Carità della notte.qxd - LA GIOIA È UN TURBINE DI QUIETE

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Lorenzo Gobbi
Carità della notte
sul tempo e la separazione
in alcune poesie di Paul Celan
una lettura personale
servitium
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Collana di spiritualità
del Priorato di S. Egidio
Via Fontanella - 24039 Sotto il Monte BG
tel. 035.791227 - fax 035.792030
e-mail: [email protected]
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© copyright 2007
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Copertina di Rinaldo Cutini
In copertina: Afro, Rocca di Susans (part.)
Finito di stampare nel maggio 2007
dal Villaggio Cristo Redentore s.r.l.
94018 - Troina (EN)
tel 0935 657813
fax 0935 653438
a fr. Lino, monaco di Bose:
a testimonianza del bene
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NOTA
Il testo tedesco è tratto da Paul Celan, Poesie, a cura e
con un saggio introduttivo di Giuseppe Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998 (trad. di G. Bevilacqua), che ne raccoglie l’opera completa, ad eccezione delle poesie custodite dagli eredi e messe solo di recente a disposizione del
pubblico. Salvo diversa indicazione nelle note a pie’ di
pagina, le traduzioni italiane, laddove le liriche citate siano tratte dall’edizione da lui curata, si intendono di Giuseppe Bevilacqua.
Il secondo gruppo di poesie di Celan è ora accessibile
in Paul Celan, Sotto il tiro di presagi, a cura di Michele
Ranchetti, Einaudi, Torino 2001 (trad. di M. Ranchetti).
Anche per quel che riguarda le liriche tratte da questo volume, salvo diversa indicazione nelle note a pie’ di pagina,
si sono utilizzati sia la traduzione del curatore, sia il testo
tedesco ivi riportato.
Al citato Paul Celan, Poesie, al di là di quanto indicato
nelle note e nell’«Appendice» al presente volume, si rimanda non solo per qualsiasi ulteriore notizia bio-bibliografica su Celan, ma anche per altri aspetti riguardanti le
liriche prese in esame. Si vedano, in particolare, Giusep-
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pe Bevilacqua, «Eros - Nostos - Thanathos. La parabola
di Paul Celan», pp. IX-CXX; Mario Specchio (a cura di),
«Cronologia», pp. CXXXI-CLX; Giuseppe Bevilacqua, «Note», pp. 1361-1395; Giuseppe Bevilacqua, «Bibliografia»,
pp. 1397-1441.
Nel corredo di note, la prevalenza è stata intenzionalmente accordata all’ambito ebraistico piuttosto che a
quello squisitamente germanistico, più noto e facilmente
accessibile; la bibliografia indicata è limitata ai soli testi in
lingua italiana o reperibili in traduzione.
Nella traslitterazione dei termini ebraici, per non intervenire sulle citazioni, si è in genere adottata la forma di
volta in volta presente nella fonte utilizzata, evitando di
omologarla alla traslitterazione delle medesime parole in
altri contesti.
PREMESSA
Incontrai le poesie di Paul Celan alla metà degli anni
’80: parole frante, criptiche, quasi illeggibili – eppure, indiscutibilmente vere. Compresi più tardi che il
mistero del loro pudore è un estremo desiderio di
verità: una gratuità disarmante. Ne nacque un colloquio intenso, misurato, che durò molti anni1 – e poi,
1 F. Camera, «Introduzione», in H.G. Gadamer, Chi sono
io, chi sei tu. Su Paul Celan, Marietti, Genova 1989 (trad. di F.
Camera), p. XV- XVI: «[...] va sempre tenuto presente che l’obiettivo del comprendere non è quello di arrivare ad una spiegazione definitiva del testo, bensì il “prender parte” ad un processo infinito che porta ad ampliare lo spazio di risonanza del
testo e ad arricchire di senso quanti partecipano a questo processo. [...] L’interprete non tende infatti a costruire un ‘suo’ testo nella forma di un commento da porre estrinsecamente vicino al testo che interpreta, ma in atteggiamento di pietas e r m eneutica si pone esclusivamente a servizio del testo. Così nel momento di maggior avvicinamento al testo, in cui si realizza quella “fusione di orizzonti” che qualifica ogni vero comprendere,
la parola dell’interprete non si separa completamente dalla parola del poeta per porsi autonomamente accanto ad essa, ma
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un nuovo colloquio, serrato e segreto, a cui mi dedicai febbrilmente per mesi e mesi, senza altra occupazione – e al quale tornai a più riprese, fino a oggi.
Vorrei raccontare qui una parte di ciò che ne ho
avuto – a testimonianza del bene.
I giorni – quei giorni – erano duri, tremendi. Vuoti in larga parte – e gonfi di pianto. Una vicenda terrestre, una storia come tante: Paola, mia moglie, era
torna a “fondersi” col testo poetico. Infatti “l’interpretazion e di
una poesia è esatta solo quando alla fine è in grado di scomparire completamente perché è entrata a formare una nuova esperienza della poesia stessa”».
G. Bevilacqua, «Introduzione», in P. Celan, Luce coatta ed altre
poesie postume, Mondadori, Milano 1983 (trad. di G. Bevilacqua), pp. XII-XIII: «Si deve dunque ammettere che non tutto
l’ermetismo, tutt’altro che tutto, ma per esempio quello di Celan possa essere manifestazione di un’esigente volontà di essere
capiti. In tal modo s’intenderà l’atteggiamento risoluto, quasi
insofferente assunto da Celan riguardo al problema della sua
oscurità, il suo richiamarsi al professato manque de clarté pascaliano. Come altri poeti del nostro secolo – e dunque non è un
caso – Celan da un lato ha insistito che nulla, nei suoi versi, è
campato nell’aria, è privo di un rapporto preciso con l’esperienza; dall’altro lato, egli si è mostrato parecchio riluttante a fornire
chiavi di lettura (e già l’espressione mostra quanto la pretesa sia
sbagliata, se è vero che un giro di mano non può aprire porte
celesti). [...] Bisognerà allora piuttosto riflettere sulla risposta
data da Celan ad uno di questi lettori ansiosi di spiegazione:
“Lesen Sie! Immerzu nur lesen, das Verständnis kommt von selbst...”, risposta che pare banalmente elusiva mentre non lo è. Che
significa infatti che la comprensione viene da sé, attraverso la
frequente lettura? Appunto la rivelazione di un sistema di significati, che si son voluti inscrivere con il minimo sperpero di materia possibile. Chiunque abbia seguito il consiglio del poeta è
stato da lui infallibilmente compensato. Celan è uno di quei
poeti rari, nei quali ogni nuova lettura dona più della precedente; non si va per esaurimento, con lui, ma per accrescimento».
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morta in una notte d’inverno, poco più che trentenne, dopo una lunga malattia.
Non sapevo nulla del mondo a venire, né sospettavo che mai un mondo nuovo sarebbe esistito. Mi
aggiravo sperduto con lo sguardo, timoroso anche
solo di muovere un passo. Si apriva, per me, una terra di tempo: paese d’istanti dagli orizzonti confusi,
rilievi e pianure ancora indistinti, alberi e fiumi, senza nessun presagio di casa.
Senza testimoni – per istinto di vita – leggevo Celan e la Dickinson, la Dickinson e Celan. Del primo
anno, non ricordo quasi nulla – solo questo: la Dickinson e Celan, Celan e la Dickinson. Alla Dickinson chiedevo cosa fosse mai la gioia, e in che cosa
potessi sperare – le scrissi una lunga lettera, raccontandole della sua vita, non della mia; le parlavo per
giorni, come a un’amica lontana; la incalzavo con le
mie domande; formulavo personalissime ipotesi. Da
Celan, invece, mi lasciavo narrare il dolore della separazione: esattamente ciò che avevo vissuto.
Mi recai al monastero di Bose, appena dopo il
giorno in cui vidi calare una bara nella terra pronta,
ferita: rimasi là dieci giorni. C’ero già stato, con lei,
nell’estate precedente, dopo il trapianto che avrebbe
dovuto salvarla almeno per un po’. Consumato il
congedo, mi era impossibile dire a Dio: B e -s.el kenafeka, «all’ombra delle tue ali»2 – per me, l’ombra era
ben altro. Mi confortava pur sempre sapere che essa
può mutarsi in frescura perenne, terrestre e celeste –
saperlo, non crederlo: il tempo muore, il tempo sa
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Salmo 63, 8.
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morire. Da allora, rifletto su questa verità: vivo scandendo gli anni e i mesi. Il capodanno, le feste, gli anniversari non mi sembrano artifici dell’uomo, ma
confidenze dell’orbita eterna: doni del tempo perché la coscienza stupisca, e la mente provata riposi –
e i giorni si offrano ai vivi, nascano in loro ancora
una volta. A Ro’š ha-šanah, il capodanno ebraico, seguono i giorni della t esˇu v a h: del ritorno a se stessi e
a Dio, della dura purificazione del cuore - in terrori
d’esilio. Dieci giorni a Kippur: al perdono che compie l’opera di grazia. Ce ne vollero sei per la prima
creazione. (Amo e conosco ciò che è ebraico, credo
nel Dio della Torah.)
Fratel Lino, monaco, mi diceva spesso che dobbiamo attendere, il fiato sospeso: restando nell’ombra. Mi prendevo il viso tra le mani, perché tanto
era rimasto nell’anno trascorso – così tanto era là,
nel mondo perduto... Gli rispondevo, comunque,
che forse è così: sempre siamo nudi, come appena
creati; eppure, la pelle reca segni. Tutto ciò che è finito, annientato per sempre – Lino ne era certo – lo
ritroveremo presto: vivo, tra le nostre mani.
***
Constatai a Bose, in quei giorni, che i versi di Celan sono parole per noi, e che sanno cercare una singola esistenza. A sua volta, la mia stessa vita mi ha
sorpreso dimorando tra loro: dotata di un nome,
d’una forma e di un senso. Ho ascoltato, e ripetuto
incredulo: una voce attraversava i tempi e raccontava una storia vera, realmente accaduta. Ho riconosciuto me stesso nella verità degli istanti, inconfon-
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dibili tra tanti altri; ho ritrovato la libertà sconcertante dei fatti, con le ragioni inappellabili del vero e l’enigma della mia identità. Ho voluto ascoltare.
Ascoltai, e scrissi fin da allora – quaderni di appunti, come un lungo racconto: la storia di lei e della
sua morte – la storia di lei, di me e della sua morte.
Nelle poesie di Paul Celan.
Passò del tempo, ripresi e riordinai gli appunti:
cercai di nascondermi anche a me stesso nel tono
saggistico, nel massimo rigore filologico ed ermenuetico a cui potessi arrivare; mi mascherai nella terza persona, nella prima plurale e poi nella compilazione di un vasto corredo di note. Mi concentrai sul
rapporto tra Celan e la cultura ebraica dell’Europa
orientale, soprattutto hassidica. «Le cose importanti
– era lei a suggerirlo, la donna che piangevo com’era
giusto piangere – si dicono solo facendo finta di parlare d’altro».
Rividi e ridussi più volte quella prima stesura,
dal 1998 fino a due anni fa: solo allora cominciai a
narrare in prima persona – ancora, però, con ombre
e reticenze. In occasione della Pasqua 2003, mio
fratello Pier Paolo (sempre sollecito, acuto, benefico in tutto ciò che fa) mi regalò un libro apparso di
recente in traduzione italiana: Di’ che Gerusalemme
è. Su Paul Celan: ottobre 1969-aprile 1970, di Ilana
Shmueli3. Vi lessi:
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Quodlibet, Macerata 2002, a cura di J. Leskien e M. Ranchetti.
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Celan voleva che le sue poesie fossero lette, vissute e
capite nel modo più personale; per questo penso spesso che mi avrebbe perfino incoraggiato a scrivere il
mio racconto, proprio perché ciò che scrivo deriva dal
mio particolare punto di vista. Questo lo avrebbe accettato. Forse…
Celan non parlava mai delle poesie che mi trascriveva
e mi leggeva – parlava con esse.
«Disponiti all’ascolto», in assonanza allo yiddish «Her
sich ejn», la lingua familiare – prendilo con te, con la
bocca, ciò che hai udito, ciò che c’è da sentire di nuovo; aspiralo – e ciò che è da indovinare sarà tuo.
Le mie poesie implicano il mio ebraismo4.
La sera dopo, ripresi il manoscritto.
Ero stato esaudito: Celan aveva raccontato, e io
con lui.
Semplicemente, in quel tempo, le parole di Celan
avevano cercato le mie mani in modo nuovo. Si erano affidate, proprio allora, a me che le amavo da
tanto: non per essere aperte o colpite, ma soltanto
accarezzate. Si erano offerte “per ritrarsi subito”, in
un gioco sottile tra ciò che è “visibile” e ciò che è
“invisibile” – «ambiguità, lampeggiare del significato, enigma»6. Ciò che vi trovai non fu un significato
ma un senso che mi coinvolse in prima persona 7.
Spiega Mark-Alain Ouaknin:
Definiamo questo modo di essere, questo rapporto
con il testo, “carezza”. «La carezza consiste nel non
***
Senza saperlo, anni fa, a Celan avevo rivolto una
preghiera – con le sue stesse parole:
Conta le mandorle,
conta ciò che era amaro e ti fece vegliare,
conta insieme anche me.
[...]
Fammi amaro.
Conta con le mandorle anche me5.
Shmueli, Di’ che Gerusalemme è, cit., pp. 15; 31; 47; 83.
P. Celan, Poesie, a cura e con un saggio introduttivo di G.
Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998 (trad. di G. Bevilacqua),
p. 130, vv. 1-3; 15-16: «Zähle die Mandeln, / zähle was bitter
war und dich wachielt, / zähle mich dazu: // […] Mache mich
bitter. / Zähle mich zu den Mandeln».
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6 M.-A. Ouaknin, La “lettura infinita”. Introduzione alla meditazione ebraica, ECIG, Genova 1998 (trad. di O. Di Grazia), p. 97.
7 Si veda Ouaknin, La “lettura infinita”, cit., in special modo
alle pp. 87-91; 97-98; 105-109. G. Bevilacqua, «Introduzione»,
in P. Celan, Luce coatta, p. XII: «La questione di “quanto bisogna sapere per capire Celan” è mal posta [...]. Il problema è
piuttosto quali cose bisogna sapere: il minimo e l’essenziale, si
direbbe, in modo da avviarsi alla lettura con il piede giusto, senza calpestare inutilmente aree di significato che vogliono restare
allusive, senza distruggere insomma il valore comunicativo e
predicatorio della reticenza in cui sono immersi, e talora sommersi, gran parte dei testi». Per chiedere conto ai versi di Celan
della loro reticenza, tutt’uno con la disarmante oscurità che li
accompagna, forse è bene cercare risposte nel circolo ermeneutico in senso lato “midrashico” in cui sembrano volersi iscrivere,
cioè nell’intenzione implicita di coinvolgere esistenzialmente il
singolo lettore, chiunque egli sia, nella referenzialità dei testi
stessi. Questo fatto, però, sembra rimandare ad una dimensione
ancora più vasta: alla verità che le liriche colgono ed esprimono
con l’esattezza della constatazione.
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impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge
continuamente dalla sua forma verso un avvenire –
mai abbastanza avvenire – nel sollecitare ciò che si
sottrae come se non fosse ancora». Insomma, la carezza è ricerca. In questa ricerca, la carezza non sa ciò
che cerca8.
La mia lettura devota e silenziosa era già stata simile a un m i d r asˇ: colloquio incessante perché libero
e aperto alla molteplicità dei sensi che mi chiamavano per nominarmi a loro volta – che ancora oggi
sciamano lievi per me dalle mani dell’ebreo di Czernowitz, fratello e signore della «parola-che-apre-enasconde, luce e segreto»9. Il m i d r asˇ è lettura-ricer-
Ouaknin, La “lettura infinita”, cit., p. 97.
Ouaknin, I v i, p. 107. Notano A.C. Avril - P. Lenhardt, La
lettura ebraica della Scrittura con antologia di testi rabbinici, introduzione, trad. e note di A. Mello, Qiqajon, Biella 19892), p.
52: «L’apertura del senso operata dal midrash non può mai pervenire alla chiusura su di un senso unico» [il corsivo è degli autori, n.d.r.]. Per una succinta ma precisa introduzione al concetto
di midrash e alla sua storia, si veda G. Limentani, «Il Midrash»,
in Torah e Filosofia. Percorsi del pensiero ebraico, a cura di D. Di
Cesare e M. Morselli, La Giuntina, Firenze 1993, pp. 17-28.
Non dobbiamo stupirci: Celan stesso, nel discorso che tenne a
Brema nel 1958, indicò con indubitabile chiarezza il luogo perduto dal quale era giunto – «il paesaggio in cui stava di casa una
parte non trascurabile di quelle storie chassidiche che Martin
Buber ha rinarrato in tedesco a tutti noi. [...] – era una contrada
in cui vivevano uomini e libri»; si veda Bevilacqua, «Eros - Nostos - Thanatos», cit., pp. XIV-XV. Si tratta del mondo rievocato,
ad esempio, da I. Bashes Singer, Racconti, a cura e con un saggio
introduttivo di A. Caviglion e uno scritto di G. Pontiggia, Mondadori, Milano 1988 (trad. di A. Bassan Levi - M. Biondi - G.
Luzzani - A. Ravano), e da J. Roth, Ebrei erranti, Adelphi, Milano 1985 (trad. di F. Bussotti); lo hanno indagato, tra gli altri, C.
Magris, Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orien8
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ca, amorosa e coinvolgente, capace di portare continuamente a compimento ciò che sta scritto nell’esistenza concreta di chi legge, in una forma che si rinnova sempre10.
Vagando tra le poesie di Celan, avevo accolto più
volte, negli anni, un h.esed ineguagliabile: una benevolenza spontanea, un fervore purissimo, un servizio, una grazia. L’avevo riconosciuto senza esitazioni: «il modo di essere dei chassidim»11, fedeli alla parola e alla memoria, nella pazienza infinita del tempo terrestre.
tale, Garzanti, Milano 1971. Il testo a cui Celan si riferì nell’allocuzione di Brema del 1958 è accessibile in italiano nel volume di
M. Buber, I racconti dei Hassidim, Ugo Guanda, Parma 1992
(trad. di G. Bemporad). È difficile pensare che il poeta, abituato
fin dall’infanzia ad accostarsi alla Torah (e, di conseguenza, ad
ogni parola scritta) in un modo fortemente influenzato dalla tradizione rabbinica e, soprattutto, chassidica, non abbia prodotto
a sua volta testi legittimamente avvicinabili con uno stile di lettura che in qualche modo vi assomigli – nei limiti angusti in cui
ci è ancora possibile praticarlo, in altri tempi e in altri luoghi.
10 Si vedano le dense pagine di Avril - Lenhardt, La lettura
ebraica della Scrittura, cit., in particolare le pp. 37-60. La lettura
midrashica della Torah, è vero, ha come luogo naturale la comunità dei credenti, e svolge all’interno di questa una molteplicità
di funzioni; ciò che ci si propone in questo scritto – una lettura
forzatamente solitaria, in stile “midrashico”, della parola di Celan – non è da intendersi come midraš in senso stretto, ma in
senso lato.
11 A. Mello, «Introduzione», in Un mondo di grazia. Midrash
sui salmi, introduzione, trad. note a cura di A. Mello, Qiqajon,
Biella 1995, p. 11; ma si veda nel complesso, sul concetto di midraš e di h.esed, l’ottima «Introduzione» di Mello, alle pp. 7-67
del volume citato. Una splendida introduzione al movimento
chassidico, alla sua storia e alla sua spiritualità è il già citato Buber, «Introduzione», in I racconti dei Hassidim, pp. XV-LXXXIII, as-
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Il fondatore del chassidismo, Israele ben Eliezer di
Mesbiz, era detto Baal-Shem Tov: «conoscitore del
Nome Buono di Dio per antonomasia e [...] capace di
fare un uso buono del santo Nome divino»12.
Nessuno fu mai signore del nome d’ogni cosa più
di Paul Celan – esattamente in questo senso.
Accolsi ancora il dono: in quel tempo, nell’urgenza delle lacrime – nel terrore della separazione compiuta, nell’assurdità di una sopravvivenza che non potevo accettare. Imparai ad abitarlo mentre esso abitasieme a J. Bauer, Breve storia del chassidismo, La Giuntina, Firenze 1997 (trad. di V. Lucattini Vogelmann). Sulla concreta vita dei h.assidim (caratterizzata dal “fervore”, hitlahabut; dal “servizio”, a b o d a h; dall’“intenzione”, cavvanah e dall’“umiltà”, s c l ifut), si veda il capitolo ad essa dedicato nel vol. di M. Buber, La
leggenda del Baal-Shem, pp.13-42. Sul movimento chassidico è
fondamentale anche G. Scholem, Le grandi correnti della mistica
ebraica, Il Melangolo, Genova 1990 (trad. di G. Russo), pp. 95132; 333-354. Scholem, del resto, era amico personale di Celan:
si veda P. Celan, Conseguito silenzio, a cura di M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1998 (trad. di M. Ranchetti), pp. 72-73; 95.
12 S. Bahbout, «Il movimento chassidico», in Filosofia e ebraismo. Da Spinoza a Levinas, a cura di K. Tenenmaum e P. Vinci, La
Giuntina, Firenze 1993, p. 42. Buber, in «Introduzione», cit., pp.
XXV-XXVI, ha così sintetizzato per noi la portata del termine BaalShem: «La base naturale della loro opera è la capacità di percepire
relazioni tra le cose, al di là dei loro legami temporali e spaziali,
dunque ciò che si usa chiamare intuizione, e il loro potere è quello
di ridare forza e solidità al centro spirituale del prossimo, in modo
che quel centro sia in condizione di rigenerare corpo e anima [...]
E indica un uomo che, sul fondamento del suo rapporto col divino, vive coi suoi simili e per essi». Su Israele Ben Eliezer (17001760), si vedano anche M. Buber, La leggenda del Baal-Shem, presentazione di E. Bianchi, Gribaudi 1995 (trad. di D. Lattes e M.
Beilinson), e Bahbout, «Il movimento chassidico», cit., pp. 41-42.
18
va in me, e lo scopersi come q i d d usˇ: dono che «reca in
sé il proprio mondo. Mondo a venire che essa stessa
fonda e istituisce. [...] non esprime né testimonia un
mondo costituito: essa, infatti, lo apre e lo fonda»13.
Devo molto a Celan – e alla Dickinson: l’uno ha raccontato, l’altra si è lasciata raccontare. Forse, devo loro la mia stessa vita. (Tanta preghiera cerca ancora la
soglia interna delle labbra, nella santità della notte.
Amaro, contato anch’io tra le mandorle, mi sono trovato, paradossalmente, più solo e più vero.)
***
Ho rivisto ancora, più volte, questo manoscritto
– tagliando, correggendo, amando ancora e nuovamente: in una nuova casa, nel cuore di una nuova
stagione feconda e solare, unica.
Ho distinto due sezioni: la prima, «Come un mid r asˇ», ha un andamento saggistico, e riflette sul tempo e la separazione nella poesia di Celan; la seconda,
«Una lettura personale», contiene una parte del racconto che ho udito dalle liriche di Celan – una narrazione privata. Ho preferito utilizzare, nel testo, le traduzioni di Bevilacqua e di Ranchetti – solo alla fine
ne ho inserita una mia: «Di fronte a una candela».
