Il digiuno - La Bottega del Vasaio
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Il digiuno - La Bottega del Vasaio
Il digiuno 1. La voracità Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: "È vero che Dio ha detto: "Non dovete mangiare di alcun albero del giardino"?". Rispose la donna al serpente: "Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: "Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete"". Ma il serpente disse alla donna: "Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male". Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. (Gen 3, 1-6) La suggestione del serpente accolta dalla donna mette in questione proprio il rapporto con Dio. Dio aveva dato un’enorme libertà con un confine (albero) a significare la limitatezza delle possibilità umane; di tale limitatezza era segno altrettanto forte la presenza dell’altro. Nell’uomo appare forte l’istinto del “tutto e subito”, quella pulsione vitale che se non assecondata origina la frustrazione. La legge di Dio viene pervertita: la privazione di una sola cosa diviene la privazione di tutto. La donna ci casca: ripete il comando di Dio in forma errata… Il pensiero di un Dio-padrone e di un giardino-prigione è ormai inoculato come un veleno e si svilupperà nel sospetto di un Dio concorrente. Ecco il “tutto e subito” che possiamo chiamare «voracità». Da notare che nell’originale ebraico “acquistare sapienza” significa “acquistare potere, capacità di dominio”. Il senso del limite è sfondato e dunque non esiste più lo spazio dell’altro: gli uomini non sono più partner di dialogo né tra loro né con Dio, la comunione è rotta, si entra nella “strumentalizzazione” dell’altro. Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: "Se tu sei Figlio di Dio, di' che queste pietre diventino pane". Ma egli rispose: "Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio". Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: "Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra". Gesù gli rispose: "Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo". Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: "Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai". Allora Gesù gli rispose: "Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto". Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano. (Mt 4, 1-11) Gesù ripercorre le tentazioni di Adamo e di Israele, ma ne esce vincitore. Il deserto è luogo di mancanza di cibo, di relazioni, di riconoscimento… Situazione di fame, debolezza, solitudine: lì non si può scaricare la responsabilità di ciò che sei su niente e su nessuno, sei costretto a guardarti in faccia e prendere piena coscienza di te. Per Gesù il deserto con le tentazioni sono anche un verifica vocazionale (anche per Adamo ed Eva?!?): saprà, e come, vivere da Figlio di Dio? Il digiuno di Gesù è una vera e propria fame. La fame porta a galla ciò che sta nella parte profonda del cuore: quando la vita è minacciata cosa conta veramente? Che bisogno hai di Dio? Come guardi il tuo prossimo? Verso cosa ti muovi istintivamente? Facilmente nel digiuno escono gli aspetti di noi più maligni… Si intuisce già che digiunare è porsi una domanda “con tutto se stessi”: che capacità di comunione hai con gli altri e con Dio? E’ come porre nuovamente al “tutto e subito” un limite e confrontarsi con esso; dunque è un mettere in discussione fortemente il nostro rapporto con “l’altro”, ciò che sta oltre noi. Le tre tentazioni: a) La prima tentazione è sull’oralità (la corporeità in genere): il rapporto col cibo rappresenta bene il nostro rapporto con il mondo e raccoglie in sé, in generale gli appetiti umani. Tra tutti, l’ambito degli affetti e della sessualità è quello che più dimostra dei legami con il prendere cibo: l’impulso affettivo-sessuale ha fondamentalmente la forma di un “inglobare” l’altro (“Ti mangerei” si dice… Tra bacio e morso…). La tentazione che Gesù subisce è quella di scavalcare il limite umano e di avere accesso immediato e solitario alle cose. Invece mangiare è sempre inserirsi in comunione con Dio e i fratelli (cfr Eucaristia!). Non si può saltare dalla pietra al pane: il contenuto di lavoro e cultura andrebbe perduto e con esso la comunione con l’altro. b) La seconda tentazione tocca Gesù sulla fame di potere e di dominio, sulla brama di avere influenza, successo e riconoscimento. Tentazione di un messianismo spettacoloso ma anche circa la presenza del Padre. Tentazione di fuggire alla situazione di debolezza e di povertà per cercare una leadership potente, immediatamente efficace, non esposta alla possibilità di insuccesso. c) La terza tentazione intende impedire a Gesù di “stare coi piedi per terra”. E’ la tentazione – illusione, sogno, fantasia – di poter possedere tutto, di avere ogni cosa. Per Gesù è la tentazione di prendersi tutto da solo senza attendere che sia il Padre a consegnargli ogni cosa. Possiamo paragonarla a quella forma di fuga dalla realtà da cui a volte ci facciamo prendere inseguendo un ideale di noi, di