articolo legge 15

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articolo legge 15
I NUOVI PRINCIPI DELL’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA TRA
ORDINAMENTO STATALE E LEGISLAZIONE REGIONALE SICILIANA
ALLA LUCE DELLA NUOVA LEGGE 241/90
DI
GIUSEPPE LA GRECA*
L’entrata in vigore della Legge n. 15/05 di modifica della L. 241/90, assume connotati
molto particolari nell’ordinamento della Regione Siciliana e ciò in considerazione del fatto
che ai sensi dell’art. 37 della L.R. n. 10/91 di disciplina del procedimento amministrativo la
medesima Regione aveva tra l’altro dettato un rinvio dinamico alla legislazione statale di
modifica della stessa L. n. 241/90. La peculiarità sorge invero per il fatto che il legislatore
regionale, ancor prima che entrasse in vigore la Legge 15/05 ha introdotto alcune
disposizioni (e solamente alcune) mutuate dal relativo progetto di legge, con ciò operando un
richiamo espresso ex ante rispetto alle modifiche alla L. 241/90 che, una volta intervenute in
sede statale, sarebbero state comunque oggetto del predetto rinvio dinamico senza necessità
dell’intervenuto richiamo. L’intervento legislativo “a metà” voluto dal legislatore regionale
(cfr. L.r. n. 17/04) pone problematiche interpretative e di coordinamento a prima vista di
ampia portata, non foss’altro che per le implicazioni sistemiche e di esegesi che
deriverebbero dal rapporto tra le nuove singole specifiche disposizioni regionali ed il rinvio
dinamico posto dalla citata L.R. n. 10/91.
In buona sostanza, bisognerebbe chiarire se la circostanza che il legislatore regionale sia
intervenuto prima di quello statale a dettare alcune norme modificatrici della disciplina del
procedimento amministrativo lato sensu sia idonea a circoscrivere la portata del rinvio
dinamico ex art. 37 L.R. 10/91, ovvero se le recenti disposizioni regionali siano da
inquadrare nell’ambito di un’attività legislativa che in quanto esercitata prima dell’entrata in
vigore della stessa Legge 15/05 ha ritenuto di introdurre talune specifiche disposizioni
prescindendo dall’attività legislativa statale. La questione può agevolmente dipanarsi secondo
tale ultima seconda opzione interpretativa, rimanendo dunque salvo il rinvio dinamico alle
modifiche della legge 241/90. Tale impostazione si fonda su un ulteriore non secondario
aspetto. Il nuovo impianto legislativo statale rivede ed estende i principi generali cui deve
informarsi l’attività amministrativa, recependo ampiamente indirizzi giurisprudenziali ormai
consolidatisi nel tempo e tiene conto della riforma costituzionale operata con la legge
costituzionale n. 3/01. non sfugge infatti come la nuova legge 241/90 all’art. 29 comma 2
afferma che gli enti locali “…nell’ambito delle rispettive competenze, regolano le materie disciplinate
dalla presente legge nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell’azione
amministrativa, così come definite dai principi stabiliti dalla presente legge”. Principi che rispondono
all’esigenza di ricondurre molti istituti a prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che, secondo
l’art. 117, comma 2, lett. m) della Costituzione, devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale. Pertanto, attraverso l’attività normativa delle autonomie territoriali potranno
essere apprestate forme di tutela maggiormente rafforzate ma non “ridurre quanto già stabilito
dal sistema di protezione predisposto” [C. Biondi, M. Moscara, A. Ricciardi, riforma del procedimento
amministrativo, Maggioli, 2005,
p. 151].
In tale quadro svanisce la rilevanza della mancata emanazione espressa di talune disposizioni
oggi contenute nella L. n. 15/05 da parte del legislatore regionale per una ragione molto
semplice: il riferimento operato dal legislatore statale all’art. 117 Cost. ci fa allontanare
dall’ambito di primarietà della competenza legislativa regionale e conseguente esclusione
dell’efficacia disposizioni statali non espressamente richiamate, allorché ritenute “non
compatibili” nell’accezione dell’art. 37 della L.R. n. 10/91: la legge 15/05 dà il giusto merito
alla potestà statutaria e regolamentare degli enti che giocoforza dovrà riconnettersi ai principi
espressamente inderogabili che fondano la propria ratio nella “determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”
(art. 117 comma 2 lett. m Cost.). Emerge un collegamento diretto tra la disciplina statale dei
principi e delle misure minime di tutela e la potestà normativa delle autonomie locali,
anch’essa ormai solennizzata nella Carta costituzionale: ciò a prescindere dall’eventuale
legislazione regionale esistente.
