tristeza y ajenidad, como si no fuera esa su vida, como si a

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tristeza y ajenidad, como si no fuera esa su vida, como si a
ROSA EFFIMERA
Andarsene è qualcosa di molto strano, tu non sai. Il saluto all’aeroporto, la tristezza,
l’aspettativa, la speranza, l’incertezza, tutto si mescola nel salire sull’aereo. Poco dopo
però i sentimenti iniziano a fissarsi, a congelarsi. In seguito quello mi sembrava quanto
avevo sentito nel funerale di mia madre: tristezza ed estraniamento, come se la mia vita
non fosse quella, come se quello stesse capitando a qualcun altro. Ricordavo allora –
allora, quando avevo già cominciato ad annoiarmi del mio primo viaggio in aereo,
quando ero già infastidito da quel cielo senza nuvole e quell’immensa estensione di
acqua, che tanto sembrava diversa vista da qualsiasi costa- nonno Antonio che riceveva
stoicamente le condoglianze. Allungava la mano, sentiva la stretta e diceva “grazia”.
Come se non ci fosse. Ma nonno c’era, come al solito.
Anche i tuoi nonni erano italiani, vero? Il mio mi raccontò che aveva finito per stufarsi
della traversata, del bastimento, di quel deserto acqueo che aveva visto per la prima
volta a Napoli, nell’imbarcarsi, che da lì sembrava diverso. Il solo esercizio di navigare,
o di tenersi in piedi su di un pavimento immondo che si muoveva continuamente, faceva
venire il voltastomaco a quel montanaro giovanetto che se qualcosa sapeva era che la
terra era ferma. Aveva comprovato che le preghiere erano inutili contro la nausea;
l’unica cosa che l’aiutava quando le vertigini diventavano insopportabili era ripassare
mentalmente quei versetti imparati dalla mamma:
La rosa è un bel fiore
Come la gioventù
Nasce, cresce e muore
Ma non ritorna più.
Li ripeteva diverse volte e si sentiva meglio. Quindi si domandava quanti giorni ancora
avrebbe dovuto vivacchiare su quel bastimento, prima di poter cominciare la sua vita.
Ma dai ... ne hai ancora mezzo bicchiere e il mio è quasi vuoto.
Secondo i miei conti, ormai dovevo stare per arrivare a Roma. Pensavo perché mai non
avessi imparato l’italiano. Con nonno era impossible, e non ero arrivato a frequentare
Letteratura Italiana all’Università. In realtà, mi ero iscritto una volta, ma non potei
soffrire il professore, un vecchio decrepito al quale l’unica cosa ragionevole che sentii
dire fu “Dante è prezioso”. Insomma, niente di italiano. Mi pareva di non saper dire
altro che i quattro versetti di nonno. Pazienza, mi sarei arrangiato. Almeno avevo le
carte in regola e sapevo dove andare.
Cameriere! Me ne porti un’altra doppia! Sì, solo per me... se è per il mio amico, qua
dovete chiudere bottega...
In nave deve essere tutto diverso. Finalmente la testa gli smetteva di girare e nonno si
interrogava sul futuro. Non sapeva se sarebbe voluto tornare in Italia o portare la
famiglia in America. Magari quest’ultimo, ma non su di un bastimento come quello. Lui
si sarebbe fatto l’America e la sua famiglia avrebbe viaggiato in un bastimento come
quello che aveva visto a Napoli, così lungo che se una punta fosse stata posta in casa
sua, l’altra sarebbe rimasta almeno nella chiesa. Mi raccontò che proprio a ciò stava
pensando quando lo avvisarono che l’indomani sarebbero arrivati a Montevideo.
Sull’aereo le assistenti di volo parlavano inglese, francese e italiano. Cinese sarebbe
stato uguale, Leonardo da Vinci deve essere lo stesso in ogni lingua. Comunque, ho
deciso di allacciare la cintura.
Per fortuna le pratiche sono state veloci e sono riuscito a capire tutto senza maggiori
difficoltà. La prima cosa che ho fatto è stata togliermi il maglione, faceva troppo caldo.
