciamo relazioni,
che siano relazioni sincere, positive,
altruistiche, disinteressate. E poi
dobbiamo anche sporcarci le mani di
terra e coltivare. Coltivare interessi,
passioni, desideri, sogni, illusioni,
ingenuità. Scacciare con tutta la
forza possibile quella polvere grigia
che inibisce e incatena i nostri pochi
anni che abbiamo vissuto, che hanno
tutto il diritto di essere colorati,
idealisti, caparbi e rumorosi. Siamo
dei germogli che devono ricevere
sano nutrimento per crescere ed
essere in grado di scegliere la via a
loro più adatta per raggiungere il
sole, oltre i rami delle vecchia foresta,
per costituirne una nuova. Purtroppo
l’impianto dell’educazione sembra
indirizzarsi sempre più verso un
qualcosa che preclude tutto questo,
verso un’impostazione che non
permette e fornisce gli strumenti
per costruire qualcosa di differente e
nuovo. Tra qualche anno con molta
probabilità ci guarderanno con gli
occhi sgranati quando diremo che
abbiamo studiato il greco antico,
perché sarà soppiantato da qualcosa
di sicuramente più utile. Utile, utile,
utile e ancora utile. Chissà perché se la
nostra società è così costantemente
volta verso l’utile alla fine nessuno
ne trae un reale giovamento, se non
per quanto riguarda un mero piano
fisico e immediato! L’educazione è
la chiave di volta per la costruzione
di una comunità, buona parte
di ciò che sarà è strettamente e
inevitabilmente
connessa
alla
sua struttura. La strada che negli
ultimi anni è stata imboccata nei
confronti di quest’ultima non pare
portare a niente di buono, allontana
sempre più dalla possibilità di un
reale rinnovamento e va anzi a
calcificare le gialle e decrepite ossa
del nostro vecchio sistema, che
così si sgretoleranno. Appare più
terribile un radicale cambiamento
che
un’irreparabile
frattura?
Decisamente meglio è quella finta
sicurezza e quella precarissima e falsa
stabilità che ci viene costantemente
sponsorizzata e proposta, nella
speranza di non vivere così a lungo
da assistere allo sgretolamento dello
scheletro intero. E ci incupiamo,
ci ingrigiamo, cresciamo nella
competizione e nella diffidenza,
ci chiediamo continuamente cosa
c’è che non va. Questo è ciò che
accade ad un fiore al quale, contro
la sua natura, è stato impedito di
sbocciare. Perché in un mondo arido
e decadente per freschezza, petali e
colore di posto non ce n’è.
...in questi tempi così ostili e incerti mi prende
l’innocente e un po’ ambizioso
proposito d’amarti di Sofia Casini
Tutta la natura si basa sulla
selezione. Gli esseri umani, che ne
sono un risultato, operano a loro
volta una selezione. Ma poiché, fatta
eccezione per rari casi, la loro non è
una selezione necessaria, il rischio è
quello di dare a torto precedenze di
significato, e che quindi certe cose
acquistino a priori un’importanza
maggiore rispetto a certe altre,
senza che se ne consideri di volta in
volta il valore specifico ed effettivo. È
questo il motivo per cui, ad esempio,
la commedia sembra avere sempre e
comunque un significato e un rilievo
intellettuale decisamente minori
rispetto alla tragedia, tanto che è
diverso il nostro modo di porci di
fronte all’una o all’altra. Una simile
sorte è toccata persino ad un tema
quale l’amore, che, specialmente
in tempi di crisi come questi, è
costretto anch’esso ad inchinarsi,
come
gli
intellettuali
meno
lungimiranti, alle problematiche
sociali e ai temi di impegno politico.
Un po’ come Machiavelli, che definì
“poeti minori” autori del calibro di
Dante, Petrarca, Ovidio, per il solo
fatto che scrivevano d’amore, oggi
releghiamo la tematica amorosa nei
nostri ritagli di tempo sempre più
rari dedicati allo svago, per poter così
consacrare la parte più intellettuale
e impegnata di noi stessi agli
argomenti “seri” e alla discussione
di quelli che Giorgio Gaber, nella
canzone “Un uomo e una donna”, con
amara ironia definisce “soprusi veri”.
Ed ecco che, confuso con il mero
sentimentalismo e romanticismo,
l’Amore, che sta alla base della nostra
esistenza, viene trattato banalmente
e superficialmente: questo è il
vero sopruso! Infatti, come lo
esprime magnificamente -ma con
la semplicità estrema e spiazzante
tipica della verità- sempre il nostro
Gaber (questa volta in “Proposito
d’amare”, da cui è tratto anche il titolo
di questo articolo), sperimentare
l’Amore o anche solo comprendere
quanto esso sia per noi decisivo “È
la scoperta di una semplice realtà /
che muove il mondo intero / perché
senza due corpi e due pensieri
differenti / non c’è futuro”. E non solo
non c’è futuro: senza quest’incontroscontro di corpi e di pensieri
differenti non ci sarebbe neppure
il presente, neppure quella crisi e
quelle guerre che ora sembrano
meritarsi la nostra attenzione a tal
punto da farci apparire trascurabile
l’Amore stesso. La nostra morte, e la
fine della razza umana ci spaventano
tremendamente, più di ogni altra
cosa, ma paradossalmente ci sembra
scontato che ci sia la vita, a cui
siamo così attaccati, e non sempre
ci ricordiamo che se non fosse per
l’Amore, già da qualche milione
d’anni non avremmo né guerre
né morte di cui preoccuparci. Ma
a proposito di guerre e di morte,
già da qualche mese il potente
web ha accolto un’immagine che
ha aperto uno spiraglio di luce
nell’agghiacciante scenario dei
profughi siriani. Il 30 agosto scorso il
fotografo ungherese Zsíros István ha
immortalato, in mezzo a molti altri
profughi accampati nella stazione
di Keleti, vicino a Budapest, una
coppia che dentro la propria tenda
si stava teneramente baciando.
Purtroppo, però, la viralità di questo
scatto ha riempito internet di parole,
frasi e commenti come “speranza”,
“l’amore trionferà”, “Mariti e mogli
che si aggrappano ai sentimenti e si
fanno forza a vicenda, sulla lunga e
difficile strada che porta a una vita
migliore” (tratto da repubblica.it). La
dimensione futura che questi giudizi
esprimono o implicano sottolinea
come ancora si consideri la guerra,
e quindi la morte, prevalente
rispetto alla forza della vita, che,
(incredibilmente) succube della
violenza tipicamente umana, deve
lottare per trionfare. E così l’Amore,
contrariamente a quello che sembra,
ha perso ancora una volta, non nella
Natura, ma nella nostra mentalità.
In questa fotografia, infatti, ciò che
stona è proprio l’atto d’amore, e
nonostante la speranza e il trionfo
che i media proclamano a gran
voce, nel contesto in cui è inevitabile
collocarlo appare quasi come una
sfrontatezza nei confronti del dolore
e della sofferenza che in tanti oltre a
questa coppia stanno vivendo. Ma
nella Natura, la cui forza vivificatrice
è assimilabile all’Amore, è la guerra
l’intruso, e non viceversa. E come
Dedalus | 2015 7
non citare i celeberrimi versi (31-37)
dell’Inno a Venere che costituisce
l’incipit del “De rerum natura” di
Lucrezio?
“Nam tu sola potest tranquilla pace
iuvare mortalis, quoniam belli fera
moenera Mavors armipotens regit,
in gremium qui saepe tuum se reicit
aeterno devictus vulnere amoris,
atque ita suspiciens tereti cervice
reposta pascit amore avidos inhians
in te, dea, visus eque tuo pendet
resupini spiritus ore”
Senza
soffermarci
sull’intera
traduzione di questo splendido
passo, diciamo solo che Lucrezio
ha straordinariamente descritto la
scena della seduzione di Marte, dio
della guerra, da parte di Venere,
emblema dell’Amore e della forza
vivificatrice della Natura.
“eque tuo pendet resupini spiritus
ore”, e alla tua bocca è sospeso il
respiro del dio supino: il grande
poeta latino non avrebbe potuto
esprimere meglio come anche la
peggiore delle creazioni umane,
la guerra, ceda necessariamente
di fronte al fascino irresistibile e
divino dell’Amore, che non è il
turbamento romantico (peraltro
violentemente condannato dalla
filosofia epicurea che il “De rerum
natura” lucreziano si propone di
illustrare), bensì il principio stesso
della vita. In questa prospettiva
tutto assume un nuovo significato,
e non solo lo scatto del bacio dei
profughi, ma anche la concezione
della missione dell’intellettuale,
questa crisi generale dalla quale
non riusciamo ad emergere, la
maturità con cui affrontiamo una
relazione sentimentale, la nascita di
un bambino, la sopravvivenza della
razza umana, la vita stessa.
“E poi e poi e poi non saremmo
più soli io e lei finalmente coinvolti
davvero potremmo di nuovo
guardare il futuro E riparlare del
mondo non più come condanna ma
cominciando da noi un uomo e una
donna.”
(G. Gaber, “Un uomo e una donna”)
Cos’è veramente la
bellezza
di Marta Nanni
“Le belle persone restano sempre belle, anche se passano gli anni. Anche se
sono senza trucco, se sono stanche, se hanno le rughe. Perché la bellezza che è
dentro di noi non invecchia mai. Diventa con gli anni più fragile e preziosa. Le
belle persone non smettono mai di brillare”
Agostino Degas
La professoressa di italiano ha
dato alla mia classe una traccia da
sviluppare: “I valori della bellezza
nella società contemporanea”.
Inizialmente ero in crisi, perché non
avevo idea di cosa scrivere senza
andare fuori tem. La domanda che
mi è subito balenata nella mente
è stata: «Ma cos’è veramente la
bellezza?».
Viene da pensare: «Che domande.
La bellezza è soggettiva, non si può
descrivere». Appunto. Ma come
lo spiegavo alla prof.? Ci siamo
dovuti inventare qualcosa. Io vedo
lo splendore quasi assoluto nelle
canzoni che mi fanno commuovere,
nei libri nei quali lascio un pezzetto
di cuore, nel “mio” cavallo al
maneggio, nell’amicizia che ho con
diverse persone e potrei continuare
ancora per molto.
8
2015 | Dedalus
Per qualcuno il calcio è bello, per
qualcun altro il cibo.
Poi c’è chi vede la bellezza nei
vestiti, nelle modelle. Qui dobbiamo
soffermarci. Va bene ammirare le
veline o le persone che sfilano sulle
passerelle, ma molte volte le loro fan
commettono grossi errori: diventano
anoressiche o bulimiche per poter
somigliare ai loro idoli. Si lasciano
influenzare
e
compromettono
la propria vita, il tutto coronato
da un abbassamento sotto zero
dell’autostima. Ragazze, siate voi
stesse, perché è lì la vera bellezza.
Il mio pensiero è che è bello ciò che
è unico. Un esempio: in una stanza
ci sono tante persone belle, di una
bellezza “oggettiva”. Il problema
sta nel fatto che sono tutte uguali;
perciò è come se perdessero valore.
Credo che qualcuno, oltre ad essere
attraente, debba anche essere
interessante sotto altri punti di
vista. Altro esempio: sicuramente
è più allettante intrattenere una
conversazione con un individuo
all’apparenza poco gradevole ma
molto intelligente piuttosto che con
qualcuno esteticamente attraente
ma che sbaglia i congiuntivi.
Come già detto prima, la bellezza
deve essere unica. Dobbiamo
essere noi stessi, ognuno con le
proprie qualità ed i propri difetti.
Non dobbiamo diventare dei cloni,
tutti uguali, con gli stessi vestiti e lo
stesso modo di parlare. In un modo
o nell’altro, siamo tutti belli, perché
siamo diversi. Quando l’aspetto
esteriore non è a nostro favore,
possiamo creare un equilibrio con
la bontà, l’altruismo, la serietà,
l’intelligenza. Per quanto riguarda “i
valori della società contemporanea”,
oggi la televisione influisce molto,
oserei dire troppo, sul nostro stile di
vita. Ci sono dei concetti e dei canoni
già fissati e ciò che non ci rientra
viene classificato come brutto e di
conseguenza deve essere bandito.
In questo modo si creano dei
pregiudizi e non siamo più in grado
di esprimerci come vogliamo.
I media e la pubblicità hanno un
grande potere: portano le persone
a soffermarsi sull’apparenza.
Per concludere (e lasciarvi leggere
gli altri articoli), vi chiedo di
valorizzare voi stessi e gli altri per
ciò che avete e hanno dentro e
di non seguire le mode come se
foste in un branco.
Il fatto che le persone non agiscano
di volontà propria vuol dire che
non hanno una propria personalità.
A mio parere, è meglio essere più
particolari, nel bene e nel male,
piuttosto che essere bellissimi ma
tutti uguali.
Attualità
Vent’anni dopo il genocidio a
Srebrenica nulla è cambiato?
Nel luogo in cui si è consumato il più grande massacro degli ultimi anni la
cooperazione internazionale e la politica locale hanno fallito su più fronti. Storia
di uno Stato fantoccio che ancora non ha conosciuto la pace. Sullo sfondo però un
barlume di speranza.
di Alessandro Miro e Nico Loreti
L’11 luglio a Potocari si celebra per
il ventesimo anno consecutivo la
commemorazione delle vittime
di Srebrenica.
