L`impatto dell`Unione Europea e delle organizzazioni internazionali
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L`impatto dell`Unione Europea e delle organizzazioni internazionali
INNOVAZIONE AMMINISTRATIVA E CRESCITA DEL PAESE Rapporto con raccomandazioni L’IMPATTO DELL’UNIONE EUROPEA E DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI Mario P. Chiti Testo in corso di revisione non diffondere – non citare Formez, Ricerca & Sviluppo - Via Campi Flegrei 34, Arco Felice di Pozzuoli, NA Telefono 081 525 0211, fax 081 525 0312 ricerca&[email protected] L’IMPATTO DELL’UNIONE EUROPEA E DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI Mario P. Chiti Sommario: 1. Introduzione. 2. I tradizionali caratteri statuali del diritto amministrativo ed i fattori del cambiamento. 3. La questione amministrativa nell’evoluzione del processo di integrazione. 4. La pubblica amministrazione nel Trattato costituzionale. Crisi costituzionale e progressi dell’integrazione amministrativa. 5. L’influenza europea sull’organizzazione amministrativa. 6. Il modello nazionale di governo per le politiche europee. 7. Regioni e politiche comunitarie. 8. L’amministrazione a rete. 9. L’influenza europea sull’attività amministrativa. 10. Ciò che resta dell’autonomia procedimentale dello Stato. 11. I provvedimenti amministrativi nel diritto dell’integrazione. 12. Le conseguenze per la tutela degli interessati. 13. La funzione pubblica di fronte all’Europa. 14. Le iniziative formative in atto. 15. L’Agenzia per la formazione e le nuove prospettive. 16. Verso lo Spazio amministrativo europeo. 17. L’internazionalizzazione del diritto pubblico e della pubblica amministrazione. Conclusioni e raccomandazioni finali. 1. Introduzione Il tema trattato in questo capitolo del Rapporto è l’apertura della pubblica amministrazione italiana al diritto europeo e al diritto internazionale per l’influenza del processo di integrazione europea e dei fenomeni di internazionalizzazione delle pubbliche amministrazioni, che si usano definire complessivamente come diritto amministrativo globale. Dopo cinquanta anni di esperienza di integrazione europea, l’europeizzazione della pubblica amministrazione è marcata in ogni sua parte: dall’organizzazione all’attività, dai “mezzi” alla tutela degli interessati. Per quanto l’ordinamento comunitario sia tuttora a fini particolari (le competenze di “attribuzione”), i settori direttamente comunitari o condizionati dal diritto comunitario sono sempre più ampi, e, soprattutto, i principi comunitari tendono ad essere applicati anche nei settori non ancora comunitarizzati. Vicenda esemplare è, in questo senso, la disciplina nazionale del procedimento amministrativo (legge n. 241/1990, come modificata dalla legge n. 15/2005), ove i principi del diritto comunitario divengono parametro generale per tutta l’azione dell’amministrazione (cfr. art. 1, novellato, della citata legge n. 241). Il fenomeno era già palese negli anni settanta, per le implicazioni amministrative della giurisprudenza “costituzionale” della Corte di giustizia (statuizioni sui singoli quali soggetti dell’ordinamento comunitario, sul principio di effetto diretto, ecc.) e per il rapido espandersi della normativa comunitaria di carattere amministrativo per la realizzazione del Mercato comune. Ma nel Rapporto Giannini la dimensione europea risultava pressoché assente; sintomo certamente della gravità delle problematiche interne che avevano attirato quasi in via esclusiva l’attenzione dell’Autore; ma anche dato emblematico della perdurante forza della tradizione prettamente nazionale della pubblica amministrazione e del suo diritto. 1 E’ solo nello scorso decennio che inizia il riferimento costante al diritto comunitario ed alle esperienze amministrative degli altri Stati membri. Quasi “costretti” dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, che demolisce parti fondamentali del nostro diritto amministrativo, e dagli sviluppi del diritto della normativa comunitaria in tema di libertà economiche (stabilimento, prestazione di servizi, ecc.) e di concorrenza. Per un odierno osservatore la consapevolezza del tema risulta ormai pienamente acquisita, e semmai si avverte una prima reazione agli eccessi del metodo di risoluzione di tutte le questioni amministrative nella “europeizzazione” e nella “globalizzazione”; quasi che non vi sia altro futuro al di fuori di questi nuovi scenari giuridici. Il cammino riformatore avviato negli ultimi tre lustri è segnato da taluni indubbi risultati positivi, ma nel complesso appare ancora frammentato e poco incisivo. Permane un “deficit amministrativo”, tanto nei confronti degli adempimenti comunitari, quanto nei rispetti delle altre amministrazioni nazionali degli altri Stati membri. Le difficoltà della riconversione dell’amministrazione nazionale in funzione dei nuovi impegni europei si sono aggravate per due ulteriori fattori di complessità: nella dimensione nazionale, la piena affermazione delle regioni quali soggetti direttamente rilevanti nell’ordinamento comunitario, per effetto della riforma del Titolo V della Costituzione (non casualmente accompagnata sul piano comunitario dal nuovo regionalismo europeo); nella dimensione internazionale, il nuovo diritto globale. Il primo fattore – frantumando la precedente, apparente unitarietà dello Stato, funzionale all’originaria impostazione delle Comunità europee – rende necessarie inedite (almeno per l’Italia) forme di coordinamento tra le tante istanze che compongono la posizione italiana. Il secondo fattore, poi, pur interessando al momento parti limitate dell’amministrazione, tende rapidamente ad ampliare la propria sfera di operatività ed ha caratteri originali anche nei rispetti del pur innovativo diritto europeo. Da qui, l’ulteriore complicazione per l’organizzazione e l’azione della pubblica amministrazione. 2. I tradizionali caratteri statuali del diritto amministrativo ed i fattori del cambiamento 2.1. Il diritto delle pubbliche amministrazioni è storicamente connesso allo sviluppo degli Stati. Branca del diritto originatasi solo all’inizio dell’Ottocento nel quadro dell’affermazione degli Stati nazionali, i suoi tratti risentono direttamente dai caratteri del sistema giuridico in cui è inserito, e che, a loro volta, ne sono influenzati. L’amministrazione pubblica ed il suo diritto sono stati così, per lungo tempo, uno dei più significativi elementi distintivi degli Stati e dei relativi ordinamenti giuridici. Aldo M. Sandulli nel suo noto Manuale di diritto amministrativo, ancora nella XIV edizione del 1989, così scriveva: “La definizione del diritto amministrativo presuppone quella di pubblica amministrazione. E per giungere a questo occorre partire dalla nozione di Stato” (pag. 5). La “nazionalità” della pubblica amministrazione italiana non è, dunque, un suo dato peculiare. Tutte le amministrazioni nazionali si sono sviluppate secondo direttrici diverse, in stretta connessione alle caratteristiche generali proprie di ciascun ordinamento. Per tale motivo, nella “breve” storia bicentaria della moderna pubblica amministrazione, si sono avuti modelli di amministrazione pubblica assai diversi da uno Stato all’altro. Ancora alla metà del Novecento lo studio dei vari sistemi amministrativi era un’analisi delle diversità: nell’organizzazione, nelle procedure, nella disciplina dei 2 “mezzi”, nelle forme di tutela. L’approccio non poteva dunque che essere quello tipico del diritto comparato, che si basa appunto sull’analisi delle differenze e delle similitudini tra due o più distinti sistemi giuridici. L’impronta nazionale delle pubbliche amministrazioni consentiva comunque di individuare “famiglie” amministrative – ad esempio quella di impronta francese – e di utilizzare, quando possibile, le risultanze della conoscenza delle altrui soluzioni normative e giurisprudenziali. Basti considerare il dibattito che seguì l’unificazione politica italiana, in vista dell’unificazione amministrativa, ove i politici e gli studiosi dell’epoca tennero in gran conto i dati delle altrui esperienze amministrative. L’interesse per il diritto degli altri Stati e la conoscenza dei vari sistemi amministrativi non hanno però influito sulla “nazionalizzazione” del diritto delle pubbliche amministrazioni e dei modelli amministrativi. L’impronta della diversità è risultata così forte che tuttora, pure nell’ambito dell’Unione europea, permangono non pochi approcci peculiari ai vari ordinamenti. Così, a mo’ di esempi, in Francia il tema del procedimento amministrativo rimane negletto rispetto alla centralità dell’atto amministrativo; ed in Inghilterra il sindacato sugli atti amministrativi, pur dopo le riforme a partire dal 1978, rimane assai peculiare, specie per il limitato ricorso alla giurisdizione. 2.2. L’Ottocento non è però solo il secolo che ha dato l’impronta nazionale al diritto amministrativo. Nella sua seconda metà si sono sviluppate le organizzazioni internazionali amministrative (dette all’epoca anche “Unioni” amministrative), per la gestione in comune tra gli Stati di una serie di funzioni e servizi. Il progresso tecnico e l’interconnessione economica (ovvero le premesse del fenomeno che oggi usualmente è definito come globalizzazione) indussero infatti gli Stati a costituire organizzazioni specializzate per attività a vocazione universale. Si possono ricordare, tra le tante, l’Unione postale universale (1874) e l’Unione per i trasporti ferroviari internazionali (1890). Il numero di questo tipo di organizzazioni internazionale “specializzate” – così definite per operare in un settore delimitato, e con poteri definiti, normalmente di carattere tecnico – è costantemente cresciuto nel tempo. Si contano oggi alcune centinaia di organizzazioni internazionali, tra grandi e piccole; regionali o mondiali. Da ultimo, il loro sviluppo si è assai rallentato per la progressiva rilevanza delle organizzazioni “politiche”, ad iniziare dalle Nazioni Unite, che gemmano proprie strutture specializzate; e, nell’ambito europeo (simile, anche se non ancora incisiva come l’esperienza dell’Unione europea, è la vicenda nell’America latina del Mercosur ed in Asia di altre organizzazioni regionali), il processo di integrazione che porta ad istituire nell’ambito dell’Unione proprie strutture specializzate (come le agenzie europee) che tendono a monopolizzare il rapporto con le organizzazioni internazionali, oltre che divenire il centro di una rete di analoghe strutture nazionali. Il fenomeno delle organizzazioni internazionali amministrative non ha però comportato il superamento della “nazionalità” delle pubbliche amministrazioni. Questo tipo di organizzazioni internazionali è infatti ancora di tipo tradizionale, quale emanazione degli Stati, che ne rimangono stretti controllori. Per indicare la posizione di strumentalità nei confronti degli Stati delle organizzazioni internazionali specializzate si usano espressioni del genere “gli Stati signori dei Trattati”, oppure “gli Stati detentori della competenza finale” (la Kompetenz-Kompetenz, nella nota formula tedesca) sulla sorte stessa delle organizzazioni. 3 Pur con queste limitazioni, le organizzazioni internazionali amministrative sono risultate importanti per i più significativi sviluppi successivi, in quanto hanno apparati che tendono a sostituirsi agli Stati; sono amministrati da una burocrazia internazionale che si relaziona direttamente con le corrispondenti burocrazie nazionali. In generale, hanno reso visibili funzioni ed apparati amministrativi metastatali, o, come piace ai giuristi (cfr. Santi Romano e poi Cassese, a distanza di quasi un secolo), “oltre lo Stato”. 2,3. Il tratto nazionale che ha caratterizzato le pubbliche amministrazioni nei due secoli passati sta rapidamente svanendo per effetto di concomitanti fattori, di tipo economico e tecnico, da una parte: di carattere giuridico, dall’altra. Dei primi fattori basti in questa occasione sottolineare che la loro rilevanza – già all’origine dello sviluppo delle organizzazioni internazionali amministrative, richiamate al paragrafo precedente – si è fortemente accentuata nella seconda metà del secolo scorso per le nuove tecnologie e l’apertura dei mercati; oggi appare irrefrenabile. I problemi cui devono provvedere le amministrazioni pubbliche sono, nel complesso, assai simili in ogni parte del mondo; così che le soluzioni, sia di tipo organizzativo che funzionale, non possono essere significativamente diverse. Soprattutto, gran parte delle funzioni hanno dimensione e rilevanza tali da travalicare normalmente la dimensione stabile. La loro cura amministrativa non può che avvenire ad un livello maggiore. I fattori giuridici, che qua specialmente interessano, sono due: nell’ambito europeo, la “comunitarizzazione” delle pubbliche amministrazioni; termine cui è da preferire quello di “europeizzazione”, a seguito della costituzione dell’Unione europea. Nell’ambito internazionale, l’operatività di organizzazioni internazionali di nuovo tipo – come l’Organizzazione mondiale del commercio (OMT, più nota con l’acronimo inglese WTO – World Trade Organization) – che, pur essendo ancora “specializzate”, operano in campi vasti; adottano atti giuridicamente rilevanti non soltanto per gli Stati membri, ma, a certe condizioni, anche per le persone interessate dai loro procedimenti; coinvolgono direttamente le amministrazioni nazionali. Questo secondo fenomeno si usa definire di “internazionalizzazione” delle pubbliche amministrazioni, alla base del nuovo approccio di studi del “diritto amministrativo globale”. I paragrafi che seguono sono dedicati all’approfondimento di questi fattori di mutamento della pubblica amministrazione, con specifico riferimento a quella italiana, ed ai problemi che ciò comporta. Sin d’ora, occorre sottolineare che le innovazioni intervenute rispetto al tradizionale quadro delle pubbliche amministrazioni risultano decisive ed irreversibili. Nell’ambito europeo la pubblica amministrazione nazionale è ormai “amministrazione comune” del nuovo ordinamento giuridico integrato costituito dal diritto europeo e dal diritto degli Stati membri dell’Unione. La circostanza che l’Unione europea sia ancora un ordinamento non generale, ma a finalità “attribuite” (ovvero specificamente riconosciute), non impedisce che il rilievo dei principi generali del diritto europeo si irradi anche nei settori al momento rimasti nelle competenze degli Stati. Basti considerare, oltre al caso già richiamato dei principi generali sull’azione amministrativa, la valenza generale della disposizione sui “Principi” nella disciplina dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163/2006 Codice dei contratti pubblici di lavori, forniture e servizi). Nel più vasto ambito internazionale, le prime avvisaglie di un diritto amministrativo cogens si sono rapidamente consolidate. All’operato delle “nuove” organizzazioni internazionali specializzate, come l’OMC, si somma la rivitalizzazione 4 di organizzazioni internazionali prettamente politiche, come le Nazioni Unite. Nella loro valutazione strategica, una pubblica amministrazione efficiente e responsabile è una delle condizioni essenziali per la governance dei nuovi Stati, ma anche di quelli che sono usciti da regimi non democratici. Da ultimo hanno concorso fenomeni quali il terrorismo internazionale, che si fronteggiano