Piantina in mano e borsa sulle spalle, ho cominciato a camminare verso il convento.
Così non vale... se bevo solo io, non ti racconto più niente. Offro io. Cameriere! Una per
il mio amico l’astemio!
Anche nonno era stato trattato bene dagli impiegati del porto. Il pensiero che sarebbe
vissuto in via Roma, numero 345 lo rendeva felice. Lui non conosceva Roma, ma
sapeva che era la città più importante del mondo dopo Napoli, di modo che via Roma,
se non la principale di Montevideo, doveva essere la seconda d’importanza.
Hai l’accendino? Prendi una sigaretta. Grazie. Cosa stavo a dirti? Ah sì, io sì ero nella
capitale d’Occidente. Avevo camminato circa tre chilometri e sentivo che non sarei
riuscito a fare i nove che mancavano senza prendere un autobus o un taxi. Ma un taxi
poteva costare troppo, specie per me, che ero arrivato a Roma con cinquecento euro.
Quindi mi sono avvicinato a una fermata e ho cercato di leggere quello che era scritto.
Non ci ho capito niente, per cui ho mostrato il pezzo di carta con l’indirizzo del
convento a un uomo che era lí. L’uomo non l’ha neppure guardato. Gli ho detto:
“Perdone, signore, voglio ir a questa direzione”. L’altro ha allungato la mano per
prendere il foglio, ma proprio in quell’attimo un autobus è arrivato alla fermata e si è
ingoiato il possibile cicerone. Ho messo il bigliettino in tasca e, visto che veniva sera,
ho deciso di prendere un taxi.
Ma guarda che combinazione, stiamo proprio a parlare di questo e mettono su Funiculì
Funiculà... Figuriamoci che più triste di così ormai uno non può essere, se no...
Nonno si ricordava dell’odore del porto, cattivo quanto quello di Napoli. Più in là si
scorgeva la città; fuorché il Cerro, niente gli attirava l’attenzione. Con le sue valigette di
legno, uscì in una via stretta dove trovò una donna dalle labbra rossissime. Aveva le
labbra più rosse che avesse visto e un odore dolciastro che gli fece sentire imbarazzo.
Le disse: “Scusi, gentile signora. Vorrei andare in via Roma numero 345”.
E la donna gli buttò: “Andate a Roma si querés, tano. ¿Qué me decís a mí? ¡Rajá que
estoy trabajando!”
“Non capisco, signora”, disse nonno, sentendo un grande imbarazzo.
“No te entiendo nada, tano”, disse la “signora” e urlò: “¡Carluuuuchoooooo!”.
Nonno si spaventò un po’ per l’urlo e tanto quando vide Carluccio venire fuori
dall’angolo. Afferrò i manici delle sue valigette e si voltò. Appena fatto questo, sentì un
manone sulla spalla e la voce di Carluccio che diceva: “¿Qué pasa aquí, eh?”
La donna disse: “Este tano dice que se quiere ir a Roma o no se qué. Llevalo a lo de
Yusepe.”
“Dejá que yo lo acomodo”, rispose Carluccio, e a nonno: “Vení para aquí, tano”.
Nonno capì l’ordine di Carluccio e si accorse di non avere altra scelta che ubbidire.
Incominciò a dire sottovoce: “La rosa è un bel fiore...”
Sempre che nonno mi raccontava questo io ridevo. Adesso non ho voglia di ridere. No,
non mi infastidisce raccontartelo, soltanto che ora il riso non mi viene in faccia.
Io non pregavo né recitavo sul taxi, cercavo di parlare. L’unica cosa che sono riuscito a
capire al tassista –che aveva vocazione docente- è stata che non si dice “direzione” ma
“indirizzo”. I cinque euro mi hanno afflitto tantissimo. Mi sono accorto di averne
soltanto per altre novantanove corse.
Il convento era imponente, ma il numero sul pezzo di carta era quello di una porta
insignificante. Ho bussato e sul citofono hanno detto: “Chi è?”. Ho risposto: “Antonio
Martuccelli, voglio dormire acuí, si se puede”. L’apparecchio ha detto: “Aspetti”, e si è
udito un clic.