mondo, di umanità inesistenti. Tre ambiti fondamentali: amare-volere-avere, nei quali Gesù viene sollecitato ad un approccio «vorace», all’insegna del “tutto e subito” che spezzerebbe la sua relazione di comunione col Padre e con l’umanità. Gesù reagisce ricollocando sempre nella giusta prospettiva il rapporto con le cose, con se stesso, con il Padre, con l’umanità. Proprio nel digiuno del deserto Gesù incontra la tentazione, alla quale risponde ancora con una forma di disciplina (la dilazione di una soddisfazione immediata) paragonabile a un digiuno. Persino nel riferirsi alla Parola Gesù attua, in un certo qual modo, un digiuno: si sottomette alla mediazione della Parola come deve fare ogni uomo, senza appoggiarsi esclusivamente alla sua esperienza intima diretta; inoltre rifiuta la strumentalizzazione della Parola tentata da Satana che ne fa un uso “consumistico”. 2. Digiuno, Preghiera e Carità Con “digiuno” non ci riferiamo ai cosiddetti “fioretti”, per quanto possano essere utili se vissuti con il giusto approccio. Intendiamo qui una forma di disciplina, temporanea o permanente, di un certo rilievo per la vita e che domandi un coinvolgimento significativo e di spessore. La specificità del digiuno cristiano è la sua collocazione dentro la prospettiva relazionale e comunionale, tanto nei confronti di Dio quanto dei fratelli. Il digiuno fine a se stesso come pratica ascetica di perfezionamento individuale dal punto di vista cristiano non ha un particolare valore. Ha valore invece nella misura in cui stimola, aiuta, favorisce la nostra crescita in termini di fedeltà al Vangelo e di presa di distanza da ciò che ci impedisce un perfetto abbandono a Dio, una generosa dedizione ai fratelli e un deciso rifiuto del peccato. Anche qualora si scegliesse il digiuno come forma penitenziale di vera e propria mortificazione (dominio di sé e controllo delle passioni) è indispensabile considerarlo come un modo per dire il proprio “sì” a Dio e “no” al peccato. In alcun modo va vissuto come la via per “scontare” i peccati, comprarsi la salvezza, giustificarsi di fronte alla possibile ira divina: così diventa una via spianata verso l’orgoglio! Di conseguenza il digiuno andrà dunque sempre accompagnato con un clima di preghiera e di ascolto della Parola di Dio e con alcune scelte di intensificazione della propria vita di Carità; viceversa tempi di preghiera importanti e opere di servizio significative domandano anche scelte di mortificazione. In effetti il digiuno produce un effettivo “affinamento” e amplificazione delle risorse spirituali, come un accrescimento della vigilanza interiore e della sensibilità del cuore (ovviamente parliamo di un digiuno adeguatamente calibrato, viceversa l’effetto è un infiacchimento che rende improduttiva la pratica) che agevola o intensifica la comunione con Dio nella preghiera. Per questo motivo digiunare è “indispensabile” in tempi di discernimento, di ascolto intenso della Parola, di preghiera di domanda e intercessione. Allo stesso modo scelte di astinenza e di dominio di sé tendono ad abbassare efficacemente le spinte egoistiche e possessive nei confronti dell’altro, creando il clima interiore adatto ad accogliere le ispirazioni al dono gratuito di noi stessi, cuore delle opere di carità. Accompagnare impegni caritativi di un certo spessore con forme di digiuno adeguate non solo è opportuno ma fortemente consigliato. 3. Valenze spirituali del digiuno. Il digiuno è allo stesso tempo un esercizio e un rimedio. E’ un esercizio di maggiore autenticità di vita cristiana e di radicalizzazione della fede; è un rimedio di risposta e difesa dalla tentazione. Elenchiamo alcune chiavi di lettura della pratica del digiuno. a) Dilazione e dilatazione del desiderio, rinuncia alla voracità. Mi educo a non considerare tutto immediatamente a mia disposizione. Imparo a gestire i bisogni coltivando i desideri e imparando a dilatarli, approfondendone cioè il contenuto, il valore, l’importanza, accrescendo il mio senso di libertà verso di essi… Il desiderio è propedeutico all’amore, il bisogno all’egoismo. b) Esercizio della volontà e del dominio di sé. Imparo a controllare le dinamiche di base della mia persona diventandone padrone e non schiavo. Non possono essere le spinte fisiche, fisiologiche, psichiche a decidere della mia vita. Se è vero che non posso prescinderne e che, in certa misura, devo tenerne conto, è altrettanto vero che è possibile “orientarle” e “ordinarle”. Alleno e rafforzo la forza di volontà crescendo nella capacità di perseveranza. c) Esercizio di conoscenza di sé, purificazione e affinamento dello spirito. La situazione di “indigenza” che il digiuno provoca fa cadere i meccanismi di difesa interiori causando l’emergere degli strati di noi più reconditi e spesso più problematici. Occasione dunque per prenderne onesta consapevolezza e intraprendere un percorso di purificazione. d) Lotta contro le passioni. Le passioni – come il peccato – sono accovacciate alla porta del cuore. Sorgono quasi sempre da