Insegnare Auschwitz nella scuola. Riflessioni sulla
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Insegnare Auschwitz nella scuola. Riflessioni sulla
Insegnare Auschwitz nella scuola. Riflessioni sulla didattica della Shoah: questioni etiche, storiografiche e metodologiche. di Laura Fontana, responsabile dei progetti per l’educazione alla memoria, Comune di Rimini L’argomento di questo intervento riguarda principalmente la questione dell’insegnabilità e dell’insegnamento di Auschwitz, tema che da circa un decennio è divenuto di grande attualità sia in ambito accademico e istituzionale, sia naturalmente nel mondo della scuola. Prima di entrare nel vivo della questione, desidero presentarmi per definire il ruolo che svolgo all’interno dell’Amministrazione Comunale di Rimini come incaricata delle attività di educazione alla memoria. Il mio interesse per le vicende della deportazione e dello sterminio è incominciato in maniera del tutto casuale e, se volessi lanciare una provocazione, direi per “colpa” di una insegnante di lettere. In effetti il mio primo approccio con l’argomento di cui oggi discutiamo accadde in età adolescenziale e, come forse capita anche oggi a molti dei vostri alunni, per obbligo scolastico. A 14 anni fui letteralmente costretta dalla professoressa di lettere a svolgere la mia tesina per l’esame di terza media sul libro Il diario di Anna Frank, libro che era rimasto inspiegabilmente in fondo alla lista dei testi proposti per la relazione, in quanto nessun altro alunno lo aveva scelto. Quel libro, tra l’altro, mi era anche familiare, poiché era nella biblioteca dei miei genitori, ma io - non saprei perché- non avevo mai provato alcun interesse per leggerlo. Costretta, quindi, ad immergermi nelle pagine della ragazzina ebrea, iniziai ad interessarmi, direi letteralmente appassionarmi all’argomento. Ricordo anche l’angoscia per un interrogativo che mi martellava e al quale nessun adulto, né a casa né a scuola, sembrava essere in grado di rispondere: “ma quello che è successo a Anna poteva accadere anche a me?”. Non sapendo nulla degli ebrei e tantomeno delle ragioni che avevano provocato tanto odio per decidere di sterminarli fino all’ultimo, per me, ragazzina, Anna era solamente una coetanea costretta ingiustamente da uomini crudeli a patire isolamento e privazioni. All’occasione di quella lettura un po’ forzata si aggiunse in quegli stessi giorni un’altra circostanza che ebbe conseguenze determinanti per me e per il lavoro che oggi svolgo: la trasmissione alla televisione dello sceneggiato americano “Olocausto”, la prima grande divulgazione mediatica della Shoah, dopo oltre vent’anni di silenzio e di indifferenza (se si eccettua il processo Eichmann degli anni Sessanta che tuttavia non raggiunse la massa della popolazione). Era il 1977 e quel film, trasmesso contemporaneamente in tutti i paesi dell’Europa Occidentale oltre che negli Stati Uniti, mostrava per la prima volta alla gente, anche se naturalmente in forma romanzata e storicamente non sempre attendibile, immagini dei lager e delle sofferenze degli ebrei deportati. Per me fu letteralmente uno shock che provocò un bisogno insopprimibile di saperne di più, di capire, di scoprire come fosse stato possibile arrivare ad un simile crimine. La mia tesina si trasformò in un enorme e ambiziosissimo progetto di ricerca storica, progetto destinato a fallire in partenza, non solo per la mia età, la mia ignoranza ed i miei limiti, ma soprattutto per l’assenza di qualsiasi aiuto da parte di adulti. 1 Il primo problema fu, per esempio, reperire del materiale di ricerca. La biblioteca dei ragazzi alla quale ero iscritta mi liquidò sbrigativamente dicendo che l’argomento non era adatto alla mia età. Testarda come sono sempre stata, insistetti per avere accesso ai documenti, adducendo come giustificazione inattaccabile il dovere scolastico. I miei genitori dovettero allora chiedere per iscritto al direttore della Biblioteca Civica di lasciarmi accedere alle sale di consultazione per adulti, ma furono costretti ad accompagnarmi fisicamente, perché prima dei 16 anni i giovani non potevano andarci da soli. Ricordo pomeriggi passati a sfogliare, ricopiare e fotocopiare libri costituiti essenzialmente da fotografie, tutte orrende e macabre, ma anche immensi volumi di storie di guerre e di bombardamenti. Nulla di specifico sugli ebrei, l’antisemitismo e le ragioni dello sterminio naturalmente, considerato che eravamo, come ho ricordato, negli anni Settanta, quando ancora gli studi sulla Shoah in lingua italiana erano cosa rara. Conservo ancora oggi quella tesina fatta di ragionamenti infantili, supposizioni innocenti sul male e sul bene, corredata da un collage di fotografie e piantine della Germania. Mi sentivo un po’ eroica in questa mia impresa ed ero anche molto fiera della corposità del mio lavoro, anche se oggi, naturalmente, lo giudicherei senza pietà. Il giorno dell’esame ero molto emozionata e non vedevo l’ora di parlare dell’Olocausto (allora non esisteva ancora il termine Shoah nel linguaggio comune). Le cose però andarono in un altro modo: l’insegnante ritirò la mia tesina, la sfogliò piuttosto sbrigativamente, poi la richiuse e mi disse più o meno così: “Vedo che ti sei impegnata tantissimo e ti meriti certamente un ottimo voto, ma siccome è un argomento molto forte, che ci sconvolge solo al pensiero, non serve che me la racconti. Dimmi solamente per quale ragione ti sei interessata così tanto a questa storia così tremenda” Risposi che quello che mi aveva colpito maggiormente era che la storia di Anna Frank sarebbe potuta essere anche la mia storia o quella di un'altra ragazza come lei. L’insegnante disse che però io non ero ebrea e che la storia non si ripete uguale, poi decise di lasciare perdere e preferì continuare l’interrogazione su di un altro argomento. Ancora oggi mi capita di evocare pubblicamente quell’insegnante di cui non ricordo neppure il nome e di ringraziarla perché senza quella frustrazione che mi ha provocato il suo rifiuto di ascoltarmi parlare della Shoah, oggi forse non farei quello che faccio. Da allora sono passati più di vent’anni, e io non ho mai smesso di leggere e di studiare l’argomento, in un tentativo sempre rinnovato di comprenderne le ragioni senza riuscire ad arrivarci. Auschwitz è un evento che provoca sempre un senso di frustrazione, una sorta di delusione perché malgrado le ricostruzioni e le spiegazioni storiche si ha la sensazione di non vederne il fondo, di non arrivare alla spiegazione ultima, quella convincente, quella che risponde davvero alla domanda “Ma perché è accaduto?”