CAPPELLANO AL FRONTE CON IL CUORE DI PACE Testimone
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CAPPELLANO AL FRONTE CON IL CUORE DI PACE Testimone
CAPPELLANO AL FRONTE CON IL CUORE DI PACE Testimone del mistero del male, vi rispose con autentica passione per la vita di Giovanni Ghislandi Don Gnocchi e la guerra. Don Gnocchi e la ritirata di Russia. Soprattutto don Gnocchi cappellano militare alpino. Molti hanno definito l’indomita resistenza del Corpo alpino italiano in Russia, nel 1943, come la più straordinaria avanzata all’indietro della storia militare. Gettate nella peggiore fornace della seconda guerra mondiale dalla superficialità e dalle scelte catastrofiche del fascismo, le penne nere hanno scritto una pagina di epico e silenzioso valore. Dal 17 al 31 gennaio 1943 - drammatico epilogo di una campagna avviata nell’estate precedente - la Tridentina, la Cuneense e la Julia affrontano centinaia e centinaia di chilometri nella neve pur di non arrendersi alle armate sovietiche di Stalin, che dopo aver intrappolato le truppe di von Paulus a Stalingrado cercano di completare l’opera con le divisioni tedesche, italiane, romene e ungheresi schierate sul medio Don. A guidare la marcia sulla neve degli alpini e di altri reparti è soprattutto il desiderio di tornare a casa: più che l’amor di patria, li guida la fedeltà ai monti e alle valli da cui provengono. Fra loro c’è anche don Carlo Gnocchi, cappellano della Tridentina. Questo esile sacerdote, più che quarantenne, di salute cagionevole ma dal carattere forte quanto la fede, si salverà miracolosamente dall’ecatombe della ritirata. Si cammina, si combatte e si muore a quaranta gradi sotto zero. A volte si arranca per dodici ore nella sterminata steppa di ghiaccio e poi bisogna andare all’arma bianca per conquistare una povera isba in cui ripararsi per qualche ora. Si pregano Dio e i santi del cuore per tornare a casa vivi. L’ultima grande azione di sfondamento degli italiani è a Nikolajevka, il 27 gennaio del ’43, che segna per molti di loro la salvezza. Alla fine saranno più di centomila i soldati dell’Armata Italiana in Russia (Armir) che non faranno ritorno; oltre trentamila coloro che ne porteranno un ricordo indelebile nelle carni. E anche per gli scampati ci sarà comunque l’esistenza segnata. Questa tragica esperienza, maturata assistendo gli alpini feriti e morenti e raccogliendone le ultime volontà, e la precedente esperienza di cappellano nella campagna di Albania spingono don Gnocchi, una volta in patria, a dare un senso alle parole da lui profeticamente scritte nel 1942: «Sogno di potermi dedicare per sempre ad un’opera di Carità, quale che sia, o meglio quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia carriera…». Sta qui la spinta che lo porta a realizzare una grande opera di carità che troverà compimento, dopo la guerra, nella Fondazione Pro Juventute. Proprio questo vissuto in prima persona porta don Carlo a scrivere in mezzo al dramma del secondo conflitto mondiale il suo capolavoro letterario, “Cristo con gli alpini”. Un libro denso di pensieri ancora oggi di sconcertante attualità: «La guerra nasce da un disordine morale, molto prima che da uno squilibrio economico, o da una perturbazione dall'ordine politico - vi si legge -. La guerra nasce dalla colpa. Quello che conduce inesorabilmente al conflitto è la superbia e l'egoismo delle nazioni potenti, la cupidigia e l'ottusità dei popoli ricchi, l'odio artificialmente acceso tra le nazioni e le razze, la sfiducia e l'instabilità dei rapporti internazionali, l'arbitrio di quelli che governano, l'edonismo che mina le basi della vita individuale e fa decadere quella delle nazioni, la prepotenza, l'ingiustizia, la menzogna, l'invidia, la calunnia, in una parola, tutto il triste corteggio delle passioni e delle colpe umane. La guerra è un momento di distacco dell'uomo da Dio, come legge morale, e un temporaneo abbandono degli eventi storici alla logica inflessibile dell'errore». Monsignor Del Monte: «Sconfisse la morte bianca» Questo fu don Gnocchi: un prete in guerra con il cuore di pace. Il simbolo della “sua” guerra in Russia è rappresentato da una piccola chiesa in legno con tanto di campanile inaugurata a Dolsich nel Natale del ’42. La sua fede convince non solo gli alpini a realizzare quest’opera in soli quindici giorni, ma anche gli abitanti del luogo. Monsignor Aldo Del Monte, anch’egli cappellano militare in Russia e successivamente vescovo di Novara, recentemente scomparso, dedica queste parole all’esperienza di don Carlo in Russia: «Ripenso allo scontro con il mistero del male, che si placa nella croce di Gesù, dove don Carlo trova il riscatto del dolore innocente. Quello scenario di guerra in Russia è lo scatenamento diabolico di tutte le potenze che possono dare la morte: la fame, il freddo, il congelamento all’addiaccio, la ferocia delle armi, il camminare quando non se ne può più; tutto il cosmo fattosi cattiveria infernale che ti chiude il cuore, ti toglie il respiro ti soffoca la voce, ti lascia due occhi pungenti che perlustrano come chiodi la coltre bianca della steppa e a chi passa - ma passa ancora qualcuno? - gridano che stai