Ultimo grande
genocidio del ventesimo secolo.
Avvicinandosi al cimitero, lungo
un’affollata via,
si mescolano
sapori e persone che richiamano a
un giorno di festa. Il fiume di folla
a tratti si apre per permettere il
passaggio di automobili scortate
dalla polizia, dentro alle quali alte
cariche istituzionali avanzano con
finestrini
oscurati.
Impossibile
non notare la distanza tra loro e
i passanti. Questa piena trascina
direttamente all’entrata del cimitero,
dove il profano lascia posto al sacro.
Il luogo è presieduto dalla Polizia
della Repubblica Srpska, una delle
due Entità etniche che costituisce
la Bosnia Erzegovina. Passati i
cancelli cambiano le uniformi,
poiché qui la competenza passa
alla Polizia di Stato. Dall’ ingresso
è possibile scorgere l’immensa
distesa di più di 9000 lapidi bianche
che si inerpicano sulla collina in
lunghi filari ordinati ove i parenti si
accalcano intorno ai propri defunti.
L’ambiente percepibile è quello
di una famiglia che si riunisce a
tavola, per ricordare la memoria del
proprio caro. Sulla destra , invece,
sfilano le lapidi verdi degli ultimi
morti ricomposti durante l’anno.
Questa volta 136 persone sono
entrate a far parte della memoria del
luogo. Mentre, di sottofondo, una
preghiera musulmana accompagna
la cerimonia religiosa. Due sono i
colori della giornata: il verde delle
nuove bare e il bianco, simbolo
del lutto. Infatti sui vestiti di molte
persone è possibile notare un fiore
ricamato con gli stessi colori; i petali
rappresentano i parenti che cercano
di congiungersi con il defunto, la
parte centrale richiama lo stesso.
Dall’altro lato della strada si staglia
un imponente e trasandato edificio
nel quale sono radunati politici
e ambasciatori dei diversi Paesi.
L’unico ponte a collegare i due
mondi è un maxischermo installato
all’esterno, di fronte al cimitero.
Da qui si alternano nell’arco
della mattinata dichiarazioni e
interventi dei vari personaggi. Fra
i tanti, a rappresentare le donne
musulmane , che hanno perso i loro
figli durante il genocidio, le due
presidentesse dell’Ong ˝Madri di
Srebrenica˝, Munira Subasic e Hatida
Mehmedvic.
Per la parte italiana
parla la Presidentessa della Camera
Laura Boldrini che nel suo discorso
ribadisce la colpevolezza dell’Unione
Europea per il mancato intervento
determinante ai tempi della guerra
civile. Prosegue prospettando un
maggior impegno economico al fine
di risanare la situazione bosniaca.
Infine le parole di Bill Clinton,
ospite di maggior spicco, il quale
si impegnò personalmente nella
costruzione del memoriale. L’ex
presidente degli Stati Uniti ringrazia
per lo sforzo collettivo che ha
permesso il mantenimento di questa
pace ventennale e pone l’accento
sull’importanza della partecipazione
del Primo Ministro serbo Vukić
all’evento. Infine chiude l’intervento
ribadendo il suo attaccamento al
paese bosniaco. A dispetto dei toni
altisonanti e speranzosi, la distanza
tra i discorsi di conciliazione e i fatti
è ancora marcata: dopo essere usciti
dall’edificio della conferenza Vukić
viene salutato con sassi e bottiglie.
Ennesima dimostrazione di quanto
la tensione nei Balcani sia ancora
Dedalus | 2015 9
Figura 1 Famiglia in lutto
davanti alla bara del
proprio caro ricomposto
quest’anno (foto Vanessa
Maccherini)
alta. Ma, paradossalmente,
proprio Munira aiuta il
serbo facendogli da scudo
con il proprio corpo, per
dare un forte esempio:
non gettare al vento
quanto di buono è stato
ottenuto in questa giornata.
Nonostante
l’importanza
di questo evento, non
è possibile sanare a
parole
un’inadempienza
ventennale.
Dall’Unione
europea che non è stata
in grado di mettere in
campo un progetto di
cooperazione valido a causa
delle divergenze tra i vari
Stati; all’Unprofor ( una forza
di mantenimento della pace
creata dall’Onu) che non
possedeva mezzi logistici
e finanziari adeguati; fino
agli accordi di Dayton che,
in poche pagine, hanno
rinforzato
la
divisione
etnica già presente sul
territorio: dopo il 95’ la
Bosnia viene configurata
come unione di due Entità
etniche, Repubblica Srpska
(a maggioranza serbobosniaca) e Federazione
di Bosnia i Erzegovina
(a maggioranza croatomusulmana). E’ possibile
quindi
affermare
che
Dayton è stato solamente
Figura
2
Vecchio
compound dei caschi
blu(foto
Vanessa
Maccherini).
10 2015 | Dedalus
un armistizio non in grado di assicurare la pace.
La chiave di volta che mantiene questo equilibrio
precario è l’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite, il
quale ha potere di veto sui due Parlamenti. Questa
figura istituzionale può essere intesa come espediente
per mantenere in piedi il trattato di Dayton,
tantoché il suo incarico, che era scaduto nel 2005, è
stato rinnovato ad oltranza: senza la sua presenza
il Paese ritornerebbe nuovamente nel caos. Infatti
ciclicamente il Parlamento della Repubblica Srpska
approva all’unanimità l’annessione del suo territorio
alla Serbia. E ogni gennaio l’Alto Rappresentante pone
il veto sulla suddetta proposta di legge. L’intervento
degli altri Stati non ha giovato a che le due entità si
riconciliassero davvero, ma solo a salvaguardare gli
equilibri internazionali.
Due
giorni dopo la commemorazione di Potocari avviene
un altro incontro volto a non dimenticare ciò che
è successo in questo Paese: le madri di Srebrenica
ripercorrono i luoghi del genocidio insieme ai ragazzi
europei e bosniaci presenti al campo di lavoro ˝Franco
Bettoli˝. La partenza è di mattina presto, come luogo
di ritrovo il piazzale davanti
al vecchio edificio dei
caschi blu olandesi, oramai
dismesso da tempo, ma
pur sempre presente nella
memoria della guerra civile.
A completare il team anche
antropologi, scrittori e
giornalisti interessati alla
vicenda. Immancabile poi
la presenza della Polizia
Srpska: quella che potrebbe
apparire
come
una
normalissima giornata di
ricordo invece viene ancora
vissuta con grande tensione.
I posti da visitare sono
dislocati sul territorio serbobosniaco, e la popolazione
del posto guarda con
molta diffidenza le madri
musulmane. La prima tappa
si trova a pochi metri dal punto di
partenza. Si tratta di una piccola
casa con giardino dove l’esercito
di Mladić divideva gli uomini dai
bambini: i primi venivano fucilati, i
secondi imprigionati. Ci spostiamo
poi a Ora Ovic, precisamente in
una scuola utilizzata come luogo
di fucilazione. Uno di loro prende
la parola, non si può non notare
la commozione nei suoi occhi.
˝Scesi dall’autobus li hanno portati
dietro gli alberi e lì- spiega- hanno
fucilato i miei connazionali˝. Questo
luogo dell’orrore era destinato a
scomparire dalla memoria collettiva,
come tutto ciò che in questo Paese
può rimandare alla guerra, ma è
stato ritrovato grazie all’aiuto di un
bambino di 7 anni, il quale dopo esser
scappato dai militari serbi, è stato in
grado di riconoscerlo. Passiamo da
una scuola a un’altra. Questa volta
però quella di Petkovci. Una delle
madri racconta a un giornalista come
qui abbia ritrovato suo figlio, fatto
a pezzi, senza testa. Lei ha deciso
comunque di seppellirlo. ˝Non è
giusto che in questo edificio venga
ancora fatta lezione ai bambini,
senza che essi sappiano niente di
quanto è successo in questo luogo.
Nella scuola- prosegue- ci sono due
insegnanti che hanno partecipato al
genocidio. Essi sono stati condannati
dal tribunale dell’Aia, però sono,
nonostante tutto, a piede libero.
˝Noi, in qualità di associazione
delle madri di Srebrenica, abbiamo
chiesto allo Stato bosniaco di
imprigionarli˝. Parole forti da parte
di questa donna, che mostra grande
orgoglio in una giornata così difficile.
Per loro è impossibile perdonare i
soldati serbi, troppo forte il dolore
per la morte di un marito o di un
figlio, però vogliono superare la
drammatica situazione in cui versa
la Bosnia. Solo così trovano la forza
per riunirsi e parlare della loro triste
vicenda davanti alle telecamere, con
la speranza che questo sforzo possa
servire alle nuove generazioni. Non
possono permettere che queste
crescano in un Paese che non sa
ricordare, perché in un posto dove
non c’è memoria può accadere
quanto già successo.
Come terza tappa la diga situata
dietro una collina di sassi. Negli
anni, in mezzo alle sterpaglie,
sono stati ritrovati molti fucili che
appartenevano ai militari serbi.
Oggi non ci sono più, però sono
rimasti ancora i bossoli delle armi,
probabilmente AK47. Le donne
musulmane, dopo il solito momento
di preghiera, iniziano a spostare le
pietre. Al di sotto un grande numero
di proiettili. Poi si alzano e mettono
in tasca quanto trovato, come se
anche questi dovessero entrare a far
parte del ricordo. Sì, perché forse
uno di quelli ha ucciso i loro mariti.
Tornate nell’autobus, le madri si
avviano, nel caldo soffocante del
primo pomeriggio, verso una piccola
cittadina, Branjevo. Ad aspettarle
pattuglie della polizia che serrano
le strade secondarie, per impedire
il contatto e lo scontro con le madri
serbe. L’atmosfera è irrealistica:
tutti gli abitanti di Branjevo stanno
immobili a osservare le donne, al
ciglio della strada, sull’uscio della
porta, in un silenzio interminabile.
Al termine della visita, sulla via del
ritorno, alcuni bambini che giocano
in un parco vicino all’autobus
mostrano il tre con le dita, simbolo
della vittoria serba. Esempio di
come le giovane generazioni siano
indottrinate secondo i dettami del
nazionalismo.
In
un paese dove non esiste una cultura
unica, dove le persone vengono
educate secondo tre tradizioni
differenti(croata, musulmana, serba),
dove è più forte l’odio rispetto
all’integrazione, in un paese del
genere la guerra è più vicina della pa
c
e
.
Gli attori di Dayton hanno intrapreso
il sentiero più semplice: sulle orme
di Tito hanno tenuto le etnie fra loro
separate, i musulmani insieme ai
croati nella Federazione bosniaca,
i serbi nella Repubblica Srpska. I
politici credono di mantenere
questo equilibrio in
Bosnia
utilizzando come strumento cardine
la distanza. Questo elemento ha
rinforzato l’odio, ciascun popolo
si è arroccato nelle sue credenze,
Figura 3 Fabbrica di
Kravica: 1100 morti,
soprattutto
bambini.
Oggi
una
comune
rimessa di attrezzi.
Dedalus | 2015 11
Figura 4 Intervista alle
madri davanti alla scuola.
ciascun popolo ha pianto i suoi
morti dopo la guerra, celebrandoli
con la sua religione. L’11 luglio a
Srebrenica i musulmani piangono
le vittime del genocidio, il 12 luglio
a Bratunaz, a cinque chilometri di
distanza, i serbi ricordano le loro
migliaia di morti della guerra. Come
non è presente un lutto nazionale,
così non si è formato un potere
centrale capace di governare.
L’autorità è decentralizzata a livello
federale e ancor più a livello locale.
Lo stile di vita tra le due repubbliche
è nettamente diverso: polizie
autonome, scuole con programmi
discordanti, dove la storia stessa è di
parte, alleanze differenti. Musulmani
con i turchi, serbi con i russi: infatti
mentre
alla
commemorazione
dell’11 il rappresentante della
Turchia ha dichiarato con orgoglio
che il suo paese ha stanziato molti
milioni per la Federazione; invece,
da quando, a inizio luglio, Putin
ha posto il veto sulla proposta
internazionale di definire il massacro
di Srebrenica come genocidio, la
Repubblica Srpska è tappezzata da
manifesti in cui un primo piano del
capo di stato russo è accompagnato
da parole di ringraziamento. E
come potrebbero esserci in Bosnia
risoluzioni uniche per tutti quando
a Sarajevo vi sono tre capi di stato
(Presidente
della
presidenza,
presidente del parlamento, primo
ministro) ognuno rappresentante
di ciascun popolo e un numero
esorbitante di ministri i quali devono
avere viceministri di etnia differente?
Lo Stato centrale bosniaco è
un fantoccio creato dagli attori
internazionale
per
mantenere
l’equilibrio geopolitico nei Balcani.
12 2015| Dedalus
Ma l’analisi e i giochi di potere dei
vari Stati non tengono in alcun
conto del dolore provato e ancor
vivo, dopo vent’anni, nelle persone.