. Per molto tempo ho seguito una sorta di formazione storica sulla Shoah da autodidatta, perché nel campo professionale ho scelto, invece, un’altra strada. Mi sono laureata in lingue e letterature straniere a Bologna, ho conseguito l'abilitazione all’insegnamento per la lingua francese e, dopo qualche supplenza qua e là e alcuni anni vissuti in Francia, ho vinto un concorso in Comune a Rimini, prima come addetta al Servizio Relazioni Esterne che fa capo al Sindaco, per 4 anni, poi dal 1994 ad oggi, come funzionario responsabile dei teatri comunali, posto che ricopro tuttora. Quando ho incominciato a lavorare alle dipendenze dell’Amministrazione Comunale, 15 anni fa, il Comune di Rimini aveva già una lunghissima attività nel campo dell’educazione alla memoria poiché organizzava e finanziava viaggi-studio ai lager per le scuole fin dai 2 primi anni Settanta, con un primo esperimento che risaliva addirittura al 1964, quando in Italia nessuna istituzione pubblica spendeva energie per divulgare la storia della deportazione, al massimo si commemorava o si discuteva della Resistenza. Collaborare a quel progetto fu per me dunque una cosa del tutto spontanea e normale, visto che conoscevo abbastanza bene l’argomento. Guidare gruppi di studenti in visita ai campi di concentramento, raccontare e tentare di spiegare la storia della deportazione e dello sterminio in pullman, in classe, in aule magne, nei cinema, nelle assemblee di istituto è stato per me estremamente istruttivo, perché mi ha permesso di capire nel tempo che senza un metodo didattico serio e rigoroso parlare di Shoah a dei ragazzi quasi sempre impreparati era un’impresa disperata e difficilissima. Senza questo contatto continuo con il mondo della scuola probabilmente non avrei capito l’importanza di costruire percorsi educativi insieme agli insegnanti per rendere più efficace il nostro lavoro. Questa premessa era assolutamente necessaria per spiegare il ruolo che svolgo come educatore e operatore culturale, che è un compito molto diverso, ad esempio, da quello dello storico di professione e dell’insegnante, ma che non può prescindere né dal lavoro dell’uno, che lo nutre e lo prepara, né dell’altro al quale si rivolge come supporto. Questo intervento, che ovviamente non ha l’ambizione di trattare in maniera esaustiva un argomento così complesso e delicato come la trasmissione della storia della Shoah alle giovani generazioni in un contesto scolastico, si articolerà su due livelli diversi, uno teorico ed uno pratico, che tenterò di collegare il più possibile. Mi propongo di riflettere con voi brevemente sulle principali controversie che ancora pesano sulla storiografia di Auschwitz, i nodi irrisolti, i punti chiave che ogni docente deve tener presente per non arenarsi alla prima difficoltà. Parallelamente a questo, vorrei rievocare alcuni problemi pratici e concreti di lavori scolastici realizzati da classi riminesi, illustrando pregi e limiti dei metodi didattici utilizzati, con l’obiettivo di fornire a voi colleghi alcune piste di lavoro e suggerimenti concreti. L’insegnamento della storia, come sapete meglio di me, ha subito un grosso cambiamento nel corso di questi ultimi 50 anni. Siamo usciti lentamente da uno schema fisso di trasmissione di una storia immobile e patriottica, costellata da figure eroiche il cui destino si confondeva spesso con quello della nazione intera. Per secoli la storia è stata presentata dai manuali principalmente come una successione di vite di eroi combattenti e di grandi nemici, oppure di guerre fra nazioni e capi di stato, con conseguenze territoriali ed economiche. E’ è solo verso gli inizi degli anni Settanta che questa concezione è entrata in crisi. Da allora è iniziato un profondo mutamento che ha progressivamente spostato l’attenzione dal passato glorioso ed edificante all’esigenza di leggere e di interpretare i momenti critici del passato per trarne strumenti di comprensione della contemporaneità. Si è incominciato anche a non aver più paura di affrontare le pagine nere della nostra storia nazionale e a percepire come molto forte il dovere della trasmissione della memoria. Negli anni Ottanta, in particolare, è diventato determinante porsi il problema di fare i conti con la storia del Novecento e con le sue tragiche conseguenze. Le guerre mondiali, la resistenza, la bomba atomica, la decolonizzazione, sono eventi di straordinaria importanza la cui percezione è divenuta vitale per lo studio della storia moderna, anche se, purtroppo, non possiamo affermare che in 3 questi 60 anni dalla fine della seconda guerra mondiale la scuola abbia brillato per impegno educativo sui temi dei vari genocidi del nostro secolo. La Shoah, in particolare, è stata a lungo considerata come un tremendo dettaglio all’interno della Seconda Guerra Mondiale, una violenza enorme tra le tante, una sorta di deragliamento della ragione che ha provocato un numero altissimo di vittime, ma non un fenomeno a sé, denso di significati e di conseguenze per la nostra civilta. Lo sterminio degli ebrei d’Europa verrà concepito come un elemento fortemente paradigmatico, in grado di suscitare interrogativi e prese di coscienza anche e soprattutto nella vita di oggi, solamente negli anni Ottanta in Germania e in Francia, poi, con quasi un decennio di ritardo, anche in Italia. Lo sterminio degli ebrei d’Europa – ma anche, ed è bene ricordarlo con uguale forza, l’assassinio di massa di altre categorie di persone, dai malati di mente agli handicappati, dai Rom agli oppositori politici e ai prigionieri di guerra – attuato dal regime nazionalsocialista presenta caratteristiche emblematiche, sia sotto il profilo storico-politico che culturale ed etico. Queste caratteristiche, pertanto, lo rendono non solo, come si ribadisce ormai quasi all’unanimità, una ferita aperta, insanabile, nella civiltà europea, un abisso nel Male assoluto, o