uso strettamente personale

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uso strettamente personale
RISERVATO AI PARTECIPANTI GIORNATA DI STUDIO ISSRA 25 OTTOBRE 2014
USO STRETTAMENTE PERSONALE
Agisco, dunque penso
Flavio Keller
Laboratorio di Neuroscienze dello Sviluppo, Università Campus Bio-Medico, Roma
Perception-Action Movement Research Centre, University of Edinburgh
Introduzione
Anni fa, leggendo il saggio di H. Bergson “Materia e memoria”, rimasi molto colpito dal seguente
passaggio:
“In termini generali, lo stato psicologico ci sembra, nella maggior parte dei casi, superare enormemente lo stato
cerebrale. Voglio dire che lo stato cerebrale non ne disegna che una piccola parte, quella che può tradursi in
movimenti di locomozione. Prendete ad esempio un pensiero complesso che si sviluppa attraverso una serie di
ragionamenti astratti. Questo pensiero è accompagnato dalla rappresentazione di immagini, almeno incipienti.
E queste stesse immagini non sono rappresentate nella coscienza senza che si delineino, almeno allo stato di schizzo o
di tendenza, i movimenti attraverso i quali questi immagini sarebbero rappresentate nello spazio, - voglio dire,
imprimerebbero al corpo il tale o tal altro atteggiamento, sprigionerebbero tutto ciò che esse contengono
implicitamente in termini di movimento spaziale.
Ebbene, di questo pensiero complesso che si sviluppa, è questo, a nostro avviso, ciò che lo stato cerebrale indica in
ogni istante. Colui che potesse penetrare all’interno del cervello e scoprire ciò che sta avvenendo, sarebbe
probabilmente informato su questi movimenti abbozzati o preparati; nulla dimostra che sarebbe informato di altro.
Nemmeno se fosse dotato di un’intelligenza sovraumana, nemmeno se possedesse la chiave della psicofisiologia, non
conoscerebbe ciò che succede dentro la corrispondente coscienza più di quanto conosceremmo noi di un’opera teatrale
a partire dai movimenti degli attori sulla scena.
Ciò significa che la relazione tra il mentale e il cerebrale non è una relazione costante, e nemmeno una relazione
semplice. A seconda della natura dell’opera che vi è rappresentata, i movimenti degli attori esprimono poco o molto:
quasi tutto se si tratta di una pantomima; quasi niente se è una fine commedia. Allo stesso modo il nostro stato
cerebrale contiene più o meno del nostro mentale a seconda che tendiamo a esteriorizzare la nostra vita psicologica in
azione oppure a interiorizzarla in pura conoscenza. [H. Bergson, Materia e Memoria]
Se l’intuizione di Bergson è vera almeno nelle sue linee generali, allora un’analisi delle
caratteristiche fondamentali dell’azione, e più specificamente del rapporto tra azione e percezione,
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riveste un notevole interesse non solo per la fisiologia e la fisiopatologia del movimento, ma anche
per la comprensione dei processi mentali e più in generale del rapporto mente-corpo.
L’automovimento come caratteristica fondamentale degli esseri viventi
Come tutti sanno, il movimento – più precisamente la capacità di muovere se stessi – è una
proprietà fondamentale degli esseri viventi. Come conosciamo spontaneamente che un organismo
biologico è vivo? Come sappiamo nella vita quotidiana che siamo di fronte ad un essere vivente
piuttosto che ad un oggetto inanimato? Immaginiamoci una situazione che sarà capitata a molti di
noi, quella di trovarsi di fronte a un oggetto che riteniamo inerte, che improvvisamente si mette in
moto senza nessuna causa esterna apparente: la nostra prima reazione è una esclamazione di
sorpresa: “E’ vivo!”.
Aristotele, nel suo trattato sull’Anima, scrive:
“pare che l’essere animato si distingua dall’inanimato soprattutto per due proprietà: il movimento
e la sensazione” [Aristotele, L’Anima, A2, 403 b 25, Ed. Italiana, Rusconi] e afferma inoltre che,
secondo la comune osservazione, il fenomeno “vita” indica un movimento non comunicato,
spontaneo, originantesi dall’interno dello stesso essere, la capacità intrinseca di muovere se stesso e
quindi anche di muovere altri.
