Insegnare Auschwitz nella scuola. Riflessioni sulla

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Insegnare Auschwitz nella scuola. Riflessioni sulla
Insegnare Auschwitz nella scuola.
Riflessioni sulla didattica della Shoah:
questioni etiche, storiografiche e metodologiche.
di Laura Fontana,
responsabile dei progetti per l’educazione alla memoria, Comune di Rimini
L’argomento di questo intervento riguarda principalmente la questione
dell’insegnabilità e dell’insegnamento di Auschwitz, tema che da circa un decennio è
divenuto di grande attualità sia in ambito accademico e istituzionale, sia naturalmente nel
mondo della scuola.
Prima di entrare nel vivo della questione, desidero presentarmi per definire il ruolo
che svolgo all’interno dell’Amministrazione Comunale di Rimini come incaricata delle
attività di educazione alla memoria. Il mio interesse per le vicende della deportazione e
dello sterminio è incominciato in maniera del tutto casuale e, se volessi lanciare una
provocazione, direi per “colpa” di una insegnante di lettere.
In effetti il mio primo approccio con l’argomento di cui oggi discutiamo accadde in
età adolescenziale e, come forse capita anche oggi a molti dei vostri alunni, per obbligo
scolastico. A 14 anni fui letteralmente costretta dalla professoressa di lettere a svolgere la
mia tesina per l’esame di terza media sul libro Il diario di Anna Frank, libro che era rimasto
inspiegabilmente in fondo alla lista dei testi proposti per la relazione, in quanto nessun altro
alunno lo aveva scelto. Quel libro, tra l’altro, mi era anche familiare, poiché era nella
biblioteca dei miei genitori, ma io - non saprei perché- non avevo mai provato alcun
interesse per leggerlo.
Costretta, quindi, ad immergermi nelle pagine della ragazzina ebrea, iniziai ad interessarmi,
direi letteralmente appassionarmi all’argomento. Ricordo anche l’angoscia per un
interrogativo che mi martellava e al quale nessun adulto, né a casa né a scuola, sembrava
essere in grado di rispondere: “ma quello che è successo a Anna poteva accadere anche a
me?”. Non sapendo nulla degli ebrei e tantomeno delle ragioni che avevano provocato tanto
odio per decidere di sterminarli fino all’ultimo, per me, ragazzina, Anna era solamente una
coetanea costretta ingiustamente da uomini crudeli a patire isolamento e privazioni.
All’occasione di quella lettura un po’ forzata si aggiunse in quegli stessi giorni un’altra
circostanza che ebbe conseguenze determinanti per me e per il lavoro che oggi svolgo: la
trasmissione alla televisione dello sceneggiato americano “Olocausto”, la prima grande
divulgazione mediatica della Shoah, dopo oltre vent’anni di silenzio e di indifferenza (se si
eccettua il processo Eichmann degli anni Sessanta che tuttavia non raggiunse la massa della
popolazione).
Era il 1977 e quel film, trasmesso contemporaneamente in tutti i paesi dell’Europa
Occidentale oltre che negli Stati Uniti, mostrava per la prima volta alla gente, anche se
naturalmente in forma romanzata e storicamente non sempre attendibile, immagini dei lager
e delle sofferenze degli ebrei deportati. Per me fu letteralmente uno shock che provocò un
bisogno insopprimibile di saperne di più, di capire, di scoprire come fosse stato possibile
arrivare ad un simile crimine. La mia tesina si trasformò in un enorme e ambiziosissimo
progetto di ricerca storica, progetto destinato a fallire in partenza, non solo per la mia età, la
mia ignoranza ed i miei limiti, ma soprattutto per l’assenza di qualsiasi aiuto da parte di
adulti.
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Il primo problema fu, per esempio, reperire del materiale di ricerca. La biblioteca dei
ragazzi alla quale ero iscritta mi liquidò sbrigativamente dicendo che l’argomento non era
adatto alla mia età. Testarda come sono sempre stata, insistetti per avere accesso ai
documenti, adducendo come giustificazione inattaccabile il dovere scolastico. I miei
genitori dovettero allora chiedere per iscritto al direttore della Biblioteca Civica di lasciarmi
accedere alle sale di consultazione per adulti, ma furono costretti ad accompagnarmi
fisicamente, perché prima dei 16 anni i giovani non potevano andarci da soli. Ricordo
pomeriggi passati a sfogliare, ricopiare e fotocopiare libri costituiti essenzialmente da
fotografie, tutte orrende e macabre, ma anche immensi volumi di storie di guerre e di
bombardamenti. Nulla di specifico sugli ebrei, l’antisemitismo e le ragioni dello sterminio
naturalmente, considerato che eravamo, come ho ricordato, negli anni Settanta, quando
ancora gli studi sulla Shoah in lingua italiana erano cosa rara.
Conservo ancora oggi quella tesina fatta di ragionamenti infantili, supposizioni
innocenti sul male e sul bene, corredata da un collage di fotografie e piantine della
Germania. Mi sentivo un po’ eroica in questa mia impresa ed ero anche molto fiera della
corposità del mio lavoro, anche se oggi, naturalmente, lo giudicherei senza pietà. Il giorno
dell’esame ero molto emozionata e non vedevo l’ora di parlare dell’Olocausto (allora non
esisteva ancora il termine Shoah nel linguaggio comune). Le cose però andarono in un altro
modo: l’insegnante ritirò la mia tesina, la sfogliò piuttosto sbrigativamente, poi la richiuse e
mi disse più o meno così: “Vedo che ti sei impegnata tantissimo e ti meriti certamente un
ottimo voto, ma siccome è un argomento molto forte, che ci sconvolge solo al pensiero, non
serve che me la racconti. Dimmi solamente per quale ragione ti sei interessata così tanto a
questa storia così tremenda”
Risposi che quello che mi aveva colpito maggiormente era che la storia di Anna Frank
sarebbe potuta essere anche la mia storia o quella di un'altra ragazza come lei. L’insegnante
disse che però io non ero ebrea e che la storia non si ripete uguale, poi decise di lasciare
perdere e preferì continuare l’interrogazione su di un altro argomento.
Ancora oggi mi capita di evocare pubblicamente quell’insegnante di cui non ricordo
neppure il nome e di ringraziarla perché senza quella frustrazione che mi ha provocato il suo
rifiuto di ascoltarmi parlare della Shoah, oggi forse non farei quello che faccio. Da allora
sono passati più di vent’anni, e io non ho mai smesso di leggere e di studiare l’argomento,
in un tentativo sempre rinnovato di comprenderne le ragioni senza riuscire ad arrivarci.