Che strano, deve essere l’alcol. Sono triste, ma ho voglia di parlare. Buona questa
grappa, prendila, che bere con te è come bere da soli.
Dunque, ti dicevo che la manaccia Carluccio opprimeva la spalla di nonno.
Camminarono qualche metro, nonno mormorava qualcosa che Carluccio non capiva.
-¿Estás rezando, tano? Quedate tranquilo, vamos a comer polenta con pacarito.
-Quest’è via Roma, signore?, disse, ormai sudando.
-Ma qué vía a Roma ni qué ocho cuartos, tano. Esto es Montevideo, ningún camino
lleva a Roma aquí. Vení, ya llegamos.
Entrarono in un bugigattolo scuro e puzzolente, che nonno associò a una bettola.
Carluccio si sedette a un tavolo e urlò a chi stava dietro il banco: “Giuseppe! Aquí te
traigo un tano. Serví vino”.
Nonno sentì che l’anima gli tornava al corpo quando Giuseppe replicò: “Vino per te,
Carluccio. Io e il mio compaesano prendiamo la grappa. Di dove sei, compagno?”
E si avvicinò al tavolo mentre invitava nonno Antonio a sedersi.
Ci puoi credere che in Italia non ho preso la grappa neanche una volta? Infatti, non ho
bevuto niente se non acqua e Coca Cola. Ma vado avanti: a me ha aperto la porta un
frate e mi ha domandato qualcosa. Non ho capito, ma ho detto che ero stato informato di
poter dormire lì. Il frate ha capito l’ultimo verbo, mi ha fatto entrare, mi ha chiesto
cinque euro (ho pensato se fosse possibile che tutto costasse cinque euro a Roma), mi ha
fatto sedere a un tavolo e mi ha dato una zuppa che era quasi brodo. Subito dopo aver
terminato, mi ha portato in un’enorme stanza dove si intravvedevano due file di cuccette
nella penombra. Erano quasi tutte occupate. Sono stato condotto a una che si trovava
alla fine del corridoio che formavano le due file, poi il frate ha detto “Buona notte, non
ti dimenticare la preghiera” e se n’è andato. Morto dal sonno, mi sono buttato sul letto
mentre pensavo che il giorno dopo alle sei del mattino, l’ora in cui dovevo uscire dal
convento, avrei iniziato la ricerca di lavoro.
Non sono ubriaco. Caffè? No, caffè no! Va be’... Cameriere! Una grappa e un caffè, per
favore.
La lingua di Nonno ricevette gaudiosa l’opportunità di parlare di fila ed essere capita.
Lui e Giuseppe parlarono a lungo, molto in fretta e con grandi gesti. Carluccio rideva
forte e gli faceva beffe. Fu proprio lì che nonno venne a sapere che via Roma non la
conosceva nessuno. Se esisteva, doveva essere nell’estrema periferia. Giuseppe disse
che non poteva lasciare il negozio in quel momento, ma chiese a Carluccio di provare a
portare nonno fino a quell’indirizzo e a questi di rivenire domani per parlare di lavoro.
Gli chiese inoltre se aveva dei soldi, cui nonno rispose di sì. Quando ebbe detto quanti
ne aveva, Giuseppe gli spiegò che con quello non poteva comprare niente in Uruguay e
gli diede dei soldi per muoversi e cibo da portarsi. Carluccio uscì con nonno, che era
emozionato, in cerca della benedetta via Roma.
Tutt’e due sono per me, cameriere. Questo scemo non beve niente. Porti un caffè pure a
lui, grazie.
Tu ti ricordi che io non sapevo niente di lingue, che avevo letto tutti i mostri sacri ma in
spagnolo. Ho sempre supposto che un giorno me ne sarei lamentato, e quel giorno è
arrivato. Non è stato di giorno però. Appena coricato, ho cominciato a sentire una
conversazione tra i miei compagni di camera. Ti ripeto, non so niente di lingue, ma ti
assicuro che quello non era italiano, né inglese, né francese, né tedesco, né niente di
occidentale e cristiano. Neanche al cinema avevo sentito roba del genere.