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La riforma della Legge 241/90 ha introdotto expressis verbis i due nuovi principi di
“trasparenza” e di “rispetto dell’ordinamento comunitario”, con ciò elevando al rango di
disposizione legislativa una regola generale ormai pacificamente condivisa.
La previsione del principio di trasparenza, che deve informare tutta l’attività
amministrativa, potrebbe a prima vista apparire come frutto dell’esercizio di attività
normativa ad abundantiam proprio per l’ormai piena e consolidata integrazione
nell’ordinamento di detto parametro; ma la novella legislativa fa ritenere che il mancato
rispetto del principio di trasparenza potrebbe comportare una violazione di legge, e per ciò
costituire un elemento patologico dell’azione amministrativa rilevabile dal giudice non più
unicamente in sede di esame di profili sintomatici dell’eccesso di potere.
L’assunto non sembra di marginale importanza se lo si riconnette, da una parte, alla
responsabilità risarcitoria della pubblica amministrazione e, dall’altra, allo scrutinio del
concetto di violazione di legge di cui all’ 323 del Codice penale: detto principio costituisce la
sintesi concettuale delle diverse previsioni legislative, sia statali che regionali, che impongono
l’agere della pubblica amministrazione secondo canoni di chiarezza e rispetto delle regole,
dall’obbligo di motivazione dei provvedimenti, all’individuazione del responsabile del
procedimento, dalla partecipazione dei cittadini alla formazione della volontà amministrativa,
al diritto di accesso ai documenti. Non è un caso che l’obbligo di trasparenza si collochi
nell’alveo della disciplina costituzionale di cui agli artt. 97 e 98 Cost., costituendo uno dei
corollari dell’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.
La Corte di Giustizia ha sottolineato la correlazione tra il principio di trasparenza lato sensu ed
il principio della parità di trattamento, con particolare riferimento alle procedure di
affidamento degli appalti pubblici (Sentenza Evn Ag, Wienstrom GmbH, 4 dicembre 2003,
“…il principio della parità di trattamento implica un obbligo di trasparenza al fine di consentire di
accertarne il rispetto, che consiste appunto nel garantire il controllo sull'imparzialità dei
procedimenti…”)[cfr. G. La Greca, M.C. Caldara, Le regole comunitarie sugli appalti pubblici.
Semplificazione ed ammodernamento negli emendamenti della Commissione del 10 maggio
2000, in Giurisprudenza Europea,
n. 4/99, pp. 660 e ss.] con un’estrinsecazione basata su
connotati specifici diversi a seconda della tipologia di relazioni cittadino-pubblica
amministrazione, ed in relazione al variare dell’esercizio dello stesso potere amministrativo.
Esso presenta ambiti di connessione con l’ulteriore previsione - contemplata all’art. 1 della
novellata Legge n. 241/90 - attinente al rispetto dei principi comunitari.
La nuova formulazione dell’art. 1 della Legge n. 241/90 richiama, infatti, il rispetto dei
principi dell’ordinamento comunitario, i quali divengono il substrato fondamentale su cui
debba svilupparsi l’attività amministrativa, al di là della cogenza delle singole disposizioni
dell’ordinamento europeo che governano le singole materie di rilevanza comunitaria.