ancora un terribile spartiacque fra un prima e un dopo Auschwitz, ma anche, e soprattutto, un passaggio educativo fondamentale ed irrinunciabile. Auschwitz – intendendo qui il termine nel più ampio senso possibile, cioè non solo come luogo geograficamente concreto di messa a morte, ma anche di simbolo universalmente riconosciuto della Shoah – costituisce, in effetti, un nodo centrale sotto il profilo storico, antropologico, religioso che provoca in chi affronta l’argomento con preparazione e coscienza profonde riflessioni sul senso del bene e del male, sulla colpa e sulla responsabilità morale e materiale, su Dio assente o presente, sui confini tra libertà e repressione, collaborazionismo e consenso e molto altro ancora. Tuttavia, anche oggi che parlare di questo evento è certamente più facile e diffuso (talvolta però solo superficialmente e con retorica sterile, come se fosse un atteggiamento politicamente corretto di parte della sinistra illuminata, ma non un atteggiamento di vera condivisione e partecipazione intellettuale), non è affatto scontato né semplice per un insegnante fare lezione in classe sulla Shoah. Intanto va detto che, purtroppo, non sempre la scuola si dimostra sensibile e attenta al riguardo, limitandosi, in taluni casi, ad affrontare il tema in modo rapido e discontinuo, inserendolo velocemente nella lezione sulla Seconda Guerra Mondiale, quasi come un dettaglio aggiunto all’orrore della violenza della guerra, ma senza proporre un vero e proprio percorso razionale di studio e conoscenza. Numerosi sondaggi somministrati in più città ai ragazzi, quindi anche il nostro contenuto nel volume “I nemici sono gli altri” pubblicato da Giuntina, dimostrano che senza una preparazione storica alla base e senza un percorso in grado di provocare negli studenti elaborazioni e ragionamenti sull’argomento, nella maggior parte dei giovani prevale un’ignoranza assoluta in materia. Ignoranza che non è, tuttavia, proprio sinonimo di una mancanza di informazioni, ma piuttosto un minestrone di notizie, una confusione di dati e dettagli, uno scollegamento totale tra cause ed effetti e, al contrario, un’abbondanza di stereotipi sugli ebrei e sui nazisti, sui tedeschi e sugli italiani, sull’antisemitismo e sul razzismo. Dobbiamo tuttavia riconoscere che in questi questionari così come in molti elaborati scolastici si ritrovano quelle conoscenze generiche e spesso superficiali che caratterizzano 4 anche l’opinione corrente, per cui capita frequentemente di non distinguere, ad esempio, il concetto di “campo di concentramento” con quello di “campo di sterminio”. Sintetizzando potremmo forse affermare che i nostri studenti sanno poco di tutto o male di tutto e non è raro poi leggere nelle loro ricerche e relazioni frasi come “il campo di sterminio di Dachau”, “gli ebrei furono assassinati nei forni crematori” e altro ancora di cui parleremo quando affronteremo qualche esempio concreto di lavoro scolastico. Anche per il docente più preparato e sensibile, colui o colei che sa, in coscienza, che non può eludere l’argomento in classe, perché troppo importante e denso di significati e connessioni con il passato e con il presente, anche per quel docente l’insegnamento della deportazione e dello sterminio può costituire un serio problema, correlato da una serie di dubbi, personali e metodologici, oltre che (ahimé!) di ostacoli meramente oggettivi (il tempo tiranno, la disponibilità dell’Istituto e dei colleghi a collaborare, l’età e il tipo di classe, ecc.). Per il lavoro che ho svolto in questi anni a stretto contatto con centinaia di insegnanti della provincia di Rimini e delle Marche, ho potuto farmi un’idea abbastanza precisa di questi difficoltà che riassumerei in due ordini di problemi che propongo alla vostra attenzione, insieme a qualche piccolo commento o suggerimento personale di lavoro. Il primo gruppo di problemi riguarda fattori oggettivi e questioni preliminari che cito velocemente. Il primo è un vincolo evidente, il limite di tempo, un’ora o forse due di storia alla settimana, un tempo del tutto insufficiente per affrontare un argomento così complesso. Il secondo problema riguarda l’età degli studenti che appartengono alla generazione degli anni Ottanta, hanno genitori giovani, che non hanno vissuto la guerra e che non hanno sentito parlare della Shoah. Di quale memoria hanno bisogno questi ragazzi? Terza questione, l’informazione di partenza che i giovani ricevono sugli ebrei. Per i nostri ragazzi gli ebrei sono gli Israeliani che combattono contro gli Arabi, hanno un’immagine mediata dalla televisione, limitata ad un’area geografica e politica precisa, l’insegnante deve tener conto anche di un possibile atteggiamento di diffidenza, magari anche a livello inconscio per saturazione (sempre gli ebrei, ancora loro!). Quarto e ultimo problema di questo primo gruppo è la difficoltà dell’insegnante di inserire la Shoah in una storia. Ma in quale storia? La storia della Germania nazista? La storia dell’Italia fascista? La storia dell’Europa? La storia degli ebrei? Cioè : si decide di partire a far lezione dall’antigiudaismo per arrivare al razzismo e all’antisemitismo nazista oppure si parte dalla prima guerra mondiale e dalla Germania nazista? Tracciamo una storia degli ebrei e dell’antisemitismo, che è corretta e che prepara l’avvento e le radici del nazismo, ma che però identifica gli ebrei con le vittime eterne della storia, oppure tracciamo una storia delle dittature, del collaborazionismo, della resistenza e della deportazione che ci fa rimanere nel campo del Novecento? Se è indispensabile situare la Shoah nella storia della Germania nazista, altrettanto importante è spiegare come questa storia sia una storia profondamente europea, nel nostro caso anche profondamente italiana, con responsabilità da non sminuire. Detto questo, passiamo al secondo ordine di problemi che tocca invece questioni storiche e metodologiche particolarmente delicate e dibattute. 