Tommaso D’Aquino è sulla stessa scia quando scrive:
“Dagli esseri che possiedono con evidenza la vita si può dedurre quali realmente vivano e quali non vivano. Ora, gli
esseri che possiedono con evidenza la vita sono gli animali: infatti, osserva Aristotele [De veget. 1,1], «negli animali la
vita è manifesta». Quindi noi dobbiamo distinguere gli esseri viventi dai non viventi in base a quella proprietà per cui
diciamo che gli animali vivono. E questa è il segno che per primo rivela la vita e ne attesta la presenza fino all’ultimo.
Ora, noi diciamo che un animale vive appena comincia a muoversi; e si pensa che in esso perduri la vita finché si
manifesta tale movimento; quando invece non si muove più da sé, ma viene mosso soltanto da altri, allora si dice che
l’animale è morto per mancanza di vita. Da ciò si vede che propriamente sono viventi quegli esseri che comunque si
muovono da sé [...] E così diremo viventi tutti gli esseri che si determinano da se medesimi al movimento o a qualche
operazione; quegli esseri che invece per loro natura non si possono determinare da se stessi al movimento o
all’operazione non possono essere detti viventi se non per una certa analogia”. [Tommaso D’Aquino, Summa
Theologiae, I, q.18, a.1, Respondeo].
La letteratura sullo sviluppo della capacità di distinguere tra oggetti inanimati ed esseri animati è
abbondantissima. Ai fini del presente lavoro, possiamo dire che la capacità di differenziare tra
viventi e non viventi è una delle prime a comparire in età evolutiva e una delle ultime ad essere
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persa in persone affette da demenza senile (Rakison e Poulin-Dubois, 2001). Per quanto riguarda
l’automovimento come caratteristica fondamentale degli esseri viventi, il lavoro pionieristico di
Premack (1990) dimostra che una delle primissime distinzioni compiute dal bambino è tra gli
oggetti con capacità di muovere se stessi e oggetti privi di tale capacità. Inoltre, i bambini tendono
ad attribuire anche dei fini intrinseci (intenzionalità) solo agli oggetti dotati di automovimento.
Infine, un’osservazione molto interessante fatta per la prima volta da G. Johansson (Johansson,
1975) e poi confermata da molti altri ricercatori è che, punti luminosi in movimento su uno schermo
vengono spontaneamente raggruppati in gruppi che si muovono con un moto coordinato,
generalmente in base a tipi di movimento di cui abbiamo esperienza nella vita quotidiana. Ad
esempio, se si applicano punti luminosi sulle braccia, il tronco e le gambe di una persona, e sono
visibili solo questi punti luminosi, finché la persona è ferma, è impossibile percepire la forma
sottostante, ma la percezione di un corpo umano in movimento è immediata se la persona si muove;
non solo, è anche facile percepire di che tipo di azione il soggetto sta eseguendo.
Questi esperimenti confermano che uno degli elementi che ci permettono di percepire un essere
come vivente è che le sue parti manifestano un movimento coordinato e specifico: se le parti si
muovono di un moto scoordinato, vengono percepite come parti indipendenti; se invece si muovono
in modo coordinato, la percezione delle singole parti recede ed emerge la percezione di un
organismo unitario. Inoltre, osservatori adulti percepiscono un oggetto come inanimato quando la
sua traiettoria è coerente con le leggi di Newton, mentre lo percepiscono come animato quando non
è coerente con queste leggi. Infine la percezione di punti luminosi che rappresentano,
rispettivamente, movimento biologico oppure movimento meccanico è associata all’attivazione di
aree cerebrali differenti (v. Rakison e Pouline-Dubois, 2001, per una discussione dettagliata).
Il ruolo fondamentale del rapporto azione-percezione per le funzioni superiori quali
coscienza, autocoscienza e linguaggio
E’ stata precedentemente menzionata l’intuizione di Aristotele secondo il quale “pare che l’essere
animato si distingua dall’inanimato soprattutto per due proprietà: il movimento e la sensazione”.
Occorre però approfondire il problema della relazione tra sensazione e movimento, o detto in altri
termini, tra percezione e azione. Una concezione unitaria del rapporto percezione-azione porta, a
mio avviso, ad una concezione del rapporto mente-corpo che supera sia il dualismo cartesiano che
qualsiasi monismo riduzionista. Come tutti sanno, il razionalismo cartesiano suppone una totale
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discontinuità tra processi corporei e processi mentali. Ma anche la moderna metafora
computazionale della mente ed il cognitivismo ad essa collegato, che hanno dominato le
neuroscienze a partire dagli anni 70’, suppongono una totale discontinuità tra processi corporei e
mente e, in fin dei conti, coincidono con la scissione operata da Cartesio che porta a considerare il
corpo come un elemento irrilevante per la comprensione dei processi mentali.