Ancora, ho compreso che il tempo non ha cicli,
ma stagioni: è fatto di unicità diverse, irripetibili.
Ho benedetto ancora il mio Dio.
13 Ouaknin, La “lettura infinita”, cit., p. 107. Anche nella
poesia di Celan, l’aspetto fondativo di una realtà nuova, che
prende sostanza nella libera intimità del dialogo con il singolo
lettore, sembra sovente prevalere sull’intenzione testimoniale,
per quanto si riveli sempre imprescindibilmente legato ad essa.
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PARTE PRIMA
Come un midraš
Sul tempo e la separazione
in alcune poesie di Paul Celan
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Il Rabbi di Rizin diceva: «Questo è il servizio dell’uomo in tutti i suoi giorni, trasformare la materia in figura, purificare il corpo e far penetrare la luce nella tenebra, così che la tenebra stessa splenda e non vi sia
più separazione tra l’una e l’altra»1.
Mi è difficile immaginare un h.asid fedele a questo
compito nella misura in cui lo fu Celan: in una gratuità perfetta («si vanta la mano quando fa la volontà
del cuore?»2). La tenebra era scesa implacabile sul
mondo: sul suo, ma anche su tutta la terra. Nessuna
materia sembrava più adatta ad essere “trasformata in
figura”, né alcuna luce poteva bastare a compiere l’opera prescritta. Eppure, egli tentò con insistenza: accolse ogni tenebra e ogni luce fino ad unirle inseparabilmente in sé, per donarle in parole vive e vere.
Il pensiero hassidico si fonda su quello di Rabbi Izhak
Luria, il grande mistico vissuto a Safed all’inizio del
XVI secolo. L’idea fondamentale di Luria era che Dio
stesso – meglio la sua Šekinah, cioè la sua presenza e
immanenza – era stato costretto all’esilio e soffriva assieme al popolo d’Israele. In realtà, secondo Luria, il
processo di autoesilio di Dio sarebbe passato attraverso varie fasi. L’aspetto più rilevante del pensiero luiriano, raccolto e ampliato dal hassidismo, è quello
1
2
Buber, I racconti dei Hassidim, cit., p. 316.
Ibid.
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della ševirat ha-kelim, cioè della rottura primordiale
dei vasi in cui era contenuta la luce divina: a causa di
questa rottura, la luce, proiettata in tutto l’universo,
animato e inanimato, avrebbe lasciato ovunque le proprie tracce, cioè le scintille divine. [...] Al sapiente conoscitore della Legge, anche nei suoi minimi particolari, era di gran lunga preferibile l’uomo semplice, che
anche senza far uso della voce umana, riusciva a rompere l’indifferenza del Cielo verso l’uomo3.
Forse, il mondo creato attraverso la parola (d ab a r), avrebbe potuto nascere ancora – pur dopo l’orrore della S h o a, la “notte” per antonomasia4 – proprio attraverso la voce dell’uomo. Celan si assunse
questo compito: cercò di identificarne i limiti e di calcolarne con esattezza il raggio d’azione, assieme alla
qualità delle forze che le erano rimaste5. Separando la
luce dalle tenebre per nominarle finalmente insieme,
3
Bahbout, «Il movimento hassidico», cit., pp. 42-43. Sul
pensiero e sulla scuola luriana, si veda Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, cit., pp. 257-298; per una più succinta
ma puntuale introduzione: G. Levi, «Isaac Luria», in Torah e Fil o s o f i a, cit., pp. 99-108; per una sintesi sul chassidismo renano
in particolare, si veda L. Sestieri, «Il Chassidismo renano», in
Torah e Filosofia, cit., pp. 91-98.
4 Così la definì, infatti, il premio Nobel Elie Wiesel, La nott e, prefazione di F. Mauriac, La Giuntina, Firenze 1996 14, (traduz. di D. Vogelmann).
5 Le liriche possono essere lette come un’articolata e drammatica critica al potere della parola umana, l’unica che ancora risuonasse sulla terra – una “critica” in senso kantiano, ma a partire dal
concetto biblico di d a b a r. G e n e s i, traduzione e commento di G.
von Rad, edizione italiana a cura delle Benedettine di Civitella
San Paolo, Paideia, Brescia 1978, (trad. di G. Moretto e delle Benedettine di Civitella San Paolo), pp. 59-60: «L’idea che la creazio-
24
una voce avrebbe potuto rilegarle ancora una volta in
una mobile unità: forse, Celan coltivò in sé questa
speranza, e ne saggiò ogni possibilità. Rimase annientato, ma lasciò parole ai nostri occhi. Il colloquio con
lui ha suscitato in me un desiderio somigliante, e ancora lo alimenta: salvezza, pietà per tutte le cose; armonia, unità nel tempo smarrito e frantumato; autenticità, memoria, fedeltà; tentativi sempre nuovi.
***
Nella Bibbia ebraica «ritorna continuamente l’idea
che la lingua dà testimonianza dell’uomo interiore»:
«Posta la premessa che lingua e volontà concordino,
dalla lingua dell’uomo dipende il suo benessere; “morte e vita sono in potere della lingua” (Siracide 5, 13)»
– la voce, umana o divina che sia, ha presa comunque
sull’esistente. «Argento pregiato è la lingua del giusto» (Proverbi 10, 20), “le sue labbra non diranno mai
falsità, e la sua lingua non pronunzierà menzogna”»6.
ne si compia mediante la parola vuole esprimere da una parte la
più radicale differenza ontologica tra creatore e creatura. Il creato
non può derivare da Dio per “emanatismo”, neppure il più blando; esso non è in alcun modo emanazione o riflesso della sua sostanza, non è, cioè, di natura divina, ma soltanto un prodotto della sua volontà personale. L’unica continuità che esiste tra Dio e la
sua opera è rappresentata dalla parola (Bonhoeffer). Questa parola creatrice è diversa da tutte le parole dell’uomo; non è “vuota”
(Deuteronomio 32, 47; I sa i a 55, 11), ma potente e dotata di sublime energia». Ma si veda anche la voce «Parola», in Nuovo dizionario di teologia biblica, a cura di Rossano-Ravasi-Girlanda, Paoline, Milano 1988, pp.1097-1114, più completa e articolata.
6 Voce «Lingua», in M. Lurker, Dizionario delle immagini e
dei simboli biblici, ed. italiana a cura di G. Ravasi, Paoline, Milano 1990, pp. 112-113.
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Che una parola di verità sia il più formidabile
strumento di lotta contro qualsiasi tenebra, non è cosa che possa stupirmi; ma che essa voglia accogliere
in sé la tenebra per unirla saldamente alla luce, questo sì può destare la mia ammirazione. Vorrei farmi a
mia volta uomo di tenebra, di luce e di parola.
«Le parole della Scrittura paiono spesso sgranarsi, come per filtrare la luce di una teofania. Giunta
alle soglie del divino, la prosa ebraica indugia in immagini allusive, che si dissolvono in un bagliore»7:
così accade anche nei versi di Celan. Per la narrazione biblica e la riflessione rabbinica, la luce è l’elemento primigenio, senza limiti in se stessa: immagine purissima di Dio, entro la quale si stagliano i contorni dell’esistenza umana. «Senza la luce non c’è
creazione: solo la luce può liberare i contorni delle
creature confusi dalle tenebre. [...] Lo spazio del
mondo occupato dal caos viene subitamente e irresistibilmente invaso dalla luce»8. Secondo una leggenda talmudica, il primo uomo poteva vedere distintamente in ogni direzione nell’unico splendore indiviso: il suo corpo occupava l’intero universo, riempiendolo di sé. Al venir meno della luce originaria,
7 G. Busi, Simboli del pensiero ebraico. Lessico ragionato in
settanta voci, Einaudi, Torino 1999, p. 268. Assieme a G. Busi E. Lowenthal (a cura di), Mistica ebraica, Einaudi, Torino 1995,
Simboli del pensiero ebraico viene a costituire uno splendido
breviario di quella «tenace ricerca del vero» (G. Busi) che fu ed
è l’ebraismo d’ogni tempo e luogo.
8 Genesi di von Rad, cit., p. 59. Sul caos primordiale e sulle
sorprendenti caratteristiche dell’azione ordinatrice del Dio della
Genesi, oltre al testo di von Rad, pp. 56-59, si veda Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., pp. 453-459.
26
alternata alla tenebra e separata da essa, anch’egli
perse le proprie dimensioni, e si rimpicciolì fino a
divenire ciò che anche noi siamo: per propria colpa,
in seguito a un proprio errore9. «Anche le tenebre»,
comunque, «devono essere lette come uno stato
provvisorio del chiarore giacché, dietro ogni apparenza della realtà, l’immaginazione biblica intuisce
un’armatura immateriale di luce»10. Da questa fede
istintiva e invincibile trasse alimento il movimento
mistico che sfociò nella speculazione qabbalistica
sulle sefirot e confluì, variamente modulato, nella
tradizione chassidica11.
Si veda Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., pp. 269ss.
Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., p. 268. Per un’esegesi puntuale dei primi due capitoli della Genesi, si veda Genesi
di von Rad, cit., pp. 51-81. Voce «Luce», in Lurker, Dizionario
delle immagini e dei simboli biblici, cit., pp. 114-115: «La luce è il
presupposto della percezione visiva; in essa si manifesta la bellezza e l’ordine della natura indipendente dall’uomo. La luce può
inondare anche chi è fisicamente cieco; essa è espressione dell’immateriale e quindi particolarmente adatta a simboleggiare la
spiritualità di Dio. [...] La luce vera e propria è indipendente
dall’esistenza dei corpi celesti (Genesi 1, 4). La luce è attributo
della divinità: “Avvolto di luce come di un manto” (Salmo 104,
2). Nella Sacra Scrittura, il primo giudizio di valore riguarda la
luce: “Dio vide che la luce era cosa buona” (Genesi 1, 4). [...] La
luce si congiunge col cielo, col divino. Secondo Isaia (Isaia 9, 1),
alla nascita del Messia “una grande luce” risplenderà sul popolo
che camminava nelle tenebre. La gloria del tempo della salvezza
appare nel segno della luce [...]». Si vedano anche la voce «Luce
/ Tenebre», in Nuovo dizionario di teologia biblica, cit., pp. 857863 e Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., pp. 268-274.
11 Sulle sefirot e il pensiero qabbalistico si vedano Il libro dello splendore, a cura di A. e E. Toaff, Studio Tesi, Pordenone 1988
(il volume presenta una succinta antologia, ottimamente tradotta
e curata, del Sefer ha-Zohar, testo fondamentale della mistica
ebraica, di origine probabilmente sefardita e risalente al
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Meravigliosa la Qabbalah. La gioia errabonda
d’un uomo vide con chiarezza un «precario equilibrio» di sfere celesti, «sospese tra il silenzio e il fluire della parola»: globi di luce nella vita intradivina,
diffusi e migranti l’uno nell’altro, protesi al mondo
umano, in un moto inarrestabile di ascesa e di risalita – una cascata di luci «senz’altra determinazione»,
roteanti dall’infinito al finito, dallo «spirito del Dio
vivente» allo «spirito dello spirito»; di qui, tra vertigini di gioia, «all’acqua dello spirito», e ancora «al
fuoco dell’acqua» – e poi, tra «alto e basso, oriente
ed occidente, settentrione e meridione»12:
5. Dieci sefirot senza determinazione: frena il tuo
cuore sì che non pensi, la tua bocca sì che non parli; e
se il tuo cuore corre via, ritorni là donde era partito.
Ricordati che è detto: «E le dieci hayyot andavano e
ritornavano» (Ezechiele 1, 14). Su questa cosa fu sancito il patto.
XIII secolo;
un ampio stralcio della medesima opera si trova in Busi - Lowenthal, Mistica ebraica, cit., pp. 445-513); Busi, Simboli
del pensiero ebraico, cit., pp. 325-334; Scholem, Le grandi correnti
della mistica ebraica, cit., pp. 133-255 e R. Goetschel, La Cabbalà,
La Giuntina, Firenze 1995 (trad. di V. Lucattini Vogelmann).
12 Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., p. 325; ma si veda
l’intero capitolo dedicato al termine s e f i r a h, alle pp. 325-334 .
Busi - Lowenthal, Mistica ebraica, cit., p. 37; si veda l’intero testo del Sefer Yesirah (Il libro della formazione), alle pp. 31-46,
con le note corrispondenti. Il suo autore, vissuto in Israele tra il
VI e il VII secolo, si pone con le proprie formulazioni alla base
della speculazione cabbalistica propriamente detta, e fornisce
materia di prim’ordine alla riflessione successiva; sulla mistica
palestinese precedente alla cabbala medievale e sulla gnosi
ebraica, si vedano Scholem, Le grandi correnti della mistica
ebraica, cit., pp. 51-94 e Goetschel, La Cabbalà, cit., pp. 33-43.
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6. La loro misura è dieci, ma sono infinite, la loro fine
è fissata nel loro inizio e il loro inizio nella loro fine,
come la fiamma è unita al tizzone. Devi sapere, calcolare, immaginare: il Signore è unico e colui che forma
è uno e non ha secondo. E prima dell’uno, cosa conti?
7. Dieci sefirot senza determinazione: la loro misura è
dieci, ma sono infinite. Profondità del principio e
profondità del termine, profondità del bene e profondità del male, profondità dell’altezza e profondità del
sotto, profondità dell’oriente e profondità dell’occidente, profondità del settentrione e profondità del meridione. E il Signore, unico Dio, re fidato, domina su tutto dalla sua santa residenza e per l’eternità dell’eternità.
8. Dieci sefirot senza determinazione: il loro aspetto è
apparenza di fulgore e il loro confine non ha limiti. Esse corrono alla sua parola come una furia, e al suo detto
come una bufera, di fronte al suo trono si prostrano.
[...]
10. Dieci sefirot senza determinazione. [...] Voce, spirito, parola: questo è lo spirito della santità13.
Altri uomini, in segreta letizia, colmarono i propri giorni contemplando le s e f i r o t: diedero loro nomi e figure, le videro unirsi e separarsi, vorticare
dalla pienezza dell’En Sof – il Dio nascosto che vive
in esse e che si manifesta nelle loro danze – fino agli
occhi grati dell’uomo, già dai giorni della creazione14. «Corpi astrali, intrisi di luce», le sefirot si mutarono presto
13 Busi - Lowenthal, Mistica ebraica, cit., pp. 35-36 (Sefer Yesirah 6-10).
14 Mi riferisco alla dottrina esposta nello Zohar, «che accentua fortemente il valore cosmologico attribuito alla Torah dalla
precedente tradizione mistica». Lo schema delle sefirot viene a
costituire il cosiddetto “albero sefirotico”; se lo si osserva «in
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in una scala ascendente, che l’uomo può percorrere verso l’alto. Esse non sono inoltre confinate nel macrocosmo, ma pervadono ciascun individuo e possono essere
attinte mediante la meditazione. Nell’insegnamento di
Abulafia la discesa nella propria interiorità si muta allora
in spinta verso l’alto, attraverso la quale è possibile percorrere a ritroso il cammino dell’emanazione divina15.
L’ordine mirabile dellesefirot iniziò col tempo a rivelarsi anche nel corpo dell’uomo, e sguardi colmi di
stupore impararono a scorgerlo nelle mani che sfogliavano con trepidazione le pagine dei libri, nel penmodo longitudinale, si nota che le sefirot si situano su tre colonne verticali: tre a sinistra (b i n a h, “intelligenza” - d i n, “giudizio”,
detta anche gevurah, “potenza” - h o d, “maestà”); quattro al centro (keter, “corona” - tif’eret, ”magnificenza” - y e s o d, “fondamento” - m a l k u t, “regno”); tre a destra (h.o k m à, “sapienza” - h.es e d, “amore” - nes.a c h, “stabile durata”). Il lato sinistro rappresenta il rigore, quello destro la clemenza; l’asse mediano indica la
sintesi, l’equilibrio che consente al mondo di sussistere; in esso, a
sua volta il centro è occupato dallasefirah chiamata tif’eret (in altre opere qabbalistiche questa sefirah è però denominata rah.amìm, “misericordia”). Il sopramondo divino delle sefirot si
estende così tra keter e malkut. Quest’ultima sefirah nello Zohar
è chiamata però per lo più kenesset Israel (“assemblea d’Israele”), divenendo in tal modo il mistico archetipo della comunità
dei figli d’Israele o anche Šekinah (altra parola che nella Qabbalah assunse un significato diverso da quello che aveva nel giudaismo rabbinico). Per la speculazione teosofica, quest’ultima
sefirah rappresenta anche la componente “femminile” della vita
di Dio» (Piero Stefani, «Le correnti mistiche», nel vol. a cura di
P. Reinach Sabbadini, La cultura ebraica, Einaudi, Torino 2000,
pp. 358-359).
15 Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., p. 328; 330. Su
Avraham Abulafia, qabbalista e profeta castigliano del XIII secolo, si veda Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, cit.,
pp. 133-166.
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siero che le indagava, nel petto pulsante che segnava
nel frattempo il ritmo dell’esistenza. La visione stupenda si venò di assorta tristezza, e assunse il rosso
colore della speranza – indomabile, forse, perché capace di spingersi ovunque pur di non rinunciare a se
stessa. Il mistero del male, l’abisso dell’impurità dovette anch’esso trovare forma nel modello sefirotico:
sorsero dunque delle sefirot negative, «replica infausta dell’emanazione positiva»16. Eppure, esse non impedirono il moltiplicarsi delle altre s e f i r o t, il loro dilagare nel cosmo fino a riempirlo interamente: scintille
divine diffuse e tangibili, offerte alla gioia dell’uomo.
Com’è possibile, dunque, il male? Dio, secondo
Isaac Luria17, ha dovuto rimpicciolirsi, contrarsi per
permettere la libera esistenza del mondo al di fuori di
sé: ha dovuto creare il nulla rinunciando alla propria
presenza, abolendo il proprio potere; ha separato la
giustizia (middat haDin) dalla misericordia (middat
haRah.amim); ha lacerato se stesso. Il dramma è accaduto in Dio, prima che il mondo fosse – perché il
mondo potesse esistere. Già per Nachmanide18, benché la contrazione (s.i ms.um) di Dio sia «l’anello mistico che congiunge la sefirah della corona suprema (k eter elyon) a quella della sapienza», essa «non è un
adattarsi della divinità a uno spazio circoscritto, ma
Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., p. 321.
Su Isaac Luria (XVI sec.) e il suo pensiero, si vedano i già citati Levi, «Isaac Luria», pp. 99-107 e Scholem, Le grandi correnti
della mistica ebraica, pp. 257-298.
18 1194-1278; mistico e probabile autore di un commento al
Sefer Yesirah; si veda Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., pp.
393-394.
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una contrazione traumatica, una vera e propria strettoia della negazione»19. In altri testi databili ai secoli
XIII e XIV, «il ritrarsi dell’energia divina è assimilato a
un trattenimento del respiro, che piomba il mondo
nella caligine». Causa meraviglia l’intuizione che «il
mondo, che lo s.ims.um priva del respiro di Dio, diviene un’oscurità densa, e allo stesso tempo cedevole, in
cui il Signore [...] può tracciare il percorso meraviglioso della conoscenza»20. «Dio è luce e in lui non ci
sono tenebre», affermò un discepolo di colui che si
disse figlio di Dio21: una luce franta, drammaticamente intenta ad espandersi e a contrarsi. L’uomo, vaso
destinato ad accogliere questa luce, finito e limitato,
ridotto anch’esso a dimensioni infinitesimali, è coinvolto nel dramma intradivino – e si spezza nell’aprirsi
alla luce delle sefirot, cede al bagliore insostenibile
d e l l ’En Sof che giunge fino a lui. Secondo Luria, dopo la tragedia inevitabile della ševirat haKelim (la
“rottura dei vasi”), la creazione è “riparazione”:
Riparazione da parte di Dio, ma riparazione anche da
parte dell’uomo. Se esiste un mondo imperfetto, esiste
anche lo spazio, per l’uomo, di renderlo perfetto. [...]
Scopo dell’azione dell’uomo è perfezionare l’azione di
Dio. [...] L’azione dell’uomo è riparatrice perché rende l’universo completo quando aggiunge la libertà e la
necessità. [...] Il che significa vedere l’infinito nella
singola azione finita, conferire un potere enorme all’azione umana22.
Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., pp. 393-394.
20 Busi, Ivi, p. 394.
21 1Giovanni 1, 5.
22 Levi, «Isaac Luria», cit., p. 105.
19
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L’attività dell’uomo può anche annichilire il legame luminoso tra le sefirot, provocando un male metafisico come conseguenza del male morale: essa si
riflette comunque in Dio stesso, e sa impedire l’opera della “riparazione”. Persino la Šekinah – l’immanenza di Dio nel mondo – ne è minacciata: essa, la
più povera tra le sefirot, vive della luce delle altre; è
in esilio assieme a Israele, in fervida attesa che la “riparazione” si compia.
Solo le vampe della tragedia – l’ho constatato io
stesso – possono ospitare la scintilla della speranza:
con Dio e per Dio, agendo con rettitudine nel mondo, l’uomo può affrettare la ricostruzione della pienezza sefirotica. (Nell’uso originario, però, il termine sefirah indicava l’intervallo dei tempi quotidiani:
umilmente, esprimeva con esattezza la misura simbolica del lutto e dell’impurità rituale della donna
nel ciclo mensile, e segnava l’intervallo tra le feste di
Pesah. e Šavu‘ot).
***
La comparsa della tenebra aprì il creato all’infinità del possibile, e diede inizio al tempo; sembra viverlo, un’ora dopo l’altra, un uomo ulteriormente
immiserito, sempre più lontano dal chiarore delle
origini23.
23 Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., p. 270: «Come dimostra il parallelo con altre tradizioni antiche, questo singolare
racconto cosmogonico allude in realtà all’instaurarsi del tempo,
la cui esistenza è resa possibile dall’avvicendamento del dominio diurno della luce con quello notturno delle tenebre, mimato
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L’alternarsi del giorno con la notte svela spesso i
tratti di una sostanziale ambiguità24. Eppure – pur
constando che Dio stesso si trovava a condividere l’amara condizione dell’esilio, paurosamente notturna –
l’ebraismo non perse mai la propria fiducia nella luce:
Secondo il pensiero chassidico, il compimento della
Torah, che si articola concretamente in seicentotredici
azioni da eseguire o proibizioni da osservare, diviene
allora metafora della possibilità di riattingere lo stato
primordiale: ripercorrendo verso l’alto il cammino
della luce, l’uomo può cioè riappropriarsi, scintilla
dopo scintilla, del suo archetipo luminoso25.
Penso che, nell’intimo, Celan vivesse un rapporto
delicato con la luce: di rispetto e confidenza estremi.
Ne comprendeva esattamente la misura. Nell’universo infinito, miliardi di soli – stelle, ma anche nebulose, galassie, ignoti corpi celesti – diffondono ovunque
una luce immensa, plurigenita, che ci sfiora con una
parte minima di sé: eterna nella propria natura, ma
troppo vasta per noi creature del buio terrestre.
Celan ne invocava teneramente, con umiltà disarmante, le visite furtive al mondo umano: le albe minute della terra, i piccoli mattini, i meriggi caldi che
rendono possibile la nostra vita. Non la rimproverava perché ci nega, lei così ricca, la pienezza della
propria gloria.