In particolar modo questo
sentimento è forte a Srebrenica,
dove l’associazione delle madri è
alla ricerca della verità su quanto
accaduto in quel famoso giorno di
metà luglio. Col passare del tempo,
i pezzi del puzzle si ricompongono
: alcuni soldati olandesi che nel ‘95
presidiavano Potocari incontrano le
madri nel campo di riconciliazione
internazionale intitolato a Franco
Bettoli, alla presenza di giovani
volontari provenienti da tutta
l’Europa. Il 25 luglio è l’ultimo atto
della vicenda, dopo 20 anni di
silenzio, eccoli tutti seduti intorno
ad un tavolo a parlare. L’incontro si
protrae per ben quattro ore, tutto
ciò che fino ad ora era stato taciuto
emerge con prepotenza.
La presidentessa delle madri
non risparmia gli ex soldati, con
tono aggressivo dice : ‘’ Voi non
potevate non sapere dove li stavano
portando’’. Ed è questa la triste realtà:
i caschi blu in mancanza di direttive
avevano lasciato che i serbi di Mladic
entrassero nell’enclave protetta
di Srebrenica e uccidessero più di
8000 uomini. I soldati rispondono
che in quel momento non avevano
idea di quello che sarebbe successo,
pensavano che le persone sarebbero
state catturate e poi rilasciate. Uno
di loro afferma addirittura di aver
appreso del genocidio solamente
dopo esser rientrato in Olanda.
Lo scontro tra le due parti è duro:
le madri non si tirano indietro e
in diversi frangenti gli ex soldati
scoppiano in lacrime mentre
raccontano la loro storia. Sarebbe
stato sbagliato immaginarsi un
incontro rilassato e pacifico, avrebbe
perso di sincerità. Molto più veritiero
quantosuccesso.
I volti finalmente si distendono
quando uno dei soldati viene
raggiunto dal figlio di otto anni. Le
madri sorridono e tutta la tensione
che si era accumulata fino a quel
momento svanisce. E a fine incontro
i caschi blu regalano alle madri un
fiore simbolo della sofferenza e del
dispiacere per ciò che è accaduto.
In queste tre giornate è apparso
chiaramente che la guerra in Bosnia
non è affatto finita, non ci saranno
più le armi ma l’odio tra serbi e
musulmani è rimasto quello degli
anni ‘90. Il Paese non ha superato
il conflitto: lo Stato centrale è una
scatola vuota che si regge in piedi
solamente grazie al potere di veto
dell’Alto rappresentante, mentre
le vere autorità sono le due Entità
etniche che agiscono in modo
contrastante tra di loro. Fiumi di
denaro investiti dalla cooperazione
internazionale non sono stati in
grado né di riconciliare i popoli né di
ricostruire materialmente la BosniaErzegovina ( metà degli edifici sono
ancora crivellati dai proiettili), soldi
mangiati da una classe politica
inefficiente. In questo quadro
estremamente conflittuale in cui
il passato non passa , l’unico vero
elemento di novità è la presenza
dei giovani europei che da dieci
anni vengono a Srebrenica, città
simbolo della divisione, per portare
conforto e aiuto a quelle persone
che da troppo tempo sono vittime
dei giochi di potere internazionali,
abbandonate a loro stesse.
Linguistica
Sull’evoluzione del sistema vocalico in Protoitalico
di Didier Natalizi Baldi
Nell’articolo di questo mese
intendiamo riflettere sulle numerose
variazioni occorse al sistema vocalico
nel passaggio da Protoindoeuropeo
(che come di consuetudine
abbrevieremo PIE) al Protoitalico
(che abbrevieremo PIt) e poi, infine,
a tutti i vari dialetti italici.
Prima di tutto però occorre
avere una piccola ma essenziale
panoramica di quali fossero i dialetti
italici prima che il Latino, con
l’espansione di Roma, prendesse il
sopravvento nello Stivale. Ebbene i
due dialetti principali, ovviamente
fatta esclusione del Latino, sono
l’Osco (dialetto parlato a sud del
Sannio, in Lucania e nell’Abruzzo) e
l’Umbro (parlato invece a nord del
Sannio, in parte dell’odierna Umbria
e Toscana). Tra questi due maggiori
dialetti “glottologicamente come
geograficamente”, per usare le parole
del Nazari, illustre linguista alla cui
opera (“I Dialetti Italici”) ci riferiremo
spesso, vi sono i dialetti Sabellici,
come Marso, Peligno, Marruccino,
Vestino, Sabino, Piceno, più simili
all’Osco, e il Volsco, più simile
all’Umbro. Piacerebbe dilungarsi
sulle caratteristiche proprie di questi
vari dialetti, ma occorre non divagare
dal tema prefissatoci, basti dire
che ne conosciamo integralmente
l’alfabeto e la fonetica e, quasi
completamente, la grammatica e la
sintassi.
Partiamo con la prima vocale, il
PIE *h2 oppure *h2e ha dato esito
in PIt *ă, che, a sua volta, ha dato
in Latino generalmente esito ă, in
Osco ă, in Umbro sempre ă, così
come nei dialetti Sabellici. Possono
essere addotti come esempi l’esito
del termine indoeuropeo *h2eg-ō
che ha dato in Latino ago, in Osco
acum, in Marruccino agine. Oppure il
termine *ph2tēr che ha dato in Latino
pater e in Umbro patre (benché non
sia di immediato interesse ai fini
del nostro ragionamento notiamo
che qui è avvenuta una metatesi
consonantica). Il volsco poi ha statom
che funge da esempio, essendo da
ricondursi al Latino statum.
Passiamo dunque all’esito del
PIE *eh2 in PIt ovvero *ā, donde
in Latino ā, l’Osco ā e l’Umbro ā.
Questa volta possono fungere da
esempi sostantivi come PIE *meh2tēr, Latino māter, Osco maatreis (la
cosiddetta scriptio plena garantisce
la lunghezza della vocale), Umbro
mātrer (ancora con metatesi
consonantica). Non sono però, per
questo fonema, da tralasciare le
innegabili differenze tra le lingue, o,
più precisamente, tra il Latino e gli
altri dialetti italici: l’Osco trasforma
la ā in fine di parola in u, ovvero
ù (per chi conoscesse l’alfabeto
Osco rispettivamente in ), infatti
il Latino via, corrisponde all’Osco
vìù oppure vìu. In Umbro si applica
la stessa regola, non solo in fine di
parola, ma anche in fine di sillaba;
nonostante nel complesso si rilevino
più eccezioni che in Osco: mutu vale
il Latino multa, ma in salva rimane ā.
Il Peligno in generale conserva la ā,
mentre il Volsco sembra mutarla in
u, come in uinu, neutro plurale che
ritiensi collegato al Latino vinum.
Il PIE *e muta naturalmente nel PIt
*ĕ, che dà in Latino ĕ, in Osco ĕ, in
Umbro ĕ, in Sabino e in Peligno ĕ.
Esempi ne sono la forma ĕst del
Latino, identica a quella Osca ed a
quella Umbra.
Questa apparente unità di esiti si
rompe invero, ben presto: il Latino,
per esempio, muta la ĕ in ŏ in
vicinanza di suono w; esempi sono
ne l’aggettivo novus, da ricondursi
alla radice indoeuropea *newos che
ha dato, tra gli altri, il Greco νέFος;
oppure l’altro aggettivo, bonus,
proveniente dalla forma Latinoarcaica duenos, dalla radice PIE
*dew-/dow-/dw. In Latino ĕ passò in
ŏ anche davanti al suono velare [ł]
come in solvo, da *se-luo (cfr. Greco
λύω).
Numerose eccezioni sono presenti
anche nella lingua Osca; infatti,
sebbene ĕ si mantenga nei futuri
sigmatici come ferest, diviene ĭ
davanti al gruppo – re – radicale, per
esempio amiricatur (corrispondente
al Latino inericato). Permane invece
di fronte al gruppo –rk-; vario è,
invece, l’esito in vicinanza del gruppo
–st-, come in ìst, corrispondente alla
forma Latina est. In Umbro vi sono
analoghe eccezioni, per esempio
uasirslom da *uakerkelom, oppure
di fronte a nasale velarizzata, come
in erinqatro. Simili mutamenti
si trovano anche in Sabino, per
esempio hivetum (corrispondente al
Latino decretum), o in Peligno inim
(corrispondente al Latino enim).
Il PIE *eh1 passa in PIt *ē, donde in
Latino ē, in Osco ī (rappresentato
da ìì oppure ì), in Umbro da ei, i,
e, in Peligno poi, invero, gli esiti
sono vari. Può essere, dunque, da
esempio l’aggettivo latino plenus
(dalla radice indoeuropea *pleh1-/
pelh1-/plh1) che ha un suo naturale
corrispondente nell’Umbro plēner,
o il sostantivo femina della stessa
radice di filius (quella indoeuropea di
*dhe-, cfr. Greco θηλή) che deriva dal
PIt *fēlios, che in Umbro ritroviamo
con felifu e filiu sottolineando così
la variabilità degli esiti. Quanto
all’Osco possiamo citare lìgatùis,
corrispondente al Latino lēgatus,
oppure aìdilis, che va con il Latino
aediles, anche se, in realtà, si rilevano
eccezioni, benché in numero
limitato. Il Peligno ha, come già
accennato, vari esiti; infatti al Latino
lēx corrisponde sia la forma lexe, che
quella lix.
La vocale PIE *ĭ passa al PIt *ĭ, e,
quindi, al Latino ĭ, in Osco sempre
a ĭ (rappresentata da ì in grafia
nazionale, ad ει in grafia greca ed i in
scrittura latina), in Umbro a ī oppure
e, nei dialetti Sabellici ad i, oppure,
raramente, ad e. Per esempio il
Latino video (dal PIE *widē-, cfr. ssr.
vidmà, oppure Greco Fιδεῖν), simile
all’Umbro revistu, che, a rigore, si
collegherebbe con il Latino revisto.
In Latino, poi, i passa ad e di fronte
ad r frutto di rotacismo (per esempio
sero da *si-so oppure cineris,
Dedalus | 2015 13
genitivo di cinis, ovviamente da
*cinis-is). Quanto all’Osco potremmo
considerare il termine dadìca
corrispondente al Latino dedicavit.
Si rileva una piccola eccezione,
non però trascurabile, nella parola
esìdum corrispondente del Latino
idem, ove, evidentemente, abbiamo
e per i. In Umbro abbiamo termini
come ife, che si ricollega con il
Latino ibi, oppure uitlu da ricondursi
al Latino vitulum. Questa vocale, in
lingua Umbra, è importante anche
per la declinazione nominale, se
infatti l’accusativo singolare dei
temi in –io esce in –im, quello dei
temi in sola –i esce in –em; come
Fisim (da Fisio) e sakrem (da sakri).
In Peligno, poi, possiamo citare
dida, corrispondente del Latino det.
In Marso, infine, abbiamo esito i,
come testimonia il termine medis,
corrispondente al Latino meddix.
Il PIE *ih1 passa direttamente al
Pit *ī da cui in Latino ī, in Osco ī
(rappresentato da iì, ma si trova
anche, seppur raramente, i, ìì, ii, e), in
Umbro i, raramente ei, e; nei dialetti
Sabellici i, e.
Per esempio il Latino līmitum
(genitivo plurale di limes) ha il suo
esatto corrispondente nell’Osco
liìmitum, mentre il sostantivo vīr ha
la sua controparte nell’Umbro uiro,
ueiro (accusativo plurale). Ancora il
Latino pius è da ricollegarsi all’Osco
piìhiùi (dativo singolare). Il Peligno
ha, poi, fertlìd simile al Latino fertiti,
il Marrucino ha esito e oppure i come
dimostra il termine regenai diretto
corrispondente del Latino reginae
(genitivo singolare). Il Volsco da
infine esito i, per esempio, in uinu,
probabilmente da ricondursi al
Latino vinum.
Continueremo
l’articolo
nel
prossimo numero del giornalino
procedendo all’analisi anche delle
altre vocali.
MINIME MORALIA
Riflessioni a prima vista niente affatto filosofiche - ma
sulle quali si può meditare
Vi presento questa rubrica che
spero di riproporre mensilmente
su Dedalus: l’idea mi è sorta
dopo l’occasione che ho avuto
di assistere ad alcune lezioni
universitarie durante un corso di
orientamento; e queste erano così
belle che mi sembrava un peccato
non ricordare la loro vita interiore,
ovvero le conseguenze implicite che
lasciavano solo intuire tra le righe – o
che almeno io avevo compreso, forse
tradendo lo scopo stesso di quelle
lezioni. Subito mi è venuto in mente
un rammarico, ovvero che queste
conseguenze non sono che appunti,
spunti, piccole riflessioni, che non
meritano forse di essere pubblicate;
ma poi, pensandoci bene, ho visto
che avevo il vizio di trarre da molti
piccoli avvenimenti e situazioni,
pensieri di questo genere. Questi
“ghiribizzi” mi parevano – e paiono
tuttora – degni di un minimo di
attenzione: sono il loro presupposto
teorico o la loro conseguenza, ripeto,
implicita e a volte sconsolante.
Consapevole della loro pochezza e
14 2015| Dedalus
vis polemica però mi son ripromesso
di considerarle e presentarle
come cose da niente, appunto,
minime – minimamente, per nulla
– riguardanti la morale, la filosofia
e qualsivoglia ambito scientifico.
