La Russia è immensa. Immensa significa, solo in questo caso, che

Transcript

La Russia è immensa. Immensa significa, solo in questo caso, che
La Russia è immensa. Immensa significa, solo in questo caso, che non accetta il nostro sguardo e la
conoscenza che esso reca. La Russia si può guardare ma non capire: non ha confini, non ha
dimensioni a misura d’uomo, non conosce i limiti. Si direbbe che la natura abbia voluto questa
terra per mettere alla prova i santi che cercavano di percorrerla o, più semplicemente, per
mostrare ai sensi un frammento di eternità. La Russia è madre perché in essa ti perdi nell’abbraccio
degli elementi. Ed è incomprensibile perché è impossibile misurarla, catalogarla, ridurla in un
catasto.
Gli eserciti non riescono a vincere la Russia. Entrano trionfanti, possono anche illudersi come
Napoleone di averla conquistata, ma poi si arrendono. I nostri alpini se ne accorsero durante la
Seconda guerra mondiale: erano gli elementi e lo spazio l’armata imbattibile che li stava
ostacolando. Uno di essi, un cappellano dal cuore immenso ha scritto: «Chi non è mai stato in
Russia, come chi non è mai stato in alto mare, non sa cosa significhi la rotondità della Terra e la
pienezza completa di un emisfero celeste».
Si chiamava don Carlo Gnocchi. La frase è in questo libro che viene riproposto.
Cristo con gli alpini non è un’opera qualunque. Non è, insomma, un diario, un resoconto, una
cronaca, una confessione, ma è un atto di fede gettato nella follia della guerra, un gesto di
speranza dedicato a coloro che ormai non ripetevano più questa parola, uno slancio d’amore che
replica ai colpi della violenza. Per questo don Carlo porta Cristo al fronte, o meglio lo conduce nella
disperazione degli accerchiamenti dove si consumavano le ultime forze. Prosa semplice, piccoli
esempi e un cuore immenso fanno di questo libro un documento prezioso.
Le pagine dedicate a Giorgio, il bambino che ha perso tutto e poi muore, sono più eloquenti di tutte
le analisi degli storici. Leggendole si capisce perché «tocca alla morte rivelare profonde e arcane
somiglianze»; perché nei loro corpicini senza vita era racchiusa la vera condanna della guerra, il
prezzo «per le colpe di tutti». Con un incedere commovente, don Carlo Gnocchi vedendo il piccolo
corpo di Giorgio lascia sulle pagine queste frasi piene di verità che mancano ai trattati: «Quante
volte l’avevo già incontrato nella mia vita di guerra! Nella ferale teoria dei fanciulli in attesa degli
avanzi del rancio o randagi a cercarlo fra le immondizie; nei bambini febbricitanti e morenti sui
miserabili giacigli delle isbe russe o dei tuguri albanesi; nei cadaveri stecchiti dei bimbi morti di
fame o di pestilenza, sulle strade della Russia, della Croazia o della Grecia». Giorgio era diventato
uguale a tutte quelle vittime innocenti travolte dalla guerra, che continuarono la loro agonia
quando le armi tacquero e gli eserciti si allontanarono.
Lo sguardo di don Carlo è dedicato ai suoi alpini, alla popolazione incontrata, ma si carica di
commozione con questi bambini. I soldati cercano di rompere l’accerchiamento, le loro canzoni
alleviano le immense solitudini di una disperazione, ma i bambini mutilati non gli concedono pace.
Il suo spirito e il suo cuore ritornano in quella infelicità concreta dei loro corpicini mutilati. Mezzo
secolo prima, nella medesima terra che a un certo punto don Carlo chiama per disperazione
«lurida», uno scrittore tra i più grandi, Fedor Dostoevskij, chiese direttamente a Dio: «Signore,
perché i bambini muoiono?». Non ebbe risposta. Rifece la domanda, più volte. Don Carlo ritraduce
il quesito con il piccolo Bruno. Si chiede, gli chiede: «Ora, piccolo Bruno, come farai?». E due righe
più avanti: «Come potrai fare senza manine?».
Il libro si chiude con questa domanda che, anche in tal caso, non è seguita da una risposta. Tuttavia
noi la conosciamo: è il resto della vita di don Carlo a fornircela. Insomma, tornato dalla Russia,
accomiatatosi dai suoi alpini, diede vita a quell’opera che continua ancora oggi sorretta dal
miracolo del suo amore. Dedicò se stesso ai mutilatini e ai piccoli invalidi di guerra, fondando per
essi una vastissima rete di collegi. All’infanzia derelitta e minorata rispose agendo, facendo,
cercando di alleviarne i problemi. Per molti aspetti la sua vita spiega quelle domande che si pose al
tempo di guerra. Come dire: partì con gli alpini, riuscì a fare il sacerdote in Russia, conobbe gli
orrori dei massacri, si pose domande alle quali non c’erano risposte e poi mise tutto nelle mani di
Cristo.
Noi crediamo che le soluzioni ai grandi quesiti debbano osservare le leggi della logica. Ma questo
vale nei manuali o per gli esercizi; in realtà le risposte non seguono - quando riguardano le
massime questioni - nessuna regola. Nelle scienze, di solito, occorrono delle scoperte per
soddisfarle; nella sofferenza e nel dolore esse sono, quasi sempre, recate dalla fede. Don Carlo
portò Cristo con gli alpini e tornò aiutando i bambini colpiti. Dostoevskij si era chiesto perché coloro
che non hanno peccati debbano sentire il dolore e il male, e un cappellano militare mezzo secolo e
qualche anno dopo rispose costruendo qualcosa per aiutare chi soffriva. C’è da smarrirsi, ma non
esiste un’altra spiegazione possibile.
Riproporre Cristo con gli alpini significa conoscere un po’ di più la guerra e la Russia, soprattutto
queste pagine spiegano l’inizio di un miracolo. Ha scritto don Carlo, tra l’altro: «Ogni opera
dell’uomo naufraga silenziosamente in questa uguaglianza monotona e sterminata». Di chi stava
parlando? Certo, della Russia, ma forse anche di lui stesso. Nella ritirata, dove i soldati erano
«mucchi di stracci che si trascinavano», «larve inebetite dal freddo e dalla fame», quegli spazi
infiniti hanno acceso in un cappellano un’idea d’amore. Non è il caso di spiegare ulteriormente
perché, come sempre, essa si vede ma non si dimostra, si tocca ma non si afferra.
Armando Torno