Renitente mattino
«Filamenti di soli» visitano talvolta – sovrastandolo come per caso o per curiosità – il luogo della
nostra esistenza umana e terrestre: un «deserto grigio scuro».
FILAMENTI DI SOLI
dall’animarsi della smisurata figura umana. Il tema della trasformazione archetipa dell’uomo primigenio, estraneo alla narrazione del Genesi, affiora infatti da un sostrato mitico diffuso in tutto l’Oriente antico».
24 Von Rad, Genesi, cit., pp. 60-62: «La luce si è riversata sul
caos e – dobbiamo rappresentarci in maniera pienamente realistica gli atti della creazione – lo ha posto in uno stato di evanescente penombra d’alba. Ora Dio, traendoli dalla fusione in cui
si trovano, separa gli elementi della luce e delle tenebre: giorno
e notte. In ordine all’azione creativa, essi sono dunque di specie
assai diversa. Mentre il giorno è luce che sgorga dalla luce primordiale creata per la prima, la notte invece non è altro che l’oscurità caotica presa a sé, “separata”, coi limiti tuttavia che le
pone ormai l’ordine cosmico. In ogni notte si dissolve nell’informe il mondo delle cose create, il caos riacquista una certa potenza sulla creazione».
25 Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., p. 274.
34
sopra il deserto grigio scuro.
Un vasto
albero – un pensiero –
trae a sé la gradazione della luce: ci sono
canti da cantare ancora, oltre
gli uomini26.
P. Celan, Atemwende (Svolta di respiro), in P o e s i e, cit., p.
540: «FADENSONNEN / über der grauschwarzen Ödnis. / Ein
Baum- / hoher Gedanke / greift sich den Lichtton: es sind / noch Lieder zu singen jenseits / der Menschen». La traduzione sopra riportata è di L. Gobbi e N. Nicolis. Si veda l’interpretazione finissima di H.G. Gadamer, Chi sono io, chi sei tu. Su Paul
Celan, a cura di F. Camera, Marietti, Genova 1989 (trad. di F.
Camera), pp. 61-62: «Sono spazi immensi quelli che si aprono
attraverso i grandi movimenti di questa breve poesia. [...] Certamente è un p a e s a g g i o interiore (e non un umore particolare do26
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La gloria si riversa in altre direzioni, visita altri
mondi: vastità gelide e mute, profonde, vuote. Proprio qui, dove noi creature di carne cerchiamo luce
per vivere ancora, non giungono che pochi, rari «filamenti di soli»: eppure, la fecondità della terra e la
nostra sopravvivenza ne dipendono interamente.
Come potevo, allora, rimproverare la luce che si
negava? Il desiderio di lei, sembrava suggerirmi Celan, può amarla unicamente nel suo costante rifiutarsi a una presenza piena. I «filamenti di soli», pur
così esili, esprimono forse la sola carità che le sia
possibile: e dunque devono, possono bastarci.
«Un vasto / albero – un pensiero – / trae a sé la
gradazione della luce»: la assorbe e la trasforma in
linfa, in vita propria. Accostato all’immagine dell’albero proteso verso l’alto (Baum-hoher), il termine
“pensiero” (Gedanke) non può che indicare l’uomo
nella sua identità di coscienza terrestre, di materia
pensante: così spesso in ansia per la luce necessaria.
Proprio in quanto radicati nella terra, possiamo dilatare noi stessi fino all’estremo delle forze, e protenderci nell’alto come l’Adamo primigenio per coglievuto alle condizioni atmosferiche) quello in cui si spalanca lo
grauschwarze Ödnis, il “deserto grigio scuro”, e “sul” (ü b e r)
quale si trovano i Fadensonnen, i “filamenti di soli”. Ma in questo caso non si deve pensare concretamente ai raggi filiformi di
luce che il sole velato forma ai bordi di queste ultime? Noi diciamo anche in questo caso che il cielo “annuncia pioggia”. [...]
Colpisce che la locuzione Fadensonnen sia un plurale, una forma grammaticale che rimanda alla vastità anonima dei mondi
infiniti. Sul suo sfondo si profila il singolare, il pensiero che si
eleva nella sua unicità». Sui principi e i metodi della lettura di
Gadamer, si veda F. Camera, «Introduzione», in Gadamer, Op.
cit., pp. VII-XXXII, in particolare alle pp. XI-XVII.
36
re «le gradazioni della luce», per «trarle» (sich greif e n) fino a noi: con intenzione, certo, e con fatica –
ma anche con sincera gratitudine. Nulla ci è dovuto.
L’immenso viene sempre a visitarci: con discrezione, con misura. In una vastità che non ci appartiene, la luce risplende eterna: se basta a se stessa,
perché agisce così verso di noi? Forse, «ci sono /
canti da cantare ancora, oltre / gli uomini», e verranno pronunziati da labbra sconosciute, in luoghi
inaccessibili. O forse – amo pensarlo – la luce ha in
serbo per noi altri doni: meraviglie che non possiamo immaginare, “canti” che ci raggiungeranno,
esultanti, in un tempo che già si prepara. Li annunciano, come per accenni, pochi «filamenti di soli».
***
Eppure, nel moto alterno degli astri,
Ti vediamo, o cielo, ti vediamo.
Pustola dopo pustola
tu fai germogliare,
pàpula dopo pàpula.
Così accresci l’eternità.
Ti vediamo, o terra, ti vediamo.
Tu esponi
anima dopo anima,
ombra dopo ombra.
Così respirano gli incendi del Tempo27.
27 P. Celan, «WIR SEHEN DICH» (Ti vediamo), in Von Schwelle zu Schwelle (Di soglia in soglia), ora in Poesie, cit., p. 226:
«Wir sehen dich, Himmel, wir sehen dich. / Pocke um Pocke /
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Il chiarore giunge spesso come richiesta crudele
d’altra luce; ubbidiente, la «terra» risponde con bagliori d’olocausto, ed «espone» ciò che ha di più caro – «anima dopo anima, / ombra dopo ombra». «L’ eternità» deve «crescere»; il tempo terrestre è una sequenza di «incendi», e noi ne siamo la materia.
A prima vista, l’opposizione “anime / ombre” mi sembrava indicare rispettivamente i vivi e i morti: ma era
un’impressione infondata, in particolare per quanto
riguarda il termine “anima” (S e e l e). Die Seelen sono i
morti, non i vivi28.
treibst du hervor, / Pustel um Pustel. / So mehrst du die Ewigkeit. // Wir sehen dich, Erde, wir sehen dich. / Seele um Seele /
setzest du aus, / Schatten um Schatten. / So atem die Brände
der Zeit».
28 È difficile scorgere qui il concetto di anima come nucleo
primigenio, creato inalterabile e immortale, che provvisoriamente abita nel corpo: idea ormai insostenibile, nata a sua volta da
un equivoco ed estranea sia all’antropologia biblica, sia alla riflessione cristiana dei primi secoli benché ampiamente svilupp ata, e in misura assai più radicale, dalla mistica ebraica. A. - E.
Toaff, «Introduzione», in Libro dello splendore, pp. XXVIII-XXIX:
«Dalla dottrina platonico-aristotelica dell’anima vegetativa, animale e razionale, la cabbalà trae l’idea delle tre anime presenti
nell’uomo, chiamate nefeš (“principio vitale”), ruah. (“spirito”) e
nešamah (“anima”). È noto come per Platone tre anime distinte
siano presenti nell’uomo, mentre per Aristotele si tratti di tre facoltà della stessa anima. Per lo Zohar invece le ultime due anime, ruah. e nešamah, sono già presenti in potenza nella prima
nephesh, di cui costituiscono gradi di maggiore perfezione. [...]
La nešamah è infatti una parte di Dio stesso e costituisce quella
famosa scintilla divina che fu posta nel primo uomo. [...] Mentre l’anima naturale (n e f esˇ) è capace di commettere il male e di
peccare, la nešamah, lo spirito divino dell’anima, è assolutamente pura e perfetta. Di ciò è conseguenza il fatto che, mentre l’anima naturale è soggetta alla punizione di Dio per le colpe commesse ed è mortale, l’anima divina è assolutamente al di sopra del
38
Per i h.asidim, nessuno possedeva in sé maggior
valore di colui che curasse amorevolmente la propria anima: ardendo nel servizio gratuito, consumandosi in esso volentieri, egli poteva farsi scintilla
per salire ai mondi superni, incontro alla propria
origine. «Ogni essere» insegnava il Magghid di Zloczow «ha la radice della sua anima, di dove gli viene
la vita, nei mondi superiori». «Gli incendi del tempo», così, servivano Dio, e gli riconducevano ciò che
era indiscutibilmente suo. «Rabbi Zvi, il figlio del
Baalshem, raccontava: “Dopo la morte di mio padre, io lo vidi una volta in figura di una montagna di
peccato e immortale. [...] Quanto all’origine dell’anima, lo Zohar sostiene che le anime preesistevano alla stessa creazione ed
erano presenti nella loro individualità nella mente di Dio». Anche su questo tema, la bibliografia sarebbe sterminata: se ne
può seguire “trasversalmente” la presenza in Busi - Lowenthal,
Mistica ebraica, cit.; Scholem, Le grandi correnti della mistica
e b r a i c a, cit.(la psicologia zoharica è delineata alle pp. 245-249);
Goetschel, La Cabbalà, cit.; J. Eisenberg - A. Steinsaltz, Il candelabro d’oro. Dalla creazione del mondo all’anima dell’uomo attraverso le feste ebraiche, ECIG, Genova 1988 (trad. di M. Cammarata). Su ruah., in particolare, si veda Busi, Simboli del pensiero
e b r a i c o, cit., pp. 290-297. L’argomento è assai complesso, come
sterminata è la bibliografia che se ne occupa; un approfondimento in questa sede sarebbe impossibile, e porterebbe assai
lontano. Basti pensare, però, all’influsso della riflessione neoplatonica sul cristianesimo del IV e V secolo, e poi sul pensiero medievale e rinascimentale. Per un primo orientamento, si vedano
la voce: «Anima umana» in A. di Berardino (a cura di), Dizionario patristico e di antichità cristiane, Marietti, Casale Monferrato
1983, vol. I, coll. 206-209 (bibliografia ivi); I. Tomiolo (a cura
di), L’anima dell’uomo. Trattati sull’anima dal V al IX s e c o l o, introduzione, traduzione e note di I. Tomiolo, Rusconi, Milano
1979; Bonaventura da Bagnoreggio, Itinerario dell’anima a Dio,
introduzione, traduzione e note di L. Mauro, Rusconi, Milano
1985.
39
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fuoco che si divideva in innumerevoli scintille. Gli
chiesi: Perché appari in tale figura? Egli mi rispose:
Così ho servito Dio”»29.
ottiene. Sembra doveroso scorgere nel tedesco Schatt
la presenza dell’ebraico s e l, con il suo sconcertante
spessore di significato:
È sempre incredibile, per me, constatare fino a
dove osi avanzare la speranza, pur di non venir meno: per Nahman di Bratslav, «lo sforzo con cui la divinità si contrae nello s.i ms.um corrisponde [...] a un
atto di clemenza, mentre la sua abolizione equivale
alla distruzione delle realtà terrene, schiantate dalla
potenza del divino»30.
L’ombra degli alberi disegna, nel paesaggio della terra
d’Israele, una provvida geografia di riparo e protezione,
che invita all’indugio. Il verbo biblico più frequentemente accostato a s e l, “ombra”, è hsh, che significa
“trovare riparo” ma anche “aver fiducia”, “appoggiarsi”, e trasmette quindi l’idea di un riposo confidente,
che può essere anche occasione di festa. [...] L’ombra
fisica diviene poi, per traslato, uno degli epiteti più efficaci della protezione divina. La locuzione frequente per
indicare il riparo offerto da Dio al fedele è be-sel kenaf e k a, «all’ombra delle tue ali» [...]. Farò festa all’ombra
delle tue ali, si legge così in un salmo (63.8), per esprimere l’idea del conforto garantito dalla protezione divina e della serenità che ne deriva. [...] In alcune attestazioni bibliche s e l serve poi a qualificare la breve e incerta estensione della vita umana, con comparazioni che
suggeriscono fragilità o consunzione, in cui l’ombra assume la singolare caratterizzazione antropica di metafora del destino dell’uomo. [...] Nella concezione antica,
proprio per il suo carattere d’inafferrabile mobilità,
l’ombra poteva dunque farsi metafora tanto di vita
quanto di morte ed era in grado di accogliere le misteriose antitesi del divino. L’incostanza con cui si disegnano i contorni delle cose non era infatti considerata un
semplice capriccio della luce ma una testimonianza dell’impulso che la volontà di Dio imprime al reale. [...]
Nelle tradizioni rabbiniche d’età tardoantica [...], l’ombra appare invece contesa tra presente e futuro, giacché
serve a connotare uno stato attuale, che verrà però
completamente trasformato dall’intervento di Dio. In
alcuni passi midrasici «oscurità e ombra di morte» si
accompagnano così al male che domina tra gli uomini,
anche se, in futuro, l’ombra verrà rimossa dal Signore,
Non uomini offre la terra, ma “anime”: ciò che
comunque ha di più prezioso. «Non vi è uomo» affermava Rabbi Pinhas» a cui l’anima non insegni
continuamente»31. Ciò che si trova “esposto”, dunque, è ben più del semplice e nudo essere umano: è
la sua consapevolezza del tempo, la capacità di conoscere e agire nel mondo – la sua qualità di “immagine di Dio”, di cercatore di Dio abitato dal tempo.
Celan si limita a constatare quale materia nutra il
tempo – che cosa, di fatto, gli permetta di “respirare”. Non gli sembra lecito spingersi oltre, e non ha
ragioni per mettere in dubbio la verità dolorosa della propria percezione.
Alla vorace ansietà del fuoco celeste, un solo dono non sembra bastare: chiede anche “ombre”, e le
29 Buber, I racconti dei Hassidim, cit., p. 124; p. 53. Gli
esempi si potrebbero moltiplicare.
30 Maestro chassidico del XIX secolo. Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., p. 397.
31 Buber, I racconti dei Hassidim, cit., p. 91.
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che restituirà la terra alla luce [...]: il tempo di questa
trasformazione sarà allora il futuro messianico, in cui a
Israele verrà restituita la dignità politica e tutte le genti
verranno sottratte al male. [...] Le risorse metaforiche
di sel appaiono tuttavia quasi inesauribili, poiché in un
luogo di Genesi rabbah l’ombra cambia di segno e diviene essa stessa simbolo del futuro escatologico di giustizia [...]. In maniera non dissimile la tradizione ebraica attesta ampiamente l’idea che un’ombra incompleta
o addirittura mancante anticipi la scomparsa dell’individuo, come se la sagoma oscura s’involasse per prima e
attendesse il corpo nell’aldilà. [...] Il connubio tra la
morte e la scomparsa dell’ombra è presente anche nel
Sefer ha-zohar (Il libro dello splendore) – opera che corona la qabbalah sefardita del tardo duecento –, dove
offre lo spunto per originali rielaborazioni narrative.
[...] Nella concezione dell’autore dello Z o h a r, l’ombra
non è dunque più una semplice proiezione del corpo, o
un nunzio magico della sua fine, ma l’indice dell’intensità vitale di una persona. Essa è trasformata qui in una
sorta di prolungamento della forza intellettuale dell’uomo, una deriva della coscienza, che col suo progressivo scemare segue l’annichilirsi della mente32.
Non è poco, dunque, ciò che la scaturigine del
tempo chiede alla terra per poter “respirare” ancora, nell’alternarsi dei giorni e delle notti: esige il sacrificio d’ogni vita, d’ogni coscienza – ma anche di
qualsiasi fiducia: un insistito olocausto della speranza. Non c’è gioia né attesa, non esiste serenità né
consapevolezza che il disco solare non bruci traendola a sé in figura di fumo – o che la luna non copra
di gelida brina:
32
42
Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., pp. 353-360.
Ecco l’occhio del tempo:
scruta torvo
da sopracciglio di sette colori.
Fuochi lavano la sua palpebra,
la sua lacrima è vapore.
La cieca stella si avventa a volo
e fonde a quel più scottante ciglio:
si fa caldo il mondo,
i morti
gemmano e fioriscono33.
«Occhio del tempo», il sole dispensa la vita: apre
corolle e nutre il fogliame. Eppure, per tutto ciò che
è umano «si fa caldo il mondo», e una sola fioritura
permane: morti come gemme, tombe come fiori
commestibili, innumerevoli ed eterni.
Piange per noi, «la cieca stella»? Forse sì, nel vapore azzurro del mattino.
***
Celan invoca il mattino con tenerezza infinita. Lo
scorge in un avanzare lento, accorto: ne intuisce la
fatica nel dichiarare a poco a poco le forme delle cose. Gli si offre, gli si stringe; vuole tacere per facilitargli il compito, terribile e gravoso:
33 P. Celan, « AUGE DER ZEIT (Occhio del tempo)», in Von
Schwelle zu Schwelle, ora in Poesie, cit., p. 214: «Dies ist das Auge der Zeit: / es blickt scheel / unter siebenfarbener Braue. /
Sein Lid wird von Feuern gewaschen, / seine Träne ist Dampf.
// Der Blinde Stern fliegt es an / und zerschmilzt an der heißeren Wimper: / es wird warm in der Welt, / und die Toten / knospen und blühen». L’identificazione del sole con «l’occhio del
tempo» è chiaramente indicata dalla qualifica di «cieca stella»
che lo caratterizza al v. 6, oltreché da altri elementi intertestuali.
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Renitente mattino
in te mi stringo, per te mi faccio silenzio,
risuoniamo, soli,
[...]34.
È «renitente» (sperriges) il mattino di Celan –
forse perché reca il ricordo dell’espressione ebraica
Sahar, e da essa trae la propria forma:
La parola trilettera ebraica, di ruvido suono, racchiude nel proprio etimo il concetto di oscurità: sahar significa in realtà “scuro”, laddove l’italiano “alba” manifesta invece il chiarore incipiente. L’ebraico pone
dunque l’accento sull’attesa della luce, ovvero sul momento che precede la sua manifestazione. Sahar è la
promessa della fine della notte, che di solito viene annunciata dal canto degli uccelli, i quali, ancora nel
buio, presentono l’arrivo del giorno. [...] L’alba pare il
simbolo di un tempo sospeso, in cui l’esito degli eventi sembra ancora indeciso35.
Celan si stringe nel mattino «renitente» come per
sorreggerlo, per guidarlo con delicatezza verso la
terra in attesa. È pronto a farsi silenzio in lui (in dich) e per lui (an dich): a fermare anche il battito del
proprio cuore, a rinunciare persino al ritmo lieve del
proprio respiro; è disposto a «risuonare» col mattino, a condividerne la solitudine estrema – la vita sospesa in un tacere solitario, incapace di formulare
qualsiasi promessa di luce avvenire: priva in sé del
più piccolo pegno di speranza. Lo fa di propria iniziativa, senza chiederne il consenso (wir tönen, allein), nella più assoluta gratuità. Il «mattino» di Celan, dunque, sembra rifarsi ad un istante ancora precedente alla Sahar, all’attimo incerto in cui la luce si
separa, come sgretolandosi, dalla montagna aspra
del buio. Giungeranno poi – con uguale lentezza ma
con vivacità crescente – i canti degli uccelli; sorgeranno le forme; inizierà il lavoro dell’uomo.
(Per questo, ho creduto, noi creature terrestri dobbiamo morire, e ci nascondiamo a turno nella terra
nel più assoluto e definitivo silenzio: perché possa
tornare il mattino: perché riesca, ogni giorno, a conquistare la gloria che gli spetta).
***
Invocato e accolto, forse confortato dall’offerta
incondizionata di sé che il poeta gli porge, il mattino
diventa per Celan un potente alleato:
Indorato scandaglio, il mattino,
ti si attacca al calcagno
che anch’esso attesta,
e ricerca,
e scrive36.
36
P. Celan, «Sperriges Morgen...», vv. 1-3, in Lichtzwang
(Luce coatta), ora in P o e s i e, cit., p. 1076: «Sperriges Morgen /
ich beiße mich in dich, ich sweige mich an dich, // wir tönen, allein, [...]». La traduzione è di L. Gobbi e N. Nicolis.
35 Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., pp. 313; 315.
34
44
P. Celan, « MIT DER VERFOLGTEN in spätem...» (COI PERSEin tarda...), in A t e m w e n d e (Svolta del respiro), ora in P o esie, cit., p. 538, vv. 5-10: «Das Morgen-Lot, übergoldet, / heftet
sich dir an die mit- / schwörende, mit- / schürfende, mit- / schreibende / Ferse». F. Camera, in Gadamer, Chi sono io, chi sei tu,
cit., p. 57, traduce ottimamente: «Il filo a piombo dell’aurora, / riGUITATI
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La luce sorge per rivelare l’essenza del mondo: una
distesa abbacinante di ghiaccio. Essa sola sa portarvi
verità, e attraversa il gelo come uno «scandaglio»: «indorato» (ü b e r g o l d e t), lucente oltre misura. Forse, ciò
accade perché il chiarore è estraneo a questo mondo:
incolpevole, opposto per natura alla neve che riflette
il chiarore verso i nostri occhi, abbagliandoci. Il mattino «si attacca al calcagno» che percuote la terra gelata, lo guida sul ghiaccio al punto esatto: là dove
In fondo
al crepaccio dei tempi,
presso il favo di ghiaccio
attende, cristallo di respiro,
la tua irrefutabile
testimonianza37.
Il «calcagno» che cerca «il favo di ghiaccio» «attesta», solidale in tutto e per tutto con il mattino (mit- /
schwörende, mit- / schürfende, mit- / screibende), che
una «testimonianza» (Z e u g n i s) attende (wartet) «in
fondo al crepaccio dei tempi»: è «un cristallo di respiro» (Atemkristall), sulla cui esistenza Celan non esprime dubbi38. Forse, si tratta di un verbo divino incavestito d’oro, / ti sta alle calcagna / che giurano, / che tastano il
terreno, / che scrivono con loro». Si veda nella sua globalità l’interpretazione penetrante di Gadamer in Chi sono io, chi sei tu,
cit., pp. 57-62.
37 P. Celan, WEGGBEITZ vom...» (CORROSA E SCANCELLATA /
dal...), vv. 15-21, in Atemwende (Svolta del respiro), ora in Poesie,
cit., p. 550: «Tief / in der Zeitenschrunde, / beim / Wabeneis /
wartet, ein Atemkristall, / dein unumstößliches / Zeugnis».