Quando me ne sono accorto, la mia borsa non era dove l’avevo lasciata. Mi sono alzato
in silenzio, totalmente impaurito, e mi sono sentito afferrare e ributtare sul letto.
Qualcuno mi ha messo il ginocchio sulla schiena, non riuscivo a muovermi. Non ho
neanche gridato, ho pensato che potesse andare ancora peggio. Ad un tratto il ginocchio
si è levato ed è stato tutto silenzio. Per un po’ sono rimasto immobile, totalmente
innervosito, e, anche se non ci potrai credere, mi sono addormentato. L’indomani,
quando è apparso un altro frate con una campana, la borsa era accanto al letto e, non ci
potrai credere, ma mi avevano rubato tutto, tranne cinquanta euro. Un tipo di solidarietà
molto strano, non era possibile che non fossero stati visti. Due dei miei “compagni” mi
guardavano e ridevano. L’ultima cosa che ho saputo al convento è che erano albanesi.
Certamente non ho detto niente.
Ma guarda un po’ come sono le cose, come andò a nonno qua. Alla fine via Roma... via
Roma lo sai dov’è? Si chiama ancora così. È vicino al campo di calcio del “Danubio”,
dunque figurati. Ci arrivarono nonno e Carluccio, che se ne andò in fretta perché doveva
badare ai suoi affari. Nonno si fermò in una pensione (non so proprio perché avesse
quell’indirizzo assegnato) dove quella notte se lo mangiarono le pulci. Ma, come ti dico,
per lui fu tutto diverso, il giorno dopo trovò lavoro.
Io sono uscito dal convento deciso a non tornarci. Pensavo di avere avuto troppa fortuna
la notte scorsa. Riconosco che quel che ho fatto è stata tutta roba da matti. Me ne sarei
potuto andare a Salsomaggiore, dove abita un nipote di un cugino di nonno che è
chimico. Me ne sarei potuto andare ovunque in Spagna, dove almeno sarei stato capito.
Ma no, io mi sono inzuccato con Roma. Perché Roma... Ahi, Roma! Quant’è diversa la
Roma dei libri da quella di cemento, pietra, asfalto e vetro! Ebbene, continuo il
racconto. Di quel giorno c’è poco da dire. Ho mangiato da Mac Donald’s, ho cercato un
internet point per ore, domandandone alla gente. Nessuno mi capiva, e se qualcuno ha
capito, non ha saputo o voluto informarmi. Quando ormai pensavo che non l’avrei
trovato, ecco che ne ho visto uno. Ho mandato una email a Raúl perché dicesse a nonno
che ero arrivato bene e poi sono andato in cerca di lavoro.
Cameriere! Mi si è raffreddato il caffè. O me l’aveva portato già freddo? Me lo riscaldi
o me ne porti un altro.
E pensare che, come ti dicevo, lui trovò lavoro il giorno dopo. Sembra che Giuseppe
fosse venuto in Uruguay con un fratello di nome Carlo. Tutti e due erano già sistemati.
Giuseppe aveva quell’osteriaccia e Carlo un’officina meccanica. Nonno si intendeva un
po’ di meccanica, veniva da una famiglia di minatori. E a Carlo serviva un aiutante,
apprendista o qualsivoglia, perché aveva molto lavoro. L’assunse per cinque pesos al
mese. Nonno diceva sempre che aveva una vita da re –tutte menzogne, sarà stata da re
se paragonata alla sua vita in Italia, e inoltre, non mangiava le uova per non buttare il
guscio- e risparmiava un peso e ottanta centesimi al mese.
Grazie, cameriere. Un po’ più di zucchero, prego.
Ti ho già detto che ho dormito nelle piazze, mangiato nei conventi, perlustrato tutto in
cerca di lavoro. Ma nessuno mi prendeva, per il problema con la lingua. Inoltre, sebbene
il mio italiano migliorasse molto lentamente, il mio aspetto peggiorava a più velocità.