qualcosa in sé buono il cui fine viene pervertito e finisce per trasformarsi in un idolo che mi condiziona. La disciplina del digiuno mi aiuta a ricondurre tutto alla sua verità. e) Riconoscimento del limite. La fame è esperienza che ci ricorda l’impossibilità di bastare a noi stessi. f) Forma “penitenziale”. Pratica di mortificazione, il digiuno sconfigge il peccato e rappresenta una affermazione tanto concreta quanto simbolica del desiderio di non seguire la via del peccato. g) Affermazione del primato di Dio. Rinunciando a ciò che appare come indispensabile alla vita mi interrogo su ciò che effettivamente irrinunciabile. Mi domando che posto ha Dio nella mia esistenza e in che misura mi basta. Un’opportunità per affermare chi sono e chi intendo continuare ad essere (cfr le tentazioni di Gesù). h) Accrescimento dell’efficacia della preghiera e della carità. Già descritto sopra. 4. Proposte di digiuni a) Ingordigia. La madre di tutte le tentazioni. Non si intende qui il gusto del buon cibo, della buona cucina o semplicemente un po’ di golosità… E’ la brama di cibo non ordinata, smodata per quantità e qualità: un vizio di consumismo. Una ricerca di piacere fine a se stessa e sganciata dal suo significato profondo. Attenzione: il cibo e il bere appesantiscono, rendono lentie meno vigili, abbassano i freni inibitori, accrescono l’appetito sessuale. E’ la rinuncia agli eccessi per imparare ad ascoltare il corpo e i suoi bisogni non solo il piacere provocato dal cibo. b) Lussuria. Anche questa, come l’ingordigia, è la ricerca disordinata del piacere fisico fine a se stesso. Si entra in questa logica quando nel piacere sessuale è estromesso il riconoscimento del volto dell’altro. E’ coinvolto anzitutto lo sguardo che diventa “osceno” (fissa il particolare…) cancellando la persona. Si può arrivare ad un consumo smodato e realmente incontrollato. Cedere alla grazia, accettando la debolezza e consentendo alla Misericordia. c) Avarizia. Brama insaziabile di possedere (o controllare, gestire) i propri beni sottraendoli alla loro destinazione: la condivisione. Ci si identifica con ciò che si possiede e se ne diventa schiavi. Nasce da un difetto di fiducia nell’esperienza della figliolanza: si rifiuta il “rischio” dell’esser figli, si finisce col diventare schiavi. Un solo vero antidoto: dare; così ci si converte dall’avere all’essere. d) Collera. La collera positiva è solo quella che reagisce ad un’ingiustizia, è mossa da intenzione retta con reazione proporzionata. Ogni altro moto di collera è da dominare. Spesso sorge dalle frustrazioni o da eccessivo stress che, logorandoci, “caricano” in noi l’aggressività (normale reazione a ciò che mi attacca). Dolcezza e mitezza da coltivare, ma anche tanto buon senso nel non permettere che ci “carichiamo” troppo. e) Tristezza. Nasce dal cattivo rapporto col tempo perché spesso ha la forma di una nostalgia del passato mitizzato o di una fuga in un futuro idealizzato, a causa dei dispiaceri della vita presente. Un grigiore con assenza di prospettive che appesantisce ogni cosa e può condurre alla vera depressione. Va combattuto fortemente aderendo al presente, scacciando il grigiore, invocando il Consolatore. f) Accidia. Sconforto, svogliatezza, apatia, sonnolenza costante, irrequietezza e ansia, continuo cambiar luogo e attività, difficoltà a perseverare, torpore interiore, paralisi del cuore. Fedeltà alle responsabilità, particolare cura nei doveri sono vie da percorrere. g) Vanagloria. Dare maggior importanza al fare piuttosto che all’essere, far dipendere la propria riuscita dall’apprezzamento altrui, vivere angosciati cercando in ogni modo di compiacere all’altro, lasciare che sia l’approvazione altrui a decidere della mia identità. Si rischia di finire ammirati ma non amati. Si combatte accettando le umiliazioni e con un esame di coscienza spietato. h) Orgoglio. Chi ne è schiavo non riesce a vivere la vera riconoscenza verso Dio “pretendendo”, magari inconsciamente, di essere l’autore del bene. Segnali tipici: presentare il conto a Dio per le tue riuscite; lamentarsi perché ci si ritiene non adeguatamente corrisposti; recriminare per presunte “punizioni” non meritate. Rimedio: contempla il tuo limite e il tuo peccato con severità e onestà. 5. Attenzioni. a) No al “fai da te”. Questo è un criterio generale nella vita spirituale da applicarsi anche nel caso si scelga di compiere un digiuno. Confrontarsi con una guida spirituale che possa aiutare ad avere il giusto approccio e a misurare le modalità è necessario. b) Onestà nelle intenzioni e grande cura delle motivazioni. c) Grande attenzione e prudenza nel calibrare tempi e modi del digiuno. Assolutamente no ad ogni sottile logica “ricattatoria” o “autogiustificatoria” nei confronti di Dio. d) Fermezza e ragionevole flessibilità nell’applicare ciò che si è scelto. Non occorre preoccuparsi della “riuscita” (= non ho mai sgarrato), quanto dell’efficacia (= sto crescendo nell’autenticità di fede?). e) Attenzione all’orgoglio!!! f) Non è per tutti.