38 L’uso di warten in questa lirica, come spesso in Celan, reca in sé tutta la storia e la portata semantica del termine, che appartiene al lessico militare; ne recupera il significato originario di
46
stonato nel ghiaccio, di una parola salvifica e viva che
“attende” solo d’essere scorta, scoperta, individuata
con precisione e finalmente liberata. Warten è il verbo dell’attesa vigilante, della vita sospesa ma non annullata. Se è «irrefutabile» (unumstößliches) la «testimonianza» che «attende» «presso il favo di ghiaccio»,
lo è altrettanto la «testimonianza» della luce che guida il «calcagno» – come lo è la fatica dell’uomo che
cerca, percuote, tenta ancora e ancora, là dove punta
lo «scandaglio».
veglia consapevole, orientata a uno scopo ben preciso – nell’incertezza sulla propria sopravvivenza che caratterizza la guardia notturna durante la guerra. L’impegno per preservare la
propria vita convive con la disponibilità a perderla, se ciò si rivelasse necessario all’adempimento del compito che ci si è assunti. Da un punto di vista etimologico, infatti, come altre parole appartenenti a quest’area semantica, warten sostituisce nel
basso tedesco un più antico termine germanico, per ricomparire
poi tra XVI e XVII secolo, dopo aver attraversato la lingua francese. S. Bosco Coletsos, Le parole del tedesco, Garzanti, Milano
1993, p. 184: «Così die Etappe “tappa”, “retrovia” è prestito
francese del XVII secolo, ma il francese lo aveva a sua volta mutuato dal bted. [scil. basso tedesco, n.d.r.] stapel “deposito”,
“deposito per le merci”. Così warten, dapprima “cercare con gli
occhi”, “sorvegliare”, poi generalizzato in “aspettare” (e con
questo valore sostituisce il più antico beiten “aspettare”) fr. Garder (cf. it. “guardare”, ma anche “guardia”) “fare la guardia” e
nel XVI secolo rientra in tedesco come G a r d e ». Tale significato
sembra fondersi con quello dell’attendere tipicamente ebraico:
Israele attende di volta in volta liberazione e salvezza per sé e
per Gerusalemme; consolazione e compimento delle promesse
divine; ricomparsa dei profeti e avvento del Messia, raduno dei
dispersi, ricostruzione del tempio, fine dell’esilio. Nella riflessione talmudica e cabbalistica, tutto ciò è implicito nella «nerezza dell’alba, che nella realtà quotidiana è anticipazione del giorno» (Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., p. 318).
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Celan si offre, accoglie, condivide: tenta e resiste.
Avanza sul ghiaccio che risplende, nel chiarore pieno del mattino – ma non si illude. Della luce comprende ogni fatica, e sa quanto è fondo «il crepaccio
dei tempi»: riconosce l’impossibilità del compito;
eppure, non rifiuta l’«indorato scandaglio» che gli
viene offerto.
***
Il mattino avanza, risplende, irrompe finalmente
nella gloria meridiana:
LA CREPA DI FUOCO, alimentata da cieli,
che attraversa il mondo.
I richiami di: Chi è là?
al suo interno:
qui, attraverso di te,
specchiata sul dorso
dell’Eterna Cimice,
annusata da Falso e Stravolto,
percorrendo tuttavia la curva infinita,
che navigabile rimane, per la
risposta non trainata da riva39.
«alimentata dai cieli»; in altri luoghi dell’universo,
nello stesso istante, essi debellano con uguale fatica
altre notti e distribuiscono ovunque infiniti mattini.
Dichiarando pienamente le forme terrestri, il meriggio reca nell’intimo (in seinem Innern) come una domanda, un richiamo: vuole sapere se finalmente ci
riconosciamo. Più esattamente, domanda se c’è qualcuno tra noi che sappia chi è, e se questi sia disposto
a farsi identificare (Die Wer da?). È come la voce
lanciata nella notte da una sentinella impaurita – o
da un barcaiolo stanco a cui sembri di aver scorto,
nella nebbia, ombre simili a figure d’uomo. Eppure,
è una voce che proviene dalla gloria stessa del meriggio, che ne esprime e ne abita «l’interno» (Rufe /
in seinem Innern).
La luce meridiana non ottiene risposta: la sua
opera si rispecchia «sul dorso / dell’Eterna Cimice»
– là dove «annusano» inutilmente i nostri deboli
sensi, cercando una realtà ormai impossibile da percepire: il «Falso», lo «Stravolto». L’«Eterna Cimice»
è con ogni probabilità una deformazione umoristica,
benché sarcastica e amara40, della creatura primor40
Nella notte del cosmo, il mattino della terra è come una «crepa di fuoco» che «attraversa il mondo»,
P. Celan, Atemwende (Svolta del respiro), in P o e s i e, cit., p.
678: «DER MIT HIMMEL GEHEIZTE / Feuerriß durch die Welt. //
Die Wer da?- Rufe / in seinem Innern: // durch dich hier hindurch / auf den Schild / der Ewigen Wanze gespiegelt, / umschnüffelt von Falsch und Ferstört, // die unendliche Schleife ziehend,
trotzdem, / die schiffbar bleibt für die un- / getreidelte Antwort».
39
48
Bevilacqua, «Eros - Nostos - Thanatos», cit., pp. XIX-XX:
«L’amico che gli è stato più vicino, Petre Solomon [Bevilacqua
si riferisce al periodo bucarestino di Celan, tra il 1945 e il 1947,
n.d.r.], parla addirittura di “spumeggiante vitalità”. E aggiunge:
“[...] lo humour era parte costituente della struttura intellettuale
del poeta ed esso era destinato a non venir meno neanche nella
fase tragica della sua poesia (seppure in forma tormentata)”.
[...] I paradossali e grotteschi ludi verbali, le esilaranti paranomasie saranno stati anche un precipitato del gusto surrealista
cui allora Celan indulgeva abbondantemente; ma erano altresì la
prima rivelazione di un talento inventivo di particolarissima
qualità, forse condizionato dal suo multilinguismo represso in no-
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diale che regge il cosmo nella mitologia islamica:
Bahamut, il pesce che nuota in un mare infinito sostenendo i diversi elementi dell’universo – tarda elaborazione, a propria volta, del favoloso animale
Behemot della tradizione ebraica. Narra per noi Jorge Luis Borges:
La fama di Behemot raggiunse i deserti dell’Arabia,
dove gli uomini alterarono e ingrandirono la sua immagine. Da ippopotamo o elefante lo fecero pesce che
si sostiene sopra un’acqua senza fondo, e sopra il pesce immaginarono un toro, e sopra il toro una montagna di rubino, e sopra la montagna una angelo, e sopra l’angelo sei inferni, e sopra gl’inferni la terra, e sopra la terra sette cieli. [...] Così immenso e risplendente è Bahamut, che gli occhi umani non possono sopportarne la vista. Tutti i mari della terra, raccolti in
una delle sue narici, sarebbero come un granello di senape in mezzo al deserto. [...] La finzione della montagna sopra il toro e del toro sopra il Bahamut e di
Bahamut sopra un’altra cosa qualsiasi sembra illustrare la prova cosmologica dell’esistenza di Dio, in cui si
argomenta che ogni causa suppone una causa anteriore, e si afferma la necessità di porre una causa prima
per non continuare all’infinito41.
nome di una fedeltà al tedesco, ossia alla lingua “materna”, che
fu anche sacrale fedeltà al ricordo della madre». È ben nota,
però, anche l’importanza dell’umorismo e del gioco di parole,
spesso venati di profonda amarezza trattenuta sulla soglia del
sorriso, nella tradizione ebraica della Mitteleuropa.
41 J.L. Borges, Manuale di zoologia fantastica, Einaudi, Torino 1962, pp. 35-36. Sul Behemot della tradizione ebraica, si vedano le pp. 42-44 e, nella B i b b i a, Giobbe 40, 10-19. Sui miti di
creazione in generale, e sulla presenza di analoghi animali cosmici in altre tradizioni mitologiche (ad esempio, in quella cine-
50
Dov’è, ora, il sogno splendido di Behemot? Davvero una «cimice» ne ha usurpato l’eternità? Così
grottesco è divenuto il senso ultimo dell’essere? Perché non rispondiamo?
Benché non oda la nostra voce, la «crepa di fuoco» percorre «tuttavia la curva infinita». È probabilmente lecito leggere in questa espressione, così densa ed allusiva, il concetto di tempo formulato da Albert Einstein nella teoria della relatività generale –
sostanzialmente condiviso, non senza un certo sgomento, da Celan. Il tempo cosmico, dunque, rimane
pur sempre “navigabile”, ma a una condizione: che
tutto ciò avvenga per noi attraverso un “tu” (durch
d i c h) mediatore di grazia e di senso, nell’autenticità
di un colloquio pienamente umano. Il “tu” mediante il quale ci giunge il richiamo sa donarci la forza di
rispondergli, e di riconoscerci in esso. La sua verità
ci permette di “navigare” nel tempo con altrettanta
verità, e di scegliervi una rotta con piena consapevolezza. Ogni risposta al richiamo della luce dev’essere
libera nell’intimo, non “trainata da riva” (un- / getreidelte): con sensi adeguati, grazie al “tu” che ci
abilita all’essere, potremo percepire il moto e l’ampiezza del tempo. Solo una donna può fare questo42,
se), si veda nel complesso lo studio di M.-L. von Franz, I miti di
creazione, Bollati Boringhieri, Torino 1989 (trad. di S. Stefani).
42 L’identificazione del “tu” della lirica con una figura femminile estremamente significativa non è un mio arbitrio. G. Bevilacqua, «Introduzione», in P. Celan, Luce coatta e altre poesie
postume, Mondadori, Milano 1983, p. XIV: «Nella più enigmatica figura femminile che attraversa tutta l’opera di Celan si riconosce una mater dolorosa dai tratti in parte mitici in parte realissimi; quella stessa madre, provvida e terribilmente oracolante, che
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non ho dubbi al riguardo; e può permetterne anche,
misteriosamente, l’infinità e la permanenza.
Tornano le notti, sorgono ancora i mattini: separati ma imprescindibili, inevitabilmente opposti.
Nota Adin Steinsaltz:
***
Quando mi interrogo ansioso sul tempo – il tempo d’altri che s’arresta accanto al mio, il ciclo dei
giorni e delle notti che si ripete senza più alcuna logica apparente, gli attimi che scivolano inavvertiti su
di me – «il furore di tacere / radia come stella»43.
Negli istanti della mia vita, forse anch’io ho cercato difese – ma il tempo muore: il tempo può morire. Un momento si congeda dall’altro, un giorno dalla notte che lo manda, un anno dall’altro che lo segue: persone amate si separano da noi, escono dal
computo dei mesi, entrano nell’ombra. Luci brucianti divampano in noi:
Posso ancora vederti: un’eco
che si avverte con sensibili
parole, sullo spigolo vivo del distacco.
Il tuo volto, lieve, si adombra
quando a un tratto
come luce si fa chiaro
in me, nel punto in cui
con pena infinita diciamo: mai44.
campeggia nel meraviglioso ciclo Atemkristall, facendone una
perfetta unità».
43 P. Celan, «Erst wenn ich dich...» (Soltanto se io...), in
Zeitgehöft (Dimora del tempo), ora in Poesie, cit., p. 1268, vv. 1213: «Schweigewütiges / sternt».
44 P. Celan, Lichtzwang (Luce coatta), in P o e s i e, cit., p. 996:
«ICH KANN DICH NOCH SEHN: ein Echo, / erstbar mit Fühl- / wörtern, am Abschieds- / grat. // Dein Gesicht scheut leise, / wenn es
52
Per la verità, a Ro’š ha-šanah assistiamo a una specie di
inizio assoluto del tempo: quel giorno è il vero punto
di partenza di un tempo che non è affatto concepito
come una continuità che scorre all’infinito, bensì come una successione di entità rigidamente delimitate.
Ciascuna di queste entità ha una vita propria: in un
certo senso il tempo è un organismo vivente; per questo il tempo può nascere e poi morire. [...] Il tempo è
una pulsazione. Assomiglia ai battiti del cuore: ogni
battito è un fenomeno a sé stante. [...] C’è una specie
di cuore del mondo, il cui battito continuo permette
al mondo di vivere. Proprio perché questo battito è
continuo noi non siamo consapevoli della sua vera
struttura, che è dialettica, ed è, alla fine, soltanto una
concatenazione di discontinuità... [...] Non dimentichiamo che la parola šanah (anno) viene da una radice
che significa raddoppiamento, ripetizione45.
auf einmal / lampenhaft hell wird / in mir, an der Stelle, / wo man
am schmerzlichsten Nie sagt». La traduzione è di Gobbi e Nicol i s .
45 Eisenberg - Steinsaltz, Il candelabro d’oro, cit., p. 22. Com’è
noto, Ro’š ha-šanah è la festività ebraica che dà inizio al nuovo anno: è memoriale non della creazione del mondo, ma di quella dell’uomo. In essa si rinnova la regalità di Dio, e viene di conseguenza stabilita la sorte di ciascun abitante della terra. Buber, I racconti dei Hassidim, cit., p. 104: «Rabbi Pinhas entrò una volta nella
Scuola e il suo sguardo cadde su un leggio. “Anche per questo
leggio”, disse, “il primo dell’anno si giudica se deve essere conservato o se deve rompersi”». La riflessione ebraica sul tempo ha
prodotto nel nostro secolo un’autentica e preziosissima messe di
testi, che non è nemmeno pensabile citare qui nella sua comp l etezza; basti pensare soltanto a E. Lévinas, Dio, la morte e il tem-
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Noi viviamo il privilegio provvisorio della pesantezza, della fisicità; eppure, visi amati già ne sono
privi. Il loro tempo è concluso, separato per sempre
dal nostro.
Forse, il tempo è uno per ogni singolo uomo. È
illusione, dunque, il tempo cosmico? Perché le notti
si ritraggono, perché ritorna il mattino? È inganno il
tempo condiviso? Ogni volto, prima o poi, «si
adombra» e si fa «lieve».
Nei rari momenti in cui ne ho avuto una percezione intensa e improvvisa, forzatamente momentanea – non avrei retto, altrimenti: sarei rimasto annientato – mi sono sentito trafitto da uno «spigolo
vivo» – irrimediabilmente: il tempo è un insistito,
franto congedo. Non mi è sembrato paragonabile a
un fiume in cui ci accada di scoprirci immersi, ma
piuttosto a un vento che ci investe – spesso, al furore inatteso d’una slavina. Forse, siamo noi a riceverlo e a portarlo sulle spalle: a rivestircene come di un
tallet – lo scialle orlato di frange, nel quale soltanto
si è degni di rivolgersi a Dio. Forse, è il tempo ad
addentrarsi in noi, incurante della barriera di carne
che vanamente ci protegge. «Una volta» narra Martin Buber «Rabbi Mardocheo vegliò tutta la notte
con i suoi scolari. Quando vide spuntare l’alba, disse: “Noi non siamo penetrati nei confini del giorno,
ma il giorno è penetrato nei nostri confini, e noi non
abbiamo bisogno di ritirarci di fronte a esso”»46.
Forse, il tempo è «un’eco / che si avverte con sensibili / parole». «Si fa chiaro» in noi soltanto là dove
t e m p o,a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1997, e Il Tempo
e l’Altro, a cura di F.P. Ciglia, Il Melangolo, Genova 1997.
46 Buber, I racconti dei Hassiddim, cit., p. 136.
54
non abbiamo più alcuna difesa, quando non possiamo più sperare salvezza: nel dolore indicibile dei distacchi terrestri, realmente esperiti – «nel punto in
cui / con pena infinita diciamo: mai».
Carità della notte
La notte di Celan è viva, abitata: è pur sempre la
notte della storia d’Israele, la stessa che Jannai cantò
con esultanza e di cui tutti gli ebrei fanno memoria –
tempo di pericolo ma anche di prodigi e di salvezza,
di vicinanza tangibile di Dio:
Avvenne a mezzanotte.
Molti miracoli eccezionali Tu hai compiuto di notte.
All’inizio delle vigilie di questa notte.
Tu facesti vincere il proselita quando per lui si divise
la notte.
Avvenne a mezzanotte.
Tu punisti il re di Gherar nel sogno di notte.
Tu spaventasti l’arameo nel buio della notte.
Israele lottò contro l’angelo e vinse di notte.
Avvenne a mezzanotte.
I primogeniti d’Egitto tu colpisti a mezzanotte.
Le loro ricchezze non trovarono quando si alzarono
di notte.
La sconfitta del principe di Charoshet che Tu
abbattesti
avvenne con le stelle della notte.
Avvenne a mezzanotte.
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Al derisore che aveva programmato di alzare
la sua mano
contro la città desiderata, Tu facesti seccare i corpi
dei suoi soldati
di notte.
Precipitò Bel con la sua base nel cuore della notte.
All’uomo prescelto fu rivelato il segreto in visione
di notte.
Avvenne a mezzanotte.
Colui che si ubriacava bevendo nei recipienti sacri
fu ucciso di notte.
Fu salvato dalla fossa dei leoni colui che spiegava
le impressionanti visioni della notte.
L’agaghita serbava rancore e scriveva lettere di notte.
Avvenne a mezzanotte.
Tu destasti la tua vittoria su di lui con l’insonnia
di notte.
Metti in moto il torchio a favore di chi osserva
che cosa avverrà dalla notte.
Come il custode grida e annuncia: È venuto il mattino
ed anche la notte.
Avvenne a mezzanotte.
Avvicina il giorno in cui non vi sarà né giorno né notte.
Eccelso, rendi noto che Tu sei padrone del giorno
e della notte.
Nomina dei custodi per la tua città per tutto il giorno
e per tutta la notte.
Illumina come la luce del giorno le tenebre della notte.
Avvenne a mezzanotte47.
Jannai (VI sec. e.v.), «Avvenne a mezzanotte», in Haggad a h
di Pesah. (rito sefardita), La Giuntina, Firenze 1984, pp. 117-121
47
56
***
Altra, benché compiutamente ebraica, è la notte
viva di Celan – l’unica credibile dopo la Shoa, la sola
che può precedere e seguire il «mattino renitente»:
Una volta,
m’accadde di udirlo,
lavava il mondo,
non visto, per tutta la notte,
inconfutabile.
(Composizioni poetiche da cantarsi dopo la Haggadah). Il “proselita” è Abramo; la notte è divisa in tre vigilie. Jannai si riferisce alla vittoria riportata da Abramo nella prima metà della notte sui re che fecero prigioniero suo fratello Lot. Il “re di Gehar”
è Avimelech, che aveva rapito Sara (si veda Genesi 20); l’“arameo” è Labano, suocero di Giacobbe (Genesi 31); la lotta notturna di Giacobbe-Israele con l’angelo è narrata in Genesi 24ss.
Sui primogeniti d’Egitto e la sconfitta di Charoset, si vedano rispettivamente Esodo 29; Esodo 35; Giudici 20. Il “derisore” è il
re assiro Sancheriv (si veda 2Re 35); Bel è una divinità babilonese, per cui si veda Isaia 46; il “prescelto” è il profeta Daniele (si
veda Daniele 2), che spiegò il sogno di Nabucodonosor sulla base di un’ispirazione divina altrettanto notturna. «Colui che si
ubriacava bevendo nei recipienti sacri» è Baldassarre, re di Babilonia e figlio di Nabucodonosor (si veda Daniele 5); chi fu salvato dalla fossa dei leoni è il profeta Daniele (Daniele 6); l’“agaghita” è Aman, che dispose per lettera, utilizzando il sigillo del
re Assuero, la distruzione d’Israele (si veda Ester 3). Nell’insonnia, Assuero apprese per caso, facendosi leggere le cronache del
proprio regno, delle disposizioni fraudolente di Aman (si veda
Ester 6): potè così porvi rimedio, salvando gli ebrei dallo sterminio. L’esortazione a “mettere in moto il torchio” è rivolta a Dio
contro Edom in Isaia 43; in Isaia 21 l’avvento del mattino è simbolo della salvezza di Israele dall’ostilità del popolo di Edom, e
la notte raffigura la distruzione di quest’ultimo. Secondo Zaccaria 6ss., l’avvento del Messia abolirà la distinzione tra il giorno e
la notte, perché nessun pericolo minaccerà più Israele.
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Uno ed infinito,
annichilito,
ichilire.
E fu luce. Salvezza48.
Nella “notte” sembra ancora riposta ogni speranza di “salvezza”; il poeta, però – diversamente dal
suo antico fratello, così entusiasta delle infinite meraviglie che accaddero nel buio – non osa nemmeno
accennare in cosa mai gli sia accaduto, una volta solP. Celan, Atemwende (Svolta del respiro), in Poesie, cit., p.
686: «EINMAL, / da hörte ich ihn, / da wusch er die Welt, / ungesehen, nachtlang, / wirklich. // Eins und Unendlich, / vernichtet, / ichten. // Licht war. Rettung». Al v. 4, Bevilacqua traduce
l’avverbio n a c h t l a n g: «per tutta la Notte»; l’iniziale maiuscola,
che è una sua precisa scelta interpretativa e non un refuso tipografico (anche altrove e in riferimento ad altri termini ricorre,
nel volume, il medesimo uso), si spiega forse con il riferimento
alla Shoa, “Notte” per antonomasia, che lo studioso correttamente legge come realtà onnipresente nella lirica di Celan. Questa lettura, però, avrebbe modificato il mio orientamento nell’esegesi del testo, ed avrebbe aperto spazi immensi ad altre argomentazioni che non mi sono sentito di affrontare in questa sede;
ho provveduto, perciò, riportando la traduzione di Bevilacqua,
ad eliminare l’iniziale maiuscola del termine “notte”, sostituendola con la minuscola – con l’intenzione di dare all’avverbio nachtlang un significato più generale, forse più vicino all’esperienza di coloro che hanno udito unicamente il racconto della Shoa,
ma non ne sono stati né vittime, né testimoni, né sopravvissuti.
Tale operazione mi è parsa bisognosa di giustificazione. Nota,
del resto, lo stesso Bevilacqua, «Introduzione», in Celan, Luce
c o a t t a, cit., p. XXIV: «Il tentativo di versione messo a fronte dei
testi non pretende di ricreare nulla, esso assume una funzione di
mero strumento, per abbreviare, se possibile, l’indispensabile
approccio all’originale. In molti casi il traduttore è stato costretto a fare delle scelte dalle quali avrebbe preferito esimersi». È
un’affermazione che si può intendere in senso assoluto, e applicare a qualsiasi traduzione dell’opera di Celan.
48
58
tanto (einmal), di sperare. Con parole al tempo stesso trasparenti e opache, narra una semplice esperienza: qualcuno, «per tutta la notte» (nachtlang),
era là (d a), in un luogo imprecisato, dove non poteva essere visto (u n g e s e h e n); purificava il mondo, lo
«lavava» (waschen). La percezione, benché momentanea e improvvisa – di certo mai più ripetibile –
non può essere messa in dubbio: tutto è accaduto
nella verità (wirklich), in maniera «inconfutabile».
La lirica chiude la raccolta A t e m w e n d e (Svolta del
respiro): ne costituisce totalmente, in una solitudine
colma di significato, la sesta e ultima sezione. Chiunque sia, l’ospite misterioso della “notte” è all’opera
nel mondo, e agisce incessantemente: lui solo, forse,
potrebbe provocare in noi una “svolta del respiro”
capovolgendo il destino e donandoci una nuova
identità; ci offrirebbe una “luce” di “salvezza”.
Il termine tedesco Rettung (salvezza) appartiene
all’area semantica di Recht, richten, richtig49: la “salvezza” abbagliante di colui che purifica la “notte”
coincide dunque con il ristabilimento della giustizia,
della misura, dell’autenticità e della rettitudine nella
natura umana, dopo gli orrori di cui essa ha dato
prova; avvolgerebbe i nostri deboli corpi votati alla
morte e riscatterebbe le menti dalla capacità di conColetsos, Le parole del tedesco, cit., pp. 156-157: «Il termine oggi comunemente usato per “diritto”, è, come accennavamo, Recht, che deriva dall’aggettivo ata. [scil. alto tedesco antico, n.d.r.] reht; dal significato originale “dritto” (mod. gerade)
si è sviluppato quello traslato di “giusto”, “esatto” (mod. richtig
derivato da recht), quindi “giusto secondo la morale e la legge”
[...]. Il senso primitivo è ancora evidente in richten “drizzare” e,
in geometria, die Rechte “la retta” (cf. it. retta)».
