Etnia degli Hobbit Ghedar il trenselfo

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Etnia degli Hobbit Ghedar il trenselfo
A seguito della bellissima iniziativa:
“Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato nel mondo del Fantasy”,
organizzata dalla Biblioteca di Bassano del Grappa nel mese di
marzo 2013, i ragazzi che hanno partecipato hanno scritto alcuni
racconti che siamo lieti di proporvi.
Durante il laboratorio i ragazzi delle medie di Bassano e paesi
limitrofi sono stati suddivisi nei quattro popoli che “abitano” le
avventure di J.R.R.Tolkien: umani, elfi, nani e hobbit. Questo è il
racconto del popolo degli hobbit.
Etnia degli Hobbit
Ghedar il trenselfo
Si voltò.
Il vento gelido gli punse il volto, gli tagliò la pelle, gli penetrò nella pallida carne, lo fece
rabbrividire.
L’essere guardò il lago ghiacciato sotto ai suoi piedi e vi si vide riflesso.
Della figura dipinta sulla superficie trasparente riconobbe soltanto dei grandi occhi azzurro chiaro
celati nella penombra di un pesante mantello blu.
Quell'immagine che vedeva riflessa sembrava non appartenergli. Non ricordava più le sue origini, la
sua madrepatria, la sua vita passata: non era più niente senza ricordi.
Era da tempo immemore, ormai, che vagava, che cercava di ritrovarli,di tornare nel suo luogo
natio.
Era determinato a tornare in quel posto, di ritrovare l’identità dispersa durante quelle lunghe
giornate di viaggio, di ricostruire un’esistenza ormai perduta.
Ghedar sì guardò intorno.
Quella terra, quasi spopolata delle creature che l’abitavano, sembrava incredibilmente vuota senza
la vista di Orebla, così distante, da scomparire.
Di nuovo i suoi pensieri si impadronirono di lui.
I conflitti fra elfi e trenselfi, pensò, non si erano mai placati. Un’antica leggenda narrava che i
trenselfi fossero stati creati dal nulla, che alcuni di loro, ancora piccoli, fossero casualmente capitati
ai piedi della casa di una giovane elfa, abbandonati nella Notte dei Marmi; era la notte della grande
festa per gli elfi che popolavano quei posti, che segnava infatti l’inizio di un nuovo periodo, l’inizio
di una nuova vita.
Erano quattro i neonati, avvolti nello stesso panno. I loro corti capelli erano di colori diversi, ciò
faceva sottintendere che non fossero fratelli.
Fu Esarild, un elfo femmina, a crescerli con amore e a prepararli culturalmente.
Una volta adulti, i quattro compagni, sentendo di non appartenere alla terra dove erano cresciuti
se ne andarono, scomparendo nella notte, lasciando Esarild sull’uscio di casa a guardare le figure
dei figli farsi sempre più piccole, fino a confondersi nel buio.
Demetrio Battaglia - Scrittore
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Dopo aver vagato per anni alla ricerca di una casa, avvistarono in lontananza un albero millenario,
circondato da un lago immenso, protetto da un’enorme foresta di alberi Sempre in Fiore.
Orebla era un albero dalle dimensioni colossali. Quando si trovarono ai suoi piedi, dopo aver
superato il fossato, iniziarono a scavare all’interno dell’albero, fino a che non ottennero un
risultato soddisfacente: numerosi ambienti abitabili diversi fra loro, che si sovrapponevano in un
ciclo continuo.
La chioma dell’albero era talmente sviluppata e il tronco talmente alto, le radici così lunghe che si
estendevano talmente a fondo nella terra, che la città poteva ospitare un numero assai elevato di
creature.
Nei sotterranei si trovava la prigione, composta da più piani, dove i carcerati ardevano tra fiamme
verdi e bollenti, composte da una linfa vitale che procurava la vita all’albero e ai suoi abitanti.
Il piano terra era occupato da una miriade di animali di tutte le specie esistenti in quella terra, che
potevano accedere in quel luogo tramite una porta smisurata che serviva a comunicare con
l’esterno e che si affacciava sul fossato.
Man mano che ci si arrampicava fra i rami, salendo verso il cielo, ci si imbatteva in
abitazioni,piccole radure e minuscoli campi coltivati.