Auschwitz è un evento che provoca sempre un senso di frustrazione, una sorta di delusione
perché malgrado le ricostruzioni e le spiegazioni storiche si ha la sensazione di non vederne
il fondo, di non arrivare alla spiegazione ultima, quella convincente, quella che risponde
davvero alla domanda “Ma perché è accaduto?”.
Per molto tempo ho seguito una sorta di formazione storica sulla Shoah da
autodidatta, perché nel campo professionale ho scelto, invece, un’altra strada. Mi sono
laureata in lingue e letterature straniere a Bologna, ho conseguito l'abilitazione
all’insegnamento per la lingua francese e, dopo qualche supplenza qua e là e alcuni anni
vissuti in Francia, ho vinto un concorso in Comune a Rimini, prima come addetta al
Servizio Relazioni Esterne che fa capo al Sindaco, per 4 anni, poi dal 1994 ad oggi, come
funzionario responsabile dei teatri comunali, posto che ricopro tuttora.
Quando ho incominciato a lavorare alle dipendenze dell’Amministrazione Comunale, 15
anni fa, il Comune di Rimini aveva già una lunghissima attività nel campo dell’educazione
alla memoria poiché organizzava e finanziava viaggi-studio ai lager per le scuole fin dai
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primi anni Settanta, con un primo esperimento che risaliva addirittura al 1964, quando in
Italia nessuna istituzione pubblica spendeva energie per divulgare la storia della
deportazione, al massimo si commemorava o si discuteva della Resistenza.
Collaborare a quel progetto fu per me dunque una cosa del tutto spontanea e normale, visto
che conoscevo abbastanza bene l’argomento. Guidare gruppi di studenti in visita ai campi di
concentramento, raccontare e tentare di spiegare la storia della deportazione e dello
sterminio in pullman, in classe, in aule magne, nei cinema, nelle assemblee di istituto è stato
per me estremamente istruttivo, perché mi ha permesso di capire nel tempo che senza un
metodo didattico serio e rigoroso parlare di Shoah a dei ragazzi quasi sempre impreparati
era un’impresa disperata e difficilissima.
Senza questo contatto continuo con il mondo della scuola probabilmente non avrei capito
l’importanza di costruire percorsi educativi insieme agli insegnanti per rendere più efficace
il nostro lavoro.
Questa premessa era assolutamente necessaria per spiegare il ruolo che svolgo come
educatore e operatore culturale, che è un compito molto diverso, ad esempio, da quello dello
storico di professione e dell’insegnante, ma che non può prescindere né dal lavoro dell’uno,
che lo nutre e lo prepara, né dell’altro al quale si rivolge come supporto.
Questo intervento, che ovviamente non ha l’ambizione di trattare in maniera esaustiva un
argomento così complesso e delicato come la trasmissione della storia della Shoah alle
giovani generazioni in un contesto scolastico, si articolerà su due livelli diversi, uno teorico
ed uno pratico, che tenterò di collegare il più possibile. Mi propongo di riflettere con voi
brevemente sulle principali controversie che ancora pesano sulla storiografia di Auschwitz, i
nodi irrisolti, i punti chiave che ogni docente deve tener presente per non arenarsi alla prima
difficoltà. Parallelamente a questo, vorrei rievocare alcuni problemi pratici e concreti di
lavori scolastici realizzati da classi riminesi, illustrando pregi e limiti dei metodi didattici
utilizzati, con l’obiettivo di fornire a voi colleghi alcune piste di lavoro e suggerimenti
concreti.
L’insegnamento della storia, come sapete meglio di me, ha subito un grosso
cambiamento nel corso di questi ultimi 50 anni. Siamo usciti lentamente da uno schema
fisso di trasmissione di una storia immobile e patriottica, costellata da figure eroiche il cui
destino si confondeva spesso con quello della nazione intera. Per secoli la storia è stata
presentata dai manuali principalmente come una successione di vite di eroi combattenti e di
grandi nemici, oppure di guerre fra nazioni e capi di stato, con conseguenze territoriali ed
economiche.
E’ è solo verso gli inizi degli anni Settanta che questa concezione è entrata in crisi. Da allora
è iniziato un profondo mutamento che ha progressivamente spostato l’attenzione dal passato
glorioso ed edificante all’esigenza di leggere e di interpretare i momenti critici del passato
per trarne strumenti di comprensione della contemporaneità. Si è incominciato anche a non
aver più paura di affrontare le pagine nere della nostra storia nazionale e a percepire come
molto forte il dovere della trasmissione della memoria. Negli anni Ottanta, in particolare, è
diventato determinante porsi il problema di fare i conti con la storia del Novecento e con le
sue tragiche conseguenze. Le guerre mondiali, la resistenza, la bomba atomica, la
decolonizzazione, sono eventi di straordinaria importanza la cui percezione è divenuta vitale
per lo studio della storia moderna, anche se, purtroppo, non possiamo affermare che in
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questi 60 anni dalla fine della seconda guerra mondiale la scuola abbia brillato per impegno
educativo sui temi dei vari genocidi del nostro secolo.
La Shoah, in particolare, è stata a lungo considerata come un tremendo dettaglio
all’interno della Seconda Guerra Mondiale, una violenza enorme tra le tante, una sorta di
deragliamento della ragione che ha provocato un numero altissimo di vittime, ma non un
fenomeno a sé, denso di significati e di conseguenze per la nostra civilta. Lo sterminio degli
ebrei d’Europa verrà concepito come un elemento fortemente paradigmatico, in grado di
suscitare interrogativi e prese di coscienza anche e soprattutto nella vita di oggi, solamente
negli anni Ottanta in Germania e in Francia, poi, con quasi un decennio di ritardo, anche in
Italia.
Lo sterminio degli ebrei d’Europa – ma anche, ed è bene ricordarlo con uguale forza,
l’assassinio di massa di altre categorie di persone, dai malati di mente agli handicappati, dai
Rom agli oppositori politici e ai prigionieri di guerra – attuato dal regime nazionalsocialista
presenta caratteristiche emblematiche, sia sotto il profilo storico-politico che culturale ed
etico. Queste caratteristiche, pertanto, lo rendono non solo, come si ribadisce ormai quasi
all’unanimità, una ferita aperta, insanabile, nella civiltà europea, un abisso nel Male
assoluto, o ancora un terribile spartiacque fra un prima e un dopo Auschwitz, ma anche, e
soprattutto, un passaggio educativo fondamentale ed irrinunciabile.