anche con misure amministrative quali controlli, sequestri e sanzioni, limitazioni all’accesso ai documenti amministrativi. Le amministrazioni pubbliche si trovano così di fronte ad un diritto “multistrato”, di cui è parte essenziale il diritto amministrativo internazionale. Richiamate le ragioni che portano al superamento della tradizionale “nazionalità” della pubblica amministrazione ad opera del diritto europeo e del diritto internazionale, si può passare ad esaminare partitamente l’influenza dei due fattori sull’organizzazione ed il funzionamento della pubblica amministrazione italiana; i modi nei quali il nostro ordinamento si è adeguato al nuovo scenario, e quanto resta ancora da fare. 3. La questione amministrativa nell’evoluzione del processo di integrazione europea L’influenza del diritto europeo è particolarmente pregnante, stanti i principi che regolano il rapporto con gli ordinamenti giuridici degli Stati membri. Il diritto europeo cui ci si riferisce in questo Capitolo è il diritto dell’Unione europea, distinto giuridicamente dal diritto scaturente da altre organizzazioni genuinamente internazionali operanti in Europa – come il Consiglio d’Europa. Si usa definire l’Unione europea come organizzazione sovranazionale, riprendendo una nozione coniata nella scienza giuridica (J. Weiler) per indicare i peculiari caratteri della CE e della UE rispetto alle tradizionali organizzazioni internazionali. La CE, e poi la UE, sono nate da accordi internazionali, ma assolvono un ruolo che assorbe molta parte della tradizionale sovranità statale, con definitiva limitazione dei diritti degli Stati. Rappresentano un ordinamento che è provvisto di fonti proprie, di organi e procedure idonee ad adottarle, interpretarle, dar esecuzione e, se del caso, sanzionarne le violazioni. In effetti, al di fuori dei Trattati (ma anche per questi il metodo di revisione/approvazione “per convenzione” sta alterando l’impostazione internazionalistica) il diritto europeo si origina da procedure proprie, cui partecipano in modo decisivo istituzioni (come la Commissione e la Corte di giustizia) che operano nell’interesse generale delle Comunità, e che si esprime in atti giuridici talora obbligatori in tutti i loro elementi, e direttamente applicabili negli ordinamenti degli Stati membri (come i regolamenti, art. 249, c. 2, TCE), talaltra con atti (le direttive, art. 249, c. 3, cit.) comunque vincolanti gli Stati membri, e spesso configurati in modo da risultare autoapplicative anche in assenza di norme nazionale di attuazione. Tratto davvero peculiare dell’ordinamento giuridico europeo è, infine, che ne sono soggetti non soltanto gli Stati, ma anche i singoli. A queste caratteristiche, che già fanno del diritto europeo un caso unico nel panorama ordinamentale attuale, si aggiunge con peso determinante il principio del primato del diritto europeo (anche derivato) sul diritto degli Stati membri, comprese le costituzioni nazionali, con il solo limite dei principi inderogabili sulla tutela dei diritti fondamentali (peraltro mai attentati dall’Unione europea, che sta anzi realizzando un suo originale modello di garanzie dei diritti). Come affermato dalla Corte di giustizia sin dagli anni sessanta del secolo passato (sentenza 13.11.1964, cause 90 e 91/63), ed 5 ora è ripreso dal Trattato costituzionale del 2004, con i Trattati non si sono determinati solo reciproci obblighi tra i soggetti cui si applicano, ma si è invece costituito un diritto nuovo che disciplina poteri, diritti ed obbligazioni dei vari soggetti coinvolti, nonché le procedure necessarie per far sanzionare ogni eventuale violazione. E’ occorso molto tempo per l’accettazione della piena portata di questo principio (si ricordi l’infelice esordio della nostra Corte costituzionale nel caso Costa del 1964, sentenza n. 14/1964), ma anche le ultime roccaforti in Europa del primato costituzionale nazionale paiono aver concluso il loro percorso comunitario. Emblematico il recentissimo arresto del Conseil d’Etat francese dell’8 febbraio 2007, che ha riconosciuto il primato del diritto europeo nei confronti della Costituzione francese, di cui era in gioco, nientemeno, che il principio di eguaglianza. Per i temi della pubblica amministrazione già i Trattati, specie con le molte integrazioni a partire dall’Atto Unico Europeo del 1985, contengono già molti principi di immediata rilevanza. Le stesse quattro libertà fondamentali (di circolazione, stabilimento, prestazione di servizi, ecc.) hanno estese implicazioni amministrative – solo per fare due esempi, la materia doganale e la disciplina delle professioni. Vari principi generali elaborati dalla giurisprudenza sono stati poi “consolidati” nei Trattati, come il principio di proporzionalità o quello di accesso. Altri invece, come il principio di precauzione, che erano inizialmente previsti dai Trattati in riferimento ad una particolare politica (nel caso, l’ambiente), sono stati poi considerati principi generali a tutto campo. E’ quasi superfluo rilevare poi che il diritto comunitario “derivato” è fortemente connotato in senso amministrativo, con atti che tendono a mutare il loro iniziale carattere casistica o settoriale verso un modello di norma quadro della materia disciplinata ( ad esempio, in tema di bilancio il regolamento del Consiglio n. 1605/2002, del 25.5.2002; e di concorrenza il regolamento del Consiglio n. 1/2003, del 16.12.2002). 4. La pubblica amministrazione nel Trattato costituzionale. Crisi costituzionale e progressi dell’integrazione amministrativa 4.1. La questione amministrativa non ha avuto una specifica rilevanza nel Trattato istitutivo CEE e, per molto tempo, neanche nel diritto comunitario derivato. Le ragioni di questa modesta considerazione sono principalmente due: da un lato, l’originaria configurazione della Comunità europea come variante delle organizzazioni internazionali, normalmente prive di una propria significativa struttura amministrativa; dall’altro, il particolare rilievo posto sulla normazione al fine dello sviluppo delle politiche comunitarie e come strumento principale della integrazione. Ragioni diverse, ma tenute assieme dall’ulteriore circostanza che i compiti della Comunità apparivano pur sempre particolari e, almeno inizialmente, non interpretabili in senso estensivo; così da non richiedere apparati amministrativi di particolare complessità per la loro realizzazione. Secondo tali presupposti generali, nella fase iniziale del processo di integrazione europea il principio che ha regolato l’amministrazione comunitaria è stato quello della esecuzione indiretta, detta anche, alla tedesca, federalismo di esecuzione. Secondo questo principio, la realizzazione delle politiche comunitarie è di regola affidata alle amministrazioni nazionali che operano come branche operative della Comunità, mentre a quest’ultima fa capo una struttura quanto più snella ed essenziale possibile. Particolarmente chiaro in questo senso era il Trattato CECA, ove all’art. 5, 2° c., si 6 prevedeva che le istituzioni della Comunità esercitano le missioni ad esse affidate “con un apparato ridotto, in cooperazione stretta con gli interessati”. Nel Trattato CE manca una analoga espressa indicazione, ma l’intero sistema appare basato sul criterio ora definito della sussidiarietà, e nella Parte prima, dedicata ai “Principi”, rileva il principio generale di cooperazione posto dall’art. 10 (già art. 5), in base al quale “gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente Trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità. Essi facilitano quest’ultima nell’adempimento dei propri compiti. Essi si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente Trattato”. Questa disposizione è stata presto intesa come la base del rapporto di esecuzione indiretta, che, da un lato, implica una serie di obblighi anche di carattere amministrativo per gli Stati membri (da intendersi, in tale prospettiva, come complesso di tutti gli organismi amministrativi incaricati dell’applicazione del diritto comunitario, statali e non) per il perseguimento degli obbiettivi comunitari; dall’altro, fonda la loro pretesa ad esercitare tutte le iniziative necessarie per assicurare l’effettiva applicazione ed il rispetto degli atti normativi comunitari, ogni qualvolta che non sia espressamente previsto un diverso modo di esecuzione. E’ ben noto poi che, fino al recente Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, il modello istituzionale comunitario è rifuggito da una impostazione precisa, essendo la risultante di un equilibrio instabile tra le esigenze sovranazionali e quelle intergovernative. Nel Trattato di Roma del 1957 manca, in particolare, una chiara articolazione per funzioni fondamentali e per “poteri”, ben oltre anche ai più innovativi esempi statali conosciuti. L’impostazione originaria ha mantenuto una sua coerenza sino a quando lo sviluppo delle politiche comunitarie è stato principalmente affidato alla normazione, e le funzioni della Comunità sono risultate limitate. Di questa fase è tipica espressione la tecnica di ravvicinamento delle legislazioni nazionali che, secondo l’art. 94 Trattato CE, avviene con direttive del Consiglio “volte al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri”. Nel primo senso, è solo con il completamento del Mercato Interno nel 1993 che si esaurisce la fase della espansione normativa. Infatti, il conseguimento dell’obbiettivo del Mercato Interno, previsto dall’Atto Unico Europeo del 1986, era basato su un pacchetto di quasi trecento direttive che spaziavano in ogni direzione ed in modo pervasivo. Il momento di svolta per le tecniche regolative e di esecuzione sta appunto nella sostanziale realizzazione di tale obbiettivo e nelle pressoché coeve (Trattato di Maastricht del 1992) innovazioni previste dal Trattato sulla Unione Europea e dalle modifiche al Trattato CE in tema di sussidiarietà, di nuove funzioni comunitarie e di sviluppo di tecniche regolative diverse dalla legislazione. Già prima di questi sviluppi era comunque avvertibile l’evoluzione delle tecniche regolative incentrate sulla normazione. In particolare, seguendo il passaggio dal modello di direttiva previsto dal Trattato CE (e tuttora formalmente tale, cfr. art. 249) - ovvero come atti di indirizzo legislativo per gli Stati membri vincolanti nei fini (“il risultato da raggiungere”), ma non negli strumenti utilizzabili (“le forme e i mezzi”), e quindi altamente flessibili - al ben diverso modello affermatosi fin dagli anni settanta, caratterizzato da direttive con alto grado di dettaglio e precisione, e perciò in molti casi autoapplicative (selfexecuting). 7 Il motivo del passaggio a questo tipo di normazione - confermato legittimo dalla Corte di giustizia, che anzi ha elaborato il principio della efficacia diretta di questo tipo di direttive, ma non ancora recepito nei Trattati, fermi ad un quadro delle fonti del diritto per una parte privo di un disegno rigoroso, per altra parte palesemente superato dalle circostanze - spiega anche le ragioni della progressiva importanza dell’utilizzo della amministrazione per lo sviluppo della integrazione europea. Le direttive comunitarie, per quanto dettagliate, non possono impedire che gli Stati membri omettano, ritardino o male recepiscano le loro previsioni. Anche i sempre più sofisticati strumenti di garanzia introdotti dalla Corte di giustizia - come il richiamato principio dell’efficacia diretta o i recenti principi sulla responsabilità extracontrattuale degli Stati per omessa o cattiva trasposizione delle direttive non aventi efficacia diretta - non possono ovviare del tutto al rischio di un’applicazione disomogenea del diritto comunitario, che rappresenta uno dei più gravi attentati al criterio di uniformità, fondamento dell’ordinamento europeo. Da qui il progressivo utilizzo dell’elemento amministrativo, dapprima attraverso la valorizzazione dell’obbligo di cooperazione da parte delle amministrazioni nazionali sulla base del richiamato principio di cui all’art. 10 (già art. 5) del Trattato CE, successivamente con l’espansione dell’amministrazione propria della Comunità e, soprattutto, di nuovi organismi amministrativi di raccordo tra il plesso europeo e quello nazionale, ormai componenti un sistema amministrativo unitario. Si diceva che al medesimo risultato di valorizzazione del profilo amministrativo ha, inoltre, concorso decisamente la dilatazione delle funzioni comunitarie. Pur se a partire dal Trattato di Maastricht si ribadisce (art. 3B, ora art. 5 Trattato CE) che “la Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obbiettivi che le sono assegnati dal presente Trattato” e che “l’azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obbiettivi del presente Trattato”, è innegabile che i settori di interesse comunitario si sono enormemente dilatati nel corso degli anni e che in sostanza - anche alla luce della lettura, non certo restrittiva, dell’art. 308 (già art. 235) Trattato CE effettuata dalla Corte di giustizia - si può parlare della Comunità europea come pubblico potere a fini tendenzialmente generali. Alla luce delle modifiche intervenute nelle “missioni” della Comunità era dunque naturale una maggiore rilevanza delle funzioni amministrative e dei loro risvolti organizzativi, vuoi per le questioni amministrative direttamente gestite dalla Comunità (quantitativamente delimitate, ma di cruciale rilevanza, come nel caso della concorrenza), vuoi anche per quelle di coamministrazione con le strutture amministrative nazionali. L’espansione dell’amministrazione, in sostanza, appare una delle principali conseguenze della progressiva configurazione dell’ordinamento comunitario quale sistema giuridico complesso, con funzioni che non si limitano secondo la tradizione internazionalistica - alla sfera dei rapporti con gli Stati, ma riguardano anche i loro cittadini, soggetti dell’ordinamento europeo e titolari della cittadinanza comunitaria. 4.2. Nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa si è avuta poi un’ampia costituzionalizzazione della pubblica amministrazione, in quanto sono stati esplicitamente previsti organi e soggetti di natura amministrativa (principalmente, ma non solo, nella Parte III, come all’art. III-301 e segg.), principi generali per l’amministrazione, come la trasparenza, l’efficacia e l’indipendenza (es. art. III-304); diritti dei singoli nei confronti della pubblica amministrazione (es. il diritto di accesso 8 agli atti delle istituzioni, degli organi e delle agenzie dell’Unione, di cui all’art. I-49, c. 3). Più in generale, la problematica amministrativa è divenuta “materia di interesse comune” per l’Unione, secondo il nuovo quadro delle competenze. Come è indicato nella Sezione 6, con rubrica “Cooperazione amministrativa”, della Parte III, art. III-185, “l’attuazione effettiva della normativa dell’Unione da parte degli Stati membri, essenziale per il corretto funzionamento dell’Unione stessa, è considerata materia di interesse comune”. Ciò comporta che l’Unione possa decidere di esplicare “un’azione di coordinamento, di integrazione o di sostegno” nei confronti degli Stati membri, con un’influenza diretta nella sfera amministrativa nazionale. La mancata ratifica della “Costituzione europea” non implica che tutto quanto in essa previsto sia privo di effetto giuridico: tale è infatti la sorte solo delle parti effettivamente innovative (contenute in particolare nella Prima parte, in tema di assetto istituzionale, di fonti del diritto, sistemazione degli atti giuridici dell’Unione), mentre per molte altre parti, che nella Costituzione vengono raccolte e sistemate, si tratta di disposizioni già operanti quali norme di diritto primario o derivato, o di principi generali affermatisi nella giurisprudenza della Corte di giustizia o previsti dalla Carta dei diritti fondamentali del 2000; atto tuttora di incerta natura giuridica, ma cui i giudici si riferiscono come “fonte di ispirazione”. Si può dunque, in sintesi, affermare che le questioni amministrative siano già oggi “materia di interesse comune” nell’Unione, indipendentemente dalla sorte del Trattato costituzionale. 