Ma la vera vita era fra le fronde, dove si nascondevano le vere città, dove dalle estremità dei rami
colava in generosi flussi linfa vitale dal sapore fresco ma gustoso, che fungeva da cibo per gli
abitanti.
Fin dall’inizio i quattro fondatori furono soddisfatti della nuova razza…
I trenselfi erano esseri socievoli. Essi erano caratterialmente e fisicamente, più vicini agli elfi che ai
maghi, dai quali derivavano. Avevano un corpo aggraziato, come gli elfi, e i capelli spesso lunghi,
tinti di una gamma di colori che andava dal più puro dei bianchi, al più scuro dei neri. Erano alti,
con la pelle diafana, gli occhi di un azzurro quasi trasparente. Inoltre erano dotati di una
caratteristica che solo loro possedevano: morivano ad età avanzata, solo dopo aver portato a
termine la missione che era stata affidata ad ognuno di loro, fin dalla nascita. Tuttavia,
dimostravano avere l’età di un adolescente fino alla morte.
I trenselfi, anche chiamati Munrà, erano in stretto contatto con la natura e con gli elementi.
Possedevano anche la singolare capacità di comunicare con gli animali e con le piante.
La città era governata dai discendenti di Lesret, il più grande fra i quattro bambini che erano stati
abbandonati nella Notte dei Marmi.
Purtroppo a Orebla, il governo era molto severo: chiunque trasgredisse le regole imposte dalla
Dinastia Predominante ,infatti, veniva segregato in carcere.
La razza all’inizio mantenne buoni rapporti con il mondo esterno, ma con il passare del tempo
iniziò a rinchiudersi sempre di più all’interno dell’albero, fino ad isolarsi completamente. Quindi
Lesret chiuse le porte della città, in modo che nessuno vi potesse mai più entrare o uscire, col fine
che i trenselfi rimanessero confinati al suo interno. Ghedar fu riportato alla realtà da un altro
pensiero: il suo compito era quello di riportare la pace tra elfi e trenselfi, come fare, come fare?
Con questo pensiero egli si incamminò. Solo giorni dopo Ghedar capì. Infatti...
"Magia?! Ecco la soluzione!”
Dopo quasi un giorno che quella parola gli risuonava nella mente, aveva capito. Ghedar conobbe, a
suo tempo, la formidabile forza dell' "Invincibile Potenza"(così veniva chiamato il numerosissimo
esercito elfico) e sapeva che l'unica cosa che gli elfi non erano in grado di usare in modo concreto
era proprio la magia. All'improvviso si ricordò di un lontano amico, Atrak, un mago buono che lo
avrebbe sicuramente aiutato. Egli si trovava nella più piccola isola dell'arcipelago delle Triadi.
Ghedar avrebbe dovuto attraversare tutta la foresta linfatica e il tragitto a mare che li separava.
Demetrio Battaglia - Scrittore
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Tutto era molto vago. D'altronde quando aveva deciso di intraprendere questa avventura sapeva
che, per riportare la pace tra elfi e trenselfi, niente era sicuro e deciso, ma difficile e incerto.
Ci volle molto tempo prima che Ghedar riuscisse ad attraversare lo stretto che divideva l'isola
linfatica da quella dove risiedeva l'amico, e ci volle altrettanto tempo per raggiungere la sua città:
Narom. Valicò le Montagne delle Tenebre, s’incamminò verso le paludi e s’inoltro nella Selva di
Urkesya .
Il mago Atrak viveva in una grotta ben arredata. Su ogni angolo erano disposti dei mobili di varie
forme e misure. Tuttavia la prima cosa che Ghedar notò era che alle pareti stavano incollati i
quadri degli antenati di Atrak a partire dall'anno 20 del Primo Girone. Sul davanzale del suo salotto
era appoggiata una spada di manifattura antica forgiata dagli elfi.