Auschwitz – intendendo qui il termine nel più ampio senso possibile, cioè non solo
come luogo geograficamente concreto di messa a morte, ma anche di simbolo
universalmente riconosciuto della Shoah – costituisce, in effetti, un nodo centrale sotto il
profilo storico, antropologico, religioso che provoca in chi affronta l’argomento con
preparazione e coscienza profonde riflessioni sul senso del bene e del male, sulla colpa e
sulla responsabilità morale e materiale, su Dio assente o presente, sui confini tra libertà e
repressione, collaborazionismo e consenso e molto altro ancora.
Tuttavia, anche oggi che parlare di questo evento è certamente più facile e diffuso
(talvolta però solo superficialmente e con retorica sterile, come se fosse un atteggiamento
politicamente corretto di parte della sinistra illuminata, ma non un atteggiamento di vera
condivisione e partecipazione intellettuale), non è affatto scontato né semplice per un
insegnante fare lezione in classe sulla Shoah.
Intanto va detto che, purtroppo, non sempre la scuola si dimostra sensibile e attenta al
riguardo, limitandosi, in taluni casi, ad affrontare il tema in modo rapido e discontinuo,
inserendolo velocemente nella lezione sulla Seconda Guerra Mondiale, quasi come un
dettaglio aggiunto all’orrore della violenza della guerra, ma senza proporre un vero e
proprio percorso razionale di studio e conoscenza.
Numerosi sondaggi somministrati in più città ai ragazzi, quindi anche il nostro
contenuto nel volume “I nemici sono gli altri” pubblicato da Giuntina, dimostrano che senza
una preparazione storica alla base e senza un percorso in grado di provocare negli studenti
elaborazioni e ragionamenti sull’argomento, nella maggior parte dei giovani prevale
un’ignoranza assoluta in materia. Ignoranza che non è, tuttavia, proprio sinonimo di una
mancanza di informazioni, ma piuttosto un minestrone di notizie, una confusione di dati e
dettagli, uno scollegamento totale tra cause ed effetti e, al contrario, un’abbondanza di
stereotipi sugli ebrei e sui nazisti, sui tedeschi e sugli italiani, sull’antisemitismo e sul
razzismo.
Dobbiamo tuttavia riconoscere che in questi questionari così come in molti elaborati
scolastici si ritrovano quelle conoscenze generiche e spesso superficiali che caratterizzano
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anche l’opinione corrente, per cui capita frequentemente di non distinguere, ad esempio, il
concetto di “campo di concentramento” con quello di “campo di sterminio”.
Sintetizzando potremmo forse affermare che i nostri studenti sanno poco di tutto o male di
tutto e non è raro poi leggere nelle loro ricerche e relazioni frasi come “il campo di
sterminio di Dachau”, “gli ebrei furono assassinati nei forni crematori” e altro ancora di cui
parleremo quando affronteremo qualche esempio concreto di lavoro scolastico.
Anche per il docente più preparato e sensibile, colui o colei che sa, in coscienza, che
non può eludere l’argomento in classe, perché troppo importante e denso di significati e
connessioni con il passato e con il presente, anche per quel docente l’insegnamento della
deportazione e dello sterminio può costituire un serio problema, correlato da una serie di
dubbi, personali e metodologici, oltre che (ahimé!) di ostacoli meramente oggettivi (il
tempo tiranno, la disponibilità dell’Istituto e dei colleghi a collaborare, l’età e il tipo di
classe, ecc.).
Per il lavoro che ho svolto in questi anni a stretto contatto con centinaia di insegnanti della
provincia di Rimini e delle Marche, ho potuto farmi un’idea abbastanza precisa di questi
difficoltà che riassumerei in due ordini di problemi che propongo alla vostra attenzione,
insieme a qualche piccolo commento o suggerimento personale di lavoro.
Il primo gruppo di problemi riguarda fattori oggettivi e questioni preliminari che
cito velocemente. Il primo è un vincolo evidente, il limite di tempo, un’ora o forse due di
storia alla settimana, un tempo del tutto insufficiente per affrontare un argomento così
complesso. Il secondo problema riguarda l’età degli studenti che appartengono alla
generazione degli anni Ottanta, hanno genitori giovani, che non hanno vissuto la guerra e
che non hanno sentito parlare della Shoah. Di quale memoria hanno bisogno questi ragazzi?
Terza questione, l’informazione di partenza che i giovani ricevono sugli ebrei. Per i nostri
ragazzi gli ebrei sono gli Israeliani che combattono contro gli Arabi, hanno un’immagine
mediata dalla televisione, limitata ad un’area geografica e politica precisa, l’insegnante deve
tener conto anche di un possibile atteggiamento di diffidenza, magari anche a livello
inconscio per saturazione (sempre gli ebrei, ancora loro!).
Quarto e ultimo problema di questo primo gruppo è la difficoltà dell’insegnante di inserire
la Shoah in una storia. Ma in quale storia? La storia della Germania nazista? La storia
dell’Italia fascista? La storia dell’Europa? La storia degli ebrei?
Cioè : si decide di partire a far lezione dall’antigiudaismo per arrivare al razzismo e
all’antisemitismo nazista oppure si parte dalla prima guerra mondiale e dalla Germania
nazista? Tracciamo una storia degli ebrei e dell’antisemitismo, che è corretta e che prepara
l’avvento e le radici del nazismo, ma che però identifica gli ebrei con le vittime eterne della
storia, oppure tracciamo una storia delle dittature, del collaborazionismo, della resistenza e
della deportazione che ci fa rimanere nel campo del Novecento?
Se è indispensabile situare la Shoah nella storia della Germania nazista, altrettanto
importante è spiegare come questa storia sia una storia profondamente europea, nel nostro
caso anche profondamente italiana, con responsabilità da non sminuire.
Detto questo, passiamo al secondo ordine di problemi che tocca invece questioni
storiche e metodologiche particolarmente delicate e dibattute.
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1) 1) Il problema della storicizzazione di Auschwitz, evento unico e incommensurabile
La Shoah non ha paragoni nella storia per crudeltà ?
Per insegnare la Shoah bisogna studiarla come qualsiasi altro argomento storico, sembra
evidente e scontato, ma invece non lo è perché questa affermazione, che costituisce il
normale punto di partenza per il nostro lavoro, tocca e si scontra letteralmente con un
problema estremamente dibattuto e di difficile soluzione, ovvero la questione della
singolarità, incomparabilità di Auschwitz e, nel contempo, dell'esigenza di storicizzare,
dunque, di relativizzare Auschwitz.