49
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cepire il male. Nel racconto del poeta, indubitabilmente vero, egli è «Uno e infinito» (Unendlich), eppure è «annichilito» (vernichtet).
Celan mi ha lasciato libero di interpretare, di collegare la sua esperienza con la mia: mi sono chiesto
se, quando e in che modo io abbia mai vissuto qualcosa di simile. Ho riflettuto, tentando di ricordare: da
allora in poi, ho teso l’orecchio «per tutta la notte».
Colui che «lava il mondo» resta impossibile da
identificare, ed è colto nell’atto di «ichilire» (ichten):
espressione intraducibile, da intendersi forse nel
senso di “affermare se stesso, realizzare la propria
identità” – proprio in quanto «annichilito» e «non
visto». Un’alchimia verbale riprende in parte il termine vernichtet (“annichilito”), che è participio passato, per trasfonderla nell’infinito presente ichten
(“ichilire”: ma la versione non può che essere un
calco del termine tedesco, assente da qualsiasi dizionario). Il contesto sembra suggerire che questa condizione dell’ospite notturno lo accompagni da tempo nell’agire: essa lo caratterizza in modo sostanziale, pur non limitandolo in nulla – anzi, abilitandolo
a compiere l’opera invisibile.
L’averlo percepito come per caso, una volta soltanto – pur senza essere riuscito a vederlo – è bastato a Celan per enunciare come realtà compiutamente esperita qualcosa di semplice e sconcertante al
tempo stesso: «E fu luce. Salvezza»50.
50
Il racconto resta inafferrabile, e riconosce implicitamente
come un valore l’impegnativa libertà dell’interprete: offre ampi
spazi di collaborazione nel difficile e avventuroso riconoscimento
del senso, non solo dei termini, ma anche dell’esistere che vi viene
60
***
Ricordo che, non appena distolsi lo sguardo da
questa poesia, una tenerezza infinita m’invase: disarmante e inquieta – un’incerta promessa di pace. Con
Celan, mi volsi a invocare la notte:
Notte piccina: se tu
mi accetti, mi accetti,
lassù,
tre cubiti di dolore sopra
terra:
tutte le vesti di sabbia
entro cui si muore, tutti
i vani soccorsi, tutto, ciò che ancora
con la lingua ride – 51
espresso, vicendevolmente richiesto e nuovamente fondato. La
voce war del verbo ausiliare sein può corrispondere sia all’italiano
“era” (azione continuata nel passato), sia a “fu” (azione compiuta
nel passato). La seconda lettura (“fu”) rende assoluta la percezione della “luce” come soggetto del verbo, e ne intende l’avvento
come un accadere improvviso e momentaneo; l’einmal (“una sola
volta”) iniziale orienta in questa direzione. Si potrebbero, però,
considerare come soggetto di war l’ospite notturno e il sostantivo
Licht come predicato verbale, esplicitando nel verbo l’aspetto di
azione continuata nel passato – in coerenza con l’avverbio n a c ht l a n g, “per tutta la notte”, che suggerisce a sua volta una continuità implicita nel verbo w u s c h, “lavava”; anche l’infinito presente ichten è forma verbale di aspetto continuato. Questa la traduzione che ne risulterebbe: «[L’ospite notturno, tutt’uno con la sua
azione chiaramente percepita] Era luce. Salvezza». Una scelta radicale tra le due possibilità di traduzione è certamente impossibile; sembra più corretto tenerle presenti entrambe come eventualità di significato, come momenti diversi e complementari di una
“lettura infinita” radicata nell’intenzione stessa del poeta.
51 P. Celan, «Zeitgehöft (Dimora del tempo)», in Poesie, cit., p.
1286: «KLEINE NACHT: wenn du / mich hinnimmst, hinnimmst, /
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È piccola la notte di Celan: è l’umile notte della
terra, una soltanto tra le miriadi di notti che popolano l’universo – più piccola dei suoi figli di luce affaticata: i «vani soccorsi», i mattini.
L’asprezza del sostantivo tedesco Nacht è mitigata dal dittongo “ei”, che risuona inatteso tra le consonanti “l” e “n”, rispettivamente liquida e nasale,
dell’aggettivo kleine; fedeli alleate, esse sembrano
introdurci in un’aura trasognata di dolcezza: un sussurro di risacca, o un tenue sciabordio di mare, mobile e calmo – come nel mite suono ebraico, laylah.
L a y l a h, laylah... è una parola che si ripeterebbe
all’infinito, a mezza voce: forse, perché rinnova in se
stessa due sillabe semplici come un canto di culla.
Laylah... la mia notte. Lei sola, forse, avrebbe potuto
portarmi al di là d’ogni cosa, benché non molto lontano: «tre cubiti di dolore sopra / la terra». Sarebbe
bastata perché potesse sussistere, in un’armonia impensabile qui, tutto ciò che è puramente umano: la
morte, la speranza, la gioia.
Avrebbe accolto anche me, «lassù», con carità
perfetta? L’invocazione era anch’essa ripetuta – nell’umiltà della supplica, nella tenerezza sincera della
confidenza: «se tu / mi accetti, mi accetti»... Il luogo
desiderato: vicino, vicinissimo; il dolore, già in mio
possesso. La madre dei mattini avrebbe potuto donarmi questa grazia.
hinauf, / drei Leidzoll überm / Boden: // alle die Sterbemäntel
aus Sand, / alle die Helfenichtse, / alles, was da noch / lacht /
mit der Zunge».
62
Luce natante
Atomi di congedo si univano, per Celan, a comporre le fondamenta del mondo: molecole di commiato insite nell’essere, elementi originari del tempo
e delle forme. Su fondamenti ontologici inoppugnabili, egli sembra aver tracciato le linee di una radicale fenomenologia della separazione. Le ha scorte
con precisione microscopica, e ne ha riprodotto l’aspetto come in fotografia: con luci di volta in volta
diverse, da angolazioni cangianti. Del congedo, conosceva ogni istante: dai terrori del presentimento
all’amarezza del dopo, dalle speranze dell’attesa al
gelo del fatto compiuto. In ciascuno ha testimoniato
la compresenza, sempre possibile, di ferocia e tenerezza, d’amore intatto e di devastazione, di consapevolezza e di resa – e l’alternarsi di altre realtà. Egli
stesso, infatti, non ne fu risparmiato: lo visse più volte, in più forme, dalla prima adolescenza – e preparò a lungo il proprio addio. La sua vita, però, non
fu soltanto un lento e progressivo prendere commiato, in risposta a quanto a sua volta si separava da lui;
fu un riconoscere il congedo onnipresente, per chiamarlo fermamente per nome52.
52
Com’è noto, Celan si suicidò gettandosi nella Senna in un
giorno prossimo al 20 aprile 1970: giorno non chiaramente
identificabile, perché il corpo fu rinvenuto qualche tempo dopo. Per ogni notizia biografica su Celan, si veda M. Specchio (a
cura di), «Cronologia», in Celan, Poesie, cit., pp. CXXXI-CLX. M.
Kahn, «Introduzione», in Celan, P o e s i e, cit., p. 24: «Quando ai
primi di maggio del 1970 si è saputo che Celan si era tolta la vita
gettandosi nella Senna, si è subito interpretato questo come l’ultima conseguenza della sua opera. In verità, la possibilità del
suicidio – lo si può leggere nella sua poesia fin dall’inizio – non
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Una luce nuota nella luce: accade, e non sempre
in segreto. L’aria e la luce terrestre sembrano riconducibili, per Celan, all’unica vastità dell’elemento liquido, portatore anch’esso di un’intima, dolorosa
separazione. Sul caos acquatico che fu protagonista
degli inizi «si librava lo spirito di Dio» – ma il racconto della creazione, all’analisi dei termini ebraici
impiegati nel testo della Genesi, sembra veicolare un
nucleo sconcertante di violenza:
era mai stata esclusa. Ma non dipendeva dallo sviluppo letterario di Celan, bensì dalla vita che si rifletteva in esso». M. Ranchetti, «Premessa del curatore», in P. Celan, Conseguito silenzio,
a cura di M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1998, pp. V-VI: «Naturalmente anche per queste poesie sarebbe necessario poter disporre di informazioni elementari, dati biografici certi, per ricostruirne almeno in parte le occasioni, e per eliminare la tentazione di ricondurre tutto il corpus poetico di Celan ad alcuni fatti
primari: la morte della madre e del padre, la morte del primo figlio, il mutamento di luoghi e di lingue, e per evitare la semplificazione di intendere e di giustificare il sopravvenire della malattia [la depressione che lo condusse al suicidio, n.d.r.] come risultato necessario, indotto anche, forse, dalla suggestione di un
destino poetico affine (Nelly Sachs), sino ad una progressiva assimilazione della propria esistenza individuale a quella del popolo ebraico, [...] una straordinaria compresenza di libertà, lingua e natura, parole singole e composte, di amore e ricordo, gesto e speranza». Le parole di Ranchetti si riferiscono alle poesie
che Celan lasciò inedite alla propria morte, solo di recente rese
accessibili dagli eredi – ma sembrano applicabili, senza alcuna
forzatura, alla quasi totalità della sua produzione. Come in una
fotografia ritagliata in frammenti, gli atti e i volti del commiato
giacciono ora sulla scrivania del poeta: perfettamente veri, riconoscibili una volta per sempre. A proposito del rapporto, opposto in senso speculare, tra l’opera di Celan e quella di Nelly Sachs, si veda Kahn, «Introduzione», cit., pp. 11-12: «La sua lirica
si può considerare una contrapposizione alle poesie di Nelly Sachs, la quale pure fece del destino degli ebrei argomento della
propria lirica. Ma mentre Celan tentò di cercare e acquistare
con il suo linguaggio il senso di questa orribile realtà, Nelly Sachs considerò la stessa realtà un qualcosa di già determinato nel
destino degli ebrei [...]. Per lei, che riuscì a malapena a sfuggire
al terrore nazista rifugiandosi in Svezia, le sofferenze degli ebrei
in Germania e Europa furono la scintilla di accensione del suo
scrivere, ma la sua opera non si può limitare a questo avvenimen-
L’espressione tohu wa-vohu indica l’informe: l’oceano
primordiale coperto dalle tenebre definisce il caos sotto l’aspetto della materia, come il primigenio elemento acqueo, e media per associazione un’idea dimensionale: t e h o m, “mare del caos”, è l’abisso cosmico (Jacob). Quest’elemento però è sconvolto (cf. Daniele 7,
2) da un vento di Dio. Il molto discusso merahefet
(Lutero: «si librava») [...], in corrispondenza a Deuteronomio 32, 11 e Geremia 23, 9, sembra da connettersi con verbi indicanti vibrazione, tremore, agitazione.
Un significato analogo si può scoprire in Daniele 7, 2.
Ruah. elohim (Lutero: «spirito di Dio») è tradotto meglio con “vento di Dio” = tempesta tremenda (cf.
“monti di Dio”, “terre di Dio”, “argento di Dio” al
posto di un superlativo)53.
64
Devastando impetuoso le acque, con raffiche terribili, Dio le separò in due mari paralleli ed opposti,
e pose tra essi il firmamento; radunò poi, a loro volto [...]. Celan, invece, che dovette subire di persona il terrore
nazista, rimase profondamente legato a questo unico avvenimento storico, il grande ‘miasma’, da cui egli trasse continuamente le sue poesie – senza alcuna speranza che questo potesse
essere mai superato [...]. La sua esperienza personale di sofferenza si muta in esperienza poetica del mondo [...]. Esiste solo
un avvicinarsi, un tentar di parlare, un cercare a tastoni cosa ancora dicibili, memorie funebri».
53 Genesi, di von Rad, cit., p. 56. Sul caos primordiale, si veda anche Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., pp. 453-459.
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ta, le acque terrestri perché potesse apparire uno
spazio abitabile nel mondo54.
Il giudaismo postbiblico creò una serie di leggende
che diedero voce al dolore delle acque, e ne immagin ò
il pianto come il cordoglio di due amanti divisi per
sempre dall’imperscrutabile volontà del creatore55.
In questi racconti l’acqua, come elemento ribelle, pare
personificazione di un principio acosmico, che si oppone all’ordine divino e che rappresenta quindi una
minaccia alla stabilità della creazione56.
Una seconda volta «Dio sconvolse con un forte
vento il mare per tutta la notte, lo ridusse all’asciutto e le acque si divisero»57: quando Mosè distese il
braccio sul Mare dei Giunchi, perché il popolo in
fuga potesse attraversarlo.
Anche l’aria, materia unica del vento, sembra per
Celan appartenere al mondo marino, se una luce
ignota l’attraversa nuotando alla volta del tempo terrestre: barriera tra due mondi, l’aria è forse un annuncio insperato di unione. Proprio lei, destinata a
dividere senza alcuna pietà, sembra assumere i tratti
dell’acqua, ed ospitare una traiettoria luminosa:
Cera,
a sigillare il non-scritto
Genesi 1, 6-10.
Si veda Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., pp. 209210, assieme alle fonti incluse nel volume.
56 Ivi, p. 210.
57 Esodo 14, 21.
54
55
66
che presagì
il tuo nome,
che cifrò
il tuo nome.
Vieni, alfine, luce natante?
Dita, ceree anch’esse,
stirate
da estranei, doloranti anelli.
Sparite le punte, liquefatte.
Vieni, luce natante?
Vuoti di tempo i favi dell’orologio,
nuziale lo sciame s’appresta
a partire.
Vieni, luce natante58.
È un cauto presagio di gioia: colei che giunge,
benché sconosciuta, compie infatti un viaggio nuziale. Il suo nome è cifrato in un «non scritto» suggellato
dalla ceralacca (W a c h s), come in un contratto di nozze che nessuna mano ha ancora steso. L’attendono
«dita» che le corrispondono, «ceree anch’esse»; le
stringono «anelli» «estranei», stranieri (F r e m d e) alla
loro natura, in un dolore rovente che le scioglie – «le
58
P. Celan, «MIT BRIEF UND UHR» (CON LETTERA E OROLOin Sprachgritter (Grata di parole), ora in Poesie, cit., p. 258:
«Wachs, / Ungeschriebnes zu siegeln, / das deinen Namen / erriet, / das deinen Namen / verschlüsselt. // Kommst du nun,
schwimmendes Licht? // Finger, wächsern auch sie, / durch
fremde, / schmerzende Ringe gezogen. / Fortgeschmolzen die
Kuppen. // Kommst du, schwimmendes Licht? // Zeitleer die
Waben der Uhr, / bräutlich das Immentausend, / reisebereit. //
Komm, schwimmendes Licht».
GIO),
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punte», infatti, sono già «sparite»: «liquefatte» (f o r tg e s c h m o l z e n), annientate dal calore insopportabile.
Eppure, queste stesse dita attendono fervide la «luce
natante» che giunge come sposa: si preparano a librarsi, a fuggire dal tempo umano – in figura di api
da dimore di cera, nella stagione feconda: uno «sciame» «nuziale». Cos’hanno da offrire, ormai, «i favi
dell’orologio»? Com’è possibile vivere ancora negli
istanti della storia, i soli che l’uomo sappia misurare?
Ciò che sta per iniziare sembra un viaggio alla volta
del tempo cosmico e del suo abbagliante messaggero.
La domanda, formulata per due volte, subisce
una riduzione che pare corrisponde al crescere del
desiderio, alla trepidazione della speranza: «Vi e n i ,
alfine...?» (Kommst du nun...?), «Vieni...?» (Kommst
d u . . . ?). È spontaneo pensare a un affievolirsi della
voce, al suo farsi più tremula e lieve. Alla fine, la domanda si contrae ulteriormente – come trattenuta,
carica d’ansia: «Vieni, luce natante». È un’invocazione emessa a fior di labbra.
La triplice scansione sembra evocare i tre suoni
che solo lo šo f a r, il corno della liturgia ebraica, è in
grado di emettere: la teqi‘ah, nota che permane a
lungo; gli ševarim (“incrinature”), suoni spezzati che
salgono e scendono d’altezza per tre volte; la teru‘ah, voce di lamento ripetuta nove volte. Spiega
Adin Steinsaltz:
[Lo šof a r] è, di per sé, il segno stesso del cambiamento. [...] È il suono primigenio, inarticolato, che rinvia
al mondo prima della parola... [...] Lo šofar è una voce
pura che viene dal cuore. Non assomiglia alla parola, che
è fatta di lettere che hanno origine nel pensiero. [...]
Ora, l’interiorità del cuore è di rango più alto del pensie-
68
ro [...] e la voce dello šofar è come un grido del cuore,
così come è scritto: «Grida dunque verso il Signore»
(Lamentazione 2, 18). Sta qui il significato della teqi‘ah,
la voce pura che viene dall’interiorità del cuore ed è seguita dagli shevarim, un gemito che esprime l’incrinatura del cuore, e infine dalla t e r u ‘ a h, un lamento, un pianto destinato a risvegliare la misericordia divina59.
Più che gemiti, Celan emette sussurri: con la speranza, è bene essere prudenti.
***
Immagini fluviali e marine, di pesca e di navigazione, si affollano nella poesia di Celan: l’elemento
liquido vi è quasi onnipresente – sia in se stesso, senza determinazioni, sia in costante interazione con la
presenza umana60.
La divina violenza, separatrice efficace e perfetta,
era pur sempre un vantaggio per l’uomo: apriva per
lui spazi di vita e di fuga. Lo “squarcio” nel Mare
dei Giunchi, in particolare, manifestando una via
Eisenberg - Steisaltz, Il candelabro d’oro, cit., pp. 50-51. Il
corsivo è degli autori, e segnala una citazione dagli scritti di
Rabbi Shneur Zalman di Liady (1745-1813), «uno dei grandi
del chassidismo, fondatore del movimento Chabad» (ibid., p.
12). Sullo šofar si veda anche Busi, Simboli del pensiero e b r a i c o,
cit., pp. 404-409.
60 Si vedano, ad esempio, limitatamente a luoghi in cui la
presenza dell’elemento liquido sia particolarmente significativa
ed alle sole raccolte «Von Schwelle zu Schwelle» (Di soglia in
soglia) e «Atemwende» (Svolta di respiro), ora in Celan, Poesie,
cit., rispettivamente le pp. 136, 142, 148, 152, 162, 164, 182,
190, 192, 206, 210, 222-242; 542, 546, 558, 560, 564, 570, 594,
598, 604, 608, 621, 624, 640, 648, 650, 666, 670, 674, 682.
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sconosciuta e impensabile, aveva rivelato e reso abitabile un mondo nascosto, recato salvezza:
Per gli uomini il mare ha rappresentato sempre un
grande mistero: è un immenso universo del quale si
vede solo la superficie e la cui straordinaria abbondanza reca il nome di ‘olam dehitkassiya, il mondo
delle cose nascoste.
D’altra parte, questo è il mistero della vita [...]61.
Tutto, allo sguardo del poeta, sembra aver svelato la propria natura liquida, mascherata per noi in
varie forme: il gelo, la neve, la brina, l’acqua salata e
l’acqua dolce – che l’uomo argina o contempla, sulla
quale cammina o scivola cadendo, che tenta, che
perfora. L’unità di tutte le cose si è resa palese al di
là di ogni divisione, di ogni differenza:
Zona di neve, inalberata, fino all’ultimo,
nel vento ascendente, dinanzi
alle baite definestrate
per sempre:
sogni radenti spazzano
sullo
striato ghiaccio;
sbozzare le ombre di parole, accatastarle
attorno all’arpione
nel tonfano62.
61 Eisenberg - Steinsaltz, Il candelabro d’oro, cit., p. 161; ma
si vedano anche le pp. 156-189.
62 P. Celan, Schneepart (Parte di neve), ora in P o e s i e, cit., p.
1122: «SCHNEEPART, gebäumt, bis zuletzt, / im Aufwind, vor /
den für immer entfernsten / Hütten: // Flachträume schirken /
übers / geriffelte Eis; // die Wortschatten / heraushaun, sie klaf-
70
Senza lasciarsi ingannare dalla molteplicità delle
apparenze, dunque, Celan indaga «il mondo delle
cose nascoste»; nessun rifugio (H ü t t e) può più salvare dal «vento ascendente», né è lecito illudersi di
poter trovare riparo: nessuna finestra resiste, ognuna ha ceduto «per sempre». Là dove l’acqua è più
profonda (im Kolk) – al di sotto dello «strato di ghiaccio» sul quale i nostri «sogni» vengono immancabilmente travolti, pur lasciandovi tracce – è forse ancora possibile «sbozzare le ombre di parole, / accatastarle attorno all’arpione» che ansioso le insegue, le
stana. Esse soltanto possiamo interrogare.
Tutto è mare, e ciò che vi si nasconde è inattingibile. Eppure, la nostra traiettoria di uomini ne percorre veloce le parvenze mutevoli, e non rifiuta il
compito impossibile:
Sparato
dentro la pista di smeraldo,
io, nido di larve, di stelle, con tutte
le chiglie
ti cerco,
fondo insondabile63.
Non c’è alternativa: il nostro percorso è uno. Anche se così non fosse, però, ora che ci siamo riconotern / rings um den Krampen / im Kolk». La traduzione sopra riportata è di M. Kahn e M. Bagnasco, in Celan, Poesie, a cura di
M. Kahn e M. Bagnasco, Mondadori, Milano 1976, pp. 211-213.
63 P. Celan, «Zeitgehoft» (Dimora del tempo), ora in Poesie,
cit., p. 1272: «EIGESCHOSSEN / in die Smaragdbahn, // Larvenschlupf, Sternschlupf, mit allen / Kielen / such ich dich, / Ungrund».
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sciuti come creature marine, dobbiamo accettare la
nostra identità, e rifiutarci soltanto di essere vili:
[...]
Le vele, nessuno deve ammainarle,
io, uomo di mare,
vado64.
Una ricolma
conchiglia di luce viaggia
attraverso una coscienza66.
C’è forse una stella sommersa, nascosta nel brulichio inaccessibile dell’acqua (unter ihm): «manda un
bagliore» che sale (schimmert auf) e ci raggiunge,
mobile in noi su una «ricolma conchiglia di luce».
Potremmo, forse, ottenere una ricompensa inattesa:
[...]
chi è
chi in questo
recinto di ombre
sbuffa, chi
dal di sotto
manda un bagliore, un bagliore, un bagliore?65
La distesa inquietante già sa sorprenderci:
Quell’unica
notte
con la sua propria stella.
[...]
64 P. Celan, «DRAUSSEN. Quittengelb weht... (IN ALTO MARE.
Color giallo cotogna...), vv. 13-16, in Fadensonnen (Filamenti di
s o l e ), ora in P o e s i e, cit., p. 904: «[...] Die Segel braucht keiner
zu streichen, // ich fahrensmann / geh». La traduzione sopra riportata è di L. Gobbi e N. Nicolis.
65 P. Celan, «DAS GESCHRIEBENE höhlt sich, das...» (QUANTO
È SCRITTO si svuota, quando...), vv. 10-15, in Atemwende (Svolta
del respiro), ora in P o e s i e, cit., p. 628: «[...] wer / in diesem /
Schattengeviert / schnaubt, wer / unter ihm / schimmert auf,
schimmert auf, schimmert auf?».