Questo mese avevo ricavato un
po’ di riflessioni da varie parti, ma
un evento che ci ha come al solito
sconfitti culturalmente, lo scandalo
delle emissioni Volkswagen, ha
provocato una serie infinita di
spunti – di cui presento una summa
– che ha reso insignificante ogni
altro ambito di cui parlare. Spero
però che si possa trovare in questi
brevi appunti, lasciati a metà come
domande aperte, qualcosa di
significativo da ricordare o su cui
riflettere ulteriormente.
In breve:
I motori a scoppio delle automobili
hanno una combustione imperfetta:
la proporzione della miscela aria/
combustibile non sempre è ottimale,
e si formano, soprattutto nelle
vetture alimentate a gasolio, delle
pericolose sostanze nocive – ossidi di
azoto, monossidi di carbonio, polveri
sottili, idrocarburi incombusti…
- che, insieme ai già nocivi scarti
di combustione, vengono espulsi
nell’ambiente con i gas di scarico. Per
fortuna esistono delle legislazioni
che obbligano le aziende a dotare
le vetture di accorgimenti vari
– marmitte catalitiche, filtri antiparticolato… - per ridurre la quantità
di queste sostanze.
Il 20 settembre 2015, dopo una
tenzone tra l’EPA, l’Ente Nazionale
per la Protezione Ambientale degli
Stati Uniti, e il gruppo Volkswagen
– che comprende anche Audi,
Seat, Skoda… - si scopre che
l’azienda - costretta dai fatti ad un
pubblico annuncio - ha installato
nei propri modelli un software che
consentiva, a fronte di emissioni
nocive reali ben più elevate, di
poter ingannare i controlli sulle
emissioni per far omologare i propri
modelli nonostante in condizioni
normali non avrebbero MAI
potuto sorpassare questi esami.
Questo
consentiva
all’azienda
di non montare costosissime
apparecchiature sui veicoli – basti
pensare, per esempio, che i reticoli
interni delle marmitte catalitiche
sono fatti di metalli preziosissimi
come platino e iridio - e di mantenere
dei costi concorrenziali. Lo scandalo
si allarga a macchia d’olio in tutto
il mondo – passando da mezzo
milione a 11 milioni di auto coinvolte
- e si iniziano a contare i danni…
I. Maiorum nugae negotia vocantur
(Confessiones, I, 9) – Sant’Agostino,
nelle sue Confessioni, ci ricorda che
“i giochi degli adulti sono chiamati
affari”: ma, prosegue, a differenza
degli innocenti giochi dei bambini,
che nuocciono solo al ragazzo che
invece di studiare si diverte, i giochi
degli adulti hanno un virulento
potere nocivo. Il gioco – evito di
chiamarlo con altri nomi - intentato
dalla Volkswagen ha danneggiato
ben più di quanto si possa pensare:
effetti finanziari, economici, politici,
sociali, valoriali, morali. Voi mi direte,
anche ambientali; ma a veder tutte
le conseguenze…
II. Al futuro acquirente Volkswagen
–
Scoppiato
lo
scandalo,
l’amministratore delegato Martin
Winterkorn ha rassegnato le
dimissioni e annunciato che sarebbe
stata effettuata un’indagine interna.
Se io fossi in cerca di Golf o di Polo (né
gli sport né i capi di abbigliamento)
mi asterrei dal mio proposito non
tanto per le bugie sulle emissioni,
ma per il chaos interno dell’azienda
tedesca: se – molto dubitabile - l’ad e
l’intero gruppo dirigente erano ignari
di una modifica illegale delle vetture
prodotte dal gruppo, chissà di quali
altre modifiche legalissime siano
all’oscuro: e comprare una vettura
della quale neanche chi la produce
conosce le vere caratteristiche è un
po’, ecco, avventato.
III. Economia e pseudo-economia –
I danni saranno – e sono! - calcolati
in miliardi: si stima che solo per
ogni vettura invalidata venduta
negli Stati Uniti possa esser
richiesta una multa da 37.500$; le
vetture son circa 482mila; fanno
circa 18 miliardi di dollari. Ma le
auto incriminate in tutto il mondo
sono 11 milioni; e non si contano
le azioni legali private che stanno
fioccando a migliaia, con le ben più
temibili class action dei consumatori
americani. Peraltro il primo giorno
dopo la scoperta di questa truffa il
titolo Volkswagen ha perso il 20%
in borsa e due giorni dopo il 17%.
L’azienda è stata declassata nella
valutazione di solidità economica
da un’influente agenzia di rating
come Standard&Poor’s. Si inizia a
parlare di esuberi e crisi di liquidità.
L’azienda dovrebbe farcela. È too
big to fail, troppo grande per fallire,
come le aziende automobilistiche
americane salvate dal presidente
Obama durante la loro crisi di pochi
anni fa; ma per una volta economia
e soprattutto pseudo-economia,
ovvero la finanza, puniscono chi di
dovere e all’unisono; ma meglio non
inizino a punire le multinazionali per
i loro errori sistematicamente: poi,
per salvarle dal fallimento, il fardello
viene posto spesso su altri. C’è da dire
inoltre che, davvero, alla Volkswagen
le maiorum nugae vengon fatte
davvero bene: se solo al posto dei
capitali economici giocassero con la
palla…
IV. Puerorum, non maiorum – Come
un bambino colto in flagrante, il
gruppo dirigente VW ha accusato
anche altre aziende di procedere alle
stesse contraffazioni illegali. Sempre
che sia vero, discolparsi in questo
modo fa davvero dubitare della reale
età dei dirigenti. Tanto per esser
sicuri che abbiano almeno superato
la scuola materna.
V. Il Giornalismo, ovvero “a pensar
bene si fa peccato”– Un grave scandalo
accompagna questo misfatto: lo
scandalo dei consumi dichiarati,
molto più bassi di quelli effettivi,
anche del 50%. Che sia scorretto,
è vero; che questo sia dovuto agli
inefficaci controlli europei, pure;
che sia una novità, meno! Da anni
riviste specializzate del settore,
come Quattroruote, denunciano le
fuorvianti dichiarazioni dei consumi,
legalissime perché validate da prove
alquanto irreali che tentano, senza
riuscirci, di simulare l’uso su strada.
Prove standard a cui pure le aziende si
sono abituate e che hanno imparato
a sfruttare: ogni anno la forbice tra
i consumi reali delle automobili e
quelli dichiarati aumenta, grazie a
modelli che sanno sempre meglio
adattarsi a questo tipo di prove (con
accorgimenti non troppo dissimili
da quello delle emissioni nocive
VW, ma che risultano legali). Questo
fenomeno è diffuso tra tutte le
aziende produttrici, anche perché
in parte automatico. Invece che
dare risonanza a questo fenomeno
da tempo però, le testate editoriali
più famose del paese ne hanno
iniziato a parlare solo da ora con toni
complottistici e scandalistici. Pensar
bene: cercano di sfruttare lo scandalo
emissioni della VW per mettere in
evidenza una problematica che
altrimenti non avrebbe avuto una
risonanza sufficiente. Pensar male:
solo ora la cosa può esser redditizia
per vender più copie con “esclusive
inchieste scandalo”; prima non aveva
senso – economicamente – parlarne.
P.S. Qui sono stato affatto polemico,
ma tenterò di chiarir meglio la
mia posizione su (una parte del)
giornalismo italiano nei prossimi
numeri.
VI. Carro del popolo – Questa è la
traduzione letterale della parola
Volkswagen. In effetti il “carro” del
popolo deve essere ingannevole e
truffaldino, oppure, di che popolo
parliamo?
VII. L’Europa manzoniana – Abbiamo
già notato come la legislazione
europea sia inadeguata in queste
situazioni. Va notato inoltre che se
non fosse stato per l’EPA, che è un
ente americano, non ci sarebbe
stata nessuna denuncia della grave
violazione. L’idea che ne vien fuori,
come al solito, è pessima: l’Europa
ci fa la sua solita brutta figura, come
Dedalus | 2015 15
di un organismo che malgrado
i propositi fa prevalere i furbi e i
disonesti ed è inefficace nei controlli.
Mi sembra che i suoi provvedimenti
siano come le gride dei Promessi
Sposi: magari l’intenzione buona
c’era, ma il risultato è che anche
le migliori leggi possono essere
piegate al sevizio degli oppressori.
Dovremmo davvero interrogarci su
cosa sia l’Unione Europea, se perde
anche la capacità di essere uno
strumento per la concorrenza e lo
sviluppo economico, l’unica capacità
che ormai le è rimasta - forse.
VIII. Il sistema tedesco – Solo una
domanda, spero con risposta
negativa: è su questo che la
Germania basa il suo sviluppo e
predominio economico? Sulla slealtà
invece che sulla correttezza che
tanto sbandiera? Sull’imposizione di
regole rigide solo se possono essere
rispettate con facilità dalle aziende
di stato? La VW, in quanto la più
grande azienda tedesca, intrattiene
stretti rapporti col governo federale.
Allora è necessario un processo
morale; anche un piccolo esame di
coscienza mi va bene; ma bisogna
chiedersi come sia stato possibile
che tale gruppo dirigente abbia
potuto tradire così senza pensarci
due volte la cultura europea (e se ne
è valsa la pena).
IX. Il tracollo della Grande Germania
– Per lo stesso motivo di cui sopra,
per il coinvolgimento di politica
– governo federale e Stato della
Bassa Sassonia, che poverino
possiede il 12% delle azioni –, per
il danno d’immagine per questa
grande azienda e di conseguenza
per la sua nazione, che le fornisce il
modello, oserei dire che potrebbe
esser possibile ora, per gli altri Stati
europei, esprimere un dissenso nei
confronti dell’equilibro “tedescocentrico” dell’Unione. È di sicuro un
16 2015 | Dedalus
motivo pretestuoso, ma tanto è: se
la questione non viene affrontata
per salvare quel poco di Europa che
è rimasta, la saprà molto meglio
sfruttare chi l’Europa la vuole morta.
Certo, se l’obiettivo finale è questo…
X. Slealtà alla tedesca – Quando
parlo di “slealtà” non mi riferisco solo
al misfatto del software: in fondo
questo sarebbe “solo” una terribile
azione riprovevole. Quello che è
ancora peggio è che la VW faceva
delle basse emissioni delle proprie
vetture un cavallo di battaglia
potentissimo. I motori a gasolio
dell’azienda erano pubblicizzati
come i più efficienti del mercato. In
realtà inquinavano 40 volte oltre il
limite, ma tanto che avevano deciso
di barare, lo avevano fatto per bene!
Già Greenpeace dal 2011 aveva
intrapreso una campagna “VW, il lato
oscuro della forza”, con cui accusava
il colosso di opporsi a regole più
restrittive sui consumi e sulle
emissioni, e aveva creato una pagina
informativa che ridimensionava gli
annunci miracolosi mostrando come
fossero esagerati anche per i dati
ufficiali - figuriamoci ora che son
saltati fuori quelli reali! Nel 2009 un
modello vinse pure il premio come
“Green car of the year”; inutile dire
che il premio è stato revocato.
XI. Sullo scopo di un’automobile
– “Veicolo a quattro ruote, mosso
da un motore, adibito al trasporto
su strada di un numero limitato di
persone” (dal Vocabolario DevotoOli, voce “Automobile”). Ora, il
trasporto può esser fatto in tanti
modi: è meglio, spero non ci sia da
discutere, che questo non abbia
effetti collaterali per l’ambiente e la
salute umana. Non la pensano così
le aziende di auto di lusso tedesche,
che da anni bloccherebbero, con le
loro pressioni, l’inasprimento delle
regole sui consumi, che sono ben
lontani da esser indifferenti per
l’ambiente e per l’uomo. Va ricordato
come il trasporto su gomma sia un
fattore di inquinamento significativo.
Il motivo di queste pressioni è
logico: BMW, Mercedes-Benz e Audi
producono auto troppo potenti,
grosse e pesanti, perché possano, a
costi ragionevoli, consumare poco
ed essere ecologiche. Anche loro
però fanno automobili adibite al
trasporto: e se il limite di velocità è
130 km/h, è indifferente se il motore
arrivi a 150 km/h o a 200 km/h. Per la
legge, la velocità massima è sempre
130 km/h. A Milano ci si arriva anche
con una macchina medio-piccola,
una Golf diciamo (tanto che siamo
in tema…), non è necessario un
macchinone da 5 m di lunghezza.
Soprattutto, se quelle sono auto di
lusso, possono costare anche di più:
l’importante secondo me è che la
priorità sia un trasporto efficiente e
la conservazione del nostro pianeta,
non le esigenze economiche di
aziende peraltro ben pasciute. Le
cronache mi fan pensare che il
mondo che conta guardi da un’altra
parte.
XII. Sul trasporto pubblico –
Ecologico,
comodo,
veloce:
avrebbe queste caratteristiche se
non fosse ostacolato (magari c’è
di nuovo lo zampino del settore
automobilistico?). Lo stato italiano
investe pochissimo in trasporti
pubblici: ma nei pochi casi in cui
funziona (vedi Frecciarossa) si nota
la sua superiorità all’automobile.