Vorrei invece sviluppare in questa sede la tesi che la conoscenza è strettamente legata alla corporeità
e in particolare all’attività motoria e alle conseguenze sensoriali di quest’ultima. Secondo questa
tesi, ad esempio, il fatto che un essere umano ed un cane abbiano capacità mentali profondamente
differenti non dipende solo dalla differente potenza computazionale dei rispettivi cervelli – come
sostiene l’ipotesi cognitivista – ma anche dalle differenti possibilità percettivo-motorie offerte dai
rispettivi corpi: un cane può avere esperienza di un oggetto, ad esempio una palla, spingendola con
le zampe, oppure prendendola in bocca, mentre un uomo ne ha esperienza manipolandola con la
mano oppure con il piede. In termini generali, la forma più rudimentale di sensibilità non è un dato
sensibile puro e semplice, identico nell’uomo e nell’animale, che sarebbe poi elaborato in maniera
differente dai rispettivi cervelli, ma porta sempre con sé fin dall’origine l’impronta della corporeità
specifica, è dunque già sensazione tipicamente umana, o tipicamente canina.
Vi sono numerose evidenze sia aneddotiche che sperimentali che permettono di concludere che la
corporeità nel suo insieme, particolarmente il movimento corporeo - e non soltanto il cervello –
determinano in maniera essenziale il modo con cui conosciamo il mondo.
Per illustrare questo punto vorrei iniziare con un resoconto personale di un paziente, che è anche un
Collega neurologo, divenuto tetraplegico dopo una lesione traumatica del midollo spinale a livello
cervicale:
“Spesso non riesco a comunicare a chi mi sta vicino quanto la mia disabilità sensori-motoria vada
a sfociare su risvolti cognitivi. Il non usare penna e foglio implica l’impossibilità di schematizzare,
far calcoli e disegnare solo in parte compensata dall’uso del pc. Il non poter sentire e manipolare
oggetti con le mani in maniera fine porta ad un distacco dall’uso e dalla coscienza del significato
stesso dell’oggetto, solo in parte compensato da visione e astrazione.”
Una prima osservazione sperimentale evidenzia come il movimento, in certi casi, è già
fondamentale affinché un organo di senso possa funzionare correttamente: è noto che gli occhi,
anche quando appaiono fermi, non sono in realtà perfettamente immobili, ma sono soggetti a piccoli
spostamenti rapidi – invisibili ad occhio nudo ma rivelabili per mezzo di appositi strumenti (eye
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trackers) – chiamati “microsaccadi”. Le microsaccadi causano degli spostamenti microscopici
dell’immagine sulla retina, di cui non siamo consapevoli e la cui funzione è tuttora dibattuta: una
ipotesi suffragata da dati sperimentali è che le microsaccadi siano necessarie per mantenere la
sensibilità della retina alla luce. Infatti, quando l’immagine retinica viene completamente
stabilizzata, la percezione visiva scompare dopo pochi secondi (Riggs e Ratliff, 1952).
Un altro fenomeno interessante che evidenzia lo stretto rapporto esistente tra percezione e azione è
la plasticità degli organi di senso indotta dall’utilizzo di strumenti. Già a livello di osservazione
spontanea possiamo constatare che, se usiamo uno strumento – ad esempio un bastoncino rigido –
per “tastare” la superficie di un oggetto, ci possiamo facilmente rendere conto che la nostra
attenzione si sposta dal punto di contatto tra la mano e il bastoncino al punto di contatto tra il
bastoncino e la superficie dell’oggetto. E’ come se la sensazione tattile si spostasse nella punta del
bastoncino. In effetti, grazie al bastoncino possiamo persino percepire chiaramente la differenza tra
una superficie liscia ed una ruvida, oppure tra una superficie dura ed una cedevole, come se il
bastoncino diventasse parte integrante dell’arto superiore. Un fenomeno simile avviene anche
quando usiamo uno strumento sotto guida visiva, ad esempio una pinzetta per afferrare degli
oggetti: l’attenzione visiva si focalizza sulla punta della pinzetta, non sul punto di contatto tra le dita
e la pinzetta.