Molto si è discusso e si continuerà a discutere in storiografia di quello che è tuttora
considerato un nodo irrisolto dalla storiografia, cioè la Shoah come evento unico e
incommensurabile oppure paragonabile rispetto ad altri eventi di violenze di massa e
genocidi.
Certo, se noi facciamo lezione di storia, dobbiamo ritenere incontestabile l’esigenza
di inserire Auschwitz nella storia, di studiarla e di razionalizzarla come un qualsiasi altro
argomento storico, anche mediante le comparazioni e le relativizzazioni che sono strumenti
propri di questa disciplina. Si tratta, insomma, di una necessità imprescindibile per evitare il
rischio di relegare Auschwitz nel campo della metafisica e della mitologia.
Se la Shoah non viene trasmessa come un argomento storico che si studia, si analizza, si
compara come un qualsiasi altro evento, pur con tutti i distinguo e i rilievi del caso, il
rischio è enorme, è quello di fare di Auschwitz una reliquia, un simbolo astratto del male,
un mostro.
La vaghezza, l’allusione, l’imprecisione possono dare adito a confusioni, a esagerazioni,
aprendo anche il varco alle tesi dei negazionisti. Chi nega le camere a gas, per quanto
assurde e infondate le sue teorie, ha studiato i documenti.
Quante volte leggiamo o sentiamo dire che ad Auschwitz furono uccisi 4 milioni di
persone? Il caso più recente è quello dell’enciclopedia Utet uscita questa primavera con La
Repubblica: nelle 8 righe dedicate al più grande centro di sterminio degli ebrei vengono
condensati due errori grossolani, quello che Auschwitz e Birkenau erano due campi di
sterminio e quello che riporta ancora questa cifra dei morti, già da molto tempo smentita e
ridimensionata dagli storici.
E’ importante avere cura dei dati e delle date quando si insegna la Shoah e trasmettere
questo ai giovani. Non occorre aumentare le cifre per far risaltare ancora di più l’enorme
dimensione del crimine, già la cifra realisticamente più corretta di 1.100.000 ebrei (per
difetto) o 1.350.000 (per eccesso) è agghiacciante.
D’altro canto, riconoscere in Auschwitz un evento unico e singolare non deve
significare un dogma, un diktat che impedisce qualunque confronto. La singolarità storica
della Shoah deve essere non solo riconosciuta dal docente, ma soprattutto spiegata ai
ragazzi, ai quali andranno illustrate quelle caratteristiche peculiari che rendono lo sterminio
un fenomeno storico profondamente nuovo e diverso dai genocidi precedenti.
Sgombriamo subito il campo agli equivoci: la singolarità dello sterminio non sta nel numero
di vittime, perché la storia non è una triste gerarchia dei crimini contro l’umanità.
Non sempre, però, gli studenti hanno chiare queste caratteristiche emblematiche,
profondamenti originali della Shoah, che invece dobbiamo sottolineare. Possiamo
riassumerle in 4 punti-chiave, individuando anche qualche suggerimento di lavoro in classe:
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a) la perfetta combinazione a catena di tutti gli organi dello Stato per arrivare a uccidere in
massa. La Germania nazista riesce a coinvolgere nel suo progetto di sterminio tutte le
istituzioni: la Cancelleria del Reich promulgava le leggi e i decreti sugli ebrei, le banche
gestivano l’arianizzazione dell’economia, espropriando tutti i beni degli ebrei, le Chiese
cattolica e protestante rilasciavano certificati di battesimo che servivano a decretare chi
non era ebreo, il Ministero dei trasporti organizzava le deportazioni, l’industria traeva
profitto dal lavoro schiavistico dei deportati oppure forniva le installazioni necessarie,
dai forni, agli impianti di ventilazione, al gas, e poi la polizia, l’esercito, le SS, la sanità,
ecc. Tutti questi centri di potere erano implicati nel processo della Soluzione Finale.
Possiamo sottoporre agli studenti molteplici documenti al riguardo, interrogandoli sul
grado di colpa e di responsabilità al riguardo.
b) La burocratizzazione del progetto di sterminio che crea una distanza fisica tra chi ordina,
decreta, organizza, firma le carte e chi materialmente esegue l’uccisione, in una sorta di
lunga catena attraverso la quale il colpevole si sposta continuamente da un anello
all’altro, così come la responsabilità dell’atto finale. La morte diventa così impersonale,
fredda, amministrativa, un fatto anonimo e “pulito”, un assassinio ordinato e organizzato
su scala industriale. Eichmann al processo che lo condannerà a morte per la deportazione
di centinaia di migliaia di ebrei, tenterà a lungo di discolparsi affermando quella che
probabilmente era una verità: “non ho ucciso nessuno con le mie mani, non era colpa
mia”. Molto istruttivo al riguardo, da proporre agli studenti in chiave ridotta, cioè per
spezzoni, è il film-documentario “Uno specialista”, con gli atti del processo a Eichmann
in cui si vede benissimo in scena quella che la Arendt chiamò la banalità del male, un
omino grigio e insignificante, educato e composto, che non sembra affatto il mostro
crudele o il pazzo sadico dei racconti sui nazisti.
c) La spersonalizzazione degli ebrei, vittime prima denigrate, umiliate, calunniate dalla
propaganda nazista, poi dipinte come non persone, come parassiti della società, virus
pericolosi da debellare, funghi pericolosi, nemici che non hanno né volto né nome.
Esistono molte immagini della propaganda nazista contro gli ebrei, fumetti, vignette,
pubblicità, estratti di libri di testo per bambini ariani, filmati d’epoca, ecc.
La propaganda ebbe come conseguenza l’annullamento dell’immagine dell’ebreo in
Germania: è più facile uccidere qualcuno che non si considera una persona, ma una cosa,
ein Stuck (un pezzo, nel linguaggio nazista).
d) La tecnologia dello sterminio che utilizza procedimenti nuovi, efficaci, puliti, rapidi,
silenziosi, economicamente convenienti al Reich (il gas è segreto, non sporca il carnefice
come nella fucilazione ad esempio). La Shoah rende gli ebrei vittime perfettamente
invisibili, poiché dopo l’uccisione essi scompaiono, si riducono a polvere.
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Il problema della soggettività e del rapporto tra razionalità ed emozione.