5 1) 1) Il problema della storicizzazione di Auschwitz, evento unico e incommensurabile La Shoah non ha paragoni nella storia per crudeltà ? Per insegnare la Shoah bisogna studiarla come qualsiasi altro argomento storico, sembra evidente e scontato, ma invece non lo è perché questa affermazione, che costituisce il normale punto di partenza per il nostro lavoro, tocca e si scontra letteralmente con un problema estremamente dibattuto e di difficile soluzione, ovvero la questione della singolarità, incomparabilità di Auschwitz e, nel contempo, dell'esigenza di storicizzare, dunque, di relativizzare Auschwitz. Molto si è discusso e si continuerà a discutere in storiografia di quello che è tuttora considerato un nodo irrisolto dalla storiografia, cioè la Shoah come evento unico e incommensurabile oppure paragonabile rispetto ad altri eventi di violenze di massa e genocidi. Certo, se noi facciamo lezione di storia, dobbiamo ritenere incontestabile l’esigenza di inserire Auschwitz nella storia, di studiarla e di razionalizzarla come un qualsiasi altro argomento storico, anche mediante le comparazioni e le relativizzazioni che sono strumenti propri di questa disciplina. Si tratta, insomma, di una necessità imprescindibile per evitare il rischio di relegare Auschwitz nel campo della metafisica e della mitologia. Se la Shoah non viene trasmessa come un argomento storico che si studia, si analizza, si compara come un qualsiasi altro evento, pur con tutti i distinguo e i rilievi del caso, il rischio è enorme, è quello di fare di Auschwitz una reliquia, un simbolo astratto del male, un mostro. La vaghezza, l’allusione, l’imprecisione possono dare adito a confusioni, a esagerazioni, aprendo anche il varco alle tesi dei negazionisti. Chi nega le camere a gas, per quanto assurde e infondate le sue teorie, ha studiato i documenti. Quante volte leggiamo o sentiamo dire che ad Auschwitz furono uccisi 4 milioni di persone? Il caso più recente è quello dell’enciclopedia Utet uscita questa primavera con La Repubblica: nelle 8 righe dedicate al più grande centro di sterminio degli ebrei vengono condensati due errori grossolani, quello che Auschwitz e Birkenau erano due campi di sterminio e quello che riporta ancora questa cifra dei morti, già da molto tempo smentita e ridimensionata dagli storici. E’ importante avere cura dei dati e delle date quando si insegna la Shoah e trasmettere questo ai giovani. Non occorre aumentare le cifre per far risaltare ancora di più l’enorme dimensione del crimine, già la cifra realisticamente più corretta di 1.100.000 ebrei (per difetto) o 1.350.000 (per eccesso) è agghiacciante. D’altro canto, riconoscere in Auschwitz un evento unico e singolare non deve significare un dogma, un diktat che impedisce qualunque confronto. La singolarità storica della Shoah deve essere non solo riconosciuta dal docente, ma soprattutto spiegata ai ragazzi, ai quali andranno illustrate quelle caratteristiche peculiari che rendono lo sterminio un fenomeno storico profondamente nuovo e diverso dai genocidi precedenti. Sgombriamo subito il campo agli equivoci: la singolarità dello sterminio non sta nel numero di vittime, perché la storia non è una triste gerarchia dei crimini contro l’umanità. Non sempre, però, gli studenti hanno chiare queste caratteristiche emblematiche, profondamenti originali della Shoah, che invece dobbiamo sottolineare. Possiamo riassumerle in 4 punti-chiave, individuando anche qualche suggerimento di lavoro in classe: 6 a) la perfetta combinazione a catena di tutti gli organi dello Stato per arrivare a uccidere in massa. La Germania nazista riesce a coinvolgere nel suo progetto di sterminio tutte le istituzioni: la Cancelleria del Reich promulgava le leggi e i decreti sugli ebrei, le banche gestivano l’arianizzazione dell’economia, espropriando tutti i beni degli ebrei, le Chiese cattolica e protestante rilasciavano certificati di battesimo che servivano a decretare chi non era ebreo, il Ministero dei trasporti organizzava le deportazioni, l’industria traeva profitto dal lavoro schiavistico dei deportati oppure forniva le installazioni necessarie, dai forni, agli impianti di ventilazione, al gas, e poi la polizia, l’esercito, le SS, la sanità, ecc. Tutti questi centri di potere erano implicati nel processo della Soluzione Finale. Possiamo sottoporre agli studenti molteplici documenti al riguardo, interrogandoli sul grado di colpa e di responsabilità al riguardo. b) La burocratizzazione del progetto di sterminio che crea una distanza fisica tra chi ordina, decreta, organizza, firma le carte e chi materialmente esegue l’uccisione, in una sorta di lunga catena attraverso la quale il colpevole si sposta continuamente da un anello all’altro, così come la responsabilità dell’atto finale. La morte diventa così impersonale, fredda, amministrativa, un fatto anonimo e “pulito”, un assassinio ordinato e organizzato su scala industriale. Eichmann al processo che lo condannerà a morte per la deportazione di centinaia di migliaia di ebrei, tenterà a lungo di discolparsi affermando quella che probabilmente era una verità: “non ho ucciso nessuno con le mie mani, non era colpa mia”. Molto istruttivo al riguardo, da proporre agli studenti in chiave ridotta, cioè per spezzoni, è il film-documentario “Uno specialista”, con gli atti del processo a Eichmann in cui si vede benissimo in scena quella che la Arendt chiamò la banalità del male, un omino grigio e insignificante, educato e composto, che non sembra affatto il mostro crudele o il pazzo sadico dei racconti sui nazisti. c) La spersonalizzazione degli ebrei, vittime prima denigrate, umiliate, calunniate dalla propaganda nazista, poi dipinte come non persone, come parassiti della società, virus pericolosi da debellare, funghi pericolosi, nemici che non hanno né volto né nome. Esistono molte immagini della propaganda nazista contro gli ebrei, fumetti, vignette, pubblicità, estratti di libri di testo per bambini ariani, filmati d’epoca, ecc. La propaganda ebbe come conseguenza l’annullamento dell’immagine dell’ebreo in Germania: è più facile uccidere qualcuno che non si considera una persona, ma una cosa, ein Stuck (un pezzo, nel linguaggio nazista). d) La tecnologia dello sterminio che utilizza procedimenti nuovi, efficaci, puliti, rapidi, silenziosi, economicamente convenienti al Reich (il gas è segreto, non sporca il carnefice come nella fucilazione ad esempio). La Shoah rende gli ebrei vittime perfettamente invisibili, poiché dopo l’uccisione essi scompaiono, si riducono a polvere. 