Roma Termini-Milano Centrale in 2h
è il prossimo obiettivo delle Ferrovie
dello Stato; in auto ce ne vogliono
almeno 5 e mezza; l’inquinamento
è risibile al confronto e si viene
trasportati nel centro della città. È
solo un consiglio…
Letteratura
Stand by me
di
Chiara Celeste Nardoianni e
Eleonora Ducci
‘Ricordo di un’estate’ altrimenti noto come ‘Stand by me’, film tratto da questo racconto,è una delle quattro storie
del libro ‘Stagioni Diverse’ di Stephen King. Questo parla di un viaggio di quattro amici ( Chris,Gordon,Teddy e Vern
) che li farà maturare e che segnerà la vita di alcuni di loro per sempre. Nell’estate del 1960 i ragazzi si incamminano
lungo una ferrovia alla ricerca del cadavere di un coetaneo, spinti dal desiderio di successo e dal sogno di diventare
eroi. Arrivati all’obiettivo, l’esperienza vissuta li avrà però cambiati a tal punto da indurli a fare una scelta totalmente
diversa da quella iniziale …
‘E’ come se Dio ti avesse dato un dono.
Dio ha detto: ‘Questa è roba tua, vedi di non sprecarla.’
Ma i ragazzi sprecano tutto se non c’è qualcuno a tenerli d’occhio. […]’
King evoca riflessioni che non ci giungono nuove, fino a farci scontrare con la metafora molto efficace,se pur
esasperata, sorta a definire l’adolescenza come periodo che per la sua insicurezza,ingenuità e perdizione confluisce
nell’inquieto tanto da affondare nell’ horror.
Il cadavere rappresenta le paure dei personaggi: paura del futuro, paura di crescere, di cambiare. Alla fine del
percorso saranno a tal punto maturati da saperle affrontare e da riuscire a guardare il corpo inerme negli occhi. Tale
incrocio di sguardi incarna la fase adolescenziale conclusa e risulta essere emblema dell’approccio con l’età adulta.
Per antitesi l’autore racconta un’adolescenza prossima alla morte invece che alla vita. Una spensieratezza
avventurosa rubata dalla vista di un corpo inerte che sarebbe potuto appartenere ai protagonisti. Il vuoto provato in
quell’istante si espliciterà nel tempo in una lacuna che graverà per sempre nei ricordi di un’adolescenza nefanda di
due dei ragazzi; gli unici dei quattro audaci che resteranno segnati, per qualità pregresse e innate, come sensibilità e
intelligenza, dalla pavida constatazione.
‘Basta Taddy non fare il ragazzino!’
‘Lo sono. Sono nel pieno della mia giovinezza e si è giovani una volta sola.’
‘Si però si rimane stupidi per sempre.’
Desideri mai morire per un solo instante così da apprendere cosa si provi?
Dedalus | 2015 17
Fantascienza o realtà?
di Serena Convertino
A volte è necessario volgere
lo sguardo alla letteratura del
passato, per poter comprendere
a fondo il presente, per capirne le
contraddizioni e i limiti, le ipocrisie e
quel che di profondamente mutato
c’è. Prendo in esame due grandi
romanzi del secolo scorso, “1984”,
capolavoro Orwelliano, e “L’uomo
in fuga”, di Richard Bachman,
alias, Stephen King. Autori, stili e
opere diverse ma convergenti, che
vanno ad indagare su un mondo
futuristico, oggi più che mai vicino
e reale, il mondo di Winston e di
Ben, nomi come numeri in una
società di macchine umane, di
baratri sociali e di una realtà a dir
poco surreale e contorta che hanno
il potere di affascinare, stupire
ed inevitabilmente indignare il
lettore, pur lasciandolo con un velo
di amarezza in bocca, l’amarezza
per quella vaga familiarità che un
autore è riuscito a suscitare a 40
anni di distanza, quasi a premonire
tutto. Terrificante, ossessionante è
la realtà che ci viene posta dinanzi
agli occhi con spietata semplicità e
chiarezza: l’uomo, non è tale, se per
uomo intendiamo una creatura con
la capacità del pensiero, della ratio,
della padronanza di sé. L’uomo è
una pedina del sistema, una bestia
da sfruttare e plasmare a proprio
favore. È tutto guidato da mani
invisibili, inarrivabili. Gli occhi delle
persone sono vuoti e ciechi, nessuno
può vedere se non attraverso
gli occhi del Grande Fratello, del
potere puro, per cui ogni cosa è
ottenebrata e celata dietro una sorta
di disciplina mentale, di illusione
calcolata, di menzogna e dubbio, da
cui è impossibile emergere, in cui è
impossibile essere. Tutto è calcolato
con folle precisione, ogni virgola,
ogni informazione è volutamente
distorta e giocata a favore del
sistema, che inganna e tradisce
18 2015 | Dedalus
perfino sé stesso, ma pur sempre
con perfetta discrezione. Ma la forza
più grande di questa totalizzante
società sta in quello che di meno
reale e concreto c’è, quell’abisso
profondo che è la mente umana. Sì,
il Grande Fratello incide soprattutto
sulle menti oltre che sulle vite
degli individui, plasmandoli e
annullandoli completamente a
corpi animati, senza scampo, senza
rimedio. L’esistenza stessa delle cose
viene messa in dubbio, così come la
storia, il tempo, la realtà delle cose. È
tutto dubbio, ma viene mascherato
come fosse certezza. Come si arriva
a questo? Come è possibile in un
mondo in cui siamo costantemente
certi delle cose che ci circondano,
convinti di avere a portata di mano
tutto ciò che da capire c’è? È anche
questa pura illusione, dettata dalla
presunzione che abbiamo di poter
sapere e capire tutto, come se fosse
alla luce del sole. Ma non è affatto così,
perché guardando attentamente
ci accorgeremo che tutto intorno
a noi è un punto interrogativo, è
una questione che non si sbriga
discutendone su un gruppo “what’s
app”, al bar con gli amici, persino a
scuola. Ci accorgeremo che il mondo
sta andando a rotoli e che noi siamo
ancora convinti che tutto vada come
deve andare. Ci accorgeremo che
il Grande Fratello della situazione
esiste veramente, che siamo
burattini, semplici ingranaggi di un
sistema e che capire le cose non è
poi così facile e sicuro come sembra.
Ci accorgeremo che la cultura
viene sempre più denigrata dagli
apparati politico-statali, come se
facesse loro paura, come se fosse
davvero scomoda. Ci accorgeremo
che i mass media, internet, il mondo
multimediale, ci ottenebrano la
mente, ci piegano e ci negano di
capire veramente con cosa abbiamo
a che fare. Ci accorgeremo che oltre
il nostro mondo a cinque stelle ce n’è
uno che di stelle non ne ha proprio,
in cui non resisteremmo neppure
per un minuto, che guardiamo
solo da lontano, magari in una
pubblicità che passa per 30 secondi
in televisione e che sparisce come
niente, tra una réclame di intimo e
una di profumi. Ci accorgeremmo
che il nostro pianeta sta collassando
sotto il peso del nostro tanto bramato
benessere, del nostro consumismo,
dello sfruttamento, dello schiavismo
della terra come delle persone. Ci
accorgeremmo che siamo governati
più dalle mafie che da cittadini, i
quali ci dovrebbero rappresentare,
non truffarci nei parlamenti e nelle
corti di giustizia. Ci accorgeremmo
che in tutto il mondo le cose
cambiano e si evolvono, ma che
ancora muoiono 26 mila bambini
ogni giorno, per fame, per guerre,
per cose che sì, ci riguardano, ci
toccano e che ci spetta ascoltare con
attenzione, che ci spetta cambiare.
Ci accorgeremmo che ognuno di noi
è fermo nella propria realtà, a braccia
conserte e che il mondo è intorno
a noi ma che noi non ci siamo, che
siamo capaci di vedere le cose solo
attraverso uno schermo che ci spara
informazioni e dati e numeri ma che
alla fine non dice niente di niente.
Noi, siamo uomini. E che crediamo o
meno in un dio, che il mondo ce lo
sentiamo gravare addosso o meno,
dobbiamo perlomeno cercare di
capire e cambiare, non di vivere
la nostra vita guardando sempre
avanti, perché scopriremmo che
dietro e intorno a noi tante cose
succedono e si evolvono. Perché sta
solo a noi capire e cambiare le cose;
forse era anche questo ciò che Orwell
e Bachman ci volevano dire, che
siamo ancora in tempo. Che anche
le parole hanno un valore e che noi
possiamo darglielo e tramutarlo in
fatti. Cambiamo.
Cinematografia
I figli degli uomini
di Marco Tenti
Non ci sono più figli. 2027, negli
ultimi 18 anni non è nato nessun
bambino; Theo (Clive Owen), un ex
attivista politico, oramai rassegnato,
dalla vita non si aspetta più nulla,
porta in sé un dolore immenso di
una tragedia passata e trova gli unici
sprazzi di sollievo in compagnia di
Jusper ( Michael Caine), un vecchio
fumettista, e di sua moglie, affetta
da catatonia, che vivono in una
piccola casetta in un bosco vicino
Londra. Tutto cambia il giorno in cui
viene rapito dai Pesci, un gruppo
terroristico che sostiene di battersi
a favore degli immigrati e dei deboli
che cercano rifugio in Inghilterra, di
cui uno dei capi è Julian (Julianne
Moore), la sua ex moglie. A loro
serve il suo aiuto: devono riuscire
a far arrivare Kee, un’immigrata
clandestina, a Bexhill, dove salirà
sulla nave Domani, la base operativa
che ospita il Progetto Umano. Kee è
incinta.
È quasi una parabola biblica quella
de “ I figli degli uomini”, se non
in senso strettamente religioso,
sicuramente come stile e struttura
della narrazione. Alfonso Cuaròn
(Gravity, Y tu mamá también),
uno dei grandi talenti del recente
cinema di lingua spagnola, dipinge
un’umanità barbara, violenta e
corrotta da ogni punto di vista:
la stessa cessazione delle nascite
rimane un totale mistero, tante
sono le cause che potrebbero averla
causata; le difficoltà e le intemperie
non sono un motore unificante,
che spinge i singoli a collaborare e
ad aiutarsi, ma una riaffermazione
del principio della Natura, ovvero
la sopravvivenza del più forte sulle
ossa del più debole.
Ad essere coinvolti sono tanto i
fascisti governatori inglesi quanto
le persone come Theo, personaggio
specchio di un infinito numero di
individui, che, sebbene portatori di
ideali giusti e di valori, abbassano
la testa e vanno avanti, indifferenti
alle sorti del mondo poiché disillusi
di poterlo cambiare, e spesso
strumento di chi, fingendo di dare
seguito alle stesse idee, in realtà
cerca solo di ottenere il potere degli
uomini che dice di disprezzare.
Nella neutralità generale è un evento
incomprensibile (o un miracolo, o il
destino forse?) a risvegliare gli animi:
dove la discordia regna ormai tra gli
uomini ottusi è solo l’innocenza a
poter cambiare il corso degli eventi,
e in un mondo corrotto l’innocenza si
trova solo in un bambino nel ventre
materno, talmente puro e potente da
risvegliare i giusti assopiti come Theo
e come, nel contesto estremamente
corale del film, l’umanità stessa dal
barbaro torpore (auto)inflitto in cui
giace. Ma neanche questo basta
per tutti, e la lieta annunciazione
del bambino diviene nella mente di
alcuni un possibile nuovo strumento
di controllo e propaganda, e quindi
ancora un’ultima esplosione di
estrema violenza, un’ultima battaglia
per giungere alla tanto desiderata
soluzione, forse.
Tutto questo è ciò che Cuaròn,
ancora salvo da deliri narrativi
spaziali, mette in mostra nel suo
“I figli degli uomini”, tutto il bene e
tutto il male dell’uomo, la falsità,
l’odio, la paura del diverso e l’amore,
la compassione e la speranza. La
struttura ripercorre quella dei miti
biblici, in chiave meno estrema e
cruenta: un’umanità corrotta che
sta per essere distrutta, una sorta di
messia, o meglio una nuova Maria,
nera e profuga, che porta in grembo
la salvezza dell’uomo, ancora in
grado di commuoversi e di avere
speranza di fronte ad essa, al fine di
condurla all’arca-Domani.
Nella rettitudine troviamo solo
Julianne Moore, Michael Caine con
la moglie, ex giornalista catatonica
per le torture subite per mano del
regime, parola che ricorre quasi
come simbiotica di crisi, come se
l’essere umano sentisse il pressante
obbligo di risolvere ogni problema
con la soluzione più semplice,
veloce, e meno impegnativa, e
quindi più violenta e sbagliata, presa
da un potere assoluto ma alla fine
condivisa da tutti, una sorta di rifiuto
del libero arbitrio ma con la certezza
che la nostra volontà sia esaudita,
volontà che sappiamo essere
sbagliata ed ingiusta, eppure molto
semplice e facile da raggiungere:
“Diamo risposte molto semplici,
dirette a problemi enormi. Ci sono i
senzatetto? Che se ne vadano. C’è un
aumento di criminali? Ripristiniamo
la pena di morte. Soluzioni che
naturalmente non tentano di capire
il perché dei fenomeni a cui vengono
applicate. Al momento possono
sembrare efficaci, ma fra vent’anni
sarà peggio e ne faranno le spese le
generazioni del futuro che di nuovo
si troveranno di fronte problemi
gravissimi.”.