4.3. La tendenza all’integrazione amministrativa prosegue incessantemente, anche nell’attuale fase di difficoltà costituzionale dell’Unione europea, quasi con un ritorno alle originarie impostazioni comunitarie degli anni cinquanta del secolo passato, quando si privilegiava la prospettiva funzionalistica delle realizzazioni concrete rispetto alle prospettive “alte” di un’Europa di stampo prettamente federativo. Solo gli accadimenti del prossimo futuro diranno se si è trattato di una vera e propria fase di stallo nel processo dell’integrazione europea, con progressivo inaridimento anche dell’“amministrazione comune”, oppure (come appare più prevedibile) dell’affermazione di un modello pragmatico e flessibile di integrazione incentrato sull’amministrazione, di cui già abbiamo interessanti anticipazioni come il “Metodo aperto di coordinamento”, previsto dall’ “Agenda di Lisbona” del 2000. 5. L’influenza europea sull’organizzazione amministrativa L’Unione europea considera in linea di principio che l’organizzazione amministrativa sia questione riservata all’autonomia degli Stati membri, come il tema strettamente contiguo dei procedimenti amministrativi. Il principio dell’autonomia organizzativa è però eroso nella sua effettività da due fattori: la dilatazione delle politiche comunitarie, con il conseguente coinvolgimento delle amministrazioni interessate; il potere di verifica da parte delle istituzioni comunitarie sulle decisioni organizzative nazionali, al fine di prevenire o sanzionare scelte che possano mettere a rischio la realizzazione degli obbiettivi comunitari. Nel primo senso, le implicazioni organizzative delle politiche comunitarie fanno sì che le amministrazioni nazionali debbano essere riviste in funzioni dei nuovi compiti; oppure, nei casi in cui non esistano già adeguati soggetti giuridici, siano istituiti nuovi organismi alla bisogna. Non mancano casi, infine, in cui regolamenti o direttive 9 comunitarie prevedono che gli Stati membri istituiscano organismi ad hoc; eventualmente determinandone anche la struttura. Rilevante è poi anche la portata del “droit de regard” delle istituzioni comunitarie sulle “autonome” scelte organizzative nazionali; con un metodo da tempo legittimato dalla Corte di giustizia. Infatti, la Commissione – l’istituzione che usualmente compie tale verifica – valuta il merito delle decisioni organizzative nazionali con parametri assai liberi, in quanto connessi alle garanzie dell’interesse comunitario che, in ultima analisi, solo le istituzioni sono in grado di accertare. Si aggiunga infine che, come meglio si dirà nei paragrafi seguenti, anche le amministrazioni nazionali tuttora organizzate per disciplina nazionale si trovano direttamente coinvolte dal diritto comunitario nella misura in cui applicano discipline e principi di fonte europea. Le nuove regole dell’azione amministrativa implicano infatti una generale revisione anche del modo in cui le varie amministrazioni interessate sono organizzate. Per quanto riguarda specificamente la nostra pubblica amministrazione, si può constatare quanto sia permeata dal diritto comunitario non solo nella parte dell’amministrazione statale e degli enti pubblici nazionali, ma anche in quella delle regioni e degli enti locali. All’analisi dell’influenza europea sulle varie articolazioni dell’amministrazione pubblica italiana sono dedicate le pagine seguenti, ove si esamineranno anche le (non poche) situazioni di attrito o di perdurante carenza di appropriate soluzioni. 6. Il modello nazionale di governo per le politiche europee Per quanto riguarda lo Stato, nel punto in cui la funzione politica si intreccia con quella amministrativa, ovvero nell’apparato di governo, vi sono tre organi con dirette competenze comunitarie: il Consiglio dei ministri e la Presidenza del Consiglio dei ministri; il Ministero degli Affari esteri; il Dipartimento per le politiche comunitarie. Tutti i ministeri che sono interessati dalle politiche comunitarie possono, poi, avere una diretta relazione con gli organismi comunitari per i vari procedimenti di coamministrazione; e partecipano, tramite loro funzionari, ai numerosi comitati consultivi operanti nell’ambito dell’Unione. La “triade comunitaria” segue un modello che, sulla carta, è appropriato. Infatti, al Consiglio dei ministri compete in via esclusiva la definizione delle linee generali e di indirizzo relative alle politiche comunitarie ed al processo di integrazione europea. L’iniziativa e il coordinamento dell’azione di governo sono affidati al Presidente del consiglio (cfr. la legge n. 400/1988 e il d. lgs. n. 303/1999), in linea con la centralità di quest’organo e la struttura ad esso servente (la Presidenza del Consiglio dei ministri) per tutte le questioni istituzionalmente e politicamente cruciali, caratterizzate da un’accentuata trasversalità. Al Ministero affari esteri competono gli aspetti politici generali connessi alla partecipazione dell’Italia al processo di integrazione, con particolare riferimento ai problemi “costituzionali” dell’Unione ed ai rapporti con gli Stati terzi (cfr. d.P.R. 11.5.1999, n. 267, e d.P.R. 24.6.2002, n. 157). Infine, al Dipartimento per le politiche comunitarie, operante presso la Presidenza del consiglio, competono i compiti di coordinamento delle politiche nazionali, sia nella fase discendente (o di attuazione del diritto comunitario) che in quella ascendente (partecipazione ai processi decisionali comunitari). Gli indirizzi generali da assumere in sede comunitaria avrebbe dovuto essere coordinata dal CIPE, unitamente alla definizione delle direttive per l’utilizzazione dei 10 flussi finanziari comunitari. L’azione del CIPE è risultata modesta; ma l’esito non dispiace, stante che gli indirizzi generali su tematiche così importanti devono rimanere appannaggio del Consiglio dei ministri nel suo plenum. Per assicurare il coordinamento necessario per quanto vi è di specifico, la legge n. 11/2005 ha previsto l’istituzione del Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei (CIACE). Il ruolo del CIACE si incentra nella definizione delle “linee politiche del Governo nel processo di formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione degli atti comunitari e dell’UE” e nell’agevolare “il puntuale adempimento dei compiti di cui alla presente legge”. Curiosamente, il nuovo quadro di governo previsto dalla legge n. 11/2005 e l’istituzione del CIACE, avvenuta con D.P.c.m. 9.1.2006, non hanno comportato la soppressione delle competenze del CIPE; come si ricava dall’art. 17 della cit. legge n. 11, con evidenti rischi di sovrapposizioni o di conflitti negativi. Il nuovo Comitato si è riunito nel 2006 solo tre volte; molto attivo è risultato invece il Comitato tecnico permanente, composto dai rappresentanti di tutte le amministrazioni centrali e dai rappresentanti delle regioni. I rilevanti poteri propri del Presidente del Consiglio in tema di politiche europee sono stati, ovviamente, esercitati in modi diversi dai diversi Presidenti, ed anche diversamente delegati ai Ministri per le politiche europee, le cui competenze delegate non coincidono necessariamente con le attribuzioni del Dipartimento. Per l’esercizio dei suoi compiti, il Presidente del Consiglio è assistito dal Segretariato generale della Presidenza del Consiglio, ed in particolare dalla Segreteria per gli affari comunitari (istituita con d.P.C.M. 10.3.1994). Il Ministero degli affari esteri mantiene un ruolo cruciale nel quadro del processo di integrazione, principalmente attraverso la Direzione generale per l’integrazione europea; malgrado che da tempo le questioni comunitarie siano questione “interna” all’ordinamento composto, europeo e degli Stati membri; rimanendo questioni genuinamente “estere” solo quelle connesse all’ulteriore ampliamento dell’Unione. Anche le periodiche conferenze intergovernative per la revisione dei Trattati o per nuovi sviluppi costituzionali (in occasione del recente Consiglio europeo straordinario di Berlino del 24-25 marzo 2007, è stata decisa la convocazione di una nuova Conferenza intergovernativa per iniziare già da questo anno un’ulteriore discussione sull’assetto costituzionale dell’Unione) non hanno più un netto tratto internazionalistico. A stretto rigore, infatti, la riforma dei Trattati è da effettuarsi con le procedure previste dai Trattati stessi, e riguarda il riassetto dell’esistente Unione europea e dei suoi “pilastri”. Il ruolo del Dipartimento per le politiche comunitarie è incentrato nel coordinamento delle attività necessarie per dare attuazione alle politiche comunitarie, ovviamente per quanto attiene alla sfera delle attribuzioni amministrative dello Stato. Taluni suoi compiti sono poi connessi alle procedure di competenza del Ministero affari esteri, come la difesa delle posizioni italiane davanti ai giudici comunitari. La triade istituzionale ora descritta segue uno dei modelli di governo per le questioni europee che sono presenti negli Stati membri dell’Unione. I limiti di questa sistemazione sono principalmente la vaghezza delle procedure e degli atti del Consiglio dei ministri e del Presidente del Consiglio; l’incerta missione del CIACE; la debolezza dei compiti legislativamente attribuiti al Dipartimento per le politiche comunitarie; la permanente centralità del Ministero affari esteri anche per questioni di diritto “interno” dell’Unione. 11 Il Dipartimento per le politiche comunitarie ha talune competenze previste per legge sin dal 1987 (legge n. 183/1987), ed altre esercitate in via di supporto alle deleghe attribuite pro tempore al Ministro per le questioni europee. Il D.P.C.M. 23.7.2002 ha individuato il Dipartimento quale struttura della Presidenza del Consiglio di supporto all’area funzionale dei rapporti del Governo con le istituzioni europee. Alle rilevanti competenze non si accompagna però una precisa definizione giuridica dei poteri di coordinamento sulle altre amministrazioni, e dei poteri per eventuali interventi surrogatori. Al Ministero degli esteri fa capo la Rappresentanza permanente presso l’Unione europea (istituita con d.P.R. 28.1.1958, n. 16, e più volte modificata), sostanzialmente assimilata ad un’ambasciata, laddove i suoi compiti sono invece incentrati nelle relazioni tra tutti i nostri pubblici poteri, incluse le regioni (che dal 1997 possono inviare loro funzionari presso la Rappresentanza), e le istituzioni comunitarie; al di là dei sempre più frequenti rapporti diretti tra gli stessi. In particolare, la Rappresentanza cura l’informazione sulle questioni di comune interesse e negozia su posizioni precontenziose (ad esempio nelle fasi iniziali della procedura di infrazione). Per tale carattere, la Rappresentanza permanente dovrebbe, in linea di principio, essere un organo della Presidenza del Consiglio. L’architettura istituzionale ideale deve però fare i conti con l’effettività delle nostre amministrazioni. Da questo punto di vista, non è dubbio che il Ministero degli affari esteri abbia svolto in modo appropriato le ampie competenze assegnategli, anche per la parte gestita dalla Rappresentanza permanente. Ogni ipotesi riformatrice – incentrata sulla valorizzazione delle amministrazioni di settore, quali organi comuni della più vasta amministrazione europea – pur inconfutabile dal punto di vista teorico, non potrà dunque svilupparsi fino a quando non vi siano garanzie sulla capacità del nuovo modello di sostituirsi al precedente, senza perderne l’attuale efficacia. Alternativamente, si può ipotizzare un sistema duale e di immediata percezione per tutte le amministrazioni interessate, secondo cui il coordinamento interno è effettuato dal Dipartimento, e l coordinamento con l’esterno dal Ministero degli esteri. Per quanto attiene al ruolo della Presidenza del Consiglio e al coordinamento generale delle politiche italiane connesse al processo di integrazione europea è facile rilevare che le politiche europee sono parte essenziale del complessivo ruolo politicoistituzionale del Presidente del Consiglio dei ministri. Se è vero infatti che le politiche europee non sono “altre” rispetto alle politiche nazionali, nel quadro del complessivo ordinamento dell’Unione europea e dei suoi Stati membri, e che non rappresentano una “materia” distinta, esse rientrano come componente chiave nel portafoglio politocoistituzionale proprio del Presidente del Consiglio. Altra questione è l’eventuale delega di alcune competenze ad un Ministro senza portafoglio, pur se preposto al Dipartimento delle politiche comunitarie. La delega in tal caso ha, dal punto di vista istituzionale, un mero carattere funzionale; assicurando al Presidente del Consiglio uno specifico supporto. La delega non dovrebbe comunque mettere a rischio la primaria responsabilità del Presidente (il cui ruolo effettivo dipende comunque dalla sua volontà politica, risultata assai diversa nell’esperienza degli ultimi governi). 