72
***
Forse, la pesca può essere fruttuosa, se le prede
inseguite sono bagliori e parole, e se
Nel mare è maturata la bocca
le cui parole qui la sera ridice
al cospetto dei suoi paesi.
Mormorando essa le ridice
con labbra rosse di tempo.
Bocca, che evocarono le maree,
nel mare in cui natava il tonno,
nello splendore che irraggia dagli uomini.
Argento del tonno toccato dal raggio,
argento specchiante del tonno:
improvvisa agli occhi riluce
la seconda, la migrante
aureola delle fonti.
66
P. Celan, «DIE EINE eigen-»... (QUELL’UNICA...), vv. 1-3; 1416, in Fadensonnen (Filamenti di sole), ora in Poesie, cit., p. 806:
«DIE EINE eigen- / sternige / Nacht. / [...] / Eine erfüllte / Leuchtmuschel fährt / durch ein Gewissen».
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Argento e argento.
Doppio argento nel profondo.
Rema con la barca fin laggiù,
fratello.
Lancia le tue reti,
fratello.
Tiralo su,
gettalo nelle nostre case,
gettalo sulle nostre tavole,
gettalo sui nostri piatti.
Guarda, le labbra si fanno turgide,
anch’esse rosse di tempo come la sera,
mormoranti anch’esse –
e la bocca sorta dal mare
già emerge
al bacio interminabile67.
Il tempo, nell’immensità della sua liquida rivelazione, nasconde forse «una bocca» pronta a comunicare, protesa «al bacio interminabile». Soltanto «le
67 P. Celan, « MIT ZEITROTEN LIPPEN , in Von Schwelle zu
Schwelle (Di soglia in soglia), ora in P o e s i e, cit., pp. 232-234:
«Im Meer gereift ist der Mund, / dessen Worte der Abend hier
nachspricht / im Angesicht seiner Länder. / Murmelnd spricht
er sie nach, / mit zeit roten Lippen. // Mund gezeitigt vom
Meer, vom Meer, wo der Thun schwamm / im Glanze, der menchenher strahlt. // Silber des Thuns, den der Strahl traf, Spiegelsilber des Thuns: aufscheint den Augen / die Zweite, die
wandernde Glorie / der Stirnen. // Silber und Silber. / Doppelsilber der Tiefe. // Rudre die Kähne dorthin, / Bruder. Wirft
deine Netze danach, / Bruder. // Zieh es herauf, / wirf es uns in
die Häuser, / wirf es uns auf die Tische, / wirf es uns auf die Teller - // Sieh, unsre Lippen schwellen, / zeitrot auch wie der
Abend, / murmelnd auch sie - / und der Mund aus dem Meer /
taucht schon empor / zum unendlichen Kusse».
74
maree»68 sanno evocarla: i moti regolari e prevedibili,
che ubbidiscono ai cenni della luna. Dobbiamo solo
riconoscere «lo splendore» nella sua fonte meramente umana: «irraggia» «dagli uomini» (menschenher) –
noi siamo «la seconda, la migrante / aureola delle
fronti». Un «doppio argento», dunque, riflette se
stesso sul dorso «del tonno toccato dal raggio»: questo, non altro, è il «doppio argento del profondo», i
cui bagliori scorgiamo dalla superficie dell’acqua.
Forse è Dio nello s.i ms.um, e la sua ricchezza è infinita.
C’è un senso riconosciuto che si fonde con un altro, che noi soli abbiamo accolto e donato a nostra
volta: riluce, e ci invita a non disperare. In risposta,
anche «le nostre labbra si fanno turgide, / anch’esse
rosse di tempo come la sera»: c’è verità nella corrispondenza, nel mormorare delle nostre voci che
esprimono il «doppio argento», per indicarne la
presenza. Esso soltanto potrebbe sfamarci, saziare le
nostre vite: è sulle scaglie del «tonno» che nuota sicuro – fiero della propria forza, ignaro della propria
natura. Chiediamo a un «fratello» di braccarlo per
noi con occhi esperti, di catturarlo con le braccia sapienti – perché esso giunga «nelle nostre case», «sulle nostre tavole», «nei nostri piatti»: ci sappiamo impotenti, inesperti di nasse e di pesca.
68 Senza difficoltà, accetto la finissima interpretazione di Bevilacqua, che traduce il medesimo termine Meer prima con “maree” e subito dopo con “mare” (rispettivamente, ai vv. 6 e 7).
Celan, infatti, sembra riferirsi al mare in sé, alla sua semplice natura e quindi anche al moto regolare che lo anima, in perfetta
armonia con la vita del cosmo: esso soltanto, così inteso, può
«evocare» la «bocca» protesa «al bacio interminabile».
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Accade, e supplichiamo aiuto; raramente, però, i
fratelli si riconoscono tali, ed è difficile che prestino
volentieri soccorso. Piuttosto, sostano oziosi, o serbano per sé le proprie prede, incuranti del nostro
bisogno. Speriamo che l’uomo invocato voglia ascoltarci – e che remi con lena fin dove sa, che getti per
noi la sua rete. Una donna, ne siamo certi, non si rifiuterebbe: nuoterebbe fino al largo, s’immergerebbe con grazia; inviterebbe il «tonno» con cenni gentili, sorridendo per lui e per noi.
***
Non penso a una donna qualsiasi, ma alla donna
che ho pianto: a lei, Paola, della quale Celan mi ha
detto ciò che già imperfettamente sapevo – io
gliel’ho chiesto:
Fammi amaro.
Conta con le mandorle anche me.
Comincio anch’io a raccontare, mi lascio rendere
amaro nell’intimo, senza opporre resistenza – a testimonianza per lei, e anche per me. Torno al me stesso
di allora, perché lei non c’è più.
«Non di te stesso, ma del mondo ti devi preoccupare!». [...] Sappiamo che il ritorno si ritrova al centro
della concezione ebraica del cammino dell’uomo: ha il
potere di rinnovare l’uomo dall’interno e di trasformare il suo ambito nel mondo di Dio, al punto che
l’uomo del ritorno viene innalzato sopra lo s.addiq perfetto, che non conosce l’abisso del peccato69.
Nessuno più di Celan fu «uomo del ritorno»,
esattamente in questa accezione.
Fraterne, le parole di Celan: nel rileggerle riconosco il tempo che ho attraversato; i suoi versi si
compongono spontaneamente nelle sequenze esatte
di un racconto – di una haggadah70. Il mio colloquio
con lui è «come / la danza di due parole fatte soltanto / di autunno e seta e nulla»71. Ancor oggi, l’occhio non crede a se stesso, mentre il sangue accelera
la propria corsa nel chiuso delle vene; la voce del
poeta racconta, e tutto è accaduto – tutto è davvero
accaduto. Una verità soggettiva dispiega i lineamenti
del proprio volto: inconfondibili, perfettamente reali. Non verità universali, ma istanti precisi, luoghi e
persone: un viaggio e una morte.
***
Il ritorno a se stessi è uno dei temi fondamentali
della tradizione chassidica, e vi si trova modulato in
un modo particolarissimo:
Cominciare da se stessi, ma non per finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come
meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé. [...]
76
M. Buber, Il cammino dell’uomo secondo l’insegnamento
chassidico, a cura di G. Bonola, Qiqajon, Biella 1990, pp. 50-51.
70 Sul concetto di haggadah, si veda J. Fraenkel, L’Aggadah.
Il mondo dello spirito nei racconti dei maestri ebraici, Paoline,
Milano 1999 (trad. di O. Di Grazia).
71 Celan, Poesie, cit., p. 575.
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PARTE SECONDA
Una lettura personale
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La narrazione che segue è strettamente privata, e
consegnata in gran parte al silenzio. Eppure, qualcosa di piccolo e fragile in me, come un pensiero bambino, vuole udire ancora il racconto, e chiede trepidando che cosa mai renda così splendida, oggi, la
mensa apparecchiata: cosa accadde perché io, oggi,
chissà come fossi qui. È una haggadah di Pesah.: racconto vero, di materia pulsante. C’è una terra straniera, abitata in catene; e un deserto, i monti, l’arsura, la compagnia dei fratelli, le acque aperte e richiuse, scoperte e rimpiante; il terrore e la gioia; la speranza, il cammino, il canto e la danza; c’è chi è rimasto laggiù, lontano da tutti – Paola.
Il ricordo è esatto, com’è facile che accada in chi
sopravvisse. Il mio presente non lo cerca di propria
volontà: piuttosto, lo riconosce assolutamente libero
di tornare, come e quando vuole, e non oppone
schermi alle sue visite. Oscuro e frammentario, a volte; in altri giorni, vasto e luminoso, il ricordo è sempre esatto. Chiede accoglienza, supplica di restare:
nella discrezione materna della memoria, si fa piccolo e silenzioso, nuota profondo nell’essere – senza
parole, muovendosi appena, feto raccolto o embrione. Altra vita, altro tempo lo racchiude: a maggior ragione, se lo espellessi da me avrei perso me stesso.
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Con più vera ragione, adesso, il mio amore si posa sul mondo come un fiocco di neve.
Neve sul mare
Il “tu” – Paola – mi accompagnava nel viaggio sul
mare: nuotava sicura – così come sapeva, in altri luoghi, balzare sulla neve, donando ai miei passi un sentiero di orme fresche da seguire. Eppure, anch’ella
era immersa nel tempo, e il tempo era in lei: ora liquido, ora solido, ora semplicemente luminoso. Con
noncuranza, ospitava in sé la frattura primordiale, e
signorilmente l’attraversava – quale ne fosse, in ogni
istante, la forma provvisoria. Si preoccupava per me:
mi sapeva debole, fragile, smarrito. È facile descrivere la sua carità e la sua speranza, svelate da Celan in
un solo gesto – esattamente questo:
Stringevo una mano nella sua, e nell’altra custodivo il dono: semplice, misterioso e duttile. Avessi
incontrato anche il Leviatano, il calore del palmo
avrebbe saputo forgiare all’istante quell’oro in un
oggetto utile alla fuga o alla difesa – o, piuttosto,
avrebbe ammansito la furia della creatura marina,
mutandola in mite chiarore.
Levando lo sguardo, grato al ripetersi dell’atto,
mi chiedevo da dove sapesse trarre il metallo che mi
andava offrendo – ma non riuscivo a dipanare il mistero. Cercavo solo di coglierne al volo ogni scaglia,
ogni minimo granello: qualcosa di sacro si adagiava
così tra le mie dita, e ne accoglieva il calore; vi riposava anche tutto ciò che era quotidiano – pronto alla
lotta, al soccorso, alla trasformazione. La speranza vi
abitava interamente.
***
Tu getti a me che affogo
oro:
forse si lascia
un pesce corrompere1.
P. Celan, Zeitgehöft (Dimora del tempo), ora in P o e s i e, cit.,
p. 1280: «DU WIFST MIR Ertrinkendem / Gold nach: / vielleicht
läßt ein Fisch / sich bestechen». Nel testo, il gesto sembra ripetuto, episodico ma abituale (du wirfst mir): l’indicativo presente,
privo d’altra determinazione al di fuori della continuità dell’aspetto verbale, orienta la lettura in questo senso. Busi, Simboli
del pensiero ebraico, cit., pp. 481-482: «La topografia dell’oro è
avvolta, nella Scrittura, da un alone di esotica indeterminatezza.
L’oro era, per gli antichi ebrei, una merce giunta da lontano, le
cui origini si celavano oltre viaggi lunghissimi, in paesi remoti e
leggendari. [...] l’oro è un materiale frequentemente nominato, a
testimonianza del suo esteso impiego nella manifattura di oggetti
1
82
Seguivo il mio “tu” attraverso l’unico elemento:
varcavo con lei le mutevoli apparenze. Il colloquio
illuminava il cammino, benediceva tutto ciò che oltrepassavamo uniti. Salutavamo con cordialità le acque, i pesci e le alghe – come anche le pietre e le erbe affioranti dalla neve, o il luccichio del sole sui licheni intrisi di rugiada. Tutto rispondeva: rimandava un augurio di quiete.
d’uso quotidiano e sacro. D’oro sono i rivestimenti del Tempio e
molte delle sue suppellettili, così come alcune delle offerte votive
[...] Secondo uno schema ricorrente nel simbolismo religioso,
questi antichissimi ex-voto raffigurano nel metallo prezioso la calamità che si vuole allontanare, come se la rappresentazione in
oro permettesse di rovesciarne il significato nefasto».
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Il tempo affiorò in noi, uscì inavvertito e ci circondò in figura imprevista di luogo, rivelando se
stesso a poco a poco. Ecco,
NIENTE PIÙ MEZZOBOSCO,
qui,
in costa alle vette,
nessun conversate cespo
di timo.
Ma neve estrema, e la sua
fragranza, origliante
i picchetti e le ombre
dei cartelli, annunciante
morte2.
Un silenzio assoluto ci fu attorno, e nulla rispose
più ai nostri richiami – nemmeno «un cespo di timo»: amato dalle api e dalle fate, ovunque sonoro
del loro conversare3. Solo neve, «neve estrema»: neve di confine (Grenzschnee), impossibile da oltrepassare – sui crinali delle «vette» (in den Gipfelnh ä n g e n). Sua la «fragranza» (D u f t), sua l’unica presenza: un annuncio inequivocabile.
Altri avevano percorso prima di noi questo cammino: ne rendevano testimonianza i «picchetti» rimasti a misurare inutilmente la profondità del man-
to bianco, e le ombre dei «cartelli» che esso soltanto
poteva riflettere – teso all’ascolto del proprio messaggio: lo stesso che mani di uomini, avendo compreso, tracciarono in parole.
Comprendemmo. Il tempo si rivelò pienamente,
senza alcun pudore: nel gelo come unico orizzonte,
nella stasi. Era neve sul mare.
Una rosa
Nel ricordo, nulla arresta colei che getta «oro»:
ella oppone al tempo il proprio moto, intensifica la
propria alacrità:
Più pienamente,
giacché neve cadde anche su questo
mare percorso a nuoto dal sole,
fiorisce il ghiaccio nelle ceste
che tu porti in città.
Sabbia
tu chiedi in cambio,
poiché l’ultima
rosa a casa laggiù
anche stasera vuol essere nutrita
da un’ora che lenta fluisce4.
P. Celan, « AUCH HEUTE ABEND (ANCHE STASERA), in Von
Schwelle zu Schwelle (Di soglia in soglia), ora in P o e s i e, cit., p.
182: «Voller, / da Schnee auch auf dieses / sonnendurchscwommene Meer fiel, / blüht das Eis in den Körben, / die du zur
Stadt trägst. // Sand / heinscht du dafür, / denn die letze / Rose
daheim / will auch heut abend gespeist sein / aus rieselnder
Stunde». La pluralità dei viaggi che ella compie è suggerita non
solo dall’aspetto verbale del presente indicativo (azione conti4
P. Celan, Lichtzwang (Luce coatta), ora in Poesie, cit., p.
1034: « KEIN HALBHOLZ mehr, hier, / in den Gipfelnhängen, /
kein mit- / schprechender / Thymian. // Grenzschnee und sein
/ die Pfäle un deren / Wegweiser-Schatten / aushorchender, tot/ sagender / Duft».
3 Si veda A. Cattabiani, F l o r a r i o, Mondadori, Milano 1996,
pp. 401-403.
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Se socchiudo appena gli occhi, la vedo ancora avviarsi più volte verso la «città» degli uomini, attraversare carica di «ceste» il «mare» coperto di neve: porta
«ghiaccio» su di sé – gelo inarrestabile che immancabilmente si moltiplica, che “fiorisce” (blüht) nel corso
dei suoi viaggi. Penso che, forse, volesse avvertire, svelare l’identità segreta di ciò che il “sole” attraversa
nuotando, e che recasse i propri testimoni sulle spalle.
Alla città – la vedo nel ricordo, come fosse qui e
ora – si recava la donna che portava ghiaccio vivente
– non per donarlo, né solo per mostrarlo. Voleva
«sabbia» «in cambio»: una richiesta d’aiuto. Solo la
«sabbia» può fermare la furia delle acque, e lei forse
aveva compreso di averne bisogno; il «ghiaccio»
avrebbe dovuto persuadere gli uomini, tutti gli uomini, ad accettare la sua offerta, convincerli a fornirle tutto il necessario: avremmo potuto erigere, così,
una diga capace di salvarla.
Eppure, l’acqua che minacciava la sua vita era rappresa in un velo insondabile di neve, ed è certo che la
nuata), ma soprattutto dal plurale Körben (“ceste”). La “città”
sembra rappresentare, in questa lirica, la collettività del genere
umano: il termine (zur Stadt) è privo di specificazioni, e ricorda
vagamente – forse per libera associazione d’idee, che nulla ha a
che vedere con i versi di Celan – la città per eccellenza, Gerusalemme, «centro geografico del mondo ebraico [...] unica metropoli nel cuore dell’esilio» (Busi, Simboli del pensiero ebraico,
cit., p. 112; ma si veda, nel suo complesso, il capitolo dedicato
alla città, alle pp. 107-112). Nella letteratura biblica, la città vive
di vita propria: come un solo organismo vivente, prova sentimenti ed emozioni, teme, spera o si ribella, decreta o subisce il
proprio destino. Una sorta di identità comune prescinde dall’in-
86
sabbia non può nulla contro il gelo – perché, allora, il
ripetersi del cammino, perché la pressante richiesta?
Non di sé si preoccupava: non chiedeva per sé. C’era una «rosa», «l’ultima rosa»: «laggiù», nella nostra casa (daheim). «Più pienamente» (voller), a quella «rosa»
andava il suo pensiero: voleva proteggerla, nutrirla, salvarla ancora una volta. Anch’essa viveva di tempo, e il
tempo svelato nel gelo la minacciava – come incombeva
muto su lei, sul nostro colloquio, sulla nostra stessa casa. Sciogliendosi e stillando dolcemente (rieseln) attraverso la sabbia, dopo aver riacquistato una forma liquida e chiara, il «ghiaccio» avrebbe saputo rispettarla.
***
Infinito è lo spessore simbolico legato alla rosa
nell’ambito della cultura occidentale: sembrano avvertirne la potenza anche le rose del mio giardino,
ora che è maggio e sono fiorite senza sforzo apparente, più numerose dello scorso anno. Viene alla mente
l’epitaffio che Gertrude Stein dettò per la propria
tomba, a Parigi: «Una rosa è una rosa è una rosa».
Dalla fragilità della nostra vita alla passione di Cristo,
questo fiore ha assunto in sé ogni aspetto della realtà
umana, per restituirlo in una raffigurazione insondabile di concreta bellezza5. Soprattutto, però, la rosa è
al centro di una fiaba che dichiara una peculiare visione del mondo e che rende ragione del perché ci
sia possibile identificare con un fiore l’anima stessa
dell’Europa: La Bella e la Bestia, tante volte raccontata nelle lingue del nostro continente.
5
Si veda Cattabiani, Florario, cit., pp. 15-32.
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Come ogni fiaba, ha osservato Cristina Campo,
anche questa ci narra l’amorosa rieducazione di un’anima affinché dalla vista si sollevi alla percezione,
per riconoscere ciò che soltanto merita di essere apprezzato. Quanto alla metamorfosi del Mostro, in
realtà è la metamorfosi della fanciulla che finalmente percepisce la realtà al di là delle apparenze. Quand’è, infatti, che il Mostro si trasforma in un bel Principe? Quando Belinda s’è totalmente lavata da ogni
ruggine di fantasticheria, da ogni sogno di adolescente. La bellezza del Principe è la copiosa gioia promessa a chi ha desiderato l’essenziale: «Una rosa,
soltanto una rosa»6.
L’identificazione della rosa con l’umanità in quanto tale, dunque, non è stata capace di stupirmi; sapevo che, nella lirica di Celan, essa reca sensi insospettati, sulla scia dall’ebraico Sosan. Meravigliose «icone del pensiero»7, a volte, prendono figura nel movimento delle labbra:
Nessuno può impastarci ancora dalla terra, dall’argilla,
nessuno alita parole sulla nostra polvere.
Nessuno.
Lodato sii tu, Nessuno.
Per amarti vogliamo
fiorire.
Incontro
a te.
6 Cattabiani, Florario, cit., pp. 31-32; ma si vedano le splendide pagine di C. Campo, in Il flauto e il tappeto, ora in Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987, pp. 9-12.
7 Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., p. VII.
88
Un niente
eravamo, siamo, rimarremo
fiorendo:
la rosa del
niente, di Nessuno.
Con
lo stimma chiaro d’anima,
lo stame di cielo deserto,
la corolla rossa
della parola di porpora, quella che abbiamo cantato
sopra, oh, sopra
la spina8.
Il titolo della lirica, Salmo, mi trasportava allora e
ancora mi conduce con immediatezza in un contesto
di preghiera tipicamente ebraico: il linguaggio è solenne, ieratico ma anche ansiosamente franto. La
struttura è quella della “benedizione”, la b e r a k a h, che
occupa un ruolo centrale nella spiritualità d’Israele:
Questa medesima forma letteraria, i Maestri non
l’hanno inventata, ma l’hanno tratta dal libro dei S a lmi (119, 12; cf. 1Cronache 29, 12). Senonché, mentre
là essa viene usata soltanto come una delle formule
che vi si trovano, i Sapienti l’hanno privilegiata e trasformata nella formula particolare di apertura e di
8 P. Celan, «PSALM» (SALMO), in Die Niemandsrose (La rosa
di nessuno), ora in Poesie, cit., p. 378: «Niemand knetet uns
wieder aus Erde und lehm, / niemand bespricht unsern Staub. /
Niemand. // Gelobt seist du, Niemand. / Dir zulieb wollen /
wir blühn. / Dir / entgegen. // Ein Nichts / waren wir, sind wir,
werden / wir bleiben, blühend: / die Nichts-, die / Niemandsrose. // Mit / dem Griffel seelenhell, / dem Staubfaden himmelswüst, / der Krone rot / vom Purpurwort, das wir sangen /
über, o über / dem Dorn». La traduzione è di Gobbi e Nicolis.
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chiusura di tutte le preghiere. Questa formula, e solo
questa, in tutti i suoi dettagli: bisogna iniziare con il
Nome ineffabile, e non con altri nomi; bisogna ricordare il «Regno»; bisogna dire «Tu»9.
Altrettanto ebraica è l’evidente contraddizione
che attraversa il testo, per fondarne il fascino sin dal
primo sguardo:
La preghiera dei sapienti si distingue per la misura di
moderazione e di umiltà che in essa si rivela, per la
grande moderazione e la totale assenza di esagerazione nei suoi modi di esprimersi. Ma in essa vi sono anche degli aspetti apparentemente opposti: è forte e audace, ha una grande fiducia nella propria efficacia e
non manifesta nessuna esitazione nel ricorso diretto
dell’uomo al suo Dio10.