E’ molto probabile che alla base di questi effetti vi siano fenomeni di plasticità dei campi recettivi
dei neuroni sensoriali attivati durante la manipolazione degli oggetti per mezzo di strumenti. Infatti,
Iriki e collaboratori (1996), in esperimenti condotti su scimmie, hanno misurato la plasticità dei
campi recettivi di neuroni della corteccia premotoria e della corteccia parietale caratterizzati da una
risposta bimodale, cioè neuroni che rispondono sia a stimoli tattili applicati alla mano che a stimoli
visivi applicati in prossimità della mano, quando una scimmia è costretta ad imparare a raggiungere
il cibo utilizzando un rastrello invece della mano (perché il cibo è fuori del raggio di azione del
braccio). Dopo che la scimmia ha appreso ad usare il rastrello per raggiungere il cibo, il campo
recettivo visivo dei neuroni bimodali si estende fino ad includere anche il rastrello. Questi risultati
sono compatibili con l’idea che lo strumento venga incluso nella mappa corporea del soggetto,
come se entrasse a far parte del suo corpo, ciò che è ovviamente funzionale ad utilizzare lo
strumento sotto il controllo visivo. E’ importante notare che questo inglobamento dello strumento
nella mappa corporea si osserva solo quando lo strumento è utilizzato attivamente. In questo senso
si può dire che l’attività motoria scolpisce la mappa corporea.
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In termini generali, gli esperimenti sopra descritti implicano una profonda unità tra percezione e
azione. Uno dei cambiamenti di maggiore portata sia teorica che pratica, che si sono verificati negli
ultimi 30 anni, al quale hanno contribuito in maniera determinante psicologi come J. Piaget e E.J. e
J.J. Gibson, è l’unificazione dei fenomeni percettivi e dei fenomeni motori in una teoria unitaria.
Dunque, da una concezione della percezione come formazione di una semplice rappresentazione
interna del mondo esterno, si è passati ad una concezione più funzionale della percezione, secondo
la quale un oggetto viene sempre percepito nella sua interezza, che include le possibilità di azione
che esso offre. Da qui il concetto gibsoniano di affordance (Gibson, 1979): secondo questa teoria, la
percezione di un oggetto dipende da tutte le azioni che appaiono fisicamente possibili con esso.
Oggi il concetto è spesso usato in senso più ristretto, indicando tutte le azioni che sono percepite
come possibili da un agente dotato di determinate capacità. Così un muretto alto 60 cm viene
percepito come potenzialmente utile per sedervisi sopra da un adulto, ma non da un bambino. Il
concetto di affordance è un concetto relazionale, che interpreta qualsiasi azione come risultato del
rapporto tra le capacità dell’agente e le proprietà degli oggetti. Ciò non significa che un oggetto
contenga solo le affordances che aveva in mente chi lo ha pensato o costruito: succede spesso che
un oggetto sia utilizzato in modo “creativo”, cioè per un scopo al quale nessuno aveva pensato
prima, come il bambino in Fig. 1.
Anche la percezione dello spazio può essere incorporata in questa visione unitaria di percezione e
azione, come dimostrato dal famoso esperimento sulla percezione della profondità, nel quale
bambini di 6 mesi, che hanno appena appreso a gattonare, si rifiutano di attraversare un (finto)
precipizio, e questo in assenza di qualsiasi associazione precedente tra esperienza della profondità e
esperienza di una caduta. Ciò significa che l’esperienza del gattonare è necessaria al bambino per
prendere le misure dell’ambiente circostante e decidere ciò che risulta possibile o impossibile
raggiungere mediante questa forma di locomozione. Inoltre, al contrario di ciò che si potrebbe
pensare, ma coerentemente con il concetto di affordance appena esposto, l’esperienza dello spazio
acquisita con il gattonare non viene riutilizzata per apprendere a camminare: i bambini che fanno i
primi passi partono da zero e devono imparare di nuovo le possibilità offerte dalla nuova forma di
locomozione.
Le osservazioni sperimentali fin qui brevemente tratteggiate suggeriscono che la rappresentazione
dello spazio che il soggetto si crea non è data una volta per tutte ma è una rappresentazione
dinamica, in costante evoluzione perché fortemente dipendente dalle possibilità di operare
all’interno di esso, possibilità che mutano in funzione del tempo e dell’utilizzo di strumenti.