morendo. Il Signore aveva consentito che fin dai primi passi di quel tragico inverno del ’43 don Gnocchi si trovasse a fare i conti con la morte bianca… La santità di don Carlo è di tutta la vita; il suo carisma vero per dare la vita che nasce in quello scontro infernale con il mistero del male o della morte. Se don Gnocchi non fosse stato di persona il testimone di quel mistero del male e non si fosse miracolosamente - lo dice lui stesso - salvato da quella furia diabolica di morte, non sarebbe stato preso da quella “passione divina per la vita”, da trasformare la sua sopravvivenza in un così originale mistero per la gloria di Dio». Monsignor Enelio Franzoni: «Sorretto dalla forza di Cristo» Monsignor Enelio Franzoni, cappellano militare emerito e reduce di Russia, medaglia d’oro oggi novantatreenne, lo ricorda con parole commosse: «Nella ritirata di Russia c’era anche don Carlo Gnocchi come cappellano degli alpini. Preso fra gli stenti, a un certo momento non ce l’ha fatta più. È stato trovato in mezzo alla neve come tanti altri, un punto nero in mezzo alla massa bianca che diceva: “Lasciatemi qui, andate pure. Io non ce la faccio più”. Ma qualcuno, guardando bene, l’ha riconosciuto: “Ma questo è don Gnocchi!”. E l’hanno caricato su una slitta insieme a tanti altri: era stracolma, ma per don Carlo un piccolo spazio fu trovato. I cappellani nella campagna di Russia sono stati diversi, uno più bravo dell’altro, ma non certamente santi come don Gnocchi: egli è stato sorretto da questa forza, da Cristo Signore. È da Lui che ha preso l’idea di tutte le meraviglie che ha compiuto ed ha trovato in Lui la forza di continuare ancora a camminare, da Cristo Signore che gli ha fatto sentire la Sua stessa compassione per il dolore umano, soprattutto per il dolore dei bambini». Mario Rigoni Stern: «Segni di croce sugli alpini» Struggenti le parole di Mario Rigoni Stern, anch’egli alpino della Tridentina, reduce di Russia e autore di libri famosi come “Il sergente nella neve”: «Chissà quante volte, don Carlo, in quelle notti o in quei giorni ci siamo sfiorati. Noi del 6° eravamo davanti a fare punta di rottura e dopo ogni battaglia si doveva riprendere il cammino per non permettere all’avversario di richiudere la porta appena aperta e così da far proseguire nel varco la lunga colonna. Tu, don Carlo, poiché non c’era il tempo, né era possibile seppellire le spoglie dei nostri compagni, raccoglievi i piastrini di riconoscimento. E benedivi e assolvevi in articolo mortis noi che andavamo avanti. A volte, nelle tue memorie di quei giorni, quando le ragioni dello spirito apparvero come steppa immane, il tuo essere uomo di grande fede e di profonda cultura ti prendeva la mano; ma il tuo spirito di uomo responsabile ti fa scrivere: “Ma non è forse spietato quello che sto per dire? Non è bene che le madri ignorino per sempre la sofferenza dei loro figli? Eppure se la memoria dei morti deve essere sacra e il loro sacrificio indimenticato, se qualche peso di giustizia deve avere per noi e per essi il sangue versato, bisogna pure che si sappia!”. Ciao don Carlo. Mi sembra di rivederti su un dosso della steppa, solo, staccato, affaticato, incrostato di neve e con una coperta sulle spalle tracciare con fatica un segno di croce su una lunga fila di alpini in cammino e poi anche tu riprendere la strada. Dopo tanti anni quella tua benedizione ancora me la porto addosso e spero mi giovi nell’ultima ora per farmi da lasciapassare verso l’ultimo presidio». L’avvocato Peppino Prisco: «Un faro per la nostra Italia» Anche l’avvocato Peppino Prisco, già vicepresidente dell’Associazione nazionale alpini e reduce di Russia, scomparso nel 2001, era legato da profondo affetto a don Carlo. Così lo ricordava: «Nel giugno ’42 la incontrai alla stazione di Milano: al mio saluto affettuoso lei rispose con altrettanto affetto: “Sunt adrée a partì per la Russia”. Potevo dire anch’io quelle parole, ma non ne ebbi il tempo, o l’emozione mi bloccò. Poi ci furono i lunghi e tremendi mesi sul fronte russo: Iddio volle che in pochi riuscissimo a tornare. Venni a trovarla e nonostante il suo invito al “tu” più intimo tra ufficiali, io continuai con il più deferente “lei”: mi parlò del suo progetto di assistenza ai mutilatini che stava già realizzando e che ai più, ai troppi orientati soltanto a lucrare, sembrava un compito impossibile. Ma sappiamo tutti come lei ci riuscì. Incontrando il Santo Padre insieme con la “sua” Fondazione mi sono sentito come quando, diciottenne, avevo conosciuto lei… Poi tornando a Milano, ho pensato alle tante miserie dell’Italia di oggi, vittima di un lento, progressivo e inesorabile decadimento non solo economico, ma anche e soprattutto civile e morale. Quanto ci manca un don Gnocchi, come sarebbe importante per noi avere uomini della sua forza d’animo, della sua levatura morale e della sua fede: potremmo finalmente immaginare un futuro migliore. Speriamo che tu, don Carlo (finalmente accolgo quel lontano appello!) possa dall’alto, con le tue preghiere, consentire a noi che siamo sopravvissuti a tante vicende in guerra e in pace di intravedere qualcosa di positivo per i nostri figli, per la nostra Italia».