A tutta la sostanza Cuaròn non
dimentica di aggiungere forma,
aiutato da un cast di attori e
collaboratori di prim’ordine: al cast
eccellente si affianca lo splendido e
decadente grigiore della fotografia
di Lubetzki, incredibile nel ricreare
il degrado dell’Inghilterra scossa
dai disordini e dai conflitti, mentre
Cuaròn delizia anche i palati più fini
con sequenze visivamente notevoli
( il piano-sequenza in macchina su
tutte) e con la crudezza e lo squallore
generali con cui mette in scena la
violenza della città nella sequenza
finale; sceglie anche di dare poco
spazio alla coralità dell’azione, ma
tallona maggiormente i personaggi,
proprio per la loro natura di specchio
e di metafora dell’umanità.
Dedalus | 2015 19
Il cinema secondo hitchcock
di Alberto Ghezzi
Nel corso degli anni Cinquanta e
Sessanta, Alfred Hitchcock, in seguito
alla creazione di opere dal valore
tecnico e creativo indiscutibile,
quali ad esempio La finestra sul
cortile o Intrigo Internazionale, era
indubbiamente all’apice della sua
altalenante carriera, contraddistinta
non solo da momenti di estremo
splendore, ma anche da periodi
piuttosto negativi e di livello
mediocre. Eppure, sebbene l’arco
di tempo sopracitato presentasse
thriller o spy stories spesso accolti
in maniera calorosa ed entusiastica
dal pubblico, quest’ultimi furono
giudicati dalla critica americana
con pochezza e sufficienza. Si
discostò da tale immeritata
tendenza
una
straordinaria
corrente cinematografica francese,
la Nouvelle Vague, di cui erano
partecipi inizialmente irriverenti
e provocatori critici della rivista
Cahiers du Cinema. Pertanto, il clima
di rinnovamento d’oltreoceano
si concretizzò in un movimento
affiatato, seppur non compatto e
unitario, che attaccò l’impersonalità
dell’offerta cinematografica coeva,
dominata dal cinema industriale,
mise a punto un trasgressivo
linguaggio
filmico
e
trattò
tematiche contemporanee, al cui
centro vertevano umori, ambienti
e personaggi della generazione
parigina del dopoguerra; tra gli
esponenti di maggior rilievo
spiccarono Jacques Rivette, Claude
Chabrol, Eric Rohmer, Jean-Luc
Godard e Francois Truffaut. In
particolare, quest’ultimo fu un
assoluto estimatore di Hitchcock,
e, dal momento che lo considerava
un regista rivoluzionario, assai
consapevole degli strumenti della
propria arte, decise di proporgli
un’accurata intervista, affinché si
modificasse l’opinione dei critici
diffidenti nei suoi confronti. Dunque,
la celebre conversazione venne
20 2015 | Dedalus
registrata da Truffaut nel 1962,
nel periodo in cui “il maestro del
brivido” era dedito al montaggio
del suo quarantottesimo film,
Gli uccelli; successivamente, in
seguito alla trascrizione dei nastri
e all’assemblaggio del materiale
fotografico, fu pubblicata nel 1967
la prima edizione, alla quale, nelle
successive ristampe, fu aggiunto un
capitolo supplementare con varie
osservazioni su Topaz, Frenzy e
Complotto di famiglia.
Nacque così, da un’idea tanto
elementare quanto geniale Il
cinema secondo Hitchcock, un libro
sconvolgente, di un’importanza
radicale per la storia della settima
arte, basato sul confronto tra
due menti brillanti e uniche nel
loro ambito. Infatti, sarebbe
riduttivo e ingenuo considerarla
semplicemente
un’intervista,
poiché le domande non vengono
poste da un comune giornalista
interessato all’argomento, bensì
da uno dei migliori registi della
cinematografia francese. Costui si
dimostra un profondo conoscitore
delle opere hitchcockiane e, non
essendo mai soddisfatto da risposte
superficiali, tenta costantemente
di cogliere l’aspetto intrinseco
delle abilità comunicative e
tecniche di Hitchcock. Ne scaturisce
di conseguenza un colloquio
appassionante, coinvolgente, in
grado di approfondire dal punto
di vista umano una personalità
lunatica e sensibile. Le questioni
di Truffaut inizialmente toccano i
numerosi punti cardine della vita di
Hitchcock, cominciando dalle sue
esperienze lavorative in Inghilterra
come disegnatore e assistente alla
regia, sino alla creazione dei suoi
primi film muti, passando inoltre
dall’incontro con Alma Reville,
con cui instaurerà un sodalizio
sentimentale e professionale; dopo
il suo trasferimento negli Stati
Uniti a Hollywood, la sua carriera
raggiungerà picchi di estro artistico
e successo economico davvero
notevoli, dai quali scenderà durante
gli ultimi anni della sua vita a causa
di condizioni di salute precarie. La
biografia costituisce il perno attorno
a cui si snoda l’esposizione in ordine
cronologico dell’intera filmografia
del regista britannico, sempre
minuzioso e aperto nella descrizione
di particolari e procedimenti richiesti
dall’insaziabile parigino. Questo,
benché spazi da un argomento
all’altro con una facilità disarmante,
è solito orientarsi attraverso un filo
conduttore rivelativo per l’epoca,
ossia il cambiamento di concezione
della figura del regista, adesso
posta in una posizione di estrema
centralità:
difatti
personaggi
come lo stesso Hitchcock, pur
essendo stati al momento della
lavorazione il fulcro creativo delle
loro
opere,
precedentemente
talvolta assumevano agli occhi del
pubblico un valore diverso, ossia
quello di pedine dei produttori.
I suddetti continuano tuttora a
esercitare un influente potere
sul lavoro e sui ritmi della troupe
cinematografica, ma ciononostante,
dopo un’ostinata lotta contro
le convenzioni dell’industria, il
regista ora è perlomeno stimato
come colui che esprime una sua
personale visione del mondo
mediante i suoi lungometraggi. Tale
tematica, arduamente sostenuta
dagli esponenti della Nouvelle
Vague, è appoggiata anche dal
cineasta inglese, fonte inesauribile
di dettagliate descrizioni riguardo
ai meccanismi delle industrie
hollywoodiane, che rappresentano
un macrocosmo per certi aspetti
differente
dalle
compagnie
cinematografiche
anglosassoni,
anch’esse ben familiari ad Hitchcock.
Il dialogo non prosegue soltanto
tra
riflessioni
prosaiche
e
domande impegnative, ma anche
tra
considerazioni
sarcastiche
e spiegazioni umoristiche. Ne
è un esempio il tentativo di
chiarimento, per mezzo di bizzarre
storie, del termine MacGuffin,
vocabolo coniato da Hitchcock
in riferimento a un espediente
narrativo insignificante per il suo
valore in sé, ma fondamentale per lo
sviluppo della trama. Il più famoso
di questi stratagemmi è presente
in Psyco, nel quale il MacGuffin
è il denaro sottratto da Marion
al suo datore di lavoro, pretesto
essenziale per condurre la donna
al motel di Norman Bates, dove
sarà assassinata senza che l’omicida
sapesse dell’esistenza dei soldi,
poiché altro non erano che un fine
escamotage perfetto per azionare i
meccanismi del racconto. Tuttavia,
le risate suscitate assumono anche
connotati amari in seguito alla
lettura di pungenti opinioni da parte
del regista britannico riguardo alle
idee paradossali e discordanti dei
critici, figure inopportunamente
puntigliose e inclini a biasimare
ogni minima presunta perdita di
credibilità di una pellicola sul piano
della narrazione. I due sapienti
maestri concordano nell’affermare
che nessuna sceneggiatura basata
sulla finzione resisterebbe a una
scrupolosa analisi in termini di
plausibilità, giacché l’unico prodotto
audiovisivo in grado di sostenere
simili giudizi è il documentario, in
cui colui che ha creato il materiale
di base è Dio. Perciò i cosiddetti
“fautori della verosimiglianza” sono
scherniti per la loro totale mancanza
d’immaginazione, sostituita da
un’eccessiva e odiosa obiettività.
Gli aneddoti ironici, pur essendo
riflessivi e al contempo dilettevoli,
non catturano mai l’interesse
del lettore tanto quanto avviene
durante l’approfondimento tecnico
della filmografia di Hitchcock,
uomo al centro di un lavoro di
cooperazione enorme orchestrato
in modo autorevole. Egli espone a
Truffaut i processi di realizzazione
delle singole scene, motivando le
scelte delle inquadrature e delle
scenografie e ragionando su quali
messaggi potessero trasmettere
determinate angolazioni e cambi
di prospettiva; la sua competenza
in materia è sconfinata, ragion
per cui in ogni manipolazione
dell’immagine, del suo ritmo e
dell’emozione spettatoriale, attesta
una raffinatezza e una padronanza
senza eguali. Oltre a ciò, i suoi
lungometraggi sono celebri per
l’effetto di incredibile tensione
drammatica e d’angoscia che si
respira al momento della visione, nel
corso della quale il pubblico possiede
un sapere maggiore rispetto a quello
dei protagonisti circa la vicenda in
via di svolgimento, e ciò fa sì che di
conseguenza la suspense, anche
grazie a una gestione magistrale
dei tempi narrativi, imponga la sua
supremazia sulla banale sorpresa.
Da tale resoconto, si può facilmente
dedurre che il dialogo discorra di
innumerevoli altri temi e questioni
meritevoli di essere citati e
approfonditi, ma nel suddetto caso
è obbligatoria la lettura dell’intero
volume, degno di essere annoverato
tra i libri più incisivi ed educativi
in ambito cinematografico per la
passione e la conoscenza espresse
dalle sincere parole di due grandi
cinefili, prima ancora che cineasti.
“Breaking Bad”
Declino dell’uomo moderno
di Christian Burroni
Un’essenza che percorre le gallerie
più buie della nostra interiorità.
Sguscia,
striscia,
serpeggia
attraverso i meandri dell’inconscio.
Tesse una tela attorno ai filamenti
nervosi,
trasformandoci
nel
suo burattino. La sabbia della
clessidra comincia a precipitare.
Piccoli rigagnoli di invidia, rabbia,
depravazione ed odio cominciano
a sgorgare nelle vene. Il cuore si
gonfia fino a scoppiare, inondando
qualsiasi spiraglio di razionalità
incontri sul proprio cammino. Il
male non conosce sosta. Corre per
le praterie, s’immerge nei fondali
marini, sfida le vette più scomode e
tortuose in cerca di nettare vitale. Il
pasto più prelibato da concedergli
sono la noia e l’insoddisfazione.
scintilla? Esiste un limite? Sebbene
sconosciuta, quella soglia segna il
varco di un inesorabile declino, da
cui non si può più tornare indietro.
Quanto può subire un uomo, in
quella che più che vita appare
come una mera sopravvivenza al
quotidiano, prima che scatti QUELLA
Albuquerque,
New
Mexico.
Walter White è il classico uomo
debole, una carcassa di carne
putrefatta bersagliata da avvoltoi
Un
giorno
questo
essere
demoniaco bussò alla porta di
un
cinquantenne
americano.
Dedalus | 2015 21
con la bava alla bocca. Chiunque
potrebbe mettergli i piedi in testa.
indicare “l’aver abbandonato la retta
via, imboccando quella sbagliata”.
Egli ha però un dono che gli scorre
nel sangue: la chimica. Una mente
così ricca, geniale, esplosiva, che
sembra non conoscere limiti. Il
problema è che Walt ha il potere
di scaraventare nella pattumiera
persino un potenziale così elevato. A
causa di una concatenazione di scelte
sbagliate, adesso ogni mattina deve
confrontarsi con spocchiosi studenti
assonnati, disegnando atomi su
una lavagna. Insegna in un liceo.
Cerchiamo però di non perdere
il filo, riprendendo il racconto dal
punto in cui lo avevamo interrotto.
Conscio del male interiore che lo
sta dilaniando, Walter White sembra
precipitare in un abisso. Presto la
moglie darà alla luce un neonato che
probabilmente muoverà i primi passi
in un cimitero, per ornare la tomba
del padre con qualche fiore. E come
può un uomo che, da vivo, riesce a
malapena ad assicurare un pasto alla
famiglia, garantirgli un adeguato
mantenimento da morto? Il mancato
scienziato ha bisogno di soldi. Molti,
e subito. Più di quelli che potrebbe
sperar di guadagnare in una vita.
Pressato dalle spese elevate, nel
pomeriggio lo “scienziato” è costretto
ad arrotondare in un autolavaggio,
dilettandosi
nell’insaponatura
di
cerchioni
e
parabrezza.
L’uomo è sposato con Skyler,
disoccupata ed incinta di un bambino
che i due non volevano. Il figlio
adolescente, Walter Jr, soffre di una
particolare forma di paresi cerebrale
che lo costringe alle stampelle.
Tutto qui? Non ancora. Un bel
giorno Walter White scopre di
avere un cancro ai polmoni in stato
avanzato, che gli permetterà di
vivere al massimo per altri due anni.