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Esagerando un po’, potremmo dire che il rapporto percezione-azione risulta essere rovesciato:
l’azione è primaria, ed è condizione necessaria per la percezione.
Il ruolo fondamentale del rapporto azione-percezione per la formazione di concetti astratti e
per le funzioni superiori quali coscienza e autocoscienza
Fin qui è stato considerato il caso dell’utilizzo di semplici strumenti che aumentano le capacità
operative del corpo e quindi modificano la percezione spontanea dello spazio, ma non abbiamo
ancora affrontato direttamente il tema di come la corporeità sia determinante per processi
conoscitivi più elaborati. Per introdurre il tema di come la corporeità renda possibile (o impossibile)
la conoscenza vorrei proporre una metafora del rapporto tra cervello, corporeità e conoscenza del
mondo: immaginiamo che arrivi sulla Terra un marziano dotato di intelligenza sovraumana, che
conosce solo il linguaggio orale, e che porti con se un supercomputer con il quale riesce a leggere e
interpretare qualsiasi testo scritto. Non è irragionevole supporre che prima o poi l’extraterrestre
riuscirà a decifrare tutti i testi di tutte le lingue parlate sulla Terra. Si supponga che ad un certo
momento gli capiti tra le mani uno spartito musicale, ad esempio una sinfonia di Beethoven; il
marziano non ha mai avuto esperienza della musica, per cui non sa che esistono strumenti musicali,
e che un testo musicale non è fatto per essere recitato, ma per essere suonato. Il marziano potrebbe
andare avanti per un tempo infinito cercando di decifrare il testo, senza arrivare mai a capirne il
significato. Del resto il ruolo essenziale dello strumento – e quindi della corporeità – è già implicito
nei due differenti termini che abbiamo usato: recitare oppure suonare.
In effetti gli strumenti musicali rappresentano un unicum nella categoria degli strumenti costruiti
dall’uomo, in quanto riuniscono in se due aspetti essenziali: sono il prodotto di una approfondita
conoscenza – sia teorica che empirica – delle leggi della natura, in particolare delle leggi
dell’acustica, e sono “inutili” sotto il profilo biologico, almeno nel senso che non contribuiscono
direttamente alla sopravvivenza dell’individuo (eccetto casi nei quali la musica viene utilizzata per
altri fini, ad esempio quando una banda militare incita le truppe durante la carica).
Vorrei, nell’ultima parte di questo breve contributo, affrontare il problema di come il rapporto
percezione-azione sia fondamentale per la formazione del concetto astratto di spazio, e quali siano
le condizioni affinché un organismo vivente possa avere un concetto di “se”, che implica quello
speculare di “non-se” o “altro”.
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Iniziamo con un esempio teorico molto semplice. Nella Fig. 2, A è rappresentato un ipotetico
organismo vivente rudimentale, in questo caso a due dimensioni ma si può immaginare facilmente
lo stesso organismo come qualcosa di simile ad una sfera a 3 dimensioni. Sulla superficie
dell’organismo sono presenti dei sensori di pressione, che vengono stimolati se una forza agisce su
di essi, ad esempio la forza esercitata dal contatto con un altro oggetto (Fig. 2, B). Supponiamo ora
che l’organismo entri in contatto con l’oggetto triangolare (Fig. 2, C). Come possiamo distinguere
se il triangolo ha deformato il nostro organismo in maniera puramente passiva oppure se
l’organismo ha modificato attivamente la sua forma per prendere contatto e “tastare” il triangolo?
Evidentemente i sensori di pressione sulla superficie dell’organismo non bastano: essi sono attivati
in ugual misura in entrambe le condizioni. Potremmo ricorrere anche a un sistema di misura delle
distanze tra i vari sensori, che fornisca informazioni sulla deformazione dell’organismo. Però
neanche un tale sistema di sensori di deformazione permetterebbe di risolvere l’ambiguità
percettiva. Cosa è necessario? E’ necessario che ci sia un sistema che informa l’organismo sulle
forze che esso genera dall’interno per adattarsi alla forma esterna, una sorta di sensore della forza
attiva generata, che sia all’origine di un “senso interno” della forza forza muscolare. Solo
confrontando l’informazione proveniente dai sensori tattili e dai sensori di sforzo muscolare è
possibile risolvere l’ambiguità. Quando questo confronto dice che l’oggetto è deformato ma che
l’organismo non sta compiendo alcun sforzo attivo per deformarsi, allora si tratta di una situazione
passiva (Fig. 2, C), mentre quando sono attivi entrambi i tipi di sensori, allora è possibile sapere che
si tratta di una deformazione generata dallo stesso organismo (Fig. 2, D).