2) Il problema della soggettività e del rapporto tra razionalità ed emozione. Scrive a tal proposito Yannis Thannasekos (1) che “… trattandosi di Auschwitz la prima pedagogia da definire riguardi non già il rapporto docente/discente, bensì, singolarmente il rapporto del docente con se stesso…” E ancora che “questa materia esige da parte di chiunque e particolarmente da colui che insegna una riflessione critica su di sé; coinvolge dunque nel profondo la figura 7 dell’educatore che si sente esposto, vulnerabile, con le sue interpretazioni, i suoi valori, le sue giustificazioni storiche e morali” (2) L’argomento solleva indubbiamente questioni estremamente complesse che richiedono lo svolgimento da parte dell’insegnante di un ruolo di mediazione molto forte, perché l’emotività è anche la prima reazione nei destinatari del messaggio educativo, cioè i giovani. La Shoah evoca immediatamente in chiunque un carico di morte e di orrore che non può non provocare forti emozioni: commozione, dolore, rabbia, indignazione, ma anche, al contrario, rifiuto, rimozione, rigetto. Se il docente che affronta l’insegnamento in classe della Shoah non riesce, magari per mancanza di tempo o di mezzi, a superare questo primo stadio e ad aiutare gli studenti a trasformare l’emozione in interrogativo, in ragionamento, avrà fallito, a mio avviso, il suo compito educativo. In questi anni ho letto e analizzato decine e decine di testimonianze di studenti che hanno partecipato ai nostri viaggi-studio ai lager, in particolare a Mauthausen e ad Auschwitz che sono i luoghi meglio conservati e in grado di trasmettere maggiormente delle forti emozioni. L’emozione e l’angoscia trapelano da ogni frase, i ragazzi sono sommersi dalla commozione, dalla pietà, si sentono partecipi del dolore provato dalle vittime, ma nei loro testi l’emozione soffoca troppo spesso la volontà di capire e di interrogarsi. Mi è capitato spesso di stupirmi della terminologia impiegata che trasmette un fastidioso fascino del macabro e dell'orrore ("“e pietre sgorgano ancora sangue, sento ancora dentro di me le urla delle povere vittime asfissiate…”). Dobbiamo assolutamente evitare che ciò accada, o per lo meno sforzarci di contenere l’emotività che può bloccare la ragione. Occorre insomma prodigarsi per aiutare gli studenti a superare le emozioni – naturalmente senza reprimerle – stimolando in loro la formazione di atteggiamenti di empatia, di condivisione della sofferenza dell’uomo, sofferenza di ieri come di oggi, vicina e lontana, affinché i giovani maturino gradualmente anche un maggiore senso di responsabilità e di partecipazione attiva alla vita sociale. Quello che possiamo fare, ad esempio, è evitare il più possibile la “pedagogia del modulo western”, come la chiama lo storico Giovanni Gozzini, che separa rigidamente i buoni dai cattivi. Rifiutiamo gli stereotipi che non aiutano a capire: Hitler pazzo, le belve naziste, i sadici assassini. Oggi sappiamo che il numero di uomini e donne coinvolti a vario titolo e con vari livelli di consapevolezza nella macchina dello sterminio assomma a circa un milione: non solo “mostri”, non solo tedeschi e non solo fanatici nazisti, ma anche padri di famiglia, semplici impiegati, mediocri funzionari, persone comuni, né buone né cattive, ma con un basso livello di coscienza. Siamo certamente tutti d’accordo che insegnare storia non significa trasmettere dati e notizie, ma significa inserire questi dati e queste notizie (cifre, date, luoghi, personaggi) in contesti e in percorsi ragionati, significa spiegare, collegare, tradurre gli eventi in senso. Personalmente ho scelto di non presentare agli studenti immagini macabre, perché sono convinta che i mucchi di cadaveri, gli scheletri ambulanti, le fosse comuni non raggiungono lo scopo primario che mi sta alla base del mio lavoro per l’Amministrazione Comunale. L’obiettivo di quello che faccio, cioè pensare e promuovere percorsi di educazione alla memoria, è stimolare nei giovani lo studio della deportazione e della Shoah, ma anche del 8 Novecento nel suo insieme, dunque non punto a provocare fortissime emozioni, bensì a tentare di far comprendere razionalmente le ragioni e la dinamica di questi eventi. Un errore metodologico molto frequente, che mi è capitato più volte di constatare nelle scuole dove vengo chiamata, è quello di utilizzare come documento centrale nell’avvicinare gli studenti alla Shoah la proiezione del video di liberazione del lager di Bergen Belsen girato dagli americani. Il video propone immagini agghiaccianti, con montagne di cadaveri trascinati dalle ruspe e buttati in gigantesche fosse comuni, ciò nonostante continua a girare per le classi, persino nelle terze medie. Mi dilungo qualche minuto ancora su questo errore a mio giudizio grave, perché coinvolge non solo il piano dell’emotività che spesso risulta frenare il passaggio verso la rielaborazione, la riflessione profonda, ma anche sul piano della correttezza storica. Cosa significa far vedere questo filmato agli studenti? Molti di loro, a parte chiudere gli occhi per sempre su qualcosa di troppo brutto e terribile da essere immediatamente rimosso nel dimenticatoio, ne dedurranno che Bergen Belsen era un campo di sterminio quando non lo è stato e che nei campi di sterminio ci finivano tutti insieme, ebrei e non ebrei. In primo luogo andrebbe spiegata la natura specifica di questo lager, diverso da tutti gli altri, perché costituiva una sorta di campo di concentramento e di transito speciale, dove i nazisti pensarono di rinchiudere solo alcune categorie e nazionalità di ebrei, quelli che potevano essere liberati in virtù di scambi di prigionieri tedeschi con le potenze nemiche. Inoltre sarebbe indispensabile spiegare ai giovani, prima di vedere il video se proprio lo si vuole mostrare come esempio efficace del crimine commesso, che quando furono effettuate le riprese Bergen Belsen era diventato al nord del Reich quello che Mauthausen era al sud, cioè il campo destinato a contenere le centinaia di migliaia di ebrei evacuati da Auschwitz, troppo a est ed esposto all’avanzata dei russi. Poiché nessun ebreo doveva rimanere in vita e cadere nelle mani dei nemici, con il rischio di raccontare quanto acccadeva nei campi, i nazisti