Una settimana dopo essere arrivato, mi rimanevano dodici euro, cioè niente. Ho pensato
di chiedere aiuto all’Ambasciata di Uruguay, ma avevo sentito dire che il servizio estero
fosse pessimo. Così che ho fatto l’ultimo tentativo.
Vedi quelle mosche nelle tazzine di caffè? No, che dici, vedo chiaramente che sono più
di una. No, non so quante, ma sono più di una. Comunque, così siamo noi, andiamo in
Italia come quelle mosche vengono nelle tazzine.
Nonno non dovette mai fare una cosa come quella che ho fatto io. Sai cosa fece con i
soldi che man mano risparmiava? Comprò degli attrezzi. Mi figuro che a quei tempi la
meccanica fosse piuttosto semplice e lui ne aveva già imparato abbastanza per cavarsela
da solo davanti a un motore. Quando ebbe avuto quel che riteneva sufficiente, prese in
affitto un locale –se sarà stato facile affittare in quell’epoca- e mise su un’officina.
Quarant’anni dopo, credo, quando ricordava quel giorno, sentiva lo stesso orgoglio che
deve aver sentito allora. Si fece fare due foto nell’officina. Una ce l’ho io, l’altra la
mandò alla famiglia in Italia.
Sono sempre stato un po’ pazzo, così che non c’è niente di strano in quello che ti
racconterò. Ho comprato della carta e un pennarello e mi sono fermato davanti al
Colosseo, in un luogo per cui passavano migliaia di turisti, con un cartello che diceva:
“SOY URUGUAYO. NECESITO HABLAR EN ESPAÑOL.”
Ho chiacchierato con molte persone e gli spiegavo la mia situazione. Alcuni mi hanno
dato dei soldi. All’inizio non volevo accettare, mi vergognavo, ma poi ho finito per
accettare. Il primo giorno nessuno ha potuto aiutarmi a trovare lavoro. Ma il secondo è
apparso un tano che parlava perfettamente lo spagnolo e mi ha detto che lui mangiava
spesso nella trattoria di un argentino. Mi ha spiegato che non mi ci avrebbe portato, ma
che avrebbe parlato di me al proprietario e che se poteva aiutarmi, dopo mi avvisava.
Non immagini quanto l’abbia ringraziato. Poco dopo è rivenuto il mio salvatore con la
notizia che l’argentino aveva bisogno di qualcuno per lavare le stoviglie, e che preferiva
che parlasse lo spagnolo, così capiva quando lo insultava.
A quel punto mi si è rivoltata la sorte. Lavorando, là si vive bene. Facevo quattordici
ore al giorno, ma sono riuscito anche ad affittare un appartamentino con un altro
argentino conosciuto là. Non potevo risparmiare molto, ma avevo tutte le comodità e,
innanzitutto, potevo anche comprare dei libri senza i rimorsi che sentivo qua. Il primo
che ho comprato è stato il Decamerone. Quindi mi sono accorto cosa c’è di veramente
grave nel non sapere le lingue. Non essere capiti è brutto, ma non poter capire
Boccaccio senza la trasmissione in differita è bruttissimo. Comunque, andavo pulito e il
mio italiano era già abbastanza soddisfacente.
In questo nonno era diverso, non so perché. Innanzitutto, l’italiano che lui parlava
correntemente credo che fosse uno strano dialetto. E lo spagnolo, lo spagnolo vero e
proprio, non lo parlò mai. Io mi facevo delle grandi risate quando diceva “caraco”, ma
per lui quello era già cervantino. Eppure, tutto sommato, col suo cocoliche divenne un
industriale importante. Si associò a un ebreo e l’officina diventò una fabbrica. Ebbe un
certo benessere per molti anni, ma, povero nonno, l’unico che sapeva fare era lavorare.
Non si intendeva affatto di politica e tanto meno di economia. Viveva felicissimo sotto
la dittatura fino alla svalutazione monetaria dell’ottantadue, che lo rovinò. Guarda
quant’era ignorante di quegli argomenti, poveraccio, che difendeva Mussolini a spada
tratta per la maledetta acqua del rubinetto. Non fare quella faccia, perché nel suo
paesino non c’era la rete idrica, tutta l’acqua veniva fuori dai pozzi. E Mussolini vi
portò il famoso rubinetto con l’acqua. E le strade, e così via.