La mia tesi è che solo un organismo senziente dotato di automovimento e della corrispondente
sensibilità per il movimento generato dall’interno può sviluppare una coscienza di sé. Un organismo
puramente senziente ma senza capacità di muovere se stesso, oppure con capacità di muovere se
stesso ma privo di un sistema attraverso il quale mettere in relazione le sensazioni con il movimento
generato dall’interno non potrebbe avere coscienza di sé perché non potrebbe distinguere il sé dal
non-sé, essendo costantemente soggetto ad ambiguità percettive, non potendo decidere se la
variazione dell’esperienza sensoriale sia dovuta ad un cambiamento del mondo esterno oppure ad
un cambiamento dell’organo di senso.
Il matematico e fisico francese H. Poincaré, nel suo saggio “Pourquoi l’espace a trois dimensions”
ha acutamente dimostrato che il concetto di spazio a 3 dimensioni richiede l’integrazione di
sensibilità e motricità: senza questa integrazione tra azione e percezione non potremmo sviluppare il
concetto di uno spazio a 3 dimensioni comune a tutti i sensi corporei; avremmo solo la coscienza di
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spazi separati associati a ciascun organo di senso, con un numero di dimensioni che si sommano
aritmeticamente e che varia a seconda degli organi di senso impegnati in un determinato compito.
Ad esempio, da un compito che impegna il tatto e la vista emergerebbe uno spazio a 5 dimensioni,
risultante dalla somma delle tre dimensioni dello spazio visivo, e delle due dimensioni dello spazio
tattile. Mi sembra interessante ripercorrere alcuni passaggi della dimostrazione sviluppata Poincaré:
« Ciò che è importante, dunque, sono i movimenti che occorre eseguire per raggiungere un
determinato oggetto : la coscienza di questi movimenti non è altro per noi che l’insieme delle
sensazioni muscolari che li accompagnano.
Stabilito questo, un certo oggetto si trova a contatto di una delle mie dita, per esempio l’indice
della mano destra; a causa di ciò provo una sensazione tattile T ; contemporaneamente, ricevo da
questo oggetto delle sensazioni visive V ; l’oggetto si allontana, la sensazione T scompare ; le
sensazioni V sono sostituite da nuove sensazioni visive V’; ecco un cambiamento esterno.
Voglio correggere in parte questo cambiamento esterno e ristabilire la sensazione T, cioè riportare
il mio dito indice a contatto con l’oggetto. Per fare ciò devo eseguire determinati movimenti che si
traducono per me in una serie di sensazioni muscolari S; questo lo so perché numerose esperienze
fatte sia da me che dai miei antenati mi hanno insegnato che quando la sensazione T scompare, e le
sensazioni passano da V a V’, è possibile ristabilire la sensazione T per mezzo di movimenti che
corrispondono alla sequenza D.
So inoltre che avrei potuto ottenere lo stesso risultato per mezzo di altri movimenti che si
traducono, per me, non nella sequenza S, ma in un’altra sequenza S’ o S’’. Tutte queste sequenze di
sensazioni muscolari S, S’, S’’ non hanno forse nessun elemento in comune, le metto insieme perché
so che sia le une che le altre mi permettono di ristabilire la sensazione T tutte le volte che le
sensazioni V sono diventate V’. Nel linguaggio abituale della geometria potremo dire che le
differenti sequenze di movimenti che corrispondono alle sensazioni muscolari S, S’, S’’ hanno
questo in comune, che in tutti i casi sia la posizione iniziale che la posizione finale del mio dito
indice è la stessa. Tutto il resto può variare. Sono così portato a non distinguere queste differenti
sequenze S, S’, S’’…, a considerarle come un individuo unico. Non distinguerò nemmeno le
sequenze di sensazioni muscolari che sono quasi uguali. Potrò allora costruire un continuo fisico :
ho infatti scelto gli elementi di questo continuo che sono delle sequenze di sensazioni muscolari, e
adotto la « convenzione fondamentale » che mi insegna in quali casi due di questi elementi devono
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essere considerati come identici, ed è questo continuo che ha tre dimensioni. » (Poincaré,…mia
traduzione dall’originale francese )
E’ quindi la capacità che un organismo ha di muovere se stesso e perciò di causare attivamente
variazioni delle sensazioni prodotte negli organi di senso, o di recuperare sensazioni perse a causa
del movimento degli oggetti, il fattore essenziale che permette di produrre il sense of agency, e in
maniera correlata una forma di autocoscienza. Un organismo puramente senziente che non fosse in
grado di cambiare attivamente la propria configurazione, a mio avviso non potrebbe essere dotato di
autocoscienza. Naturalmente non sto affermando che la sensibilità unita alla capacità di movimento
sia una condizione sufficiente per arrivare all’autocoscienza: è però a mio avviso una condizione
necessaria.