Scrive a tal proposito Yannis Thannasekos (1) che “… trattandosi di Auschwitz la prima
pedagogia da definire riguardi non già il rapporto docente/discente, bensì, singolarmente il
rapporto del docente con se stesso…”
E ancora che “questa materia esige da parte di chiunque e particolarmente da colui che
insegna una riflessione critica su di sé; coinvolge dunque nel profondo la figura
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dell’educatore che si sente esposto, vulnerabile, con le sue interpretazioni, i suoi valori, le
sue giustificazioni storiche e morali” (2)
L’argomento solleva indubbiamente questioni estremamente complesse che
richiedono lo svolgimento da parte dell’insegnante di un ruolo di mediazione molto forte,
perché l’emotività è anche la prima reazione nei destinatari del messaggio educativo, cioè i
giovani.
La Shoah evoca immediatamente in chiunque un carico di morte e di orrore che non può
non provocare forti emozioni: commozione, dolore, rabbia, indignazione, ma anche, al
contrario, rifiuto, rimozione, rigetto. Se il docente che affronta l’insegnamento in classe
della Shoah non riesce, magari per mancanza di tempo o di mezzi, a superare questo primo
stadio e ad aiutare gli studenti a trasformare l’emozione in interrogativo, in ragionamento,
avrà fallito, a mio avviso, il suo compito educativo.
In questi anni ho letto e analizzato decine e decine di testimonianze di studenti che hanno
partecipato ai nostri viaggi-studio ai lager, in particolare a Mauthausen e ad Auschwitz che
sono i luoghi meglio conservati e in grado di trasmettere maggiormente delle forti emozioni.
L’emozione e l’angoscia trapelano da ogni frase, i ragazzi sono sommersi dalla
commozione, dalla pietà, si sentono partecipi del dolore provato dalle vittime, ma nei loro
testi l’emozione soffoca troppo spesso la volontà di capire e di interrogarsi.
Mi è capitato spesso di stupirmi della terminologia impiegata che trasmette un fastidioso
fascino del macabro e dell'orrore ("“e pietre sgorgano ancora sangue, sento ancora dentro di
me le urla delle povere vittime asfissiate…”). Dobbiamo assolutamente evitare che ciò
accada, o per lo meno sforzarci di contenere l’emotività che può bloccare la ragione.
Occorre insomma prodigarsi per aiutare gli studenti a superare le emozioni –
naturalmente senza reprimerle – stimolando in loro la formazione di atteggiamenti di
empatia, di condivisione della sofferenza dell’uomo, sofferenza di ieri come di oggi, vicina
e lontana, affinché i giovani maturino gradualmente anche un maggiore senso di
responsabilità e di partecipazione attiva alla vita sociale.
Quello che possiamo fare, ad esempio, è evitare il più possibile la “pedagogia del modulo
western”, come la chiama lo storico Giovanni Gozzini, che separa rigidamente i buoni dai
cattivi. Rifiutiamo gli stereotipi che non aiutano a capire: Hitler pazzo, le belve naziste, i
sadici assassini. Oggi sappiamo che il numero di uomini e donne coinvolti a vario titolo e
con vari livelli di consapevolezza nella macchina dello sterminio assomma a circa un
milione: non solo “mostri”, non solo tedeschi e non solo fanatici nazisti, ma anche padri di
famiglia, semplici impiegati, mediocri funzionari, persone comuni, né buone né cattive, ma
con un basso livello di coscienza.
Siamo certamente tutti d’accordo che insegnare storia non significa trasmettere dati e
notizie, ma significa inserire questi dati e queste notizie (cifre, date, luoghi, personaggi) in
contesti e in percorsi ragionati, significa spiegare, collegare, tradurre gli eventi in senso.
Personalmente ho scelto di non presentare agli studenti immagini macabre, perché sono
convinta che i mucchi di cadaveri, gli scheletri ambulanti, le fosse comuni non raggiungono
lo scopo primario che mi sta alla base del mio lavoro per l’Amministrazione Comunale.
L’obiettivo di quello che faccio, cioè pensare e promuovere percorsi di educazione alla
memoria, è stimolare nei giovani lo studio della deportazione e della Shoah, ma anche del
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Novecento nel suo insieme, dunque non punto a provocare fortissime emozioni, bensì a
tentare di far comprendere razionalmente le ragioni e la dinamica di questi eventi.
Un errore metodologico molto frequente, che mi è capitato più volte di constatare nelle
scuole dove vengo chiamata, è quello di utilizzare come documento centrale nell’avvicinare
gli studenti alla Shoah la proiezione del video di liberazione del lager di Bergen Belsen
girato dagli americani. Il video propone immagini agghiaccianti, con montagne di cadaveri
trascinati dalle ruspe e buttati in gigantesche fosse comuni, ciò nonostante continua a girare
per le classi, persino nelle terze medie.
Mi dilungo qualche minuto ancora su questo errore a mio giudizio grave, perché
coinvolge non solo il piano dell’emotività che spesso risulta frenare il passaggio verso la
rielaborazione, la riflessione profonda, ma anche sul piano della correttezza storica.
Cosa significa far vedere questo filmato agli studenti? Molti di loro, a parte chiudere gli
occhi per sempre su qualcosa di troppo brutto e terribile da essere immediatamente rimosso
nel dimenticatoio, ne dedurranno che Bergen Belsen era un campo di sterminio quando non
lo è stato e che nei campi di sterminio ci finivano tutti insieme, ebrei e non ebrei.
In primo luogo andrebbe spiegata la natura specifica di questo lager, diverso da tutti gli
altri, perché costituiva una sorta di campo di concentramento e di transito speciale, dove i
nazisti pensarono di rinchiudere solo alcune categorie e nazionalità di ebrei, quelli che
potevano essere liberati in virtù di scambi di prigionieri tedeschi con le potenze nemiche.
Inoltre sarebbe indispensabile spiegare ai giovani, prima di vedere il video se proprio lo si
vuole mostrare come esempio efficace del crimine commesso, che quando furono effettuate
le riprese Bergen Belsen era diventato al nord del Reich quello che Mauthausen era al sud,
cioè il campo destinato a contenere le centinaia di migliaia di ebrei evacuati da Auschwitz,
troppo a est ed esposto all’avanzata dei russi. Poiché nessun ebreo doveva rimanere in vita e
cadere nelle mani dei nemici, con il rischio di raccontare quanto acccadeva nei campi, i
nazisti si impegnarono fino alla fine, pur consapevoli del disastro imminente con la caduta
del nazismo, a trascinare gli ebrei in grado di camminare (le cosiddette marce della morte)
in campi più sicuri all’intero dei confini del Reich. Per questo il sovraffollamento, la
mancanza assoluta di igiene e di cibo, provocarono a Bergen Belsen un’enorme epidemia di
tifo e una mortalità altissima. Ancora per questo motivo, Bergen Belsen divenne un campo
sovraffollato in cui si mescolarono categorie di prigionieri fino a poco prima rigidamente
separati nei lager.