La
rappresentazione
umana
dell’inerme,
un
moscerino
immobilizzato da quell’aracnide che
è la vita. Persino i tragediografi greci
inorridirebbero di fronte a tutto ciò.
Quella appena narrata è la trama
di una serie televisiva statunitense,
composta da cinque stagioni ed
andata in onda dal 2008 al 2013:
“BREAKING BAD”. Questo termine
non è altro che un colloquialismo
adottato nel Sud degli USA, atto ad
22 2015 | Dedalus
in grado di sorreggere le future
spese della famiglia. Progetto
nobile, all’apparenza. Ma se c’è una
cosa in cui l’essere umano di ogni
tempo si è dimostrato fenomenale,
è il lasciare spazio alla bramosia, alla
cupidigia, alla tracotanza. Il declino
fisico e morale del protagonista
è ormai inevitabile. Un’enorme
valanga che va inglobando ogni
cosa. L’impatto risulta mortale.
Walter White si trasforma quindi
in Heisenberg (in onore di Werner
Heisenberg, fisico tedesco del
novecento),
pseudonimo
che
incarna alla perfezione il suo volto più
marcio e spietato. È nato un mostro
pronto a schiacciare chiunque
si metta tra lui e il suo obiettivo.
La sua coscienza si dimena, sembra
volergli comunicare qualcosa. Walter
non può andarsene così, non senza
aver marcato la storia dell’umanità
con
un’impronta
indelebile.
Ne nasceranno le difficoltà scaturite
dal dover nascondere la doppia
identità alla famiglia, e nell’affrontare
gli innumerevoli pericoli immersi
nell’oscurità
della
malavita.
Un giorno, l’incontro con un suo
ex studente, tale Jesse Pinkman,
simboleggerà
quella
piccola
scintilla in grado di appiccare il
fuoco nell’animo appassito del
cinquantenne. Jesse si è dato infatti
alla malavita, e da anni cerca di
racimolare qualche soldo“cucinando”
(in gergo dicono così) droga.
Gli avvenimenti in Breaking Bad
assumono il cosiddetto “effetto
domino”: una singola tessera,
all’apparenza gracile ed innocua,
può scatenare una reazione
devastante. Per questo una serie di
scelte sbagliate fungeranno da remi
per quel traghetto che guiderà i
personaggi dentro la gola dell’inferno.
Walter è come folgorato, la
soluzione a tutti i problemi è
proprio lì, davanti ai suoi occhi.
Un prodotto televisivo di tale
livello non ha certamente bisogno
di un articolo per essere lanciato.
L’intento era solo quello di
incuriosire chi non avesse ancora
avuto l’opportunità di immergersi
nel mondo di Albuquerque. Una
realtà disumana tremendamente
vicina a quella che viviamo ogni
giorno. Walter White sono io.
Sei tu. Walter White siamo tutti.
“Io conosco la chimica, tu hai i giusti
agganci. Ti andrebbe di cucinare
cristalli di metanfetamina con me?”.
Lo scopo del chimico è chiaro:
creare il proprio impero della
droga, raggiungendo una somma
Musica
Lucia di Lammermoor
di Costantino Benini
Mercoledì 30 settembre 2015
al Teatro del Maggio Musicale
Fiorentino va in scena l’ultima
rappresentazione di “Lucia di
Lammermoor” di Gaetano Donizetti
per la stagione 2015-2016. L’opera,
rappresentata per la prima volta il 26
settembre 1835 al Teatro San Carlo di
Napoli , portò al successo definitivo
l’allora trentottene compositore, che
aveva al suo attivo già quarantatré
opere, e fu l’unica opera donizettiana
a rimanere sempre in repertorio.
Rimane ancora oggi l’opera
romantica di maggior successo. Rulli
di timpani in lontananza, seguiti
da una fanfara di corni allo stesso
tempo regale e tetra: è con questo
lugubre attacco orchestrale che il
sipario si leva, nell’atrio del Castello
dei Ravenswood, usurpato da Lord
Enrico Ashton, che ha sterminato
tutti i membri della famiglia ad
eccezione del giovane Edgardo,
“l’ultimo avanzo di una stirpe
infelice”, come si definirà nell’ultima
scena dell’opera. Normanno, capo
degli Armigeri, ordina agli stessi di
esaminare i dintorni per scoprire
l’identità della figura che si aggira
intorno al Castello (Percorrete le
spiagge vicine). Gli Armigeri partono.
Arrivano Enrico e Raimondo,
confidente e consigliere spirituale
dello stesso e della sorella Lucia.
Enrico è furioso:Lucia ha rifiutato
per l’ennesima volta la mano
dell’uomo con cui intende farla
sposare. Raimondo cerca di placarlo:
la fanciulla è ancora sconvolta dalla
morte della madre. Normanno
allora spiega che la giovane si è
innamorata di un uomo che ha
salvato lei e la confidente Alisa da
un toro inferocito. Ad Enrico viene il
terribile sospetto che quell’uomo sia
Edgardo (Cruda, funesta smania). Gli
Armigeri ritornano per confermare i
suoi sospetti: quell’uomo è proprio
Edgardo. La rabbia di Enrico esplode
e, accompagnato dagli ottoni, che
espongono il tema militaresco
da lui ripreso, giura di vendicarsi,
nonostante Raimondo implori pietà
(La pietade in suo favore). La scena
si sposta nel parco del Castello. Lucia
è preoccupata: Edgardo le ha dato
appuntamento, ma ancora non è
arrivato. Alisa la rimprovera perché
l’ha coinvolta in una situazione
pericolosa. Poi nota che l’amica è
terrorizzata e le chiede il motivo. La
fanciulla le spiega che molti anni
prima, un Ravenswood aveva ucciso
la donna amata, che era caduta
nella fonte lì vicina. Il suo fantasma
le era apparso, chiamandola a sé
per poi dileguarsi nelle acque,
che erano diventate rosso sangue
(Regnava nel silenzio). Alisa vede nel
racconto oscuri presagi e la implora
di desistere da questo amore, ma lei
rifiuta, spiegandole la sua immensa
felicità quando le dichiara il suo
amore (Quando rapito in estasi). In
quel momento arriva Edgardo e Alisa
si ritira per fare in modo che nessuno
si avvicini. Il giovane chiede perdono
a Lucia per averla fatta venire ad
un’ora così tarda, ma le spiega che
deve partire immediatamente per la
Francia per unirsi agli alleati cattolici
e che prima vuole fare pace con
Enrico. Lei risponde che è meglio se
la loro relazione rimane segreta. Lui
allora le rinfaccia che Enrico non è
ancora contento e che vuole porre
fine alla sua dinastia, uccidendo
anche lui. Lucia è terrorizzata.
Edgardo le racconta che aveva
giurato eterna guerra agli Ashton
sulla tomba del tradito padre e
che i suoi propositi si sono infranti
quando l’ha vista e se n’è innamorato.
Aggiunge minaccioso che tuttavia
il giuramento non è compiuto e
che è ancora in tempo a portarlo a
termine. Lucia implora di mettere
via i suoi propositi. (Sulla tomba
che rinserra) . Edgardo cede e i due
si scambiano gli anelli giurandosi
eterna fedeltà, in un vero e proprio
matrimonio laico. (Qui di sposa
eterna fede e Verranno a te sull’aure).
Ha così termine la prima parte
dell’opera, intitolata “La partenza”. La
seconda parte, “Il contratto nuziale”,
si apre negli appartamenti di
Enrico. Quest’ultimo è preoccupato:
teme che la sorella rifiuti un’altra
volta il matrimonio. Normanno lo
rassicura: ha intercettato tutte le
lettere di Edgardo, producendone
una falsa in cui si dice che il giovane
avrebbe trovato una nuova amante.
In quel momento entra Lucia,
pallida, sofferente. Enrico le dice
che avrebbe sperato di trovarla più
lieta. Lei allora gli ribadisce che a
ridurla così è stato il suo eccesso di
rigore e che sta aggravando la sua
malattia, avvicinandola alla morte.
Lui le risponde di non preoccuparsi,
che non è più arrabbiato con lei,
ma che in cambio dovrà rinunciare
al suo amore (Il pallor funesto,
orrendo). Lei rifiuta. Allora lui le
risponde che è promessa in sposa,
ma lei lo avverte che è già sposata.
Lui si adira e le mostra la falsa lettera.
Lei si abbandona disperata, ma è
ancora riluttante. Si ode un suono
festoso giungere dall’esterno. Lei
chiede cosa sia. Lui le spiega che
è arrivato il cattolico Lord Arturo
Bucklaw. Il partito cattolico ha vinto,
i protestanti sono stati sconfitti e
Guglielmo ucciso. Adesso è Maria
Stuart a regnare sulla Scozia, e l’unico
modo per salvare gli Ashton, che
sono del partito protestante, è che
lei lo sposi. Lei non è convinta. Enrico,
furibondo la maledice e se ne va (Se
tradirmi tu potrai). Sopraggiunge
Raimondo che, complice degli altri
due, le fa notare che Edgardo non ha
mai risposto alle sue lettere, segno di
infedeltà. La madre può raggiungere
il paradiso solamente sposando
Arturo. Lei allora, convinta, accetta.
Dedalus | 2015 23
Nel salone del castello hanno inizio
i festeggiamenti. Arturo promette
ad Enrico che risolleverà l’onore
della famiglia. Arriva Lucia, che viene
costretta dal fratello a firmare il
contratto nuziale. In quel momento si
ode un gran rumore. E’ Edgardo, che è
appena tornato dalla Francia. Enrico,
Arturo e Normanno gli impongono
di andare via, se non vuole morire.
Lui risponde fieramente che se verrà
ucciso, trascinerà molti uomini con
sé (Chi mi frena in tal momento).
Enrico gli mostra il contratto nuziale.
Edgardo allora si riprende l’anello
che aveva dato a Lucia e la maledice.
I Lord tornano a minacciarlo, ma lui
si offre a loro. Saranno Raimondo
ed Alisa a convincerlo ad andarsene
(T’allontana
o
sciagurato).
Il secondo atto della seconda
parte inizia nella Torre di Wolferag.
Edgardo è disperato, convinto di
essere stato tradito. Sopraggiunge
Enrico e i due si sfidano a duello,
dandosi appuntamento all’alba
nel cimitero dei Ravenswood.
Nel
Castello
continuano
i
festeggiamenti,
che
vengono
interrotti da Raimondo. Egli narra che,
insospettito dai rantoli che venivano
dalla camera dove si erano appartati
Arturo e Lucia, vi si era recato e aveva
trovato Arturo morto e Lucia con la
spada del defunto in pugno, che,
sorridente, gli aveva chiesto dove
fosse il suo sposo. In quel momento
arriva
Lucia,
completamente
impazzita, che, accompagnata dalla
glassharmonica (spesso sostituita
dal flauto), nel suo registro acuto
e facendo ampi vocalizzi, ricorda
sconclusionatamente i momenti
passati con Edgardo, pensando che
egli sia lì presente, fino a descrivere
il loro matrimonio, convinta che la
cerimonia si stia verificando lì, in
quel momento (Il dolce suono mi
colpì di sua voce e Ardon gl’incensi).
Sopraggiunge Enrico che, informato
dell’evento, si scaglia contro Lucia,
ma viene trattenuto dai presenti, che
gli fanno notare in che stato essa si
trovi. La fanciulla, convinta di essere
alla scena poco prima passata, tenta
di giustificarsi con Edgardo, poi
cade fra le braccia di Alisa, che la
24 2015 | Dedalus
porta via (Spargi d’amaro pianto).
Enrico si allontana, preso dai rimorsi,
mentre Raimondo si scaglia contro
Normanno, accusandolo di essere
il vero responsabile della tragedia.
Nel cimitero dei Ravenswood,
l’addolorato Edgardo, che ormai è
convinto di aver perso tutto, anela
a rimanere vittima nell’imminente
duello (Tombe degli avi miei e Fra
poco a me ricovero darà negletto
avello). Sopraggiungono gli abitanti
di Lammermoor, intonando un
canto funebre per una donna che
non vedrà tramontare il sole che
sta per sorgere. Edgardo chiede
loro per chi stanno cantando. Loro
gli rispondono che è per Lucia. Lui
allora, fa per avviarsi verso il Castello
e rivederla un’ultima volta, ma
viene fermato da Raimondo, che gli
comunica la morte della fanciulla.
Accompagnato da un andamento
per terzine costituito da accordi
ribattuti degli archi e il controcanto
del flauto, Edgardo esprime il
desiderio di poter realizzare ciò che
“l’ira de’mortali” non gli ha permesso,
ovvero essere unito all’amata
Lucia, estrae un pugnale e se lo
immerge nel cuore, fra l’orrore dei
presenti (Tu che a Dio spiegasti l’ali).
Il cast della rappresentazione era
eccezionale. Il tutto si svolgeva fra le
scene di Paul Brown, molto semplici
ma bellissime: un paesaggio
notturno costituito da due alberi
scheletrici e un’immensa luna sulla
quale scorrevano pannelli neri
marmorizzati, rappresentanti gli
interni. Per la scena in cui Enrico
ed Edgardo si sfidano a duello,
era inoltre presente una pioggia
a scroscio, con tuoni e lampi. Su
questa suggestiva scenografia si
muovevano interpreti fantastici. La
Lucia di Burcu Uyar era sofferente,
ma eroica, fragile, ma determinata.