12 7. Regioni e politiche comunitarie Le regioni hanno da qualche tempo finalmente acquisito la pienezza dei poteri comunitari che avrebbero dovuto avere sin dallo loro istituzione, ma che è stata a lungo contrastata sia per le iniziali equivocità del “regionalismo comunitario” (le regioni considerate funzionalmente come aree economico-sociali omogenee, in cui concentrare una specifica politica comunitaria), sia per le resistenze dello Stato ad accettare una diretta rilevanza comunitaria delle regioni. Come prevede l’art. 117, c. 5, novellato, della Costituzione, le regioni e le province autonome, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli atti dell’Unione europea. Ciò avviene nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza. Con il nuovo regionalismo comunitario (riconoscimento delle regioni come enti esponenziali, soggetti di diritto comunitario) e la riforma del Titolo V della Costituzione, con le successive norme di attuazione e completamento (specialmente le leggi n. 131/2003 e n. 11/2005), la posizione delle regioni nel contesto delle problematiche comunitarie può dirsi pienamente definita dal punto di vista istituzionale. Al di là delle nuove disposizioni costituzionali sul tema, le tappe principali del “cammino comunitario” delle regioni sono stati il d. lgs. n. 181/1979, sull’apporto delle regioni alla fase ascendente, con una specifica sessione comunitaria della Conferenza; le leggi n. 128/1998 e n. 25/1999 sulla possibilità di attuazione immediata da parte delle regioni delle direttive comunitarie nelle materie di competenza concorrente; il d.lgs. n. 112/1998 sulla corrispondenza delle competenze in tema europeo secondo la ripartizione costituzionale generale; la legge n. 131/2003, da ricordare in particolare per la disciplina delle forme di partecipazione delle regioni alla formazione degli atti comunitari; la legge n. 11/2005, che ha razionalizzato tutte le varie competenze regionali accumulatesi senza un chiaro disegno complessivo. L’evoluzione è ancora in atto, come dimostra la progressiva sistemazione del coinvolgimento dei rappresentanti regionali nelle delegazioni governative (cfr. in particolare l’accordo di cooperazione del 16.3.2006, in attuazione dell’art. 5 della legge n. 131/2003). Con la legge n. 11/2005 si è inteso assicurare, al contempo, la più attiva partecipazione delle regioni alla fase ascendente degli atti comunitari, ed una tempestiva ed appropriata attuazione degli stessi. Dal primo punto di vista, tutti i progetti di atti normativi comunitari di interesse regionale devono essere trasmessi alla Conferenza dei presidenti delle giunte regionali ed alla Conferenza dei presidenti dei consigli regionali, che richiedono alle regioni osservazioni e pareri. IN caso di difficoltà o di quesiti complessi, può intervenire la Conferenza unificata ed essere richiesta la “riserva di esame”. Per quanto riguarda l’attuazione del diritto comunitario, prescindendo qua dall’attuazione in via normativa (che comunque, merita rilevare, ha ora una compiuta sistemazione costituzionale), l’art. 120 Cost. prevede che il Governo può sostituirsi ad organi delle regioni nel caso di mancato rispetto della normativa comunitaria. Il dato europeo si conferma così un potente fattore unificante del nuovo sistema, antidoto ad uno scriteriato autonomismo. A fronte di poteri così significativi, sono ancor più evidenti i problemi della partecipazione delle regioni ai processi di integrazione europea, riassumibili in tre 13 gruppi: a) organizzazione della giunta e del consiglio; b) partecipazione al procedimento di formazione delle politiche comunitarie; c) coordinamento con lo Stato e tra le regioni; d) iniziative dirette in sede europea, anche tramite propri uffici di rappresentanza. Relativamente al tema dell’organizzazione regionale, alla pienezza dei poteri “comunitari” avrebbe dovuto accompagnarsi una revisione delle strutture interne; condizione essenziale per rispondere con efficacia alle nuove responsabilità. Lo schema di riferimento poteva essere simile a quello del governo, oppure originale da regione a regione; non essendovi qua vincoli alle scelte organizzative, ma solo onere giuridico di dar corso tempestivo ed ottimale agli impegni comunitari. Le risultanze sono finora modeste. Se si esclude la quasi costante istituzione nei consigli regionali di commissioni per le questioni comunitarie (peraltro poco incisive, al pari delle corrispondenti commissioni parlamentari), nelle giunte non sono stati previsti organi particolari, ma solo (in taluni casi) uffici specializzati. Ciò che potrebbe anche dimostrare che le regioni hanno acquisito la consapevolezza che le questioni europee non sono una questione a sé stante, ma una componente essenziale delle loro generale politiche; di cui tener conto in ogni loro decisione. Nell’evidente deficit delle singole regioni, spetta alla Conferenza Stato-regioni assumere il ruolo istituzionale di stimolo e sviluppo delle iniziative regionali, oltre che di cooperazione con le amministrazioni statali e locali. La situazione attuale rende possibili le violazioni degli obblighi comunitari da parte delle regioni. Come deterrente per questa patologia, ma anche come sviluppo coerente del rilievo comunitario delle regioni, la legge finanziaria 2007 ha previsto (commi 1213 – 1222) l’istituto della rivalsa dello Stato nei confronti delle autonomie territoriali per gli eventuali oneri finanziari derivanti da sentenze di condanna, rese dalla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 228, c. 2, TCE. 8. L’amministrazione a rete I vari organismi di cui si è trattato, oltre ad avere tra di loro rapporti nella sfera propriamente comunitaria, entrano sempre più frequentemente in relazione con le corrispondenti amministrazioni nazionali. Ciò può avvenire secondo moduli relazionali elastici, finalizzati all’obbiettivo dell’integrazione amministrativa, ma anche con formule organizzatorie più complesse disciplinate da regolamenti e direttive comunitarie. In questo secondo caso, la creazione di un vero e proprio sistema organizzativo integrato è un vincolo per gli Stati membri e per le istituzioni comunitarie. Il sistema che così ne deriva – per lo più denominato “amministrazione a rete” – può avere una precisa disciplina (come nel caso della protezione dei dati personali con l’istituzione di un “Gruppo europeo”, ai sensi del Regolamento n. 45/2001, citato), oppure prevedere solo alcuni criteri di riferimento generale (come nel caso della sicurezza alimentare, ove l’influenza comunitaria è più pregnante per gli obblighi di carattere organizzativo importi agli Stati membri). In taluni casi viene istituito un nuovo organismo collegiale, come il Gruppo europeo dei regolatori per le comunicazioni elettroniche; ma si hanno altri casi in cui le autorità nazionali di settore fanno capo direttamente alla Commissione (come nel settore della concorrenza). E’ evidente che siffatte iniziative erratiche esprimono una non definitiva scelta del modello complessivo del settore, dato che la Commissione non ha, per definizione, uno status di istituzione indipendente. 14 Le esigenze sottese alle organizzazioni amministrative composte sono diverse. Per la funzione di regolazione, ad esempio, è palese la necessità per il buon funzionamento del mercato interno di assicurare un’applicazione tendenzialmente uniforme del diritto comunitario rilevante. Nel caso, invece, della rete europea per la sicurezza alimentare, il Foro consultivo presso l’Autorità europea serve principalmente per garantire le migliori condizioni di operatività dell’Autorità stessa e un efficace raccordo verticale con le corrispondenti amministrazioni nazionali. Nei modelli più sviluppati si verifica una vera e propria integrazione tra le amministrazioni nazionali e l’amministrazione comunitaria, nel quadro complessivo dell’ordinamento dell’Unione. Il tratto caratterizzante di questi sistemi non sta nell’autonomia rispetto alla Commissione o agli organi nazionali di governo (che in certi casi neanche è configurabile, come per la concorrenza), bensì nella “cattura” delle amministrazioni nazionali – indipendenti o meno nei rispettivi ordinamenti giuridici – nelle reti amministrative europee. Il fenomeno è ancora materia più per gli scienziati dell’amministrazione ed i politologi che per i giuristi, data la mancanza di chiare regole organizzative e procedimentali. Ma manifesta uno sviluppo irreversibile che presto si espanderà anche in settori amministrativi ordinari, obbligando la giurisprudenza e la scienza giuridica all’elaborazione di alcuni principi guida, ove permanga una carenza di normativa comunitaria. 9. L’influenza europea sull’attività amministrativa Come per il tema dell’organizzazione, anche per quello dell’azione amministrativa il rilievo del diritto comunitario è sempre più determinante. Le due vicende seguono percorsi simili: inizialmente, la Comunità aveva seguito il principio dell’ “esecuzione indiretta” delle proprie politiche, ovvero demandata alle amministrazioni degli Stati membri. L’attività di queste ultime si svolgeva nell’osservanza del diritto nazionale, con la sola condizione che ciò non producesse alterazioni alla necessaria uniformità del diritto comunitario. In seguito, la progressiva assunzione da parte della Commissione di competenze esecutive dirette, l’affermarsi dei procedimenti composti e un più stretto sindacato sulle amministrazioni nazionali operanti in funzione comunitaria hanno fatto sì che anche la disciplina del procedimento e degli atti amministrativi risulti oggi fortemente europeizzata. La Commissione e gli altri organismi comunitari di carattere amministrativa esercitano tuttora in modo quantitativamente limitato competenze dirette, in via esclusiva. Il caso maggiore è quello della concorrenza, specie a seguito del citato regolamento n. 1/2003. Le competenze dirette sono comunque in espansione, specie per quanto riguarda i procedimenti sanzionatori. Il modello di azione più diffuso è oggi quello dell’agire insieme di organi comunitari e amministrazioni nazionali, secondo le molti varianti del principio di coamministrazione. Un caso esemplare è quello dei procedimenti “composti”, che si articolano in fasi, nazionali e comunitarie, combinate nei modi più diversi: con inizio che può essere in sede europea o nazionale, così come la conclusione provvedimentale. La diffusione dei procedimenti composti esprime l’avvenuta integrazione amministrativa tra il livello europeo e quello nazionale, parte essenziale della più generale integrazione ordinamentale nell’ambito dell’Unione europea. L’effetto giuridico principale dei procedimenti composti è un’accentuata europeizzazione dell’azione amministrativa, in quanto la relativa disciplina è prevista da 15 atti comunitari e le amministrazioni nazionali che vi partecipano operano secondo tali previsioni e solo in via residuale secondo il diritto nazionale (sempre comunque assicurando l’effetto utile comunitario). Per la residua parte di attività amministrativa a rilevanza comunitaria esercitata in via diretta dalle amministrazioni nazionali, secondo il principio originario dell’amministrazione indiretta, è avvenuta una palese europeizzazione per l’aumento della disciplina europea da osservare, e per una penetrante verifica sull’effettiva osservanza di tale disciplina. Ne consegue che di “indiretto” rimane solo il dato organizzativo (le amministrazioni che così operano sono, in senso strutturale, parti dell’amministrazione nazionale), mentre funzionalmente le amministrazioni nazionali operano non soltanto nell’interesse comunitario, ma anche seguendo regole e principi di fonte europea. Come già si è ricordato, il legislatore italiano è recentemente intervenuto con la legge n. 15/2005, prevedendo espressamente (cfr. art. 1, che modifica ed integra l’art. 1 della legge n. 241/1990) che: a) le amministrazioni nazionali osservino i “principi di diritto comunitario”; b) tali principi divengano rilevanti anche per le parti dell’attività amministrativa non ancora comunitarizzate. Circa il significato della locuzione utilizzata dalla legge, l’espressione “principi dell’ordinamento comunitario” (art. 1. c. 1) è impropria ed ha solo un valore descrittivo, non esistendo nel diritto europeo alcun tipo di principi del genere. E’ chiaro che il legislatore italiano aveva in mente i “principi generali di diritto comunitario”, categoria di principi elaborati dalla Corte di giustizia sulla scorta di alcune previsioni dei Trattati (come l’art. 288 TCE), su cui esiste anche una cospicua giurisprudenza “costituzionale” della stessa Corte, e che in parte sono stati consolidati nei Trattati. I “principi generali” così intesi hanno un’evidente rilevanza per i temi dell’attività amministrativa, dato che comprendono principi quali quelli di legittimo affidamento, di proporzionalità, di buona amministrazione e di precauzione, di immediata rilevanza per l’attività amministrativa. Al contrario, i “principi dell’ordinamento comunitario” sono categoria indefinita, senza un preciso valore giuridico, con cui si indicano taluni principi di carattere costituzionale del diritto europeo, come il principio di supremazia del diritto comunitario rispetto ai diritti degli Stati membri, o il principio di sussidiarietà. Non avrebbe avuto molto senso richiamarli in una legge sul procedimento amministrativo, stante la loro forza giuridica e la scarsa incisività per la disciplina dell’attività. In tal modo si conferma che la nozione, pure imprecisa, si riferisce ai principi generali di diritto comunitario, fonte del diritto secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia. Circa il tipo di rinvio che il legislatore italiano opera nei confronti del diritto europeo, va premesso che la nozione giuridica di “rinvio” è usualmente intesa per raccordare due ordinamenti giuridici distinti, e quindi male si adatta ai rapporti tra sistema nazionale e sistema europeo, che secondo l’insegnamento della Corte di giustizia (contrastato dalla Corte costituzionale, almeno sino alla riforma costituzionale del 2001) sono invece da considerare in modo monistico e non dualistico. A parte ciò, il riferimento ai principi comunitari è, nella legge n. 15, sia ricettizio che formale. Per rinvio ricettizio si intende il riferimento alle disposizioni elaborate da altra fonte giuridica; nel caso, il rinvio è all’insieme dei principi generali elaborati dalla Corte di giustizia ed a quelli formalizzati nei Trattati. Per rinvio formale si intende invece il riferimento “mobile” ad una fonte del diritto, autorizzando l’apertura dell’ordinamento a quanto sarà elaborato dalla fonte cui si fa rinvio. Nel caso, la legge 16 n. 15 consente per il futuro che eventuali nuovi principi generali del diritto europeo entrino nel nostro ordinamento senza necessità di recepimento espresso. Come detto, il rinvio previsto dalla legge n. 15 è duplice, perché allo stesso tempo recepisce il complesso dei principi sinora elaborati in diritto europeo e autorizza per il futuro l’ingresso di ogni altro principio della stessa natura. L’“apertura” del nostro sistema amministrativo ai principi generali di diritto europeo è di particolare significato, dato che l’Unione europea è divenuta una “incubatrice” di nuovi principi, non solo grazie alla perdurante capacità di elaborazione della Corte di giustizia, ma per i recenti sviluppi “costituzionali”, quali la Carta dei diritti fondamentali del 2000 e il Trattato costituzionale del 2004. Un ottimo esempio di questa dinamica è data dal principio di precauzione, l’ultima “creazione” di principio generale da parte della Corte di giustizia, che ha così trasformato una disposizione prevista in origine nel TCE quale principio specifico per le politiche ambientali. Circa poi la definizione dell’ambito oggettivo e soggettivo di applicazione della disposizione in esame, ricordato che l’Unione europea è formalmente ancora ordinamento giuridico a competenze definite, secondo il principio delle “competenze di attribuzione”, si pone il problema se l’art. 1 della legge in esame si riferisce solo ai settori di rilevanza comunitaria od a tutta l’attività amministrativa, anche nelle parti non ancora raggiunte dal diritto europeo. La prima interpretazione porterebbe a riconoscere alla norma solo un valore “didattico”, come abbiamo già detto; dato che i principi generali di diritto comunitario si applicano comunque negli ordinamenti nazionali per forza giuridica propria. La seconda interpretazione è preferibile, sia per la formulazione letterale dell’art. 1 della legge n. 15, sia perché tale disposizione esprime nel suo complesso l’intento del legislatore di estendere la portata dei principi comunitari a tutta l’azione della pubblica amministrazione. In tal senso, precedentemente, vari autori avevano dimostrato l’assurdità di applicare i principi generali di diritto comunitario, espressione di valori comuni agli ordinamenti europei e non solo funzionali allo sviluppo dell’integrazione