Pretendere di insegnare la Shoah con immagini di brutalità può anche significare che sia
facile distinguere il male dal bene, il boia dalla vittima. La Shoah non può essere insegnata
come una storia manichea, deve essere, anzi, la storia della zona grigia così bene descritta
da Primo Levi, una storia fatta di persone normali, sia carnefici che vittime, non mostri e
pazzi e nemmeno eroi o santi, anche se è chiaro che vi furono pure gli uni e gli altri tra i
tanti.
3) Il problema delle scelte metodologiche per una corretta impostazione didattica
La Shoah non si può insegnare come tutto il resto.
Dal momento in cui decretiamo l’assoluta singolarità della Shoah, siamo consapevoli
che se Auschwitz non ha il minimo rapporto di similitudine con qualunque altra cosa nella
storia, allora anche il modo di insegnarla, di raccontarla dovrebbe essere profondamente
diverso. Intanto ci troviamo costretti ad affrontare un interrogativo di difficile soluzione:
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come conciliare l’innominabile, l’indicibile, l’estremo con l’esigenza di comunicare
mediante l’insegnamento ?
Come può Auschwitz, evento incomprensibile alla nostra capacità raziocinante, diventare
spiegabile e intelleggibile?
L’insegnante si sente coinvolto in questa crisi, in questa ricerca di nuovi mezzi di
spiegazione e di comunicazione, deve riuscire a spiegare, ma fino ad un certo punto, deve
cercare di rispondere lasciando aperte anche alcune domande fondamentali, deve stimolare,
colpire, coinvolgere, senza esagerare con gli aspetti emozionali, insomma un’impresa
piuttosto impegnativa.
In altre parole, il docente assume su di sé una vera e propria sfida: riuscire a
trasmettere proprio con l’insegnamento l’idea forte dell’inesplicabilità e
dell’incomprensione di Auschwitz, pur essendo in grado, al contempo, di fornire spiegazioni
e ricostruzioni che aiutino gli studenti ad inserire la Shoah nella storia.
Enzo Traverso, uno storico importante che da anni studia l’argomento e che
interviene molto frequentemente nei dibattiti sulla Shoah, parla in maniera molto puntuale e
incisiva proprio di questa difficoltà che accomuna storici, insegnanti ed educatori che si
prefiggono il compito di trasmettere la conoscenza dello sterminio:
“Difficile e delicato, perché non basta affermare il carattere unico della Shoah ma occorre
spiegarlo e chiarirlo, eliminando gli equivoci e le ambiguità, per non dire i malintesi e le
mistificazioni, che potrebbero sorgere da una pura affermazione dogmatica. Difficile e
delicato, inoltre, perché l’insegnamento della Shoah non può ridursi alla semplice
illustrazione di un evento della storia…” (3)
Forse uno dei pochi problemi che l’insegnante che vuole fare lezione su Auschwitz
non ha è la reperibilità delle fonti sulle quali basare il proprio lavoro e quello della propria
classe, poiché oggi rispetto a venti anni fa, può disporre di un’immensa letteratura e di
testimonianze. Nell’ultimo decennio, è apparsa una bibliografia a dir poco enorme e
scoraggiante nella sua vastità. Quali fonti, quali testi scegliere?
La scelta di dover selezionare qualcosa e di dover scartare qualcos’altro non è una scelta
neutra, l’insegnante sa che potrebbe sentirsi chiamato in causa su tale decisione che,
inevitabilmente, comporta il problema di aver tralasciato qualcosa di importante.
Scrive giustamente Rita Sidoli, docente di Pedagogia speciale presso l’Università Cattolica
di Milano, che “…si tratta di un tema i cui percorsi di ricerca e di approfondimento sono
innumerevoli… ancora non totalmente acquisito dalla riflessione educativa e dalla pratica
didattica;…L’insegnante si trova nella posizione di elaborare in prima persona l’approccio
e i contenuti di conoscenza, di doverne autonomamente individuare i risvolti educativi,
nella scarsità di esperienze formalizzate, a cui poter fare riferimento.” 4)
Oggi disponiamo di una tale abbondanza di materiale e di testimonianza, che
certamente riusciamo a comprendere in maniera piuttosto precisa dove, quando, ma
soprattutto con quali modalità è stato attuato lo sterminio, tuttavia continuano a sfuggirci le
ragioni profonde di un tale crimine.
Della Shoah oggi possiamo conoscere tantissimo e in maniera piuttosto precisa: dove,
quando, cosa è accaduto. In particolare possiamo spiegare come è accaduto, cioè le modalità
tecniche ed operative dello sterminio che sono importantissime, perché ad esempio va
spiegata agli studenti la stretta connessione tra industrializzazione della morte, produttività,
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economicità e messa a morte di massa. Auschwitz ha celebrato il trionfo della morte di
massa reificata (sono sempre parole di Enzo Traverso, ibidem), un procedimento in base al
quale si riusciva ad uccidere in maniera veloce, pulita, silenziosa, quasi indolore.
Quanti insegnanti, ad esempio, fanno una lezione solo sul linguaggio coniato dai nazisti per
occultare la politica razzista e lo sterminio? La prima lezione del seminario di formazione
sulla Shoah che abbiamo organizzato lo scorso anno per 250 studenti aveva proprio per
titolo “Piano con le parole! Per un uso consapevole del linguaggio”. I giovani devono
diventare consapevoli delle potenzialità del linguaggio, del fatto che la violenza inizia
sempre dalle parole, che le vittime vengono sempre prima definite come “nemici”, come
“altri” con le parole. Il linguaggio nazista è tutto da studiare, è un idioma che usa un doppio
registro, quasi poetico, elusivo, dolce quando deve occultare la morte (Sonderbehandlung,
trattamento speciale, è l’eliminazione per mezzo del gas, Endlosung, soluzione finale, è lo
sterminio, morte misericordiosa, l’assassinio dei malati di mente e degli handicappati), che
diventa, invece, rabbioso e urlato, quando serve per ordinare qualcosa ai deportati.
Dicevo che siamo in grado di spiegare anche i meccanismi di messa a morte, eppure
anche la migliore preparazione non riuscirebbe ad evitare lo scoglio dell’incompiutezza.