si impegnarono fino alla fine, pur consapevoli del disastro imminente con la caduta del nazismo, a trascinare gli ebrei in grado di camminare (le cosiddette marce della morte) in campi più sicuri all’intero dei confini del Reich. Per questo il sovraffollamento, la mancanza assoluta di igiene e di cibo, provocarono a Bergen Belsen un’enorme epidemia di tifo e una mortalità altissima. Ancora per questo motivo, Bergen Belsen divenne un campo sovraffollato in cui si mescolarono categorie di prigionieri fino a poco prima rigidamente separati nei lager. Pretendere di insegnare la Shoah con immagini di brutalità può anche significare che sia facile distinguere il male dal bene, il boia dalla vittima. La Shoah non può essere insegnata come una storia manichea, deve essere, anzi, la storia della zona grigia così bene descritta da Primo Levi, una storia fatta di persone normali, sia carnefici che vittime, non mostri e pazzi e nemmeno eroi o santi, anche se è chiaro che vi furono pure gli uni e gli altri tra i tanti. 3) Il problema delle scelte metodologiche per una corretta impostazione didattica La Shoah non si può insegnare come tutto il resto. Dal momento in cui decretiamo l’assoluta singolarità della Shoah, siamo consapevoli che se Auschwitz non ha il minimo rapporto di similitudine con qualunque altra cosa nella storia, allora anche il modo di insegnarla, di raccontarla dovrebbe essere profondamente diverso. Intanto ci troviamo costretti ad affrontare un interrogativo di difficile soluzione: 9 come conciliare l’innominabile, l’indicibile, l’estremo con l’esigenza di comunicare mediante l’insegnamento ? Come può Auschwitz, evento incomprensibile alla nostra capacità raziocinante, diventare spiegabile e intelleggibile? L’insegnante si sente coinvolto in questa crisi, in questa ricerca di nuovi mezzi di spiegazione e di comunicazione, deve riuscire a spiegare, ma fino ad un certo punto, deve cercare di rispondere lasciando aperte anche alcune domande fondamentali, deve stimolare, colpire, coinvolgere, senza esagerare con gli aspetti emozionali, insomma un’impresa piuttosto impegnativa. In altre parole, il docente assume su di sé una vera e propria sfida: riuscire a trasmettere proprio con l’insegnamento l’idea forte dell’inesplicabilità e dell’incomprensione di Auschwitz, pur essendo in grado, al contempo, di fornire spiegazioni e ricostruzioni che aiutino gli studenti ad inserire la Shoah nella storia. Enzo Traverso, uno storico importante che da anni studia l’argomento e che interviene molto frequentemente nei dibattiti sulla Shoah, parla in maniera molto puntuale e incisiva proprio di questa difficoltà che accomuna storici, insegnanti ed educatori che si prefiggono il compito di trasmettere la conoscenza dello sterminio: “Difficile e delicato, perché non basta affermare il carattere unico della Shoah ma occorre spiegarlo e chiarirlo, eliminando gli equivoci e le ambiguità, per non dire i malintesi e le mistificazioni, che potrebbero sorgere da una pura affermazione dogmatica. Difficile e delicato, inoltre, perché l’insegnamento della Shoah non può ridursi alla semplice illustrazione di un evento della storia…” (3) Forse uno dei pochi problemi che l’insegnante che vuole fare lezione su Auschwitz non ha è la reperibilità delle fonti sulle quali basare il proprio lavoro e quello della propria classe, poiché oggi rispetto a venti anni fa, può disporre di un’immensa letteratura e di testimonianze. Nell’ultimo decennio, è apparsa una bibliografia a dir poco enorme e scoraggiante nella sua vastità. Quali fonti, quali testi scegliere? La scelta di dover selezionare qualcosa e di dover scartare qualcos’altro non è una scelta neutra, l’insegnante sa che potrebbe sentirsi chiamato in causa su tale decisione che, inevitabilmente, comporta il problema di aver tralasciato qualcosa di importante. Scrive giustamente Rita Sidoli, docente di Pedagogia speciale presso l’Università Cattolica di Milano, che “…si tratta di un tema i cui percorsi di ricerca e di approfondimento sono innumerevoli… ancora non totalmente acquisito dalla riflessione educativa e dalla pratica didattica;…L’insegnante si trova nella posizione di elaborare in prima persona l’approccio e i contenuti di conoscenza, di doverne autonomamente individuare i risvolti educativi, nella scarsità di esperienze formalizzate, a cui poter fare riferimento.” 4) Oggi disponiamo di una tale abbondanza di materiale e di testimonianza, che certamente riusciamo a comprendere in maniera piuttosto precisa dove, quando, ma soprattutto con quali modalità è stato attuato lo sterminio, tuttavia continuano a sfuggirci le ragioni profonde di un tale crimine. Della Shoah oggi possiamo conoscere tantissimo e in maniera piuttosto precisa: dove, quando, cosa è accaduto. In particolare possiamo spiegare come è accaduto, cioè le modalità tecniche ed operative dello sterminio che sono importantissime, perché ad esempio va spiegata agli studenti la stretta connessione tra industrializzazione della morte, produttività, 10 economicità e messa a morte di massa. Auschwitz ha celebrato il trionfo della morte di massa reificata (sono sempre parole di Enzo Traverso, ibidem), un procedimento in base al quale si riusciva ad uccidere in maniera veloce, pulita, silenziosa, quasi indolore. Quanti insegnanti, ad esempio, fanno una lezione solo sul linguaggio coniato dai nazisti per occultare la politica razzista e lo sterminio? La prima lezione del seminario di formazione sulla Shoah che abbiamo organizzato lo scorso anno per 250 studenti aveva proprio per titolo “Piano con le parole! Per un uso consapevole del linguaggio”. I giovani devono diventare consapevoli delle potenzialità del linguaggio, del fatto che la violenza inizia sempre dalle parole, che le vittime vengono sempre prima definite come “nemici”, come “altri” con le parole. Il linguaggio nazista è tutto da studiare, è un idioma che usa un doppio registro, quasi poetico, elusivo, dolce quando deve occultare la morte (Sonderbehandlung, trattamento speciale, è l’eliminazione per mezzo del gas, Endlosung, soluzione finale, è lo sterminio, morte misericordiosa, l’assassinio dei malati di mente e degli handicappati), che diventa, invece, rabbioso e urlato, quando serve per