europea, nei soli settori di intervento comunitario. Si consideri, solo per fare un esempio, che il principio di proporzionalità rappresenta un criterio generale per l’esercizio delle funzioni pubbliche che non sopporta limitazioni di materia. Accettando l’interpretazione qua preferita conseguono rilevanti conseguenze per la disciplina dell’attività amministrativa, dato che sono messi in discussione istituti che nell’ordinamento italiano hanno una disciplina solo parzialmente conforme al diritto europeo; ma finora rimasti non contestati in virtù del rilievo solo “domestico” di quella disciplina. L’ulteriore questione attiene alla definizione dell’ambito soggettivo di applicazione della disposizione. Si tratta di stabilire se tali principi valgono anche per i privati preposti all’esercizio di attività amministrative, come nel caso delle concessioni. E’ un’area sempre più vasta, considerata il crescente rilievo dei privati utilizzati per attività di rilievo pubblico, e della trasformazione in soggetti privati (ad es. società o fondazioni) di enti pubblici. La questione è risolta dallo stesso legislatore che con il nuovo comma 1-ter dell’art. 1 stabilisce espressamente che “i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei principi di cui al comma 1”, tra cui, si ricorda ancora, “i principi dell’ordinamento comunitario”. Rimane infine la questione della sfera di applicazione della norma in esame. Il sistema costituzionale italiano delle competenze legislative ed amministrative vede 17 infatti una competenza concorrente su queste materie tra Stato e regioni, secondo un modello non lontano da quello federale. Già per la legge n. 241 del 1990 si era posto tale problema, con un’interpretazione maggioritaria che considerava i principi della legge vincolanti anche le regioni in quanto principi di diretta attuazione della Costituzione. Di fatto, non vi erano stati reali contrasti tra Stato e regioni, in quanto era unanime l’apprezzamento per la nuova disciplina del procedimento amministrativo. Dopo la riforma costituzionale del 2001, ed il rafforzamento delle competenze regionali, il problema non poteva non riproporsi. Inoltre, la legge n. 15/2006, non avendo più il carattere di legge di principi come la precedente del 1990, offre nuove occasioni di riflessione costituzionale. Ora, relativamente alla rilevanza dei principi comunitari nelle materie proprie dell’Unione europea, la questione delle competenze statali e regionali non si pone; dato che tali principi devono essere osservati in egual modo da tutti i soggetti dell’ordinamento, pubblici o privati che siano. Diverso è il caso della rilevanza dei medesimi principi nelle materie ancora non “comunitarizzate”. In tali casi, infatti, la rilevanza è data dalla legge nazionale e non dal diritto comunitario; con la conseguenza che non rileva l’origine comunitaria dei principi stessi. Tuttavia, pur non avendo in tali campi la speciale forza che è loro propria nelle materie “europeizzate”, tali principi rimangono vincolanti per le regioni in quanto concorrono a definire i livelli minimi delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Per gli altri principi, la soluzione del problema è da ritrovare nella qualificazione generale della legge n. 15, combinata con la legge n. 241. La legge sul procedimento mantiene il carattere di legge di attuazione della Costituzione, in quanto prevede disposizioni in tema di amministrazione giustiziale, garanzie nei confronti della pubblica amministrazione, livelli minimi delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali. Si può pertanto concludere per una sua valenza diretta anche nei confronti delle regioni. Tale sembra essere anche il caso delle modifiche del 2005: malgrado che varie innovazioni non esprimono principi generali, ma scelte particolari sulla disciplina dell’atto amministrativo, esse formano indubbiamente una parte essenziale dell’ordinamento civile e dunque si applicano anche alle regioni. 10. Ciò che resta dell’autonomia procedimentale dello Stato I procedimenti composti di cui si è parlato sono uno dei principali fattori della crisi dell’autonomia procedimentale degli Stati membri, un tradizionale dogma delle relazioni giuridiche tra Comunità e Stati membri. L’effettiva portata del principio di autonomia procedimentale era da tempo discussa, in quanto conseguenza dell’erosione del modello di esecuzione indiretta e dell’affermarsi della coamministrazione e di altri similari modelli di azione amministrativa congiunta, che presuppongono una forte integrazione dei procedimenti. Inoltre, anche per le residue parti in cui le politiche comunitarie sono realizzate direttamente dalle amministrazioni nazionali è essenziale la garanzia di uniformità nell’ambito comunitario, tanto nell’interesse della Comunità al perseguimento pieno dei propri obbiettivi, quanto in quello dei vari partecipanti al procedimento. Come per l’analogo principio sul diritto processuale, la Corte ha da tempo adottato una linea pragmatica secondo cui compete agli Stati membri disciplinare il procedimento amministrativo anche quando rilevano situazioni giuridiche soggettive a base comunitaria, ma “nell’assenza di una disciplina comunitaria”. Si tratta dunque di 18 un’autonomia assai relativa, in quanto sottoposta ad una sorta di condizione risolutiva, rappresentata dall’entrata in vigore di una disciplina comunitaria. Inoltre, quest’ultima evenienza non è vista come eccezionale, ma del tutto ordinaria; sì da far riconsiderare anche in tale prospettiva l’effettiva portata della tesi dell’autonomia procedimentale degli Stati membri. I principi di riferimento per valutare l’adeguatezza comunitaria della disciplina nazionale dei procedimenti amministrativi a rilevanza comunitaria sono due: quello di equivalenza (o di non discriminazione) e quello di effettività. L’equivalenza implica che tali procedimenti non siano diversi, aggravati o comunque peggiorativi per gli interessati, rispetto a quelli corrispondenti che si riferiscono a tematiche puramente nazionali. Si è dunque di fronte ad una variante amministrativa del principio di non discriminazione, e perciò talora il principio di equivalenza viene espresso in tali termini. Per quanto poi riguarda l’effettività, il principio comporta che i procedimenti nazionali non debbono essere configurati in modo da rendere praticamente impossibile, ma neanche eccessivamente complessa, la tutela delle situazioni giuridiche a base comunitaria. Il diritto comunitario non si limita a intervenire per colmare lacune del diritto procedimentale interno od a legittimare la disapplicazione di particolari disposizioni nazionali che contrastino con i ricordati principi. Si ha infatti una sempre maggiore normativa comunitaria per la disciplina omogenea di determinati procedimenti amministrativi nello spazio giuridico europeo, anche quando la loro attuazione è demandata alle amministrazioni nazionali. Questo fenomeno ha tre conseguenze principali: la “europeizzazione” delle amministrazioni nazionali, che operano anche formalmente come “esecutivo” dell’Unione, ovvero amministrazioni comuni dell’ordinamento europeo; la forte integrazione tra le amministrazioni nazionale e gli organi comunitari, in verticale; e tra le amministrazioni degli Stati membri, in orizzontale; la creazione di nuovi principi generali di diritto procedimentale europeo. Un caso esemplare della tendenza alla disciplina europea del procedimento è data dal regolamento CE n. 1334/2000 del Consiglio, del 22 giugno 2000, che istituisce un regime comunitario di controllo delle esportazioni di prodotti e tecnologie a duplice uso. La Comunità ha disciplinato in modo compiuto ed uniforme un procedimento amministrativo, la cui attuazione è nella grande maggioranza dei casi affidata alle amministrazioni nazionali. Non si tratta di una mera variante del modello di “esecuzione indiretta”, tipico della fase iniziale del processo di integrazione; dato che per i procedimenti amministrativi sopra esaminati le amministrazioni nazionali debbono osservare una disciplina europea e non la disciplina nazionale. Si conferma che di “indiretto” rimane solo la collocazione organica delle amministrazioni nazionali nel quadro dello Stato membro; mentre per il resto esse operano come amministrazioni comunitarie. L’integrazione amministrativa è inoltre particolarmente forte in senso orizzontale, dato che su un tema come quello dei prodotti a duplice uso, in cui non possono esservi falle nazionali a pena della crisi del mercato interno e della vanificazioni dei controlli all’esportazione, è vitale la cooperazione tra le amministrazioni degli Stati membri. Un altro esempio di regolamento rilevante per la materia trattata e per la novità di molti principi ivi previsti, è il regolamento n. 1605/02 del Consiglio, del 25.6.2002, 19 che stabilisce il regolamento finanziario applicabile al bilancio generale delle Comunità europee. Delle molte disposizioni del regolamento finanziario che rilevano ai nostri fini merita in particolare richiamare quelle relative ai metodi di esecuzione del bilancio, in quanto rappresentano con plastica evidenza le possibili forme di integrazione amministrativa della Commissione con altri soggetti, interni o esterni alla Comunità. Secondo l’art. 53, dedicato appunto ai metodi esecuzione del bilancio, la Commissione esegue il bilancio in modo “centralizzato”, o con “gestione concorrente o decentrata”, o con “gestione congiunta con organizzazioni internazionali”. Il primo sistema è “centralizzato” dalla Commissione in modo affatto peculiare, dato che prevede ben quattro modalità di gestione, assai distinte tra loro: direttamente dalla Commissione tramite i propri servizi; indirettamente tramite le nuove “agenzie esecutive” (da non confondere con le agenzie europee di tipo non esecutivo), disciplinate dal regolamento n. 58/2003 del Consiglio, del 19.12.2002; oppure gli “organismi creati dalla Comunità”; oppure ancora gli “organismi nazionali pubblici o a entità di diritto privato investiti di attribuzioni di servizio pubblico che presentano sufficienti garanzie finanziarie”. Nel caso di “gestione concorrente”, le funzioni di esecuzione del bilancio sono delegate agli Stati membri. In quello di “gestione decentrata”, infine, le funzioni di esecuzione sono delegate a paesi terzi. Nei due ultimi casi, però, la Commissione si riserva significativi poteri per assumere la responsabilità finale nell’esecuzione del bilancio, in conformità all’art. 274 del TCE. Vi è poi un quarto modello di esecuzione, rappresentato dalla “gestione congiunta con organizzazioni internazionali”, soggetta a particolari condizioni. Per quanto vari siano i modelli di esecuzione del bilancio, il regolamento prevede un corpo di regole unitarie per assicurare la coerenza complessiva tra tutti i soggetti coinvolti, e la responsabilità finale della Commissione. In particolare è previsto che la Commissione non può affidare a terzi i poteri di esecuzione di cui è titolare in forza dei Trattati, ove implichino un ampio margine tale da esprimere scelte politiche. Le funzioni d’esecuzione delegate devono essere esattamente definite ed il loro uso rigorosamente controllato (cfr. art. 54, regolamento n. 1605 citato). 11. I provvedimenti amministrativi nel diritto dell’integrazione I provvedimenti amministrativi che risultano da procedimenti disciplinati in tutto in parte dal diritto comunitario hanno caratteri giuridici progressivamente diversi da quelli dell’ordinamento giuridico nazionale. Ciò è particolarmente evidente per l’invalidità degli atti amministrativi, in cui alcuni vizi di legittimità hanno un regime diverso da quello nazionale; come nel caso dello sviamento di potere. Tale vizio di evidente impronta francese (già previsto all’art. 33 del TCECA, ora non più vigente, che si ricorda per l’ampia giurisprudenza che vi si era riferita) è previsto all’art. 230 TCE in modo apparentemente ancillare rispetto agli altri vizi su cui può basarsi la richiesta di annullamento di un atto comunitario. In realtà, il riferimento allo sviamento di potere è assai frequente nei motivi di ricorso ed ha determinato un’importante giurisprudenza dei giudici comunitari. La posizione consolidata di questa giurisprudenza è che costituisce uno sviamento di potere l’adozione, da parte di un’istituzione comunitaria, di un atto, allo scopo esclusivo, o quanto meno determinante, di raggiungere fini diversi da quelli dichiarati o di eludere una procedura appositamente prevista dal Trattato per far fronte alle circostanze del caso di specie. Ciò deve emergere da indizi oggettivi, pertinenti e concordanti, adottati per raggiungere 20 scopi diversi da quelli dichiarati. Così intesa la nozione comunitaria è solo in parte simile a quella italiana di eccesso di potere, il cui ambito risulta ben più vasto. Una diversità di approccio si avverte anche per quanto riguarda il regime dell’invalidità degli atti amministrativi per violazione del diritto comunitario, sia negli aspetti sostanziali che in quelli processuali. Il giudice amministrativo italiano appare ormai stabilizzato (cfr. la recente sistematica ricostruzione effettuata dalla VI Sezione nella decisione n. 1023/2006) nel distinguere tra due situazioni di invalidità amministrativa per “anticomunitarietà”: da un lato, quella in cui l’atto amministrativo nazionale contrasta con disposizioni di attuazione del diritto comunitario o con quest’ultimo direttamente; dall’altro, quella in cui il contrasto sia indiretto, nel senso che l’anticomunitarietà è propria della norma nazionale, rispetto alla quale l’atto amministrativo è conforme. Nel primo caso abbiamo, secondo il Consiglio di Stato, una mera variante degli ordinari canoni di valutazione dell’atto amministrativo ove la peculiarità sta solo nel parametro di riferimento (norma comunitaria, anziché nazionale); così che si rimane nell’ambito della illegittimità/annullabilità dell’atto amministrativo. Nel secondo caso, invece,si tratta di un caso di nullità/inesistenza, dato che l’atto è adottato sulla base di una norma interna attributiva del potere, la quale essendo incompatibile con il diritto comunitario va disapplicata e non può fondare alcun potere amministrativo. Malgrado che questa posizione continui a dividere i commentatori (chi scrive, ad esempio, è parzialmente critico della “normalizzazione” dei vizi di anticomunitarietà negli stessi schemi tradizionali), risulta allo stato del tutto consolidata. Per quanto riguarda poi la compatibilità del regime processuale nazionale con i principi di equivalenza e di effettività, i nostri giudici amministrativi sono certi che la vigente disciplina non è causa di discriminazioni, né rende impossibile o eccessivamente difficile la tutela delle situazioni giuridiche soggettive a base comunitaria. Ove eccezionalmente l’omissione di una tempestiva difesa trovi giustificazione nelle particolari circostanze del caso, viene suggerito di ricorrere ai tradizionali strumenti offerti dal diritto nazionale, come quello dell’errore scusabile. La Corte di giustizia ha definito la propria posizione con la sentenza 27.2.2003, causa C-327/00, dopo una serie di alterne decisioni. In principio, la Corte ritiene compatibile con il diritto comunitario, e rispondente al principio di certezza del diritto, che la disciplina nazionale preveda termini di decadenza anche per i ricorsi avverso atti amministrativi in violazione di norme comunitarie. Tuttavia, la disciplina processuale nazionale non deve mettere a rischio l’effetto utile del diritto comunitario; in particolare, non deve rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritti riconosciuti dal diritto comunitario. 