Questa idea si trova già in Piaget, che scrive:
“E’ impossibile suddividere le funzioni cognitive in percezione (“i sensi”) e ragione [reason],
perché l’azione nella sua interezza è contemporaneamente il punto di partenza per la ragione e una
continua sorgente di organizzazione e riorganizzazione per la percezione.” (Piaget, 1969).
Considerazioni conclusive
La forma del corpo è molto importante e può rendere possibile capacità meta-genetiche, cioè non
direttamente codificate nel DNA, “salti evolutivi”, perché rende una determinata specie capace di
qualcosa di totalmente nuovo e ricco di conseguenze: pensiamo alle caratteristiche strutturali
specifiche del corpo umano – quali ad es. la locomozione bipede, la forma e mobilità della mano, la
struttura dell’apparato fonatorio ecc. – che rendono possibile lo sviluppo di capacità meta-genetiche
(o meta-biologiche), quali il linguaggio, la storia, le teorie scientifiche, le istituzioni sociali, le opere
d’arte. Queste capacità permettono all’uomo di liberarsi, almeno entro certi limiti, dalla “schiavitù”
dei processi vitali inferiori (pensiamo ad es. alla nutrizione artificiale, alle protesi, agli organi
artificiali che possono aiutare o persino sostituire la funzione di organi corporei malati). A mio
parere, è in questa prospettiva centrata sull’unità tra percezione e azione dell’intero corpo, più che
in quella che riduce i salti evolutivi allo sviluppo del cervello, o a mutazioni genetiche specifiche,
che emergono chiaramente l’unicità ed il carattere “speciale” dell’essere umano.
Arrivati questo punto, ci si può porre legittimamente la domanda: Questo corpo vivente e agente,
evidentemente, appartiene sempre a qualcuno. E non si può certo dire che gli appartenga come può
appartenergli uno strumento o un oggetto. Quando troviamo un oggetto, talvolta ci poniamo la
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domanda: “A chi appartiene?”. Quando ci imbattiamo in un corpo umano, questa domanda non ce la
poniamo. “Dietro” a qualsiasi corpo c’è sempre un “Io” che dice “questo è il mio corpo”. Queste
osservazioni, magari un po’ banali, aprono la strada a domande sull’interiorità, sull’Io come
soggetto del corpo, sul problema della libertà… Ma di questo, forse, parleremo in un’altra
occasione.
Ringraziamenti
Sono particolarmente grato al Prof. Juan José Sanguineti e al Dott. Giovanni di Pino e per la lettura
critica del manoscritto e per i loro commenti.
BIBLIOGRAFIA
Bergson H. Matière et Mèmoire. Essai sur la rélation du corps à l’esprit. In: Henri Bergson: Oeuvres
complètes. 1896. Arvensa Editions. Traduzione dall’originale francese del sottoscritto.
Gibson EJ and Walk RD (1960) The “visual cliff”. Sci Am. 202:64-71.
Gibson JJ (1979) The Ecological Approach to Visual Perception. Lawrence Erlbaum Ass., New
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Johansson G (1975) Visual motion perception. Sci Am. 232(6):76-88.
Iriki A, Tanaka M, Iwamura Y (1996) Coding of modified body schema during tool use by macaque
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Riggs LA, Ratliff F (1952) The effects of counteracting the normal movements of the eye.
Proceedeings of the Optical Society of America 42:872.
Poincaré H (1913) Pourquoi l’espace a trois dimensions. In: Dernières Pensées. E. Flammarion
Editeur, Paris. Traduzione dall’originale francese del sottoscritto.
Premack D (1990) The infant’s theory of self-propelled objects. Cognition 36:1-16.
Rakison DH, Poulin-Dubois D (2001) Developmental origin of the animate-inanimate distinction.
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