Il Talmud babilonese racconta di una disputa tra
le 22 lettere dell’alfabeto su quale tra loro dovesse
avere il privilegio di essere per Dio strumento di
creazione: ogni lettera espose le proprie ragioni, ma
beth prevalse proprio in quanto iniziale di berakah –
9 J. Heinemann, La preghiera ebraica, a cura di A. Mello, Qiqajon, Biella 1986, p. 29; con le espressioni “Sapienti” e “Maestri”, Heinemann intende le figure fondamentali del giudaismo
comprese tra «l’inizio del periodo del secondo tempio e la fine
del periodo talmudico» (ivi, p. 11). Per una trattazione più completa sulla berakah – l’elemento portante dell’intera liturgia ebraica, al punto che la preghiera ebraica per eccellenza e quella detta
“Delle Diciotto benedizioni” – si vedano C. Di Sante, La preghiera di Israele. Alle origini della liturgia cristiana, Marietti, Genova
1985, pp. 36-50 e M.-R. Hayoun, La liturgia ebraica, La Giuntina,
Firenze 1997 (trad. di V. Lucattini Vogelmann), pp. 43-50.
10 Heinemann, La preghiera ebraica, cit., p. 23.
90
e la parola divina be-re’šit (“in principio”) aprì le vicende del cosmo:
Un modo per dire che il mondo si poggia sulla berakah: rivela il suo senso e dischiude la sua identità solo per chi la sa pronunciare. Per questo motivo, secondo la tradizione ebraica, bisogna pronunciare una
benedizione di fronte ad ogni cosa [...]. Tra tutte le
benedizioni da innalzare a Dio, di particolare importanza sono quelle legate ai frutti della terra. [...] Non
esiste quindi “cosa” che non sia occasione di berakah.
Anche realtà negative, come l’ingiustizia o la malattia,
invece che all’autochiusura e alla disperazione, motivano alla benedizione e alla lode11.
Benedicendo e lodando, dando del «tu» come la
tradizione comanda, Celan si rivolge all’unico creatore rimasto: «Nessuno». Lo fa «per i frutti della
terra»: le rose umane che costituiscono il suo «Regno». Sa che fioriscono nella cieca volontà di amarlo
(dir zulieb): «incontro» (n a c h) a lui. Umilmente, come uno dei saggi che insegnarono la preghiera a
Israele, ammette la pochezza della nostra vita: «Un
niente / eravamo, siamo, rimarremo» – anche «fiorendo» per lui. Eppure, con audacia inimmaginabile, ricorda a «Nessuno» che siamo noi la sua rosa, e
che la nostra volontà di “fiorire” per amarlo non
può assolutamente venir meno – neanche se lui è
«Nessuno». Siamo disposti ad aprirci comunque in
una corolla purpurea, a qualsiasi condizione: benediciamo il «niente» che ci accoglie, perché gli apparteniamo. «Lodato sii tu, Nessuno».
11
Di Sante, La preghiera di Israele, cit., pp. 40-41.
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I maestri del popolo ebraico non solo «consentirono delle “innovazioni” nel corpo della benedizione,
ma ne fecero un obbligo»12: Celan ubbidisce, e pronuncia la propria berakah. Ogni uomo è «rosa», šoša n;
tutti siamo rose, šošannah. Nella letteratura zoharica,
La forza apotropaica di šosˇannah trovò una spiegazione ulteriore nella corrispondenza tra i componenti
della corolla e le lettere del Tetragramma, yod, he,
waw, he: «La rosa ha cinque petali all’interno e cinque
all’esterno, che equivalgono alle due he, mentre lo stelo è la waw e il pistillo è la yod”. E’ la struttura visiva
della rosa a guidare, in questo caso, il collegamento
con le consonanti ebraiche, con un movimento che
trae origine dai petali, per scendere lungo il gambo e
tornare poi al centro del fiore. Ne risulta una singolare alterazione del nome di Dio, che viene per così dire
riscritto alla rovescia, ponendo per ultima la yod i n iziale. Ben lungi dall’essere il risultato di un semplice
capriccio simbolico, questo nome speculare è in realtà
del tutto coerente con lo statuto della rosa mistica, segno visibile della sefirah malkut (regno), che, secondo
la tradizione cabbalistica, è lo «specchio opaco» nel
quale si riflette l’emanazione superna: la rosa accoglie
pertanto metaforicamente la potenza divina e ne rende manifesta l’intensità13.
Semplicemente raccogliendo una rosa, in un apologo di Nahman di Bratslav, il Messia «con un atto
Heinemann, La preghiera ebraica, cit., p. 29.
Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., p. 414; ma si veda
tutta la voce dedicata a «šosˇan / šoša nn a h», alle pp. 410-415; sul
Nome di Dio nella riflessione cabbalistica: G. Scholem, Il Nome
di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Adelphi, Milano 1 9 9 8 .
12
di pura comprensione, ristabilisce l’ordine cosmico,
dando, nel contempo, un nuovo senso alla storia»14.
Ricordo, in una sera disperata d’inverno, d’aver
chiuso il libro di Celan, e di averlo posato accanto a
me per qualche istante. Fuggivo come Giacobbe nel
deserto, e Paola al mio fianco custodiva nella fuga i
tesori della sua stessa vita – come Rachele, che nascose gli idoli d’oro di Labano; il nemico ci avrebbe
presto raggiunti, e nessuna astuzia l’avrebbe convinto a lasciarci andare. Dal profondo, umilmente, salì
la mia berakah (trascrivo dall’autografo di allora –
dalla mia stessa grafìa azzurra, minuscola, incerta):
«Lodato sii tu», chiunque tu sia: «Nessuno», Qualcuno – o forse il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe.
Il tuo Nome indistinto riflette in me la sua immagine –
nello «stimma chiaro d’anima» che solo mi appartiene, nello «stame di cielo deserto» che sorge e respira.
Anch’io ho tante volte cantato per te «parole di porpora»: per offrirti una corolla evidente d’amore. Voglio innalzarmi «sopra, oh, sopra / la spina»: per te,
solo per te.
«Lodato sii tu», perché anch’io posso «fiorire» in una
gratuità perfetta – senza alcuna certezza sul tuo volto,
senza nulla sapere del tuo sguardo: se veramente contempla, se accoglie.
Nella memoria, una giovane donna si affanna portando «ceste» ricolme di «ghiaccio»: esso «fiorisce»
rapido sulle sue spalle.
13
92
14
Maestro chassidico del
siero ebraico, cit., p. 415.
XIX
secolo. Busi, Simboli del pen-
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L’accompagnai, corsi con lei a chiedere «sabbia»,
«sabbia» per «l’ultima rosa».
Parola di soglia
Com’era piccola lei che mi attendeva ogni giorno, nella distesa infinita del gelo! Mi accoglieva con
naturalezza estrema. Ritrovo in Celan il racconto di
ciò che esattamente accadeva:
Invincente vivi con me,
piccola cosa
e gravata.
Solo fuori, dove
le nostre anime ancora stanno sulla nonterra, là
canta. Canta
nel rilucere di chi ci andava accanto.
Se nuvola, se stella: noi
non alziamo gli occhi.
Non c’era «canto», ma solo neve silenziosa: eppure, volevo vivere con lei, restare, starle accanto.
L’amavo: «piccola», «gravata», priva di qualsiasi possibilità di vita e di vittoria (Sieglos).
Vieni più vicino, vieni:
che non due volte spiri
per la nostra
casa aperta15.
Narravano i h.asidim che il Baal-Shem, ancora ragazzo, accompagnava i fanciulli alla sinagoga e alla
scuola: «mentre camminavano, egli cantava e inse-
P. Celan, Conseguito silenzio, p. 86: «Sieglos lebst du mit
mir, / klein / und beladen. // Nur draußen, wo / unsre Seelen
noch stehen, auf dem Unland, da / singts. Singt es / im Abglanz /
dessen, der neben uns ging. // Ob Wolke, ob Stern: wir / sehen
nicht auf. // Rück näher, komm: / daß es nicht zweimal wehe /
durch unser / offenes Haus». È un testo non databile, che fa parte di quel nutrito gruppo di inediti che gli eredi di Celan hanno
solo recentemente messo a disposizione del pubblico e degli studiosi. La sua identità sembra fondamentalmente oblativa e dialogica: lascia al lettore ampi spazi di libertà nell’interpretazione e
15
94
Mi rivolgevo a lei con voce dolce e piana, cercavo
per lei i diminutivi più affettuosi: passerotto, agnellino, cuccioletto... Era «piccola», «gravata» (b e l a d e n)
d’un peso insostenibile. Eppure, inaspettatamente,
tutto ciò la esaltava in modo incomparabile.
È grande un passero nel gelo sterminato, sul ghiaccio che lo uccide lentamente! Saltella ovunque nella
neve, cerca intorno il cibo che gli sarebbe dovuto
ancora e ancora – i semi, il pane che nessuno, nemmeno l’inverno inesorabile, avrebbe il diritto di negargli. Non smette di vagare a testa alta: piccola
macchia scura e mobile nel bianco della neve, che
scivola sul ghiaccio e si rialza – ancora a testa alta,
con il becco proteso ancora avanti, sempre avanti, e
uno sguardo d’ansia e di speranza.
nella contestualizzazione, come avesse in sé l’intenzione precisa
di entrare in dialogo con l’esperienza personale di chi legge; ciò
è tipico di molti testi di Celan, in particolare tra gli ultimi – sfumati nel contenuto, come accenni essenziali a qualcosa di alto
ma volutamente indeterminato, privi di elementi forti che orientino l’interpretazione in maniera cogente. Si tratta, forse, di una
cifra ermenuetica particolarissima, profondamente ebraica ed
implicitamente chassidica: sono testi donati, paragonabili a semi
lanciati nell’aria perché germoglino in modo imprevedibile e vario nei terreni che li accoglieranno.
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gnava loro a cantare insieme con lui. [...] In cielo,
tutte le mattine, ci si rallegrava di queste canzoni, come un tempo del canto dei Leviti nel Tempio di Gerusalemme. Erano ore di grazia, in cui le schiere celesti si radunavano per ascoltare le voci dei mortali»16.
Nella tradizione ebraica, la musica «è il tempo
che prende forma e che non viene lasciato fluire senza argini nel suo potere devastante e distruttore»; essa «crea il tempo, gli conferisce un ritmo, crea forme
temporali prima inesistenti»17. Dove c’è «canto», c’è
comunione con tutti e con Dio: gli angeli, i cieli e le
stelle esprimono così, spontaneamente, la loro lode
indicibile per ciò che li unisce – per la prossimità
stupenda di Dio.
«Il canto è l’anima dell’universo», «il regno dei cieli
canta», « il trono di Dio traspira musica», questo sostenevano i h.asidim. E ancora: «Anche il Te t r a g r a mma è composto di quattro note musicali», «più alta,
più elevata è la religione, tanto più esaltante è la musiBuber, I racconti dei Hassidim, cit., p. 5.
E. Fubini, La musica nella tradizione ebraica, Einaudi, Torino 1994, pp. 14-15. Il concetto ebraico di tempo, però, è estremamente particolare, ed è solo nell’ambito di tale concezione
che la musica acquista il valore altissimo di ordinatrice e creatrice del tempo che le viene riconosciuto. La concezione ebraica
della musica, estremamente profonda e complessa, è qui appena
accennata, secondo le esigenze del racconto: si veda il saggio di
Fubini in particolare alle pp.3-7 («Introduzione»), 19-24; («Musica ebraica: quale musica?»), 55-72; («La musica nella tradizione mistica: lo Z o h a r») e 73-87 («La musica nel mondo hassidico»). Sullo Zohar e sulla mistica legata alla musica delle sfere celesti, si veda Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica,
cit., pp. 167-216. Sulla musica nell’Antico Testamento, si veda la
voce «Bibbia e cultura: Musica», in Nuovo dizionario di teologia
biblica, cit., pp. 218-236.
16
17
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ca», «nelle sfere celesti esistono templi che possono
essere aperti solo grazie al canto»18.
Tanto, a volte, è concesso anche agli esseri umani: uniti nei giorni e ricolmi di gioia, in rendimento
gratuito di grazie al Signore dei mondi che li accompagna e li assiste, che dimora con loro.
Lontano da noi – da me e da lei – il «canto» perdurava: regnava sovrano sugli istanti, congiungeva,
dilagava – faceva festa perché tutti erano v i c i n i, nel
mondo terrestre e celeste: nell’universo finalmente
indiviso. Era «fuori» (draußen), in una terra che non
ci apparteneva più – in una «nonterra» (U n l a n d),
sulla quale non potevamo più vivere.
«Chi ci andava accanto» – non è lecito dubitarne
– spandeva ancora il proprio luccichio (Abglanz) sul
paese della musica, vi rifletteva gioioso il proprio
volto; a noi, però, non era più concesso d’alzare gli
occhi se non l’uno verso l’altra, né di tendere l’orec18 L. Treves D’Arcais, Canti della diaspora raccolti, interpretati e tradotti da Liliana Treves D’Arcais, vol. II (accompagnato
da audiocassetta), La Giuntina, Firenze 1989.p. 27. Ivi, p. 29: «I
loro canti in ebraico misti a yiddish venivano presentati durante
i pasti nelle corti [cioè gli insediamenti che sorgevano attorno
alle dimore degli .saddiqim, capi carismatici delle comunità chassidiche, n.d.r.] e memorizzati dai presenti che avevano il compito di insegnarli anche agli altri h.assidim». Le rispettive introduzioni ai tre volumi dell’Autrice (Giuntina, Firenze 1987, 1989 e
1997, ciascuno corredato di audiocassetta) costituiscono una
puntuale e preziosissima storia del canto ebraico e delle sue varie manifestazioni, ma soprattutto ne illuminano con finezza il
significato e ne forniscono testi, traduzioni ed esecuzioni di altissima qualità, filologicamente sicure; sul canto chassidico in
particolare, si vedano le pp. 25-29 del volume citato, e se ne
ascoltino le splendide interpretazioni nell’audiocassetta allegata.
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chio ad altro suono se non alle nostre due voci. Non
importa chi fosse, né chi mai continui ad essere: «se
nuvola, se stella», se il nostro Dio.
«È detto nel S a l m o: “Perché è buono il canto al
nostro Dio”. Rabbi Elimelech così interpretava: “È
bene se l’uomo fa sì che Dio canti in lui”»19. Lei, ubbidiente, era musica più che persona: nei gesti, nel
vivere misurato e accorto. Nei giorni sereni del tempo già morto, suonava il violino, e radunava con grazia persone all’ascolto; la gioia era grande.
***
Anche il congedo che si preparava era «come la
danza di due parole fatte soltanto / di autunno, seta
e nulla» – com’è vera questa semplice espressione!
Stento a credere che vi sia nel mondo qualcosa che
non si adagi in lei, o che possa viverne lontano.
Una «danza di due parole» prossime al commiato, certe di non essere pronunciate mai più. Nel passare dei giorni, era come se lei esigesse da me una
«danza», se mi chiedesse di tramutarmi per lei in una di «due parole» danzanti.
Dubito che mi avrebbe perdonato se mi fossi rifiutato. Eppure, le nostre erano ormai parole «d’autunno»: il suo essere si andava facendo sempre più
spoglio, e deponeva ogni gioia come un albero abbandona al vento le foglie, senza rancori – nel rosso
vivo del paesaggio, nel marrone bruciato della terra
che affiora dalla brina del mattino.
19
98
Buber, I racconti dei Hassidim, cit., p. 234.
Parole «di seta»: la leggerezza della sua vicinanza. Delicati i gesti delle sue mani che scivolavano
lontano, a poco a poco.
Parole «di nulla»: era una giovane donna, e moriva.
Ripensandoci ora, raccontando, ricordo perfettamente che fu obbedita, e comprendo quale danza fu
la nostra. Accadde al modo dei h.asidim, come narra
una canzone yiddish:
Shh! Zitti! Non fate rumore!
Il Rabbino comincia a danzare.
Shh! Zitti! Non interrompete la sua ispirazione!
Il Rabbino sta per iniziare.
E quando il Rabbino danza,
le pareti danzano con lui.
Shh! Zitti!...
E quando il Rabbino balla,
persino il tavolo danza con lui,
e noi lo accompagniamo battendo i piedi.
[...]20
Il passo leggero delle infermiere accompagnava i
nostri gesti, e così il movimento abile delle loro mani, come un ritmo; ci guardavano figure umane, e si
L. Treves D’Arcais, Canti della diaspora raccolti, interpretati
e tradotti da Liliana Treves D’Arcais, vol. III (corredato di audiocassetta), Giuntina, Firenze 1997, pp. 124-125: «Sha! Shtil! Macht nisht kein gerider! / Der Rebe geyt shoyn tantsn vider. / Sha!
Shtil! Macht nisht keyn gevalt! / Der Rebe geyt shoyn tantsn
bald. / Un az der Rebe tanst, / tanstn doch di velt, / lomir ale
plyeskn mit di hent. // Sha! Shtil!... // Un az der Rebe tantst, /
tantst doch mit der tish, lomir ale topen mit di fis. // [...]».
20
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facevano da parte per rispetto; le pareti danzavano
anch’esse, nel silenzio che ci circondava; lo spazio si
dilatava attorno a noi.
Che strano rabbino eravamo: bipartito, bifronte
– e in quale sinagoga! Danzavamo, e s’apriva sulla
volta della stanza, al piano più alto di un grande
ospedale, come un piccolo abbaino: ne riceveva luce
una Torah di sangue e gioia21. Danzavamo.
si calma nella propria sorpresa
e capanna e stella
stanno nel blu da vicini di casa,
come se la strada fosse già percorsa23.
Non eravamo soltanto nell’imminenza del congedo, ma anche nel luogo in cui ogni attesa si compie:
Celan, Conseguito silenzio, cit., p. 18: «Auch wir wollen
sein, / wo die Zeit das Schwellenwort spricht, / das Tausendjahr
jung aus dem Schnee steigt, / das wandernde Aug / ausruht im
eignen Erstaunen / und Hütte und Stern / nachbarlich stehn in
der Bläue, / als wäre der Weg schon durchmessen». È un testo,
questo, incredibilmente polisemico, che lascia al lettore ampi
spazi di libertà e di dialogo, e che gli chiede un forte grado di
collaborazione, soprattutto a livello di contestualizzazione. Ciò,
più che alla forma di compiuto e allusivo frammento, sembra
dovuto, secondo i principi della lettura chassidica, ad un’intenzione precisa di dialogo con l’esperienza di chi legge, perché
dall’incontro nasca una nuova e imprevedibile realtà di senso.
Ranchetti, «Premessa del curatore», p. V, accenna alla persuasione di Celan «del resto fragile, che gli elementi mancanti, i
vuoti di memoria consapevole corrispondano ad una ragione
poetica più forte della casualità degli eventi e del senso di essi»;
tale persuasione del poeta, invece, mi sembra assai solida e
profondamente radicata. Non è da escludersi che lo stato in cui
Celan lasciò la propria opera postuma, ordinata e annotata con
riferimenti precisi a date, fatti e occasioni delle singole poesie,
rispondesse ad un forte desiderio di essere capito e di venire incontro alle pressanti richieste che gli provenivano in questo senso dai lettori e dagli esegeti; ciò, però, non annulla tale persuasione – anzi, la rafforza. La cifra criptica dei testi ultimi curati
da Ranchetti (soprattutto per quel che riguarda la loro contestualizzazione), la loro segretezza e la loro esclusione dalle raccolte destinate alla pubblicazione fa pensare anche ad una forma di difesa, o ad un arrendersi del poeta di fronte all’impossibilità della comunicazione autentica che forse avrebbe voluto,
vista la cifra ermeneutica particolarissima di questi versi. Si sarebbe trattato di un atteggiamento, è vero, fortemente contraddittorio, ma non certo privo di ragioni o di significato.
23
***
[...] chi
dirà mai che il cuore
non ha casa e domani?22
Accanto a lei, respiravo un’aria fresca e leggera,
dal profumo tenue e inconfondibile: l’aroma della
speranza. Lo inalavamo entrambi a pieni polmoni,
lasciavamo che si spandesse nei bronchi e negli alveoli, che invadesse il nostro sangue:
Anche noi vogliamo essere,
dove il tempo dice la parola di soglia,
il millennio giovane si alza dalla neve,
l’occhio errante
21
Com’è noto, in ogni sinagoga (posta sempre al piano più
alto di un edificio, a contatto con il cielo) un abbaino fa scendere la luce sul luogo in cui posa la Torah durante la lettura; la riceve sul capo, concretamente e con un profondo significato simbolico, il Rabbino che spiega alla comunità il senso di quanto è
stato letto.
22 P. Celan, «Rhesus», vv. 9-11, in Conseguito silenzio, cit.,
pag. 32: «[...] wer / sagt da, das Herz / habe kein Haus und kein
Morgen?».
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prossimi al senso ultimo del mondo, al radunarsi di
tutte le cose perché ciascuna riceva un nome nuovo.
Volevamo vederlo, «il millennio giovane che si alza
dalla neve»; desideravamo che il nostro «sguardo errante» (wandernde Aug) si calmasse, finalmente, «nella propria sorpresa».
«Parola di soglia» (Schwellenwort): il desiderio di
essere in un luogo, l’errare (wandern) dello sguardo
e del corpo, il cammino consapevolmente orientato
a una meta ben precisa per quanto ancora lontana
(Weg), la «calma» e la «sorpresa» dell’arrivo sperato
e ancora incompiuto, la «capanna» (H ü t t e) e la «stella», il cielo che sovrasta le distese ancora da percorrere, il «millennio» che ritorna «giovane» e si erge
vittorioso in virtù di quell’unica parola. «Il tempo»,
infatti, la pronuncia, e pone così fine all’errare dello
sguardo che finalmente ha scorto la terra promessa
– il luogo della quiete, dopo un aspro peregrinare in
terre aride.
Ancora in cammino, la speranza ci proiettava
nell’oltre, «come se la strada fosse già percorsa»: là
volevamo arrivare per esistere ancora.
La vicinanza tra la «capanna» e la «stella» sembra richiamare anche un altro pellegrinaggio d’incertezza e di speranza, quello dei Magi, anch’essi finalmente calmi «nella propria sorpresa» di fronte all’umile grotta di Betlemme. Ma la «capanna» (H ü tt e) è anche la dimora provvisoria ma sicura, il rifugio, il nascondiglio di chi è in cammino, e la «stella»
è colei che fa da guida nella notte – o che indica la
direzione da scegliere al ritorno del mattino, nella
giornata che ancora si prepara.
102
Non fummo certi di arrivare: lo desiderammo,
però, con tutte le nostre forze – i n s i e m e. Respirammo la nostra speranza, ce ne nutrimmo avidamente;
camminammo nel deserto di gelo con vigore, a volte
persino con allegria; insieme pronunciammo il nostro “sì” a tutte le cose: al cammino, a ciò che attendeva entrambi – nel tempo e con il tempo, a qualunque condizione. Con parole di neve:
Dove è ghiaccio, lì è frescura per due.
Per due: così ti feci venire. [...]
Dove il ghiaccio s’apriva ristava alto un bagliore.
[...]
Prendi questa parola – il mio occhio la declama al tuo!
Prendila, ripetila con me,
ripetila con me, lentamente,
ripetila con me, tu la devi trattenere
e, il tuo occhio, tenerlo aperto finché ciò dura!24
Questo “sì”, per noi, fu la speranza – benché il
dolore straziante che racchiudeva in sé ci fosse perfettamente conosciuto. Tutto fu
[...] Chiaro,
del doloroso colore
della speranza: grande
come la traccia
P. Celan, «WO EIS IST» (DOV’È GHIACCIO), in Von Schwelle
zu Schwelle (Di soglia in soglia), ora in Poesie, cit., p. 158, vv. 12; 12; 14-18: «Wo Eis ist, ist Kühle für zwei. / Für zwei: so ließ
ich dich kommen. / [...] / Ein Glanz lag über der Wuhne. / [...]