12. Le conseguenze per la tutela degli interessati La progressiva incidenza del diritto comunitario per la disciplina del procedimento amministrativo ha inevitabilmente effetti anche per i profili della tutela degli interessati sia in sede giurisdizionale che amministrativa. Per il periodo in cui la disciplina del procedimento è rimasta pienamente nella competenza degli Stati membri, anche le questioni della tutela degli interessati erano soggette alle normative nazionali. Valeva così appieno il parallelismo tra autonomia procedimentale e processuale degli Stati membri, principio di riferimento della iniziale giurisprudenza comunitaria. Tuttavia, l’autonomia degli Stati membri è venuta progressivamente sgretolandosi anche per la parte processuale, dato che le tradizionali e 21 persistenti diversità dei sistemi processuali nazionali stavano determinando un trattamento difforme delle situazioni giuridiche a base comunitaria, alterando così uno dei presupposti fondamentali del sistema di diritto europeo. Così, il diritto comunitario è divenuto particolarmente rilevante anche per la tutela giurisdizionale degli interessati, ed offre originali indicazioni per forme di tutela non giurisdizionale, sia del tipo amministrativo – ovvero interno al procedimento – sia del genere “ADR” (Alternative Dispute Resolution), ovvero procedimenti quasi giudiziali “alternativi” alla giurisdizione. Nel caso dei procedimenti amministrativi si sommano così due tendenze di comunitarizzazione delle discipline nazionali, con l’effetto complessivo di una più ampia disciplina europea sia della parte sostanziale dell’azione amministrativa che delle forme di tutela degli interessati. Senza però che un così rilevante sviluppo avvenga in modo sistematico e con principi davvero appropriati alle particolarità del nuovo sistema integrato tra Unione e Stati membri. Si considerino le implicazioni che per la tutela degli interessati hanno i nuovi procedimenti amministrativi composti, di cui si è detto ai precedenti paragrafi. Le diverse fasi di questi procedimenti hanno, di regola, una rilevanza giuridica maggiore delle fasi dei procedimenti amministrativi nazionali, o per la natura delle amministrazioni coinvolte o/e per il carattere sostanzialmente decisorio di alcuni passaggi. Ciò comporta, come già accennato in precedenza, la crisi della tradizionale distinzione tra atti del procedimento (privi di rilievo esterno e finalizzati agli atti conclusivi del procedimento stesso) e provvedimenti finali (atti a rilievo esterno, con contenuto imperativo, che producono l’effetto giuridico preordinato dalle norme). Da qui, nella prospettiva della tutela, l’emergere dell’interesse a contestare direttamente taluni atti del procedimento, prima o indipendentemente dal provvedimento finale; in contrasto con i principi di molti Stati membri e con il loro sistema processuale. Ma con problemi non indifferenti anche per quanto riguarda la giurisdizione, nazionale o comunitaria, competente. L’articolazione in varie fasi, nazionali e comunitarie, dei procedimenti composti importa altresì il rischio di lacune nella tutela degli interessati, per l’attitudine dei giudici nazionali a non occuparsi di tematiche sulle quali ancora non si è formato un tradizionale provvedimento, ancorché siano già state sostanzialmente esaminate e decise; oppure di tematiche che paiono così fortemente influenzate dal diritto comunitario da dover essere lasciate al giudice comunitario, anche quando i provvedimenti siano stati assunti da autorità amministrative nazionali. Gli aspetti problematici ora citati assumono una rilevanza ancora maggiore ove si ricordi l’ambito modesto attualmente riconosciuto dal giudice comunitario per la legittimazione a ricorrere avverso atti di portata generale, come i regolamenti. Ove infatti il dibattito sulla giurisdizione relativamente ai procedimenti complessi dovesse concludersi per la tendenziale giurisdizione del giudice comunitario, varrebbe la posizione assai restrittiva sulla legittimazione a ricorrere che è stata ribadita dalla Corte di giustizia (sentenza 25.7.2002, causa C-50/00), andando in contrario avviso rispetto alle aperture del Tribunale di primo grado (sentenza 3.5.2002, causa T-177/01) e dell’Avvocato generale Jacobs. Il punto è stato disciplinato in modo più liberale nel Trattato costituzionale. Infatti, l’art. III-270, para. 4, prevede che la possibilità per qualsiasi persona fisica o giuridica di proporre ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti si estenda agli “atti 22 regolamentari (specie dei nuovi atti “amministrativi”) che la riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura di esecuzione”. Per quanto riguarda le modificazioni del regime processuale nazionale che sono determinate dalla nuova disciplina comunitaria del procedimento, non tutte le innovazioni paiono da condividere, né risultano sempre effettivamente necessarie. Un buon esempio è il caso della tutela cautelare ante causam che il nostro sistema di giustizia amministrativa non contemplava in quanto le esigenze cautelari sono state soddisfatte in altri modi, specie a seguito delle innovazioni previste dalla legge n. 205/2000. Mentre nel diritto comunitario (il caso deciso è per gli appalti pubblici, ma con la solita vis espansiva) la Corte di giustizia (sentenza 15.5.2003, causa C-214/00) ha ritenuto inerente tale rimedio, imponendolo ai diritti degli Stati membri. La citata sentenza del 2003 riguardava la Repubblica di Grecia, ma i motivi erano generali ed applicabili anche ad altri ordinamenti. Da qui l’attesa conferma del principio anche per l’Italia (ordinanza 29.4.2004, causa C-202/03) dell’obbligo di prevedere normativamente la tutela cautelare ante causam. L’Italia si è adeguata con le previsioni contenute nel Codice dei contratti pubblici (d. lgs. n. 163/2006), art. 245. La vicenda considerata dimostra, da un lato, fin dove può interferire il diritto europeo; dall’altro, che le intrusioni andrebbero meglio meditate in relazione alle specificità dei singoli nordinamenti. Nel caso, come vari commentatori hanno notato, la novità imposta dal diritto europeo non era né inevitabile, né di particolare utilità per gli interessati. 13. La funzione pubblica di fronte all’Europa L’europeizzazione dell’organizzazione e dell’azione delle pubbliche amministrazioni nazionali non può non avere effetti anche per il personale pubblico. I modi in cui i dirigenti ed i funzionari pubblici sono “catturati” dal diritto sovranazionale europeo sono principalmente due: per tutti si pone il problema di applicare il diritto europeo, nel quotidiano esercizio delle proprie funzioni; con responsabilità particolarmente impegnative a cagione del modo in cui il diritto europeo si interseca con il diritto nazionale (si consideri in particolare il problema della disapplicazione – scelta personale dei soggetti tenuti a dare esecuzione al diritto europeo – del diritto nazionale eventualmente contrastante con il diritto comunitario). Per una parte dei dirigenti (ma progressivamente anche dei funzionari), poi, vi sono occasioni di partecipazione personale ai comitati ed organismi amministrativi vari istituiti od operanti nel contesto dell’Unione europea. Si tratta di centinaia di entità cui partecipano alcune migliaia di dirigenti e funzionari nazionali, il più delle volte in modo periodico in occasione delle riunioni collegiali, altre volte con forme di distacco per la durata del mandato. Un importante programma di inserimento temporaneo nell’amministrazione sopranazionale riguarda i c.d. “esperti nazionali distaccati (END)”, avviato nel 1988 e rivisto con decisione della Commissione n. 2033 del 1° giugno 2006. Il programma prevedeva inizialmente la possibilità di distacco di funzionari pubblici presso la Commissione; in seguito è stata aperta la partecipazione anche ad esperti privati (che peraltro rimangono per ora in numero assai limitato) ed il distacco anche presso il Parlamento ed il Consiglio. In tal caso, la “europeizzazione” dei funzionari distaccati nelle istituzioni comunitarie è ben più forte che per la partecipazione saltuaria ai comitati ed agli altri organismi collegiali similari. Anzitutto, perché i funzionari nazionali distaccati operano 23 fianco a fianco dei colleghi comunitari, condividendone finalità e metodi di lavoro. In secondo luogo perché il periodo di distacco è di regola lungo, potendo giungere sino a quattro anni; ben più di qualsiasi altra forma di stage. Il primo fenomeno richiamato ha portata generale, ponendo tutti i dipendenti pubblici direttamente di fronte ad un corpo di norme che non ha carattere “esterno” rispetto al diritto nazionale, ma che anzi ne forma parte essenziale. Qua si rinviene una delle maggiori peculiarità del diritto europeo rispetto al diritto internazionale di cui si parlerà nell’ultima parte del presente Capitolo. Mentre il diritto internazionale è sempre filtrato dalle norme nazionali, che almeno formalmente risultano il parametro di riferimento del funzionario pubblico; le previsioni di diritto europeo possono essere ad effetto diretto, come certe disposizioni dei Trattati, o direttamente applicabili, come per i regolamenti, o autoapplicative, come le direttive a determinate condizioni. In breve, il diritto comunitario è componente essenziale dello stesso diritto interno, a seguito dell’integrazione ordinamentale con il sistema europeo. La necessaria familiarità con il diritto europeo che così si determina implica che i dipendenti pubblici (anche di medio livello, stante la pervasività progressive del diritto europeo) acquisiscano una sua adeguata conoscenza. Si tratta non soltanto di dominare un corpo complesso di nuove norme, ma soprattutto di conoscere i molti principi originali che caratterizzano il diritto europeo. Ciò presuppone per coloro che entrano nelle pubbliche amministrazioni una adeguata formazione universitaria o professionale; e per coloro che già vi operano una “alfabetizzazione comunitaria” con modalità diverse, a secondo del tipo di amministrazione e del livello di responsabilità. Dopo un lungo periodo di sostanziale disinteresse, si sono sviluppate numerose iniziative per la formazione e la riqualificazione del personale pubblico – statale, regionale e di tutte le altre amministrazioni interessate – sui temi del diritto europeo. Nell’ambito universitario, le nuove opportunità offerte dalla diversificazione dei cicli di studi hanno consentito di realizzare corsi di laurea, master ed iniziative congiunte con le amministrazioni interessate sulle tematiche comunitarie, non soltanto giuridiche. Molto rimane, tuttavia, da fare; atteso che ancora in molte Università il corso di Diritto dell’Unione europea non è obbligatorio (e tanto più per altri connessi corsi avanzati). Tale situazione fa sì che nel settore giuridico e delle scienze sociali, che ancora rappresenta il sostrato di studi per la gran parte della dirigenza e dei funzionari pubblici, circa la metà dei laureati di primo e secondo livello non abbia sostenuto esami di diritto europeo e di materie affini. 14. Le iniziative formative in atto La soluzione a questa palese lacuna non è agevole, considerato che le Università godono di ampia autonomia, e che gli indirizzi ministeriali non esprimono ancora piena consapevolezza della centralità delle tematiche europee per gli insegnamenti impartiti in varie Facoltà; specie di di scienze sociali (Diritto, Economia, Scienze Politiche). Utili sollecitazioni possono derivare dalle iniziative “premianti” dell’Unione europea, che riconoscono e in parte finanziano iniziative di qualità sui temi dell’integrazione (come l’Azione Jean Monnet; e il nuovo Programma Quadro). E’ inoltre recente la decisione interistituzionale che ha istituito (febbraio 2006) la Scuola Europea di Amministrazione (EAS), con il compito di realizzare un’offerta formativa specializzata per il personale delle istituzioni. Si prevede l’apertura del suoi corsi anche al personale degli Stati membri; direttamente o con iniziative congiunte con le scuole 24 nazionali di amministrazione, nel quadro della loro Rete europea, di cui la nuova Scuola è membro. Nel settore della formazione extrauniversitaria il panorama complessivo non è più consolante. Da una parte, il settore privato ha avuto ampie opportunità per i ritardi e le carenze della formazione pubblica; ma quanto realizzato è complessivamente di modesta qualità, in certi casi una vera turlopinatura per le amministrazioni. Dall’altra, il settore pubblico manifesta finalmente un giusto interesse per le tematiche europee, ma sinora i rilevanti mezzi impiegati non hanno portato a conseguenti risultati, con palesi carenze sotto il profilo dell’economicità e della efficacia. Come è con franchezza riconosciuto nella Relazione 2007, “Partecipazione dell’Italia al processo normativo comunitario e procedure di infrazione”, del Dipartimento per le politiche comunitarie, emerge “uno scenario caratterizzato da iniziative spesso sconnesse, episodiche, non strutturate. In realtà, l’assenza di un piano, seppure informale, di formazione alla materia europea per i dipendenti pubblici fa parte di una carenza storica del nostro Paese, aggravatasi negli ultimi anni: l’inesistenza di un piano di crescita del capitale umano nelle amministrazioni pubbliche” (pag. 95). Va aggiunto che sino a tempi recenti la questione burocratica connessa all’Europa aveva riguardato principalmente i dipendenti dello Stato, nella visione tradizionale degli inizi in cui gli Stati membri erano gli interlocutori unici delle istituzioni comunitarie. Da ultimo, però, il rilievo comunitario diretto assunto dalle regioni e dagli enti locali ha moltiplicato il numero dei funzionari che trattano di questioni europee; evidenziando in questa parte non statale della burocrazia una carenza formativa ancora maggiore che nella parte statale. Il problema si sta aggravando a seguito dell’aumento delle occasioni – organizzative e funzionali – di fonte europea in cui sono coinvolti i pubblici dipendenti nazionali. Malgrado le acerrime critiche degli anni passati sulla “comitologia” e lo strapotere dei comitati, continua l’espansione dei comitati (di ogni tipo e dai diversi poteri) e conseguentemente si amplia il numero dei funzionari nazionali coinvolti. I limiti della qualificazione europea della nostra burocrazia – parlando ovviamente per linee generali, e quindi senza disconoscere una serie di aree di eccellenza – si evidenziano nella relativa incidenza sulle decisioni assunte in tali contesti; parte rilevante del processo decisionale comunitario. Così aggravando altre lacune nella nostra partecipazione alla c.d. fase ascendente comunitaria, e, per la fase di esecuzione (c.d. discendente), il carattere di “estraneità” di molti provvedimenti ai quali non è stato possibile apporre una qualche connotazione prossima alla nostra tradizione nazionale. Per quanto riguarda i procedimenti di coamministrazione, specie quelli composti, è ovvio che i funzionari nazionali coinvolti non si limitino a considerare solamente il diritto nazionale applicabile alla parte di loro diretta competenza, ma anche il diritto comunitario rilevante per le altre fasi; essendo il procedimento amministrativo pur sempre unitario, anche se articolato in fasi nazionali e comunitarie. Non si deve considerare, poi, solo il rapporto di tipo verticale tra le amministrazioni nazionale e comunitaria, ma anche quello – in rapida espansione – tra le amministrazioni degli Stati membri, e quindi di tipo orizzontale. Il principio del mutuo riconoscimento, quello del “paese di origine” e molti altri similari principi obbligano le amministrazioni nazionali a dialogare direttamente nel quadro del comune contesto normativo europeo. Tali rapporti sono, se possibile, ancora più complessi di quelli in precedenza descritti: implicano infatti non soltanto la piena conoscenza del 25 diritto europeo applicabile, ma anche, in misure diverse a seconda dei procedimenti, anche del diritto dell’altro Stato membro interessato al problema. 