Come ti dicevo, la svalutazione lo prese con debiti in dollari che lo fecero fallire. Tenne
l’appartamento e una misera pensione. E dire che se non fosse stato così, io non me ne
sarei andato in Italia venti e oltre anni più tardi.
Anch’io avevo fatto dei progressi là. Alla trattoria ci andava un argentino molto in
gamba, parlavamo spesso. Un giorno lo vedo con un libro in mano, niente meno della
Divina Commedia. Non mi sono potuto contenere e gli ho detto qualche sciocchezza
sull’opera. Lui mi ha domandato se l’avevo letto. Quando gli ho detto che ormai non mi
ricordavo quante volte, ha creduto che stessi scherzando. Allora mi ha domandato cosa
pensavo di ciò che era scritto sulla porta dell’Inferno. Gliel’ho recitato e gli ho detto che
secondo me, il verso “mosse il mio...” No, così, il cuore in gola mi fotte la memoria:
“giustizia mosse il mio alto fattore”, che ricorderai dalle superiori, tu che hai fatto il
classico, non era facile da capire. Lui mi ha detto che non trovava alcuna difficoltà e io
gli ho risposto che il mio dubbio era se non ci fosse un iperbato, e che l’interpretazione
giusta fosse “il mio alto fattore mosse giustizia”, poiché per un uomo del Medioevo
pensare che qualcosa “muovesse” Dio sarebbe sembrato un’eresia. Tutto questo
potrebbe essere un delirio, ma il commissario d’esame n’è rimasto impressionato. Mi ha
domandato se non volevo editare un giornale che avrebbe sfornato per la collettività del
Río de la Plata, prima alla prova e poi, secondo l’andamento del progetto, avremmo
parlato di soldi.
La faccenda è andata benissimo e ho smesso di lavorare nella trattoria. Allora sì
incassavo dei bei quattrini e facevo quel che mi piaceva, il che qua sarebbe stato
impossibile.
Ma non esiste la felicità completa. Penso che nonno debba essersi sentito come me
quando ho ricevuto quella email di Raúl il giorno in cui seppe del terremoto. Stette delle
settimane in attesa che fossero ritrovati alcuni dei suoi fratelli o nipoti. Ma alla fine
niente, tutti morirono schiacciati dalle loro case.
Mi pare che ce ne dobbiamo andare, stanno per chiudere. Fa niente, ormai c’è poco da
raccontare.
In quella posta Raúl mi diceva che aveva subito un ictus, che stava malissimo, che i
medici non davano speranze. Quel che mi ha fatto tornare è che Raúl diceva ancora che
era entrato a vederlo e che nonno l’aveva guardato come se non l’avesse riconosciuto.
Col massimo sforzo si è tolto la mascherina dell’ossigeno e ha detto qualcosa di cui
Raúl non è riuscito a capire altro che la fine: “...non ritorna più”. Raúl diceva che
doveva riferirsi a me.
Cosa? No, lascia stare. Devo essermi rovesciato un po’ dell’acqua del bicchiere in
faccia, nient’altro. Ma sta’ tranquillo, che mi fa bene parlarne. E non continuare a
interrompere, lasciami finire.
Ci ho messo tre giorni ad arrivare, cose dei maledetti aerei. All’aeroporto mi aspettava
Raúl, e appena l’ho visto ho capito cosa era successo. Mi ha indicato dov’era e sono
andato da solo al cimitero. Non ti posso dire ciò che abbia provato davanti a quella
tomba con il mio nome. Ci mancava qualcosa ma non riuscivo a capirlo. Ad un tratto
me ne sono reso conto. Sono uscito dal cimitero, ho attraversato la strada e ho comprato
una rosa. E andando a deporla sulla tomba ho deciso di essere come lei, e non tornare
più.
MIGUEL MOLINA