ordinare qualcosa ai deportati. Dicevo che siamo in grado di spiegare anche i meccanismi di messa a morte, eppure anche la migliore preparazione non riuscirebbe ad evitare lo scoglio dell’incompiutezza. Nemmeno il ragionamento storico più accurato riuscirebbe a farci comprendere un evento di questa portata. Ma anche se siamo consapevoli che gli strumenti linguistici e cognitivi di cui disponiamo non saranno sufficienti al racconto completo e alla spiegazione esaustiva, non possiamo crogiolarci nell’indicibilità di Auschwitz, pena il rischio di farne un buco nero nella storia, un evento sacralizzato fuori dal tempo e lontano da noi. Meglio provarci, allora, pur con i nostri limiti che cedere alla tentazione di un silenzio che rischia di tramutarsi in oblìo, un oblìo che troppe volte ci ha fatto dimenticare stermini di altri popoli, lontani o vicini da noi. Raccontare è comunicare un senso, scrive giustamente Massimo Giuliani in Auschwitz nel pensiero ebraico (Morcelliana, Brescia, 1998) e aggiunge: Dubitare di questa narrabilità è dubitare che il narrato sia sensato e credibile. Non facciamoci prendere dallo scoraggiamento per la vastità del tema da trattare. Vorrei fissare un punto fermo come possibile soluzione al problema: come insegnare Auschwitz in modo diverso dal resto? Auschwitz, come abbiamo già detto, ha in sé il potere di sconvolgere e di scandalizzare colui che ne affronta lo studio e la conoscenza. La Shoah deve metterci in crisi, farci dubitare, interrogarci e questo potrebbe essere l’obiettivo prioritario della nostra lezione ai ragazzi. Auschwitz stravolge le nostre certezze ed i nostri valori e ci costringe ad una tensione continua, da un lato una ricerca infinita di spiegazioni che ci aiutino a capire e dall’altro la consapevolezza che nulla riuscirà a spiegarcela, a renderla tollerabile. La Shoah deve rimanere un enigma. Scrive Jean-Michel Chaumont in Auschwitz oblige, intervento contenuto in Insegnare Auschwitz, testo a cui ho fatto riferimento più volte, che “Se la lezione su Auschwitz, per quanto esatta e rigorosa, dovesse lasciare i destinatari nello stato in cui si trovavano prima di ascoltarla,…/Se non avesse alcun impatto, essa rappresenterebbe… una vera e propria perdita.” 11 4) Il problema di inserire lo studio storico della Shoah all’interno di un percorso educativo interdisciplinare. Agli insegnanti viene chiesto di spiegare qualcosa di quasi inspiegabile, di trasformare in un’ora di lezione di storia un evento profondamente angosciante per chiunque, ed è una dura sfida perché prima di trasmettere tutto questo agli allievi, il docente avrebbe bisogno di confrontarsi, di poter elaborare i propri sentimenti e le proprie riflessioni, da solo e con altri docenti. Parlando nelle scuole, ho avvertito tra gli insegnanti tutto il peso dell’esortazione morale a trasmettere la memoria dei crimini contro l’umanità, ma il tono imperativo delle circolari e delle riforme non basta a risolvere le cose. Probabilmente nella scuola mancano ancora i momenti di discussione comune fra insegnanti su argomenti e metodologie, gruppi di lavoro in cui si possa lavorare anche sulla propria soggettività. Non dimentichiamo che molti insegnanti appartengono ad una generazione rimasta in silenzio per anni, in quanto membri di una società che ha faticato a maturare attenzione e consapevolezza per la memoria della Shoah, questi stessi insegnanti si sono poi improvvisamente sentiti interpellati in prima persona a insegnare la deportazione e lo sterminio. In mancanza di questo tempo e di questo spazio, può accadere che gli insegnanti ricadano nei discorsi convenuti, nelle frasi fatte, nelle facili affermazioni dei discorsi edificanti e buonisti per evitare la fatica di elaborare propri percorsi educativi. I professori di storia si rifugiano dietro la freddezza dei fatti e alle cifre. Oppure accade, ad esempio, piuttosto frequentemente di risolvere la questione portando gli studenti a vedere un film o ad incontrare un sopravvissuto, due esperienze molto belle se preparate ed inserite in un percorso, ma che altrimenti possono rivelarsi fallimentari. Prendiamo il caso del film “La vita è bella” di Benigni, pluripremiato e visto dalla stragrande maggioranza delle classi come esempio di film sulla Shoah. Eppure il lavoro di Benigni è tutto fuorché un film sullo sterminio, perché l’obiettivo primario non è di trasmettere la Shoah, ma di comunicare una speranza di sopravvivenza mediante la favola che il padre racconta al figlio. Qui i nazisti sono brutti e cattivi, la divisione male e bene è elementare, vincono i buoni sentimenti anche se il padre deve sacrificarsi per il bambino, si esce dal cinema traboccanti di fiducia verso l’umanità quando invece la Shoah dovrebbe aprire in noi una crisi, una domanda, una svolta. Va anche detto che il docente non sempre riesce a coinvolgere altri colleghi e a costituire quel gruppo di lavoro che potrebbe approfondire e sviluppare le innumerevoli tematiche legate ad Auschwitz, interrogando così l’ausilio della letteratura, della storia, del diritto, della religione, della filosofia, della scienza, dell’arte, tutte le sfacettature della natura umana e i valori esistenziali. Sentirsi sostenuti e aiutati è certamente importante per chiunque lavori in gruppi organizzati, ma nell’ambiente scolastico dove c’è in gioco l’educazione dei giovani questo diventa ancora più importante e necessario. Come Comune di Rimini, ad esempio, abbiamo adottato per alcuni anni la metodologia dell’assegnare il tradizionale viaggio-studio ai lager a classi che presentavano lavori interdisciplinari sui temi proposti relativamente alla deportazione e alla Shoah. Devo dire che in questi casi le scuole hanno prodotto lavori di grande interesse ed originalità, ne 12 ho portati con me un paio per darvi un esempio concreto. Si tratta, cioè, di vere ricerche e di vere elaborazioni dell’argomento e non di banali lavori di taglia e incolla come se ne vedono tanti:”un po’ di introduzione copiata di sana pianta, qualche citazione qua e là, mettiamo anche Primo Levi che ci sta sempre bene, magari una foto o una piantina, ma mai ad esempio la minima fonte o il tentativo di esprimere un ragionamento personale. Insomma, il tema ha un’importanza