15. L’Agenzia per la formazione e le nuove prospettive Le iniziative sinora realizzate per l’amministrazione statale sono dovute principalmente alla Scuola superiore di pubblica amministrazione (SSPA), su temi sia di tipo formativo di base (c.d. alfabetizzazione) sia avanzati, quali l’innovazione, i sistemi di informazione pubblica, i programmi INTERREG, e simili. Non sono mancati poi corsi su politiche europee di particolare incidenza amministrativa, quali l’ambiente, la sanità, la concorrenza. La SSPA è poi partner dell’European Institute for Public Administration di Maastricht, cui partecipano molte altre similari scuole degli Stati membri. Tutte le altre Scuole “centrali” per la funzione pubblica statale – come la Scuola superiore dell’Amministrazione dell’interno – hanno realizzato taluni programmi di formazione e riqualificazione europea. Lo stesso hanno iniziato a predisporre altre strutture formative operanti per il personale pubblico locale, come la Scuola superiore dell’Amministrazione locale. A loro volta le regioni sviluppano varie iniziative, talora con propri organismi strumentali, talaltra ricorrendo a centri di formazione esterni. L’attivismo formativo che si appalesa negli ultimi anni sui temi europei è, tuttavia, disordinato e scarsamente produttivo; come rilevato impietosamente nella già citata relazione del Dipartimento delle politiche comunitarie. Un segnale positivo di svolta può considerarsi (solo poi l’esperienza attuativa indicherà l’effettiva portata) la previsione contenuta nella legge finanziaria 2007 (legge n. 296/2006, commi 581-583), relativa alla costituzione dell’Agenzia per la formazione, cui è demandata la riforma del sistemi dei dirigenti e dei dipendenti della pubblica amministrazione. Si tratta infatti di un nuovo organismo che dovrebbe progressivamente assorbire le molte (troppe) iniziative odierne, e dar vita ad un sistema nazionale di accreditamento degli organismi formativi, pubblici e privati. Al di là di alcuni profili di dubbia costituzionalità per invasione delle competenze regionali in tema di organizzazione dei propri uffici (materia che comprende anche la disciplina della formazione) – che comunque possono essere facilmente superati tramite ritocchi nella composizione dell’Agenzie e nella disciplina dei procedimenti di accreditamento – la decisione di creare un centro unitario di riferimento nazionale per la formazione pubblica risponde ad esigenze assolutamente condivisibili. Tra queste merita sottolineare proprio il versante europeo (ed internazionale), che non per caso è indicato tra le competenze della nuova Agenzia, anche per quanto attiene alla cooperazione europea ed internazionale in materia di formazione e innovazione amministrativa. 16. Verso lo Spazio amministrativo europeo Una volta acquisito il rilievo delle funzioni amministrative per la realizzazione dello Spazio giuridico europeo, sia nel residuo ambito del modello dell’esecuzione indiretta, sia anche per le sempre più frequenti forme di amministrazione composta, si è posto il problema di realizzare forme di cooperazione amministrativa tra gli Stati membri, e tra questi e le istituzioni comunitarie. Da alcuni anni è stato dunque istituito un organismo informale denominato EPAN (European Public Administration Network), composto dai ministri e dirigenti 26 generali nazionali della funzione pubblica. Le finalità dell’EPAN consistono nel favorire la reciproca conoscenza tra le diverse pubbliche amministrazioni nazionali, lo scambio delle “buone pratiche”, lo sviluppo di sistemi di autovalutazione e di valutazione comparativa. L’attività dell’EPAN è andata progressivamente ampliandosi, in sintonia con il crescere del ruolo delle amministrazioni nel sistema europeo e con la maggiore importanza che i Consigli europei hanno dato a temi come il “Metodo aperto di coordinamento” (parte essenziale delle conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona della primavera 2000). L’obbiettivo più ambizioso dell’EPAN è la definizione di “parametri amministrativi” di qualità, sulla scorta dei noti parametri di Maastricht in tema di finanza pubblica; onde assicurare che in tutti gli Stati membri si addivenga a standard di qualità omogenei quale strumento essenziale per l’uniforme applicazione del diritto comunitario e per servizi pubblici adeguati alle attuali esigenze della popolazione. Tali obbiettivi risultano ancora più rilevanti con l’ampliamento dell’Unione a nuovi Stati di diverse tradizioni, ed usciti da non molto da una ben diversa esperienza politica ed amministrativa. La base giuridica per queste azioni – sostanzialmente volontarie e di carattere “leggero” – è incerta; ma si può considerare che iniziative comuni in campo amministrativo siano inerenti al sistema europeo, una volta che sono stati posti obbiettivi e politiche che richiedono un rilevante apporto dell’amministrazione propria della Comunità e delle amministrazioni nazionali. Una precisa base discenderebbe dalla Carta dei diritti fondamentali, ove fosse già stato definito il suo valore giuridico; in considerazione del riconoscimento di un diritto alla buona amministrazione, assai dettagliato nelle varie sue articolazioni (il tema è stato approfondito in precedenza al Cap. II). Alcuni parametri più formali e con conseguenze per gli Stati membri (decadenza da benefici, loro decremento, ecc.) sono invece già vigenti nel quadro della politica agricola comune (PAC) e dei fondi strutturali. Il tema potrebbe trovare un ulteriore sviluppo nella prospettiva indicata dal Trattato costituzionale. Come anticipato sopra, nella parte III del Trattato, precisamente all’art. III-185, è stato affermato il principio che “L’attuazione effettiva della normativa dell’Unione da parte degli Stati membri, essenziale per il corretto funzionamento dell’Unione stessa, è considerata materia di interesse comune”. Della disposizione merita sottolineare l’enfasi sull’attuazione effettiva della normativa comunitaria, che implica un potere di verifica da parte della Commissione sulla qualità delle prestazioni amministrative delle amministrazioni nazionali, e dunque sue iniziative potenzialmente assai vaste. Nonché la qualificazione della cooperazione amministrativa come “materia di interesse comune”, che assimila la problematica ad altre in cui l’Unione può, sulla base del disposto dell’art. I-16 relativo alle competenze complementari, dar vita ad azioni di sostegno, di coordinamento e di completamento. Le nuove iniziative incideranno notevolmente sul personale amministrativo degli Stati membri. 17. L’internazionalizzazione del diritto pubblico e della pubblica amministrazione 17.1. Sinora è stato considerato il fenomeno della europeizzazione della pubblica amministrazione nazionale, che da tempo ha assunto caratteri assai incisivi e sistematici, e che ha posto in evidenza una serie di lacune, asimmetrie ed esigenze riformatrici per la nostra pubblica amministrazione. Se l’europeizzazione era fenomeno già ben presente al tempo del primo Rapporto sullo stato della pubblica amministrazione – ancorché ivi lasciato in disparte 27 per i motivi sopra indicati – il più recente periodo è caratterizzato dall’ulteriore e genuinamente originale fenomeno della “internazionalizzazione” del diritto pubblico e della pubblica amministrazione. Con tale dizione si intende il complesso dei nuovi rapporti che si sono instaurati tra l’ordinamento giuridico nazionale e il diritto internazionale, con particolare riferimento al diritto pubblico ed alla pubblica amministrazione. Il fenomeno non rappresenta un mero sviluppo di quello che in passato era stato definito il “diritto internazionale amministrativo”, sebbene una novità assoluta che, iniziatasi di recente, è ancora lungi dalla conclusione; ma anche dalla stessa stabilizzazione. Occorre dunque parlarne in termini anche empirici e descrittivi; pur se la tendenza risulta irreversibile e già significativa nelle sue prime espressioni. Il fenomeno della internazionalizzazione del diritto pubblico è solitamente considerato nella prospettiva top-down, ovvero quale espressione massima dell’influenza dall’esterno su ciò che residua dell’autonomia ordinamentale statuale; non diversamente dall’analoga lettura del fenomeno della europeizzazione. In verità, nel contesto della generale globalizzazione, il fenomeno dell’internazionalizzazione si determina anche a seguito della nuova rilevanza assunta oggettivamente dalle regole nazionali nel contesto giuridico generale. Solo per fare un esempio, la disciplina nazionale dei servizi e delle professioni non interessa solo le persone fisiche e giuridiche di quell’ordinamento, ma ogni altra persona interessata a prestare servizi e attività professionali, a stabilirsi in quel Paese, a circolare personalmente e con i propri capitali. Gli effetti rilevano in particolare per l’amministrazione ed il suo diritto, che si stanno ulteriormente staccando dalla tradizionale dimensione statale; e per i quali si determinano inediti problemi di diritto “multilivello”, per la compresenza di principi e regole nazionali, europee ed internazionali. Un significativo caso del nuovo sistema multilivello è costituito dalle prime decisioni dei giudici comunitari sui rapporti tra diritto di fonte Nazioni Unite e diritto europeo. Sino a tempi recenti tali rapporti sono stati molto rari; ma tendono ora ad infittirsi per nuovi fattori, come la lotta al terrorismo internazionale. Il Tribunale di primo grado dell’Unione europea ha assunto due sentenze coeve (21.9.2005, causa T-306/01 e causa T-315/01) in cui sono stati considerati (in modo non definitivo, perché pende l’appello alla Corte di giustizia) i rapporti tra l’ordinamento comunitario e l’ordinamento giuridico internazionale creato dalle Nazioni Unite. Secondo il Tribunale, le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sono in posizione di giuridica supremazia nei rispetti del diritto europeo; di tal che, gli Stati membri sono tenuti a disapplicare qualsiasi disposizione di diritto comunitario, seppure di diritto primario o un un principio generale di tale diritto, che ostacoli la buona esecuzione dei loro obblighi derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite. La stessa Comunità è tenuta a non violare gli obblighi spettanti ai suopi Stati membri, e ad adottare tutte le misure necessarie affinché gli stessi possano ottemperare a tali obblighi. Di più, il Tribunale ha considerato che le misure decise dalle Nazioni Unite prevalgono su qualsiasi altro obbligo, inclusi quelli derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. A fronte di tale diritto il giudice europeo non può valutare la legittimità delle decisioni delle Nazioni Unite rispetto al diritto comunitario, compresi i diritti fondamentali ivi riconosciuti; ma solo verificare se tali decisioni rispettino gli standard universalmente riconosciuti di protezione dei diritti fondamentali. 28 Le sentenze sono state vivacemente criticate, sia per la dubbia ricostruzione dei rapporti tra diritto delle Nazioni Unite e diritto europeo, sia per la specifica conclusione in ordine al rispetto del principio del giusto procedimento e del diritto di difesa. L’attesa sentenza di appello metterà definitivo ordine nella materia, ma sin d’ora meritava citare il caso per evidenziare le tensioni che si determinano per la sovrapposizione ordinamentale tra diritto internazionale, diritto europeo e diritti nazionali. 17.2. Il “nuovo” diritto internazionale non si limita a regolare i rapporti tra gli Stati, ma sempre più frequentemente incide direttamente nella sfera dei singoli, delle imprese e dei gruppi. Per ciò solo – indipendentemente da altre rilevanti motivazioni – pone in crisi il tradizionalismo dualismo nei rapporti tra la sfera nazionale e quella internazionale. Si può parlare a tale riguardo di diretta applicabilità del diritto internazionale, almeno per quanto riguarda talune previsioni contenute in convenzioni ed atti delle organizzazioni internazionali economiche (in particolare dell’OMC/WTO e del Fondo Monetario Internazionale). Basate sul medesimo rapporto di immediatezza sono poi le opportunità per i singoli di accedere direttamente a taluni organi giurisdizionali internazionali, come la Corte europea dei diritti dell’uomo (nel contesto giuridico del Consiglio d’Europa) o gli organi contenziosi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Lo stesso si può dire per la partecipazione diretta di singoli, associazioni di categoria, formazioni sociali a procedure decisionali di talune organizzazioni internazionali. In sostanza, i rapporti diretti con i singoli – un tempo impensabili per le organizzazioni internazionali – si manifestano sia nella fase “esecutiva” che anche in quella decisionale e giustiziale. L’influenza internazionale si rafforza anche per l’estensione delle politiche considerate, secondo una tendenza similare a quella riscontrata nell’ambito dell’Unione europea. Gli atti internazionali non si limitano alle classiche relazioni intergovernative, ma riguardano progressivamente tutte le materie di qualche interesse pubblico; in certi casi con finalità di armonizzazione “leggera”, in altri casi in modo assai più diretto ed omogeneizzante, stante la natura dei problemi coinvolti e la necessità di correlati interventi. In tali situazioni, ancorché per ragioni formali, il modello sembri ancora dualistico (gli Stati fanno proprie, con norme nazionali, le disposizioni internazionali); in realtà, si tratta in sostanza di un’attuazione vincolata e priva di significativi spazi per adeguamenti diversificati, tipica di un sistema monastico quale quello europeo. 