La Corte di Giustizia e la Corte Costituzionale hanno in passato ribadito il primato del
diritto comunitario su quello nazionale, rilevando che da detto primato derivano tre effetti: a)
la piena e completa integrazione del diritto comunitario nell’ordinamento interno senza
necessità di speciali procedure di esecuzione; b) la collocazione delle norme comunitarie
nell’ordinamento nazionale; c) l’obbligo dei giudici nazionali di applicare il diritto
comunitario [G. Arrigo, Il diritto del lavoro dell’Unione europea, Giuffrè, Milano, 1998]. Con la storica la
sentenza n. 170/84 (Granital S.p.A. c. Amministrazione delle Finanze), la Corte
Costituzionale ha indicato la nuova chiave di lettura dei rapporti tra ordinamento interno e
diritto comunitario, evidenziando che “le disposizioni di legge contrarie al regolamento comunitario
non possono considerarsi nulle od inefficaci, ma sono costituzionalmente illegittime e vanno in quanto tali
denunziate in questa sede, per violazione dell’art. 11 della Costituzione”. Detto orientamento è stato
ulteriormente precisato con la successiva sentenza n. 384/94, con cui il Giudice delle Leggi
ha stabilito che, quando davanti ad un giudice interno si pone un conflitto insanabile fra
norma comunitaria e norma interna, il giudice non deve più rinviare la questione alla
Consulta, ma ha il preciso dovere di applicare direttamente la norma comunitaria, anche se
successiva. Il potere/dovere di disapplicare il diritto nazionale difforme da quello
comunitario è stato esteso anche a tutte le pubbliche amministrazioni (sentenza n. 389/89,
“…tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o
valore di legge)-tanto se dotati di poteri di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se
privi di tali poteri, come gli organi amministrativi - sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne
incompatibili con le norme stabilite dagli artt. 52 e 59 del Trattato C.E.E. nell'interpretazione datane dalla
Corte di giustizia europea…”).
Detto principio è stato ulteriormente richiamato da una recente circolare (Presidenza del
Consiglio dei Ministri Dipartimento per le Politiche comunitarie - circolare 29 aprile 2004 (in
G.U. n. 161 del 12 luglio 2004) – “Principi da applicare, da parte delle stazioni appaltanti,
nell'indicazione delle specifiche tecniche degli appalti pubblici di forniture sotto soglia comunitaria”),
secondo cui sussiste l’obbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per agevolare la
piena efficacia del diritto comunitario (v. sentenza 13 luglio 1972, causa 48/71,
Commissione/Italia, racc. pag. 529, punto 7)» (in tal senso da ultimo, Corte di giustizia,
sentenza del 9 settembre 2003, punto 49 della motivazione, in causa C-198/0l).
Il recepimento dei principi dell’ordinamento europeo, assume una forte portata
innovativa sotto il profilo della cogenza degli stessi, fino a questo momento conosciuti de
relato e non già in forza di un’effettiva introduzione nell’ordinamento nazionale: è noto come
in massima parte gli stessi principi sono stati frutto di una difficile attività di sintesi,
formulata dalla Corte di Giustizia e trasposta nei diversi Trattati, tra diverse esperienze
giuridiche che si sono consolidate nel tempo e che oggi costituiscono l’acquis dello stesso
diritto dell’Unione.
Sono molteplici le disposizioni dei Trattati rilevanti per il funzionamento della pubblica
amministrazione e le norme e principi che da questi si traggono, e ciò con particolare
riferimento alla regolazione del procedimento amministrativo nell’ambito delle istituzioni
comunitarie.
Il principio di legalità è stato definito nella sentenza della Corte del 21 settembre 1989
(Hoechst Ag contro Commissione delle Comunità Europee), nel senso che “in tutti i sistemi
giuridici degli Stati membri, gli interventi dei pubblici poteri nella sfera di attività privata di ogni persona, sia
fisica sia giuridica, devono essere fondati sulla legge ed essere giustificati dai motivi contemplati dalla legge.
Questi sistemi prevedono pertanto, seppure con modalità diverse, una protezione nei confronti di interventi
arbitrari o sproporzionati . L' esigenza di una siffatta protezione deve quindi essere ammessa come un
principio generale del diritto comunitario”. Il principio di legalità è il principio-guida di tutti gli altri,
riconducibili al rispetto delle regole democraticamente stabilite, esso è comune a tutti gli stati
membri seppur con diverse connotazioni storiche nelle singole identità nazionali.