Quel giorno Atrak era vestito con un mantello nero e delle scarpe rosso vivo. In mano teneva un
bastoncino di quercia intagliato che assomigliava vagamente ad un pugnale. Si sedettero e
cominciarono a discutere sul da farsi. Ghedar espose ad Atrak la proposta di porre fine alla guerra
che stava perseguitando le tribù di tutta l'isola. Il mago era sempre stato in quell’isola e non si era
mai minimamente preoccupato di come potessero essere le sorti del conflitto. Da molti anni
desiderava affrontare un’avventura, così colse l’occasione e partirono all'alba del mattino seguente.
Prepararono i bagagli, presero le dovute precauzioni e si incamminarono verso il luogo dove si
sarebbe svolta una delle tante battaglie.
Avevano sentito dire da alcuni elfi che si doveva svolgere nella Selva grigia ,al centro della Foresta
Linfatica. Là avrebbero potuto chiedere aiuto agli alberi in particolare all' amata Oterna.
Oltrepassarono le gole tra le montagne e affrontarono molti pericoli, ma quando arrivarono al
confine con la Selva Nebbiosa, si accorsero che qualcosa li stava seguendo. Si voltarono e videro
Oterna. Li aveva seguiti fino a quel punto ed essi non si erano accorti che la soluzione ai loro
problemi era alle loro spalle! Volevano arrivare al più presto nella Selva grigia per sfruttarne i
poteri, ma ora che lo avevano ritrovato potevano andare direttamente nel campo di battaglia.
Molti giorni dopo arrivarono nel bosco dove a breve si sarebbe svolto lo scontro . Si accamparono e
attesero che i vari eserciti si raggruppassero. Da lontano sentirono le trombe suonare e i tamburi
rullare per l'arrivo dei re. Dovrebbero essere stati loro a dare l'avvio alla battaglia, ma questa volta
il compito venne affidato ai nipoti. Il nipote del re degli Elfi era uno come tutti gli altri: la
carnagione chiara, gli occhi azzurrissimi, i capelli come una sorgente d'acqua. Il trenselfo invece era
diverso dai suoi simili: era grassoccio con una carnagione rosea e con il viso paffuto. Ci si aspettava
uno scontro all’ultimo sangue con morti, feriti e molti prigionieri ma quando tutto stava per
cominciare, quando le trombe erano pronte, gli eserciti compatti e i nipoti pronti a dare il via, tutti
vennero attratti da un'aquila che volava sopra le teste di tutti. Sembrava dicesse qualcosa nella loro
lingua e Ghedar sapeva bene che lingua, perché era stato alla corte delle aquile molto tempo
prima. L’ aquila continuava a comunicare nel suo linguaggio ma nelle menti di ciascuno si
materializzarono delle parole nella lingua di ogni persona. Ghedar riuscì a coglierne il significato da
subito. Esse recitavano:
“O mia prode creatura,
chi ti ha costretto ad un destino così crudele,
chi ti ha costretto a passare la vita a combattere per un nulla,
chi ti ha costretto a diventare una creatura a servizio di un'altra,
chi ti ha costretto a non rivedere più i tuoi cari,
Tu creatura dimmi chi ti ha costretto,
a vivere in un mondo fatto di odio e guerra.
O mia prode creatura,
Demetrio Battaglia - Scrittore
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sii te stessa,
farai in modo di vivere senza preoccupazioni.”
Gli elfi e i loro avversari si gettarono sguardi di sfida ma, come per magia TUTTI deposero le armi a
terra e nessuno, nemmeno ai re venne in mente di impedirglielo. TUTTI resero grazie all'aquila e
TUTTI si incamminarono verso la sua tana per offrirle dei doni .
Nessuno di loro però si accorse che l'aquila era stata mandata da Atrak. Inoltre gli alberi lo
aiutarono traducendo in ogni lingua le parole che l'aquila esprimeva per volontà del mago.
Solo Ghedar riuscì a capire che mentre accadeva il tutto, il suo amico era in completa riflessione.
Così anche quella secolare guerra finì in meglio e fra elfi e trenselfi regnò per sempre la pace.
Per molti anni Ghedar non volle rivelare a nessuno la sua avventura, ma quando venne al mondo
suo nipote decise di raccontargliela e raccomandarli di tenerla ben segreta fino alla morte.
Atrak e Ghedar non si rividero più dopo l'esperienza, ma la voglia di avventure ardeva ancora
dentro di loro .
Demetrio Battaglia - Scrittore
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