17.3. L’internazionalizzazione del diritto pubblico e delle pubbliche amministrazioni è ormai fenomeno acquisito dal mondo istituzionale e da quello giuridico, ma se ne discute vivacemente il significato e la portata. E’ chiaro che le forme di diretta applicabilità di norme internazionali e la stretta integrazione tra ordinamenti non ha, qualitativamente, nulla a che fare con la progressiva convergenza giuridica che spontaneamente si determina in un mondo, bene o male, aperto e comunicante. Le nuove regole sono il frutto di organizzazioni in cui taluni Stati e la loro complessiva egemonia politica e giuridica risultano dominanti; in particolare ciò si verifica per i Paesi di tradizione “anglo-sassone”. Inoltre, al fenomeno della convergenza (basato concettualmente sull’adesione generale e volontaria a parametri comuni) si sovrappone il fenomeno – dialettico e conflittuale – della “concorrenza ordinamentale”, che tende a privilegiare i sistemi che risultano al momento più appropriati alle esigenze 29 dell’economia. Nel confronto taluni sistemi risultano sacrificati, aumentando il dislivello ordinamentale già segnato dalle ricordate egemonie generali. La tendenza è irreversibile, ma non irrefrenabile. Le Nazioni Unite, in particolare, mirano ad assicurare regole e parametri comuni che siano il frutto di un’idea condivisa di governance. Inoltre, il rispetto di vari principi che sono parte essenziale della nozione internazionale di “Stato democratico” o di “Stato di diritto” porta a sottoporre l’effettiva operatività delle nuove regole internazionali a controlli, anche giurisdizionali ove occorra; nonché a garantire una forma finale di accountability per tutti i soggetti coinvolti. 17.4. L’attenzione dei commentatori è oggi concentrata, giustamente, sulle organizzazioni internazionali di ultima generazione – come l’OMC/WTO – che producono un diritto internazionale ad immediato rilievo negli ordinamenti nazionali. Ma sarebbe ingiusto porre in ombra l’operato del Consiglio d’Europa, che sin dal secondo dopoguerra realizza un’opera di armonizzazione giuridica e di diffusione delle regole di democrazie e di rispetto dei diritti fondamentali che sono alla base di molte realizzazioni di cui altre organizzazioni tendono a fregiarsi. In effetti, le istituzioni del Consiglio d’Europa svolgono in modo poco appariscente, ma efficace nei risultati, una serie di iniziative di immediato rilievo per i singoli e le pubbliche amministrazioni nazionali. Si consideri che il Comitato ministeriale vigila sul pieno rispetto da parte degli Stati membri degli impegni a conformare le proprie politiche agli standard dello Stato di diritto. Lo stesso vale anche per l’Assemblea parlamentare, uno dei compiti fondamentali della quale è il monitoraggio sul continuo rispettosa parte degli Stati membri dei principi di base dell’ “Stato democratico”, con particolare riferimento al rispetto dei diritti fondamentali. Più nota è l’attività della Corte dei diritti dell’uomo, sia perché ormai frequentemente adita dagli interessati per problemi di palmare rilevanza per i singoli (le sentenze hanno forza obbligatoria per le parti processuali), come la eccessiva durata del procedimenti giudiziari; sia perché dalla giurisprudenza della Corte sono scaturiti sviluppi nei diritti nazionali, che non sarebbero stati possibili neanche sulla scorta della giurisprudenza costituzionale nazionale. Tale è il caso, ad esempio, della problematica delle espropriazioni; ove la Corte di Strasburgo è andata oltre i risultati raggiunti dalla nostra Corte costituzionale. Accanto al diritto “tipico” del Consiglio d’Europa non bisogna poi dimenticare la grande rilevanza del sistema di altri atti atipici, riassuntivamente noti come “soft law” perché non direttamente vincolanti. Si tratta normalmente di risoluzioni, il cui rispetto viene raccomandato agli Stati membri in quanto esprimono un consensus formatosi sulla materia. Tali iniziative sono particolarmente rilevanti per la pubblica amministrazione, sia nella parte di diritto sostanziale che in quella di diritto processaule. Per la prima si ricordano le varie raccomandazioni sui principi dell’azione amministrativa (quali imparzialità, eguaglianza, legittimo affidamento; talora anticipatori delle corrispondenti figure elaborate dai giudici comunitari), nonché sulla nozione di “buona amministrazione” come elemento costitutivo del buon governo (governance). La “buona amministrazione” ricorre negli atti del Consiglio d’Europa da almeno due decenni, ed ha favorito l’istituzione nel diritto comunitario del Mediatore, preposto alla verifica dei casi di cattiva amministrazione (ovviamente speculari ai primi), e soprattutto il riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentali per l’Unione europea (Nizza, 2000) del diritto alla buona amministrazione. Per la tutela dei singoli, 30 basti ricordare le iniziative – davvero innovative – del Consiglio d’Europa per forme di tutela alternative alla giurisdizione, al fine di sgravare l’eccesso di contenzioso giurisdizionale e, allo stesso tempo, assicurare più efficaci forme di tutela, nella prospettiva – ora fatta propria anche dall’Unione europea – dell’effettività della tutela stessa. 17.5. Nella prospettiva della pubblica amministrazione, l’esito delle tendenze ora descritte è l’emersione del diritto amministrativo globale, definibile (B. KingsburyN. Krisch-R. Stewart, The Emergence of Global Administrative Law, in IILJ Working Paper 2004/1, pag. 17) “as comprising the mechanisms, principles, practices, and supporting social understandings that promote or otherwise affect the accountability of global administrative bodies, in particular by ensuring they meet adequate standards of transparency, participation, reasoned decision, and legality, and by providing effective review of the rules and decisions they make”. E’ evidente che il nuovo diritto che così si sta formando implica un ruolo delle pubbliche amministrazioni assai diverso da quello tradizionale; in particolare, basato sulla conoscenza dello scenario internazionale, delle sue regole e della giurisprudenza delle corti internazionali. Un vero e proprio spazio giuridico aperto e comunicante, in cui si formano nuove elites amministrative e le burocrazie, nazionali ed internazionali, entrano fra loro in contatti frequenti. Per gli Stati membri dell’Unione europea, tuttavia, non si tratta di una novità assoluta, perché da tempo è stato rotto l’ancoraggio delle amministrazioni pubbliche con la dimensione nazionale; quanto di un ampliamento della prospettiva sovranazionale ed internazionale (profili che in certi casi tendono a sovrapporsi tra loro). Il rafforzarsi della rilevanza del diritto amministrativo metastatale acuisce i problemi già evidenziati dalla prospettiva dello Spazio amministrativo europeo, rendendo perciò ancora più attuali e non rinviabili le misure riformatrici che sono state proposte. Conclusioni e raccomandazioni finali • • • • È accertata la difficoltà dell’amministrazione pubblica italiana ad adempiere agli impegni scaturenti dal processo di integrazione europea. Tra le tante situazioni di crisi basti ricordare tre problemi esemplari: a) la modesta influenza della nostra amministrazione nei procedimenti decisionali ascendenti o di coamministrazione; b) l’irrisolto problema del sistema di governo per le politiche comunitarie, qui considerato specialmente nel profilo del coordinamento delle varie amministrazioni interessate, la cui esigenza è cresciuta per il rilievo comunitario diretto assunto da regioni ed enti locali; c) la carenza di un’adeguata formazione comunitaria del personale pubblico, ad ogni livello. Il filo rosso del presente Capitolo è quello delle necessarie riforme nazionali quale condizione necessaria per poter esprimere e far valere in Europa le nostre posizioni. L’attuale debolezza della presenza italiana in Europa dipende essenzialmente dalle nostre questioni interne, non dalla volontà emulativa degli altri Stati membri. La difficile “europeizzazione” della pubblica amministrazione non è questione settoriale, ma indice di una perdurante chiusura dell’ordinamento italiano ai 31 • • • • • • • nuovi scenari manifestatesi negli ultimi decenni. Chiusura di carattere culturale e politico, e non solo giuridico. Il perdurante approccio “domestico” si rinviene in tutte le funzioni pubbliche. Prima della questione amministrativa, vi è, in effetti, una questione normativa. Il diritto nazionale non si evolve nei tempi e nei contenuti imposti dal diritto europeo, salvo eccezioni (talora di rilievo, come per gli appalti pubblici). Ne è la spia il contenzioso comunitario diretto, nella forma della procedura di infrazione avviata dalla Commissione (con la successiva condanna dell’Italia da parte della Corte di giustizia nei quattro quinti dei casi); ed il contenzioso di rilievo comunitario, nella forma della procedura di rinvio pregiudiziale con la quale i giudici nazionali chiedono al giudice comunitario l’interpretazione del diritto comunitario rilevante per la loro decisione (stante, evidentemente, una discrasia tra diritto nazionale e diritto comunitario non risolvibile con la mera disapplicazione del primo). Un diritto nazionale di bassa qualità comunitaria rappresenta un ulteriore fattore di difficoltà per l’amministrazione pubblica italiana. Non offrendo alle amministrazioni un parametro in linea con i principi comunitari, contribuisce alla conservazione di prassi ed interpretazioni obsolete. Inoltre, pone quotidianamente le amministrazioni di fronte al potere/dovere di disapplicazione del diritto nazionale che sia in contrasto con il diritto comunitario. Potere/dovere dai parametri inevitabilmente incerti e variabili, ma foriero di responsabilità anche personali in caso di cattivo od omesso esercizio. Ferma dunque l’esigenza che il legislatore italiano finalmente europeizzi le leggi e gli atti normativi, non solo per le norme emanande, ma anche con la revisione sistematica del diritto vigente, un problema specifico è rappresentato dall’attuale disciplina per la partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e per l’esecuzione degli obblighi comunitari. La legge n. 11/2005 rappresenta un positivo adeguamento della precedente disciplina (principalmente la legge n. 86/1989) al nuovo quadro costituzionale (riforma del Titolo V, con più ampi poteri comunitari per le regioni) ed alle difficoltà evidenziate dalla legge “La Pergola” (cadenze dell’annuale legge comunitaria, ritardi ed inadempimenti paradossali connessi alla centralizzazione delle procedure, ecc.). Per migliorare la tempestività del recepimento e dell’attuazione del diritto comunitario sono proponibili alcune semplici ulteriori innovazioni, quali la riduzione drastica del termine dato al Governo in via di delega per recepire le direttive; l’anticipazione del lavoro di preparazione dei decreti legislativi sino dalla presentazione del disegno di legge comunitaria; la riduzione dei casi di delega a favore di un intervento diretto con la legge comunitaria o con leggi ad hoc (circostanza che può dispiacere perché altera il modello della legge comunitaria omnicomprensiva, ma che risulta di grande efficacia). Occorre tuttavia stabilizzare il quadro normativo (la legge comunitaria 2007 ha, da ultimo, introdotto due nuovi articoli nella legge n. 1172005), per dare certezza alle istituzioni ed a tutti coloro che partecipano ai procedimenti in questione. La definizione della procedura normativa va accompagnata dalla riforma del sistema di governo delle politiche comunitarie, con un modello finalmente chiaro e definito. Il modello suggerito deve combinare taluni necessari tratti 32 • • • • • • unitari con altri tratti che rispondono all’esigenza di una competenza comunitaria “diffusa”, specie per la rilevanza assunta dalle regioni. Nel primo senso, ferme le competenze del Consiglio dei ministri e del Presidente del Consiglio dei ministri, è auspicabile che il Ministro per le questioni europee abbia un portafoglio stabile, che non dipende dalla specifica delega attribuitagli. Il ruolo del Presidente del Consiglio è così complesso da consentire un costante coinvolgimento in questioni, come quelle europee, che sono estremamente articolate e pervasive. Un “Ministro per l’Europa” con portafoglio garantito avrebbe per effetto di valorizzarne il rango politico, ed allo stesso tempo impedirebbe la commistione delle competenze comunitarie con deleghe di altre tematiche, spesso disomogenee ai temi europei. Il Ministro per le questioni europee dovrà avere la guida del Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie, finalizzato appunto alla funzione di coordinamento delle amministrazioni operanti su tematiche europee, sia nella fase ascendente che in quella discendente. Tale è già oggi il ruolo del Dipartimento, ma la vigente normativa non precisa adeguatamente la funzione di coordinamento ed i relativi poteri. Un’utile innovazione potrebbe essere la presenza necessaria in ogni amministrazione (statale, enti pubblici, regioni, ecc.) di un responsabile per le politiche comunitarie; una sorta di R.U.P. sui temi europei, referente per le relazioni con le altre amministrazioni su tali tematiche nonché responsabile per il coordinamento interno alla sua amministrazione. Con l’istituzione della figura del responsabile sarebbe poi più agevole realizzare il monitoraggio sull’attività di attuazione del diritto comunitario da parte delle varie amministrazioni; oggi assai carente. Il Ministero affari esteri, in linea di principio, non dovrebbe occuparsi del funzionamento dell’Unione, ma solo di talune questioni “esterne”, quali le procedure per la revisione dei Trattati (almeno quelle tradizionali, fin quando esisteranno, basate sulle conferenze intergovernative), le procedure per l’eventuale ulteriore ampliamento dell’Unione, i rapporti con gli Stati terzi. Né dovrebbe essere il referente centrale della Rappresentanza permanente, stante la sua competenza trasversale. Tuttavia, i buoni risultati che si sono finora manifestati nell’esperienza del Ministero inducono a confermare le sue competenze, semmai meglio delimitate all’operato al di fuori dell’ordinamento nazionale. Ciò consentirà un più efficace rapporto “diarchico” con la Presidenza del Consiglio e il Dipartimento per le politiche comunitarie, quest’ultimo essendo concentrato sul coordinamento nazionale. Il secondo elemento del modello è rappresentato dal rapporto diretto delle amministrazioni nazionali con i corrispondenti uffici comunitari, nello svolgimento dei procedimenti composti e nella routinaria esecuzione del diritto comunitario. I rapporti diretti, inizialmente radi, sono oggi costanti ed in avvenire rappresenteranno la regola nell’attuazione congiunta delle politiche europee. Affinché il rapporto sia paritario ed efficace, è però necessario che il personale amministrativo nazionale che vi è coinvolto sia adeguatamente formato. Esigenza che ci riporta al tema di fondo della specifica preparazione in funzione comunitaria della burocrazia. Una volta che le regioni hanno acquisito piena rilevanza comunitaria, è emersa la carenza di un adeguato coordinamento tanto delle regioni con lo Stato, quanto 33 • delle regioni tra di loro. Per ovviare a questo grave problema, occorre ripensare il ruolo della Conferenza Stato-regioni che non sembra in grado di assicurare risultati incisivi; anche con soluzioni originali. Per tutto il personale delle amministrazioni pubbliche si pone il problema della formazione e riqualificazione in funzione europea. A diversi livelli (dalla “alfabetizzazione” ai corsi avanzati) l’esigenza formativa è questione cruciale, per la quale occorre seguire nuovi indirizzi visti i magri risultati finora acquisiti, pur a fronte delle ingenti risorse impiegate. L’Agenzia nazionale per la formazione è un primo passo nella giusta direzione, ma occorre un quadro strategico nazionale, condiviso anche dalle regioni e dagli enti locali ed ancorato alle iniziative dell’Unione europea e degli altri Stati membri. 34