Connesso al principio di legalità è il principio di eguaglianza, definito nella sentenza
della Corte di Giustizia del 19 ottobre 1977 (Albert Ruckdeschel et co. e Hansa-Lagerhaus
Stroeh et co. contro Hauptzollamt Hamburg-St. Annen ; Diamalt Ag contro Hauptzollamt
Itzehoe), che ha solennizzato il principio di eguaglianza quale principio di diritto comunitario
inteso quale divieto di discriminazione che “… va interpretato tenendo conto del fatto ch’esso e solo
l’espressione specifica del principio generale di uguaglianza che fa parte dei principi fondamentali del diritto
comunitario. Questo principio impone di non trattare in modo diverso situazioni analoghe, salvoche una
differenza di trattamento sia obiettivamente giustificata…”. Il valore dell’uguaglianza lo si rinviene in
più parti nella Costituzione europea, quale valore fondante dell’Unione (“L'Unione si fonda sui
valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto
e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a una minoranza”, art. I- 2),
ovvero quale elemento relazionale tra l’Unione e gli Stati membri (“L’Unione rispetta
l’uguaglianza degli Stati membri davanti alla Costituzione e la loro identità nazionale insita nella loro
struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali”, art.
I- 5), nonché quale substrato della vita democratica dell’Unione (“L’Unione rispetta, in tutte le
sue attività, il principio dell'uguaglianza dei cittadini, che beneficiano di uguale attenzione da parte delle sue
istituzioni, organi e organismi ”).
Un altro principio cui la giurisprudenza comunitaria ha fatto ampio ricorso è quello di
proporzionalità, inteso quale regola generale di ponderazione tra gli interessi pubblici e
quelli privati nel senso di un sacrificio nella misura strettamente necessaria. Autorevole
dottrina lo ha definito “…un principio ad ampio spettro di applicazione, incentrato sul rispetto
dell’equilibrio tra obbiettivi perseguiti e mezzi utilizzati, che riguarda in egual modo l’azione della Comunità
e l’azione degli Stati membri. In tal senso, le pubbliche autorità non possono stabilire obblighi e restrizioni
alla libertà degli interessati in misura diversa da quella necessaria nel pubblico interesse per raggiungere lo
scopo cui è preposta l’autorità responsabile…”) [M. P. Chiti, Diritto Amministrativo Europeo, Giuffrè,
Milano, 1999]. Il riferimento al principio di proporzionalità talora si rinviene in estrema
simbiosi con quello di sussidiarietà, allorché l’elaborazione letterale del Trattato di
Amsterdam in uno dei suoi allegati sottolinea che “ciascuna istituzione assicura, nell'esercizio delle
sue competenze, il rispetto del principio della sussidiarietà. Assicura inoltre il rispetto del principio della
proporzionalità, secondo il quale l'azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il
raggiungimento degli obiettivi del trattato” (Protocollo
sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di
proporzionalità).
Sull’obbligo di motivazione, la Corte di Giustizia ha ricordato che “la mancanza o
l'insufficienza della motivazione rientra nella violazione delle forme sostanziali, ai sensi dell'art. 230 CE, e
costituisce un motivo distinto da quello che verte sulla legittimità nel merito dell'atto impugnato, riguardante
la violazione di una norma di diritto relativa all'applicazione del Trattato ai sensi del medesimo articolo (v.,
in tal senso, sentenze 2 aprile 1998, causa C-367/95 P, Commissione/Sytraval e Brink's France, Racc.
pag. I-1719, punto 67, e 30 marzo 2000, causa C-365/97 P, VBA/Florimex e a., Racc. pag. I-2061,
punto 114)”.
L’art. 253 del Trattato che istituisce la Comunità Europea (testo cons.),
prescrive l’obbligo di motivazione per gli atti, anche a valenza generale, adottati dal Consiglio
o dalla Commissione ma la giurisprudenza lo ha configurato quale principio generale (ex
multis, sentenza Nolt, 20.3.1959, causa 18/57; Tribunale di primo grado, sentenza 17.6.1998,
causa T-174/95).
Tutti gli atti delle istituzioni europee, secondo il principio della certezza del diritto,
devono essere chiari, precisi e portati a conoscenza dell'interessato in modo tale che questi
possa sapere con certezza da quale momento l'atto stesso esiste ed è produttivo di effetti
giuridici. Il predetto principio è visto quale complementare a quello di legittima aspettativa.