Nemmeno il ragionamento storico più accurato riuscirebbe a farci comprendere un evento di
questa portata.
Ma anche se siamo consapevoli che gli strumenti linguistici e cognitivi di cui disponiamo
non saranno sufficienti al racconto completo e alla spiegazione esaustiva, non possiamo
crogiolarci nell’indicibilità di Auschwitz, pena il rischio di farne un buco nero nella storia,
un evento sacralizzato fuori dal tempo e lontano da noi.
Meglio provarci, allora, pur con i nostri limiti che cedere alla tentazione di un silenzio che
rischia di tramutarsi in oblìo, un oblìo che troppe volte ci ha fatto dimenticare stermini di
altri popoli, lontani o vicini da noi.
Raccontare è comunicare un senso, scrive giustamente Massimo Giuliani in
Auschwitz nel pensiero ebraico (Morcelliana, Brescia, 1998) e aggiunge: Dubitare di questa
narrabilità è dubitare che il narrato sia sensato e credibile.
Non facciamoci prendere dallo scoraggiamento per la vastità del tema da trattare.
Vorrei fissare un punto fermo come possibile soluzione al problema: come insegnare
Auschwitz in modo diverso dal resto? Auschwitz, come abbiamo già detto, ha in sé il potere
di sconvolgere e di scandalizzare colui che ne affronta lo studio e la conoscenza. La Shoah
deve metterci in crisi, farci dubitare, interrogarci e questo potrebbe essere l’obiettivo
prioritario della nostra lezione ai ragazzi. Auschwitz stravolge le nostre certezze ed i nostri
valori e ci costringe ad una tensione continua, da un lato una ricerca infinita di spiegazioni
che ci aiutino a capire e dall’altro la consapevolezza che nulla riuscirà a spiegarcela, a
renderla tollerabile. La Shoah deve rimanere un enigma.
Scrive Jean-Michel Chaumont in Auschwitz oblige, intervento contenuto in Insegnare
Auschwitz, testo a cui ho fatto riferimento più volte, che “Se la lezione su Auschwitz, per
quanto esatta e rigorosa, dovesse lasciare i destinatari nello stato in cui si trovavano prima
di ascoltarla,…/Se non avesse alcun impatto, essa rappresenterebbe… una vera e propria
perdita.”
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4) Il problema di inserire lo studio storico della Shoah all’interno di un percorso
educativo interdisciplinare.
Agli insegnanti viene chiesto di spiegare qualcosa di quasi inspiegabile, di trasformare in
un’ora di lezione di storia un evento profondamente angosciante per chiunque, ed è una dura
sfida perché prima di trasmettere tutto questo agli allievi, il docente avrebbe bisogno di
confrontarsi, di poter elaborare i propri sentimenti e le proprie riflessioni, da solo e con altri
docenti.
Parlando nelle scuole, ho avvertito tra gli insegnanti tutto il peso dell’esortazione morale
a trasmettere la memoria dei crimini contro l’umanità, ma il tono imperativo delle circolari e
delle riforme non basta a risolvere le cose.
Probabilmente nella scuola mancano ancora i momenti di discussione comune fra insegnanti
su argomenti e metodologie, gruppi di lavoro in cui si possa lavorare anche sulla propria
soggettività. Non dimentichiamo che molti insegnanti appartengono ad una generazione
rimasta in silenzio per anni, in quanto membri di una società che ha faticato a maturare
attenzione e consapevolezza per la memoria della Shoah, questi stessi insegnanti si sono poi
improvvisamente sentiti interpellati in prima persona a insegnare la deportazione e lo
sterminio.
In mancanza di questo tempo e di questo spazio, può accadere che gli insegnanti ricadano
nei discorsi convenuti, nelle frasi fatte, nelle facili affermazioni dei discorsi edificanti e
buonisti per evitare la fatica di elaborare propri percorsi educativi. I professori di storia si
rifugiano dietro la freddezza dei fatti e alle cifre. Oppure accade, ad esempio, piuttosto
frequentemente di risolvere la questione portando gli studenti a vedere un film o ad
incontrare un sopravvissuto, due esperienze molto belle se preparate ed inserite in un
percorso, ma che altrimenti possono rivelarsi fallimentari. Prendiamo il caso del film “La
vita è bella” di Benigni, pluripremiato e visto dalla stragrande maggioranza delle classi
come esempio di film sulla Shoah. Eppure il lavoro di Benigni è tutto fuorché un film sullo
sterminio, perché l’obiettivo primario non è di trasmettere la Shoah, ma di comunicare una
speranza di sopravvivenza mediante la favola che il padre racconta al figlio.
Qui i nazisti sono brutti e cattivi, la divisione male e bene è elementare, vincono i buoni
sentimenti anche se il padre deve sacrificarsi per il bambino, si esce dal cinema traboccanti
di fiducia verso l’umanità quando invece la Shoah dovrebbe aprire in noi una crisi, una
domanda, una svolta.
Va anche detto che il docente non sempre riesce a coinvolgere altri colleghi e a
costituire quel gruppo di lavoro che potrebbe approfondire e sviluppare le innumerevoli
tematiche legate ad Auschwitz, interrogando così l’ausilio della letteratura, della storia, del
diritto, della religione, della filosofia, della scienza, dell’arte, tutte le sfacettature della
natura umana e i valori esistenziali.
Sentirsi sostenuti e aiutati è certamente importante per chiunque lavori in gruppi
organizzati, ma nell’ambiente scolastico dove c’è in gioco l’educazione dei giovani questo
diventa ancora più importante e necessario.
Come Comune di Rimini, ad esempio, abbiamo adottato per alcuni anni la
metodologia dell’assegnare il tradizionale viaggio-studio ai lager a classi che presentavano
lavori interdisciplinari sui temi proposti relativamente alla deportazione e alla Shoah. Devo
dire che in questi casi le scuole hanno prodotto lavori di grande interesse ed originalità, ne
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ho portati con me un paio per darvi un esempio concreto. Si tratta, cioè, di vere ricerche e di
vere elaborazioni dell’argomento e non di banali lavori di taglia e incolla come se ne
vedono tanti:”un po’ di introduzione copiata di sana pianta, qualche citazione qua e là,
mettiamo anche Primo Levi che ci sta sempre bene, magari una foto o una piantina, ma mai
ad esempio la minima fonte o il tentativo di esprimere un ragionamento personale.