/ Nimm dieses Wort - mein Auge redet’s dem deinen! / Nimm
es, sprich es mir nach, / sprich es mir nach, sprich es langsam, /
sprich’s langsam, zögr es hinaus, / und dein Aug - halt es offen
so lang noch!».
24
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che indicò al Sì la sua via, instancabile, ineliminabile25.
Il nostro “sì” fu «in- / stancabile, in- / eliminabile»:
così caldo di dolore vero e di speranza.
***
Mi parve spesso di ascoltare da parte di Paola –
nelle parole di un colloquio quotidiano, nei gesti
d’affetto consueti e rinnovati – come una risposta e
una domanda sottaciute, comunicate in un accenno
appena percettibile:
[...] lì io sono, in te,
nutrita da sostanza di giunco,
su stagni di anatre selvatiche,
e canto –
che cosa canto? [...]26
25
P. Celan, «AFFENZEIT. Und...» (ETÀ DELLE SCIMMIE. E...),
in Conseguito silenzio, cit., p. 34, vv. 7-13: «[...] Hell, / von der
Schmerz- / farbe der Hoffnung; groß / wie die Spur, / die dem
Ja seinen Weg wies, un- / ermüdlich, un- / ausräumbar». I vv. 16 contrappongono drammaticamente al “sì” che solo rende pienamente umani, il grottesco «No vivente» che caratterizza l’«età
delle scimmie»: è un ulteriore atto d’accusa contro l’inautenticità di tanta parte del mondo contemporaneo, incapace di vivere ed accettare l’esistente senza mistificazioni. Si riportano di seguito i vv. 1-6: «AFFENZEIT. Und / ein lebendiges Nein, menschen- / äugig inmitten / aller / kunstvoll geknüpften / Schlingen und Verse» (ETÀ DELLE SCIMMIE. E / un No vivente, dall ’ o cchio / umano entro / tutti / i lacci e i versi / annodati ad arte).
26 P. Celan, «FRIHES», in Atemwende (Svolta del respiro), ora
in P o e s i e, cit., pp. 632-634, vv. 8-12: «[...] bin ich, von Schilfmark Genährte, / in dir, auf / Wildenten-Teichen, // ich singe // was sing ich? [...]».
104
Cosa cantavi, tu pronta e ferma in un luogo gelido di migrazione – tu come anatra acquattata nello
stagno delle partenze, tesa ai cieli alti? Il tuo canto
mi era nuovo, inaudito – ma sostavo con te nello
specchio d’acqua che raduna i morenti, ora immerso
e ora affiorante, come tu volevi; intruso ma non
sgradito, mi addentravo con te nello stormo che si
preparava alla levata fulminea delle ali. «Sostanza di
giunco» ti aveva «nutrita»: eri fatta ormai di fragile
canna palustre27 – confitta nello stagno del commiato. Sono rimasto a lungo nell’acqua, solo, seguendo
nell’aria il tuo volo, e poi fissando i cieli ormai vuoti:
27 Sulla canna palustre come simbolo della fragilità umana,
oltre al celebre passo di Pascal (Pensieri, 264), si veda Cattabiani, Florario, cit., pp. 646-647; sul legame tra la canna e la musica
nella mitologia antica, si vedano le pp. 644-645. Sulla canna nell’Antico Testamento (simbolo di vita in tutte le mitologie orientali antiche, perché è la prima pianta che spunta nel letto dei
fiumi dopo i periodi di siccità; unità di misura e strumento di
scrittura; espressione di debolezza e di inaffidabilità della natura umana, specie nella letteratura profetica, e proprio per questo oggetto della misericordia di Dio; strumento musicale) si veda la rispettiva voce in Lurker, Dizionario delle immagini e dei
simboli biblici, cit., pp. 34-35. Il legame tra la canna e la musica
è dominante, però, in quasi tutte le altre tradizioni mitologiche
antiche; si veda, ad esempio, Lucrezio, La natura, introduzione,
traduzione e note di O. Cescatti, Garzanti, Milano 1975, pp.
419-421 (De rerum natura, V, 1382-1391): «Gli zufolii dello zefiro attraverso i fusti delle canne insegnarono agli uomini dei
campi a soffiare nelle cavità delle zampogne. A poco a poco appresero i dolci lamenti che diffonde il flauto animato dalle dita
dei cantori, scoperto tra i boschi profondi, le foreste e i pascoli,
tra solitudini amate dai pastori durante gli ozi divini. Tali piaceri
bastavano a soddisfare e affascinare l’anima dei nostri antenati,
quando la fame era placata: allora sono cari tali canti». Tenendo
conto del valore della musica e del canto nella tradizione ebraica
e chassidica in particolare, il canto della lirica di Celan si pone
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lontano, dove non era possibile distinguerti ancora.
Eppure, nel vento dei giorni sussurravi segreti: incomprensibilmente cantavi.
***
La landa di ghiaccio si era trasformata per me in
un fiume gelato: anzi, in una moltitudine di fiumi. Li
vidi confluire nel luogo in cui si trovava l’amata come verso un lago infinito, e da qui nuovamente dividersi in altri fiumi: non li avevo ancora esplorati, ma
avrei dovuto avventurarmi tra essi, a congedo avvenuto. Tra questi e sul lago, allora, vagavo e sostavo;
in ciascuno attendevo e gettavo come una rete di domande, un giorno dopo l’altro:
NEI FIUMI a nord del futuro
io lancio la rete che tu
esitante aggravi
con ombre scritte
da pietre28.
Volevo agire: non mi limitavo più ad osservare
sgomento il luogo irreale in cui mi trovavamo assiecome l’unum necessarium in un contesto tutto particolare:
espressione di significato e senso, adesione profonda al proprio
destino, ritorno all’universo di Dio e alla comunione con gli uomini sul limitare del commiato.
28 P. Celan, «Atemwende (Svolta del respiro)», in P o e s i e, cit.,
p. 516: «IN DEN FLÜSSEN nördlich der Zukunft / werf ich das Netz
aus, das du / zögernd beschwerst / mit von Steinen geschriebenen / Schatten». La traduzione è di F. Camera, in Gadamer, Chi
sono io, chi sei tu, cit., p. 24; si veda nel complesso l’interpretazione di Gadamer alle pp. 24-28, fine e puntuale come di consueto.
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me a lei – «a nord del futuro»29. Il sole attraversava
la lastra di ghiaccio, mi mostrava creature guizzanti
nelle acque sconosciute – pesci dall’aspetto strabiliante, che non sapevo potessero esistere: la landa di
gelo era abitata nell’intimo, racchiudeva in se stessa,
Gadamer, Chi sono io, chi sei tu, cit., p. 28: «O. Pöggeler
propone di interpretare il costrutto nördlich der Zukunft, “a
nord del futuro», come una regione in cui dimora la morte, poiché a partire dall’“impalpabile abisso” della morte ogni futuro
che viene verso di noi è già superato. Si tratta di una radicalizzazione della esperienza fondamentale dell’uomo, che porterebbe
a comprendere il “tu” come il pensiero della morte che conferisce ad ogni esistenza il suo peso. È vero che così quel costrutto
risulterebbe compreso in modo più preciso; esso significherebbe: là dove non vi è alcun futuro e, quindi, neppure alcuna attesa. Però si parla di pesca con la rete. Vale la pena di riflettere su
questo punto. È forse l’accettazione della morte a lasciar sperare
in una nuova pesca?». Lo scrivente si è interrogato a lungo; nella
lettura che ha tentato di praticare, includendo la propria esperienza nella referenzialità del testo, ha scorto nell’espressione
nördlich der Zukunft quel futuro remoto e indeterminato che lo
avrebbe atteso al di là del futuro immediato del congedo imminente: il tempo delle domande di senso, dei bilanci, del ritrarre
simbolicamente una rete di interrogativi dalle acque gelide dell’accaduto per cercarvi qualcosa che vi sia rimasto impigliato –
brandelli di significato, nutrimento per vivere ancora. Se la rete
non fosse stata gettata allora, in quel tempo, con l’aiuto dell’amata – aiuto che solo a congedo avvenuto si sarebbe rivelato indicibilmente ricco di carità e di grazia – nessuna preda vi sarebbe rimasta impigliata, e nessun messaggio sarebbe più decifrabile dal
passato. Tale interpretazione, ovviamente – in coerenza con gli
intenti ed i criteri ermeneutici in senso lato “midrashici” adottati
in questo volume – non intende assolutamente porsi come esaustiva, ma essere solo un momento di quella “lettura infinita”, di
quel dialogo sempre cangiante che le poesie di Celan possono
originare e, con ogni probabilità, vogliono originare, se è concretamente lecito, possibile e fruttuoso leggerle con questo stile.
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nel profondo, vita e movimento30. Ero consapevolmente «a nord del futuro»: in territori che non sospettavo di dovere, un giorno, raggiungere e abitare,
ospite di un mistero che compendiava in sé la condizione umana. Avrei voluto catturare qualcuno di
quei pesci che nuotavano liberi nell’acqua per portarlo alla luce, per esaminarlo da vicino.
Lei non si opponeva, anzi: mi aiutava fissando
«pietre» alla rete. Voleva che la pesca fosse fruttuosa. Per questo indugiava, appesantiva (beschwerst) la
rete con attenzione e lentezza (zögernd): perché, una
volta calata, rimanesse in perfetto equilibrio nell’acqua e lì racchiudesse, consegnando alle nostre mani
qualche preda. Forse, come sperava, il disegno dei
corpi guizzanti avrebbe potuto svelarmi, nel chiarore della superficie, qualcosa dell’intrico d’acque e di
rive, di gelo e di luce in cui lei stessa si trovava – là
dove presto sarei rimasto solo con la nostra pesca
miracolosa e imprevista31.
Gadamer, Chi sono io, chi sei tu, cit., p. 25: «Dove le ombre calano e oscurano, è presente anche luce e chiarore, e in
realtà si può dire che in questa poesia si fa chiaro. Essa evoca la
limpidezza e la freschezza dell’acqua ghiacciata. Il sole illumina
l’acqua fino al fondale. [...] L’io è un pescatore che getta la rete.
Gettare la rete è un’azione di mera attesa. Chi ha gettato la rete
ha già fatto tutto ciò che poteva fare e deve solo attendere che
qualcosa rimanga impigliato nella rete. Qui non viene specificato quando si compie questa azione. È una sorta di presente gnomico che accade sempre di nuovo».
31 Ivi, pp. 25-26: «[...] l’io non è solo e non può portare a
termine la pesca da solo. Ha bisogno del tu. [...] Attaccare i pesi
alla rete “indugiando” (zögernd) non indica una esitazione interiore dovuta all’indecisione o al dubbio che porta il tu – chiunque egli sia – a non condividere del tutto le speranze della pe30
108
Mentre scendevano le reti, lei scivolava non vista
lungo i fiumi intrecciati, si allontanava a poco a poco da me: mi aveva lasciato il suo viatico – un dono
per il reciproco addio. Quando tutto sarebbe stato
compiuto, avrei levato ansioso le reti per raccoglierle con foga tra le mani. Là avrei trovato non solo la
pesca che i suoi gesti avevano resa possibile, ma anche i pesi che lei stessa aveva fissati: vi avrei letto un
suo messaggio.
Furono soltanto «ombre», è vero, quelle che potei scorgere nell’acqua, allora, assieme alla rete: ma
«scritte» (geschrieben), decifrabili32. Anche a questo
aveva pensato, nel suo amore infinito, aveva preparato con cura quei segni mentre indugiava collocando le pietre, senza che me ne accorgessi.
Ho letto a lungo quei pesi, studiato con cura le
iscrizioni, cercato di coglierne il senso profondo.
sca. Non si capirebbe nulla se si attribuisse al participio zögernd
questo significato. [...] la rete deve stare ferma e questo determina l’indugiare che accompagna l’azione di attaccare i pesi alla
rete. [...] Chi attaccando i pesi alla rete ottiene questo stato di
equilibrio, aiuta a rendere veramente possibile la pesca».
32 Ivi, pp. 26-27: «La audace metafora delle geschriebene
Schatten non fa solo affiorare l’aspetto immaginario e spirituale
dell’intera azione, ma ne attesta il senso. Cio che è geschrieben,
“scritto”, può essere decifrato, significa qualcosa e non ha semplicemente la indistinta resistenza del peso. È necessario operare una trasposizione: come l’azione del pescatore è piena di
aspettative a causa del concorso reciproco dei due movimenti,
quello del gettare e quello del fermare la rete, così anche ogni
dimensione futura in cui si protende la vita umana non è una
semplice apertura verso ciò che verrà, ma è determinata da ciò
che è stato e dal modo in cui il passato è stato custodito come in
un libro in cui sono scritte esperienze e delusioni». L’ a f f e r m azione di Gadamer trova riscontro nella realtà da me oggettivamente esperita, esattamente come lo trova nei versi di Celan.
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Erano il dono estremo di lei: soppesare, comprendere è stato il mio compito. Ai disegni sul dorso dei
pesci, ai colori cangianti sulle loro squame non ho
più voluto pensare: dopo una rapida occhiata, li ho
rigettati nell’acqua da cui li avevo obbligati a uscire.
Ho letto un messaggio tracciato da mani lontane,
sommerse nel sud del futuro.
Di fronte a un lume
Troppo vasto il deserto, troppo lungo il cammino
perché io possa ancora raccontare. Chi è caduto non
potrà rialzarsi. Io ancora vado, e ho avuto in dono,
chissà come, una terra nuova in cui costruire e abitare, coltivare e irrigare; semino e mieto in un altro
luogo, grato di molto.
La voce si è ritirata nel silenzio; restano i lumi accesi sulla tavola, per onorare la santità delle notte –
una «notte piccolina», da supplicare in silenzio.
***
Lumi terrestri ricordano i morti: con gesti semplici, li accendono mani di uomini, e li alimentano
con cera d’api. Sono luci innocenti, tenui ed effimere: pienamente umane.
Una lampada brucia di fronte all’Arca Santa, in
cui la Torah riposa e veglia, al di là dell’oro delle porte – per ricordare nel tempo la tragedia dello s. ims.um e la presenza esule della Š ekinah.
Dio stesso, sul Sinai, insegnò a Mosé l’arte della
menorah: un solo pezzo d’oro purissimo, lavorato fi-
110
nemente da un artigiano esperto; ad adornarlo, in
tutta la sua estensione, “calici a fior di mandorlo”,
“boccioli” e “fiori”; il suo luogo, la tenda del convegno, verso sud; il suo momento, l’intervallo della tenebra notturna. Nei secoli, gli uomini caricarono di
simboli mistici le sette braccia che da allora non si
stancano di reggere le fiamme – o forse li videro affiorare a poco a poco, in tremolanti lettere di luce,
dal balenio cangiante del metallo33.
Meravigliosi sono i lumi della vigilia di Ša b b a t,
che solo la grazia di una donna può donare al proprio uomo34: egli indugia nelle strade, torna a passo
lento dalla Sinagoga, nel crepuscolo che lo accompagna – mentre il tempo tra le mura della casa si fa
dolce, mansueto: grazie a loro.
Forse, i Maestri d’Israele vollero le lampade di
H.anukkah per testimoniare che «tutto nasce dalla
luce», e che «proprio come per il mondo sensibile,
di cui scorgiamo la luce, del Dio infinito possiamo
conoscere solo la sua fosforescenza»35.
Altri lumi sono sulle tombe dei cristiani: rivelano
i tratti di visi ormai scomparsi, leggono nomi – senza
voce.
Esodo 25, 31-40. Si veda Busi, Simboli del pensiero
ebraico, cit., pp. 214-222.
34 Si veda Di Sante, La preghiera di Isarele, cit., pp. 154-155.
35 Eisenberg - Steinsaltz, Il candelabro d’oro, cit., p. 290; ma
si veda l’intero capitolo dedicato alla festa di H.anukkah, alle pp.
285-314.
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Nelle chiese, una candela arde perennemente a
fianco del Tabernacolo, e si riflette sull’oro che racchiude il pane del mistero.
A Bose, monaci e monache pongono fiamme al
cospetto delle icone: vegliano di fronte a entrambe.
***
Celan, un giorno, sostò di fronte a una candela:
D’oro lavorato a martello, così
come tu mi hai ordinato, madre,
ho dato forma al candelabro, da cui
lei verso l’altro per me si fa tenebra, tra
ore scheggiate:
del tuo
essere morta, figlia.
Esile d’aspetto,
un’ombra lieve, dagli occhi a mandorla,
bocca e grembo
attorno a cui danzano animali del sonno,
sguscia via nell’aria dall’oro che s’apre,
sale verso l’alto
fino al culmine dell’oggi.
Con labbra velate
di notte,
pronuncio io la benedizione:
Nel nome dei Tre,
che l’uno con l’altro combattono, fino a quando
il cielo si tuffa giù nel sepolcro dei sentimenti,
nel nome dei Tre, i cui anelli
al dito mi brillano, ogni volta che
agli alberi, nell’abisso, libero le chiome,
così che ne risuoni il profondo di flutto più ricco-,
nel nome del primo dei Tre,
112
che gettò un grido,
quando fu necessario vivere là, dove prima di lui la
sua parola già era
stata,
nel nome del secondo, che fu presente e pianse,
nel nome del terzo, che bianche
pietre accatasta nel mezzo, –
io ti dico libera
dall’Amèn che ci stordisce,
dalla luce gelida che gli sta attorno,
là, dove alto come una torre cammina nel mare,
là, dove la grigia, la colomba
becchetta i nomi
al di qua e al di là del morire:
tu resti, resti, resti
bimba di una morta,
consacrata al no del mio struggimento,
sposata ad una spaccatura del tempo,
davanti alla quale mi condusse la parola materna,
così che una sola volta
tremi la mano
che ancora e ancora mi afferra al cuore! 36.
36 P. Celan, «VOR EINER KERZE (DINANZI A UNA CANDELA), in
Von Schwelle zu Schwelle, ora in Poesie, cit., pp. 184-186: «Aus
getriebenem Golde, so / wie du’s mir anbefahlst, Mutter, / formt
ich den Leuchter, daraus / sie empor mir dunkelt inmitten /
splittender Stunden: / dieses / Totseins Tochter. // Schlank von
Gestalt, ein schmaler, mandeläugiger Schatten, / Mund und Geschlecht / umtanzt von Schlummergetier, / entschwebt sie dem
klaffenden Golde, / steig sie hinan / zum Scheitel des Jetzt. //
Mit nachtverhangenen / Lippen / sprech ich den Segen: // In
Namen der Drei, / die einander befehden, bis / der Himmel hinabtaucht ins Grab der Gefühle, / in Namen der Drei, deren
Ringe / am Finger mir glänzen, sooft / ich den Bäumen im Abgrund das Haar lös, / auf daß die Tiefe durchrauscht sei von reicherer Flut -, / in Namen des ersten der Drei, / der aufschrie, /
als es zu leben galt dort, wo vor ihm sein Wort schon gewesen, /
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“Accarezzo” da anni questa poesia, un giorno dopo l’altro, ed essa non è mai avara nel colloquio, né
si chiude nella propria reticenza – eppure, instilla in
me un desiderio di silenzio e di attesa: non vuole che
riveli i suoi bagliori. Posso dire solo questo:
Vegliano le fiamme, e uomini di fronte ad esse:
c’è dimora nelle icone, nelle pietre. C’è vita oltre le
porte rivestite d’oro.
Forse, tutti i lumi della terra sono uno, e moltiplicano se stessi in infinite fiamme.
Forse, vegliare in assoluta solitudine di fronte a
un lume che veglia a sua volta – su un’icona, una
pietra, una porta d’oro – è l’unico gesto pienamente
umano: il solo atto di speranza che ci sia concesso
sulla terra.
Forse, ogni debole fiamma terrestre attira le luci
celesti e le risana: le riconduce a poco a poco all’unità originaria.
Forse, Dio stesso è disseminato in questi lumi: è
uno con loro, è in loro – e attende che ogni uomo dichiari col silenzio che essi sono uno, per poter porre
fine al proprio esilio. Sarà questa la «parola di soglia»: fatta di tenebra esultante e luce piena, di voce
e gesto umano.
Solo questo posso dire – qui, nell’oggi, a Layla
(Maddalena, che ora è mia moglie) che mi vive accanto, mia gioia e mia allegria – oggi, qui, con lei.
Così – la mia voce e la sua:
in Namen der zweiten, der zusah und weinte, / im Namen des
dritten, der weiße / Steine häuft in der Mitte, - / sprech ich dich
frei / vom Amen, das uns überträubt, / von eisigen Licht, das es
säumt, / da, wo es turmhoch ins Meer tritt, / da, wo die graue,
die Taube / aufpickt die Namen / diesseits und jenseits des Sterbens: / Du bleibst, du bleibst, du bleibst / einer Toten Kind, /
geweiht dem Nein meiner Sehnsucht, / vermählt einer Schrunde der Zeit, / vor die mich das Mutterwort führte, / auf daß ein
einziges Mal / erzittre die Hand, / die je und je mir ans Herz
greift!». La traduzione è dello scrivente.
114
***
Polvere sottile, Layla, ovunque
il primo polline di maggio
sulle rose aperte, un velo
d'impalpabile sostanza: un velo
e un segno
sulle soglie,
Layla: un velo e un segno
tutto
è soglia e tutto ha un segno fine,
asciutto e lieve
come un dono
d’api sulle soglie per la notte
santa
e chi vedrà passando
avrà un sussulto di bontà,
di tenerezza: e parlerà per noi,
per tutti e salterà di soglia
in soglia, lui, dicendo
è danza
lieve, questa, è gioia qui tra voi
di segno in segno
è danza qui
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tra voi: vi trovo tutti, qui,
di là dal segno che tra tutti
mi somiglia come un lago
vasto attira il cielo e lo moltiplica
sull'acqua goccia a goccia e nell'ampiezza
disarmante per l’azzurro, irresistibile
per lui che vuole questo:
essere vinto
vinto, vinto
da chiarissima, finissima
sostanza e poi danzare via, riflesso
BIBLIOGRAFIA
Per ulteriori indicazioni bibliografiche su Paul Celan,
si rimanda a: G. Bevilacqua, «Bibliografia», in P. Celan, Poesie, Mondadori, Milano 1998, pp. 1397-1441.
sì,
nell’uno e nella danza: cielo,
acqua qui nell’aria, nella luce
voi così, di là dal segno: voi
nel gambo, rose informi ancora: voi
già qui per desiderio e voi perdute
rose, voi compiute sotto il velo
come tutti adesso: i vivi
e i morti
qui la soglia, il segno
d’impalpabile, finissima
sostanza
di posata, di terrestre
luce in polvere su tutti
lieve, questa
è gioia
tra voi
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e b r a i c a, Il Melangolo, Genova 1998 (trad. di Mario Angelino).
Elie Wiesel, La notte, prefazione di François Mauriac, La
Giuntina, Firenze 199614 (trad. di Daniel Vogelmann).
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Nota
7
Premessa
9
PARTE PRIMA
Come un midraš
Renitente mattino
Carità della notte
Luce natante
21
35
55
63
PARTE SECONDA
Una lettura personale
79
Neve sul mare
Una rosa
Parola di soglia
Di fronte a un lume
82
85
94
110
Bibliografia
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