tale da esigere una rilettura alla luce della coscienza etica e, pertanto, non può essere oggetto di studio di una sola materia, ma la riflessione deve investire la scuola intera, chiamata ad interrogarsi sulla sua missione di educare ai valori morali. Fare conoscere la Shoah a scuola significa anche attualizzare l’insegnamento e riflettere sul mondo di oggi. Significa interrogarsi su come Hitler e i nazisti siano riusciti in pochi anni a trascinare un’intera nazione in un folle progetto di dominio del mondo e degli uomini. Cioè riflettere sul fatto centinaia di persone normali, comuni, per bene, hanno abdicato alla ragione per subire il fascino del male, chi per scelta, chi per rassegnazione, chi per missione, chi per indifferenza o per abitudine. E’ facile scivolare nella zona grigia e scendere a compromessi con la nostra coscienza. Insegnare, quindi, ai ragazzi a conoscere e a ri-conoscere il male nelle sue svariate forme, affrontarlo laddove possibile, intuire i pericoli di una società che rischia di produrre sempre maggiori fenomeni di intolleranza ed emarginazione. Promuovere nei giovani atteggiamenti di responsabilità civile, educarli alla resistenza alla passività e al conformismo, aiutarli a maturare un maggiore senso civico e una più profonda coscienza critica, capace di decodificare ed interpretare i molteplici segnali ed avvertimenti della realtà quotidiana, ogni qualvolta la democrazia, la tolleranza, la pace divengono valori calpestati o messi in discussione. 5) Il problema della reazione dei destinatari: perché parlare ancora degli ebrei? Velocemente vorrei toccare un ultimo punto dolente che investe tutti noi quando affrontiamo il nostro pubblico scolastico, cioè il problema di saper fronteggiare reazioni diverse. “Perché dobbiamo parlare ancora di Auschwitz? Perché non parliamo invece dei Gulag?” capita spesso che ci chieda uno studente magari per spirito polemico. L’impressione che si parli oggi molto (troppo?) della Shoah può essere la spia di un disagio che va colto nei giovani e che può sfociare nel rifiuto e nell’indifferenza. Ma Auschwitz è anche un argomento che scatena le polemiche e le discussioni proprio per gli innumerevoli aspetti che sottintende, come la politica, i valori spirituali, ecc. Molti insegnanti riferiscono di reazioni di rifiuto, soprattutto nelle scuole medie superiori, ma va anche detto che la Shoah è un argomento faticoso per la mente umana, in contrasto con quella sintesi e velocità del pensiero che vuole la società contemporanea. I giovani sono abituati alla televisione, al cinema, alla rapidità del messaggio, alla sintesi, anche ad un atteggiamento passivo, istintivamente rifiutano di fare fatica a comprendere, di mettersi in gioco, in discussione. 13 Per questo capita di doversi scontrare con pregiudizi duri a morire (gli ebrei avranno comunque fatto qualcosa per essere sempre perseguitati, gli ebrei erano ricchi e dominano tuttora la finanza mondiale,….). Può anche capitare di percepire reazioni di attrazione per il fascino del male, Hitler e il nazismo sono argomenti di grande attrattiva per il concetto di forza, di energia, di virilità. O ancora reazioni che rifiutano di confrontarsi con la sofferenza, la tristezza e più in generale una resistenza diffusa che si esprime nel distacco da ogni forma di impegno. Certo l’insegnante dovrebbe essere consapevole del tipo di personalità dei ragazzi che ha di fronte per evitare o fronteggiare questi atteggiamenti. Per esempio riuscire a capire se l’opposizione e il rifiuto dello studente è dovuto a ragioni personali o ad una generica forma di ribellione contro l’istituzione che l’insegnante rappresenta. E’ consigliabile dunque una certa elasticità e cautela nel procedere col percorso didattico, promuovendo soprattutto attività didattiche che favoriscono la libera espressione del pensiero, del dialogo, del confronto ed evitare invece un tipo di insegnamento dogmatico e direttivo. Di fatti l’obiettivo di qualsiasi percorso educativo sulla Shoah dovrebbe essere di tipo etico e non solo storico, cioè promuovere una sensibilità più attenta e consapevole nei confronti dell’altro da parte dei giovani, promuovere un atteggiamento di vigilanza attiva, affinché i meccanismi che hanno reso possibile lo sterminio vengano riconsciuti e combattuti fin dal loro primo insorgere nella nostra società. Tutti noi, insegnanti ed istituzioni, abbiamo il compito di trasmettere ai nostri giovani l’importanza di quello che è stata la Shoah, dobbiamo riuscire a convincerli che le riflessioni che questo evento scatena sono riflessioni chiave per la nostra vita, che ci obbligano a ripensare un modo completamente nuovo di rapportarci con il passato e con il presente. Dobbiamo aiutarli a riconoscere che viviamo ancora oggi nella stessa civiltà che ha reso possibile la Shoah e che portiamo in noi una responsabilità. Tutto questo in una società moderna che frammenta ruoli e funzioni, distacca i mezzi dai fini, tende a favorire la deresponsabilizzazione delle persone e inibisce il senso critico. Auschwitz non è stato il folle disegno di un gruppetto di pazzi fanatici, ma è stato reso possibile dalla connivenza di migliaia di persone in tutta Europa, Italia compresa, che sapevano e hanno rifiutato di porsi il problema della propria responsabilità personale. Quello che ci pregiffiamo è certamente un compito ambizioso e difficilissimo, eppure la sfida può essere rilanciata, perché il programma di educazione alla memoria deve saper dialogare con i giovani e diventare un programma di educazione alla convivenza interculturale, nel rispetto e nella valorizzazione delle differenze: obiettivo quanto mai urgente per questa nostra società. Note: 1) Yannis Thannasekos, Per una pedagogia dell’autoriflessione, in Enzo Traverso (a cura di), Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio, Torino, Irrsae Piemonte, Bollati-Boringhieri, 1995. 2) Yannis Thannasekos, Educare dopo Auschwitz, Milano,Vita e pensiero, 1996. 3) Rita Sidoli, La Shoah, paradigma educativo e il senso della testimonianza, in Memoria della Shoah e coscienza della scuola, Milano, Vita e pensiero, 1999. 4) Enzo Traverso, Fare i conti col passato, in Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio, op. cit. 14