Quest’ultimo fino ad oggi è stato mediato dal principio della buona fede che ha stentato ad
affermarsi. Il principio di legittima aspettativa o affidamento, che affonda le sue radici
proprio nell’ordinamento comunitario, così come ripreso dalla Costituzione europea, è molto
di più del principio di buona fede di derivazione codicistica italiana. La giurisprudenza
europea è granitica nell’affermare che “la revoca di un atto amministrativo favorevole è generalmente
soggetta a condizioni molto rigorose. Quindi, pur se è innegabile che ogni istituzione comunitaria che accerta
che un atto da essa appena emanato è viziato da illegittimità ha il diritto di revocarlo entro un termine
ragionevole con effetto retroattivo, tale diritto può essere limitato dalla necessità di rispettare il legittimo
affidamento del destinatario dell'atto che può aver fatto affidamento nella legittimità dello stesso. A questo
proposito, il momento determinante per stabilire quando nasce il legittimo affidamento del destinatario di un
atto amministrativo è la notifica dell'atto e non la data dell'adozione o della revoca dello stesso. Una volta
acquisito, il legittimo affidamento nella legittimità di un atto amministrativo favorevole non può poi venir
scalzato” (v. sentenza De Compte 17 aprile 1997, causa C-90/95 P, con nota di A. Damato, in Il
Diritto dell’Unione Europea, n. 2/99, pp. 299 e ss.).
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L’art. 1 comma 1-bis della novellata L. n. 241/90, stabilisce che “La pubblica
amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato
salvo che la legge disponga diversamente”. Ad una prima lettura la disposizione sembrerebbe essere
l’espressione rivoluzionaria della prevalenza del diritto privato sul diritto amministrativo, ma
così non è; l’espressione letterale sembra ricondurre ad una modificazione dell’assetto
normativo dell’attività della pubblica amministrazione a seconda se essa interviene mediante
atti autoritativi o meno. L’uso dello strumento privatistico non esclude lo strumento
pubblicistico, l’atto di diritto privato che costituisce strumento per l’esercizio dell’attività
amministrativa rimane sotto l’alveo della disciplina pubblicistica. Ciò che rileva è l’esercizio
del potere non la forma dell’atto o del provvedimento, ossia se lo stesso soggiaccia o no a
regole di natura privatistica o pubblicistica. Tale impostazione trova specifici riscontri nella
consolidata giurisprudenza della Corte dei Conti italiana che ha ritenuto sottoposti alla
giurisdizione del giudice contabile gli amministratori di soggetti giuridici privati quali le
società partecipate dagli enti locali e della stessa Corte costituzionale allorché ha insegnato
che “il giudice amministrativo, per converso, [ha acquisito] la piena cognizione di rapporti litigiosi in cui si
applicano regole sostanziali esorbitanti dal diritto privato, anche se di essi siano parti soggetti formalmente
privati ma tenuti all'applicazione, specie in materia contrattuale, di procedure amministrative” (sentenza 5
luglio 2004, n. 204). A determinare la giurisdizione non è pertanto la tipologia di atti posti in
essere ovvero il soggetto agente (pubblico o privato), bensì la qualificazione del potere
esercitato.
La legge 15/2005 introduce l’estensione dei principi generali dell’attività amministrativa
ai soggetti privati preposti all’esercizio di funzioni amministrative. Questa disposizione
richiama in sé il principio di neutralità della forma giuridica, intesa quale incapacità del
diritto comunitario di cogliere le differenziazioni ordinamentali tra gli stati membri. Secondo
la Corte di Giustizia non rileva la “veste” in cui viene esercitata una certa attività, essa si
qualifica di tipo pubblicistico ovvero privatistico al verificarsi di taluni presupposti ad alla
presenza di determinati caratteri essenziali. Tutti i soggetti che pur non esprimendo la
propria volontà mediante provvedimenti amministrativi esercitano attività amministrativa
soggiacciono ai principi di cui alla novellata legge n. 241/90. Anche in questo caso il
legislatore con l’art. 1 comma 1-ter prende spunto dalla consolidata giurisprudenza del
Consiglio di Stato che aveva pienamente affermato, ad esempio, la legittimità dell’esercizio
del diritto di accesso agli atti e documenti detenuti da soggetti giuridici privati che esercitano
la propria attività quali “entità” della pubblica amministrazione. Detti soggetti sono
precipuamente quelli qualificati quali organismi di diritto pubblico nell’accezione comunitaria [v.
C. Biondi, M. Mascara, A. Ricciardi, op.cit, pp. 21-22 ]
pubblici.
* Segretario
comunale
ovvero gestori o concessionari di servizi