Ha reso la Scena della Follia intensa,
impressionante, eterea, diafana,
adornandola con acuti meravigliosi.
L’Edgardo di Yjisie Shi era
commovente, meraviglioso. Ha
reso il finale eccellente, straziante,
ma al tempo stesso eroico.
Christian Senn è riuscito a rendere
il personaggio di Enrico odioso
come pochi sono capaci di fare. Un
Enrico rabbioso, ostile, perfetto.
Ha reso il finale carico di tensione,
esplosa nell’ emozionante e rabbiosa
cabaletta “La pietade in suo favore).
Conclusasi con un acuto strepitoso.
Accanto al terzetto romantico, si
muovevano il Normanno di Saverio
Bambi, crudele, ostile, ma allo
stesso tempo incerto, dando al
personaggio tutte le sue sfumature.
Il Raimondo di Gabriele Sagona
era fantastico, solenne, neutrale,
compassionevole e preoccupato.
Alisa, interpretata da Simona di
Capua è stata eccellente, tuttavia
il personaggio ha uno spazio
troppo ristretto per permettere alla
cantante di esibire le sue qualità.
Il tutto diretto da Fabrizio Maria
Cammarati, che ha dato alla partitura
un tocco tragico e sofferente, ma allo
stesso tempo eroico, quasi epico.
Inoltre, è stato apprezzabile
l’inserimento del bellissimo duetto
fra Edgardo ed Enrico all’inizio del
secondo atto della seconda parte in
cui si sfidano a duello, e del recitativo
fra Raimondo e Normanno alla fine
della Scena della Follia, che di solito
vengono tagliati ingiustamente.
La rappresentazione ha avuto tuttavia
dei difetti. I costumi di Paul Brown
rendevano l’ambientazione storica
indeterminata. Enrico e Normanno,
infatti, vestivano abiti ottocenteschi,
mutati in settecenteschi per il
matrimonio, mentre Edgardo ha
tenuto i panni ottocenteschi per
tutta la durata dell’opera. Arturo
era abbigliato invece in maniera
settecentesca, mentre gli abiti
di Lucia erano novecenteschi.
Tuttavia l’effetto d’insieme non
era male. Altro difetto, Normanno
all’inizio è apparso insicuro, anche
se poi è migliorato in seguito.
Ma, a parte questo, è stata una
bellissima
rappresentazione,
da
rivedere
appena
si
ripresenta
l’occasione.
Sport
His airness
di Francesco Scrocca
“Questa sera il numero 23 non era Jordan...
...era dio travestito da Michael Jordan”
Larry Bird, Boston 20.04.1986
Michael Jeffry Jordan nasce il
17 febbraio 1963 a Brooklyn,
New York. Michael è il quarto
dei cinque figli di Deloris
e James R. Jordan Senior.
Poco dopo la sua nascita,
la famiglia si trasferisce a
Wilmington, North Carolina.
Durante la scuola media il
piccolo Michael vorrebbe
dedicarsi a quello che
era lo sport di famiglia, il
baseball. Ma avendo un
fisico troppo gracile pian
piano viene relegato in
panchina. Allora decide di
dedicarsi al basket, lo sport
che praticava il fratello
Larry. Michael in quegli
anni è un ragazzo pieno
di insicurezze, soprattutto
perché pensa che i suoi
genitori preferiscano il
fratello maggiore. Decide di
frequentare la Laney High
School, la scuola nella quale
studia pure dal fratello e
sceglie di indossare il 23,
perché Larry usava il 45 e
secondo lui valeva la metà.
Alla Laney ci sono due
squadre: la Junior Varsity,
per le “matricole” del primo
e secondo anno, e la Varsity,
per gli studenti del terzo
e quarto anno. Michael,
il primo anno, accetta di
giocare nella squadra junior,
ma il secondo anno, quando
va a guardare i nomi di chi
andrà a comporre la Varsity,
vede che il suo nome non
c’è. Non è contento di
questa decisione, perché al
suo posto viene scelto Leroy
Smith,un ragazzo che a 15
anni era alto 202 cm, mentre
Michael era solo 1 metro e 78 (ma era decisamente più
forte) e la squadra aveva bisogno di un giocatore di
grandi dimensioni. Coach Harring(l’allenatore della
Laney) dirà che aveva bisogno di giocatori alti sopra la
media e che per Jordan sarebbe stato più produttivo
giocare molti minuti nella squadra junior, dove
avrebbe potuto allenare la mano sinistra e l’arresto e
tiro. L’estate successiva Michael è alto 191cm e a quel
punto non ci sono ostacoli per il suo ingresso in prima
squadra: Jordan diventa uno dei migliori giocatori a
livello di High School in America, ma non riuscirà mai
a vincere un titolo nazionale. Durante il reclutamento
per il college decide di accettare la borsa di studio per
UNC(University of North Carolina). Sotto la guida di
Dean Smith, Michael gioca quasi sempre da titolare,
trattamento che Dean non era solito adoperare per
un ragazzo al primo anno. Jordan tiene una media
di 15 punti a partita, ma non è la stella della squadra,
infatti quel ruolo viene ricoperto da James Worthy. I
Tar Heels(il soprannome di UNC) arrivano alla finale
nazionale e Jordan segna il canestro della vittoria a 15
secondi dalla fine(l’MVP lo vinse però Worthy). Quel
momento cambiò drasticamente la carriera di MJ,
che fino ad allora era ritenuto un buon giocatore, uno
come tanti altri. Da lì in poi diventò un vero e proprio
personaggio e tutta l’attenzione mediatica si spostò su
di lui. Negli anni successivi con l’addio di Worthy(che si
era accasato in NBA ai Los Angeles Lakers) Michael è la
stella della squadra. Migliora ancora ma nei successivi
due anni non riesce a bissare il titolo Ncaa vinto nel
1982.
L’estate del 1984 è il momento del grande salto:
Jordan è pronto per l’Nba. Si rende eleggibile per il
Draft(la “pesca” dei giocatori dalle università) e viene
scelto con la “pic” numero 3. La prima scelta fatta da
Huston fu Hakeem “the Dream” Olajuwon, un centro
nigeriano capace di incantare il mondo del basket
per diversi anni. I Chicago Bulls alla 3 non se lo fanno
scappare. Jordan è ritenuto un potenziale meteorite,
si sbagliano. Il primo anno Jordan porta letteralmente
i Bulls ai playoff, ma la squadra non è un granché, e
la corsa per il titolo si ferma anzitempo. La seconda
stagione inizia nel peggiore dei modi: Michael si
infortuna alla caviglia nella pre-season e salta gran
parte della stagione, tornando a giocare solamente
a 18 partite dal termine. La squadra grazie a lui si
qualifica ai playoff ma viene
eliminata dai Boston Celtics
di Larry Bird(durante quella
serie in gara 2 pronunciò
quel l’elogio a Jordan che
segnò 63 punti). Nelle
stagioni successive Michael
Jordan diventa il padrone
della lega, non c’è nessuno
capace di tenergli testa, le
squadra avversarie sono
costrette ad applicare le
“JordanRules”, in parole
povere ogni volta che
entra in aria gli avversari
hanno il compito di dargli
una mazzata e stenderlo: è
l’unico modo per fermarlo.
Ma c’è un problema: non
riesce a vincere il titolo e
ogni volta che, dopo una
sconfitta, torna a casa in
aereo o in pullman, Michael
piange e si interroga sul
perché i suoi compagni
non abbiano la stessa
voglia di vincere che ha lui.
Nel 1990 Chicago cambia
allenatore, passando sotto
l’ala dell’eccentrico Phil
Jackson, e aggiungono
alla rosa Scottie Pippen
e Horace Grant. Michael,
per la prima volta dal
suo approdo in NBA, può
giocare in un contesto in
cui coinvolge i compagni.
I Bulls arrivano in finale di
Conference, perdendo a
gara 7 contro Detroit. Ormai
ci siamo, tutti si aspettano
che l’anno seguente Jordan
vincerà il suo primo titolo.
Per i successivi tre anni i
Bulls domineranno la Lega
e vinceranno tre titoli NBA
consecutivi.
Dedalus | 2015 25
Nel luglio del 1993 suo
padre si trova a Wilmington
per il funerale di un amico.
Mentre sta tornando al
volante della sua Lexus
si ferma sul bordo della
strada per riposarsi un po’,
due criminali si avvicinano,
lo uccidono e gli rubano
la macchina. Il giorno del
funerale Michael non regala
uno sguardo a nessuno e
pochi mesi dopo annuncia il
suo ritiro, vuole che l’ultima
partita di basket che ha
giocato l’abbia vista suo
padre. Da quel momento si
dedicherà al baseball. Non
c’è
mai
stato
momento più difficile per
la pallacanestro americana.
Jordan era più grande della
Lega, il suo brand vendeva
più dell’intera Nba. La
sensazione era che prima o
poi sarebbe tornato. Infatti,
dopo una parentesi di un
anno e mezzo nel baseball
con
mediocri
risultati
riappare nel mondo del
basket. A Jordan manca
troppo la pallacanestro e
alla pallacanestro manca
troppo Jordan. Il 18 marzo
1995 l’Espn annuncia il suo
26 2015 | Dedalus
ritorno e il giorno dopo, in conferenza stampa, Michael
dirà: “I’m back”. I fan sono in delirio. Jordan torna, ma
con una differenza, da quel momento indosserà il 45
(il numero del fratello) perché vorrebbe che suo padre
avesse visto la sua ultima partita col 23. Però non è lo
stesso giocatore che aveva abbandonato la lega: è un
tempo di gioco indietro rispetto al suo tradizionale
dominio. Riesce a sintetizzarlo meglio di tutti Nick
Anderson, giocatore degli Orlando Magic, che dirà “Il
23 era Superman, il 45 è solo forte”. Jordan gioca col
23 e Chicago paga 100mila dollari di multa per ogni
partita che giocherà con quel numero, poiché non si
può cambiare numero durante la stagione. Quell’anno
i Bulls non vincono e i rivali di Jordan diranno che
non è più quello di una volta. L’anno successivo
Michael è una macchina, non ce ne è per nessuno. I
Bulls conquistano nuovamente il titolo. La stagione
successiva, in finale, si trovano di fronte gli Utah Jazz di
Stockton(miglior assist man di sempre) e Malone(MVP
della stagione) che avevano un intesa celestiale. La
serie va sul 2-2 e la mattina di gara 5, Jordan è vittima
di una intossicazione alimentare(in seguito dirà”mi
sentivo morire”). Si fa portare al palazzetto e durante
la fase di riscaldamento è una statua, è seduto in
panchina immobile con un asciugamano sulla testa.
Nessuno si aspetta che possa giocare. Jordan entra
in campo e domina la partita segnando 38 punti.
Chicago vince la serie. Secondo titolo consecutivo dal
suo ritorno in NBA. L’anno successivo, stagione 97-98,
in finale trovano di nuovo gli Utah Jazz. Utah vince
gara 1, poi nelle successive tre gare è una supremazia
Bulls. La serie è sul 3-1, Utah vince inaspettatamente
gara 5 e si va a gara 6. Salt Lake City sembra Time
Square la sera di capodanno, probabilmente quella
sarebbe stata l’ultima partita di Michael Jordan. A 37”
dal termine Utah è avanti di 3, Jordan si esibisce in un
coast-to-coast e porta i Bulls
sotto di 1. Nell’azione
difensiva seguente, Michael,
come uno squalo che sente
l’odore del sangue, porta via
la palla dalla mani di Malone.
Tutta Salt Lake City è con le
mani nei capelli. Non c’è
nessun essere capace di
intendere e di volere che
non sa che Jordan quella
partita la vincerà. A 5” dal
termine segnerà il canestro
della vittoria, quello che lui
pensa sia l’ultimo della sua
carriera. Dopo quella partita
Jordan si ritira e torna nel
2001, all’eta di 38 anni,
nei Washington Wizards,
riuscendo comunque a
tenere una media di 20 punti
a partita e segnando anche
43 punti in una singola gara.
Nel 2003 si ritira per la sua
terza ed ultima volta. Nel 2009 durante la
celebrazione per il suo
ingresso nell’Hall of Fame
del basket dirà -”Un giorno
potreste vedermi in campo
a 50 anni”-risata generale
del pubblico-”non ridete, i
limiti,come le paure, spesso
sono soltanto illusioni”-
Poesia
Love
di Tommaso Caperdoni
I could see all the universe and beyond
See the stars and feel the immensity through my heart
I could discover brand new worlds and unknown galaxies would be my home
I could learn everything about life
Live a century in one single night
Play the climbing song with my fingers or just sing along my future
I could do this, or you could just give me a kiss
Now I want pain, lotta love and no more chains
And if you’ll kiss me, one day, I’ll do all these things anyway
I could die without any wounds
I could die without any life
Neither saying “why” or “I’ll try”
But in an useless platitude there’s no chase,
I’m seeking love to find my faith
So just kiss me and we’ll find our way.
Annunci :
8 novembre teatro della Pergola, “ vita di galileo di Bertol Brecht
partecipa un gruppo di alunni e professori del liceo classico
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2015 | Dedalus