Insomma, il tema ha un’importanza tale da esigere una rilettura alla luce della
coscienza etica e, pertanto, non può essere oggetto di studio di una sola materia, ma la
riflessione deve investire la scuola intera, chiamata ad interrogarsi sulla sua missione di
educare ai valori morali.
Fare conoscere la Shoah a scuola significa anche attualizzare l’insegnamento e
riflettere sul mondo di oggi. Significa interrogarsi su come Hitler e i nazisti siano riusciti in
pochi anni a trascinare un’intera nazione in un folle progetto di dominio del mondo e degli
uomini. Cioè riflettere sul fatto centinaia di persone normali, comuni, per bene, hanno
abdicato alla ragione per subire il fascino del male, chi per scelta, chi per rassegnazione, chi
per missione, chi per indifferenza o per abitudine. E’ facile scivolare nella zona grigia e
scendere a compromessi con la nostra coscienza.
Insegnare, quindi, ai ragazzi a conoscere e a ri-conoscere il male nelle sue svariate forme,
affrontarlo laddove possibile, intuire i pericoli di una società che rischia di produrre sempre
maggiori fenomeni di intolleranza ed emarginazione. Promuovere nei giovani atteggiamenti
di responsabilità civile, educarli alla resistenza alla passività e al conformismo, aiutarli a
maturare un maggiore senso civico e una più profonda coscienza critica, capace di
decodificare ed interpretare i molteplici segnali ed avvertimenti della realtà quotidiana, ogni
qualvolta la democrazia, la tolleranza, la pace divengono valori calpestati o messi in
discussione.
5) Il problema della reazione dei destinatari: perché parlare ancora degli ebrei?
Velocemente vorrei toccare un ultimo punto dolente che investe tutti noi quando
affrontiamo il nostro pubblico scolastico, cioè il problema di saper fronteggiare reazioni
diverse.
“Perché dobbiamo parlare ancora di Auschwitz? Perché non parliamo invece dei Gulag?”
capita spesso che ci chieda uno studente magari per spirito polemico.
L’impressione che si parli oggi molto (troppo?) della Shoah può essere la spia di un disagio
che va colto nei giovani e che può sfociare nel rifiuto e nell’indifferenza.
Ma Auschwitz è anche un argomento che scatena le polemiche e le discussioni proprio per
gli innumerevoli aspetti che sottintende, come la politica, i valori spirituali, ecc.
Molti insegnanti riferiscono di reazioni di rifiuto, soprattutto nelle scuole medie superiori,
ma va anche detto che la Shoah è un argomento faticoso per la mente umana, in contrasto
con quella sintesi e velocità del pensiero che vuole la società contemporanea. I giovani sono
abituati alla televisione, al cinema, alla rapidità del messaggio, alla sintesi, anche ad un
atteggiamento passivo, istintivamente rifiutano di fare fatica a comprendere, di mettersi in
gioco, in discussione.
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Per questo capita di doversi scontrare con pregiudizi duri a morire (gli ebrei avranno
comunque fatto qualcosa per essere sempre perseguitati, gli ebrei erano ricchi e dominano
tuttora la finanza mondiale,….).
Può anche capitare di percepire reazioni di attrazione per il fascino del male, Hitler e il
nazismo sono argomenti di grande attrattiva per il concetto di forza, di energia, di virilità.
O ancora reazioni che rifiutano di confrontarsi con la sofferenza, la tristezza e più in
generale una resistenza diffusa che si esprime nel distacco da ogni forma di impegno.
Certo l’insegnante dovrebbe essere consapevole del tipo di personalità dei ragazzi che ha di
fronte per evitare o fronteggiare questi atteggiamenti. Per esempio riuscire a capire se
l’opposizione e il rifiuto dello studente è dovuto a ragioni personali o ad una generica forma
di ribellione contro l’istituzione che l’insegnante rappresenta.
E’ consigliabile dunque una certa elasticità e cautela nel procedere col percorso didattico,
promuovendo soprattutto attività didattiche che favoriscono la libera espressione del
pensiero, del dialogo, del confronto ed evitare invece un tipo di insegnamento dogmatico e
direttivo.
Di fatti l’obiettivo di qualsiasi percorso educativo sulla Shoah dovrebbe essere di tipo etico
e non solo storico, cioè promuovere una sensibilità più attenta e consapevole nei confronti
dell’altro da parte dei giovani, promuovere un atteggiamento di vigilanza attiva, affinché i
meccanismi che hanno reso possibile lo sterminio vengano riconsciuti e combattuti fin dal
loro primo insorgere nella nostra società.
Tutti noi, insegnanti ed istituzioni, abbiamo il compito di trasmettere ai nostri giovani
l’importanza di quello che è stata la Shoah, dobbiamo riuscire a convincerli che le
riflessioni che questo evento scatena sono riflessioni chiave per la nostra vita, che ci
obbligano a ripensare un modo completamente nuovo di rapportarci con il passato e con il
presente. Dobbiamo aiutarli a riconoscere che viviamo ancora oggi nella stessa civiltà che
ha reso possibile la Shoah e che portiamo in noi una responsabilità. Tutto questo in una
società moderna che frammenta ruoli e funzioni, distacca i mezzi dai fini, tende a favorire la
deresponsabilizzazione delle persone e inibisce il senso critico.
Auschwitz non è stato il folle disegno di un gruppetto di pazzi fanatici, ma è stato reso
possibile dalla connivenza di migliaia di persone in tutta Europa, Italia compresa, che
sapevano e hanno rifiutato di porsi il problema della propria responsabilità personale.
Quello che ci pregiffiamo è certamente un compito ambizioso e difficilissimo, eppure la
sfida può essere rilanciata, perché il programma di educazione alla memoria deve saper
dialogare con i giovani e diventare un programma di educazione alla convivenza
interculturale, nel rispetto e nella valorizzazione delle differenze: obiettivo quanto mai
urgente per questa nostra società.
Note:
1) Yannis Thannasekos, Per una pedagogia dell’autoriflessione, in Enzo Traverso (a cura di), Insegnare
Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio, Torino,
Irrsae Piemonte, Bollati-Boringhieri, 1995.
2) Yannis Thannasekos, Educare dopo Auschwitz, Milano,Vita e pensiero, 1996.
3) Rita Sidoli, La Shoah, paradigma educativo e il senso della testimonianza, in Memoria della Shoah e
coscienza della scuola, Milano, Vita e pensiero, 1999.
4) Enzo Traverso, Fare i conti col passato, in Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche,
educative della deportazione e dello sterminio, op. cit.
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