Che cos`è l`adozione - Crescere figli altrui
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Che cos`è l`adozione - Crescere figli altrui
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DELLA CALABRIA - UNICAL - FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DEL SERVIZIO SOCIALE _________________________________________________ “L’ADOZIONE E IL DIRITTO ALLA CONOSCENZA DELLE PROPRIE ORIGINI” Relatore: prof.ssa Lucia LEPIANE Candidato: Elisabetta Cipolla matr. 89656 ______________________ ________________ ANNO ACCADEMICO 2006/2007 2 Indice INTRODUZIONE …………………………………………………...6 CAP. I – CHE COS’E’ L’ADOZIONE? ...........................................9 1.1 LA “STORIA DELL’ADOZIONE” …………………...10 1.2 L’ABBANDONO COME PRINCIPALE PRESUPPOSTO PER L’ADOZIONE ……………………………………15 1.3 L’ISTITUTO DELL’AFFIDAMENTO ……….……….18 1.4 LE PRINCIPALI FORME DI ADOZIONE …….……..20 CAP. II – IL DIRITTO DELL’ADOTTATO A CONOSCERE LE PROPRIE ORIGINI: “UNA LUNGA STORIA” ……..28 2.1 GLI OSTACOLI NEL PERCORRERE LA STRADA DELLA CONOSCENZA DEL PASSATO ..…………..31 2.2 ADOZIONI INTERNAZIONALI E DIRITTO DI “CONOSCERE” ….……...……………………………35 2.3 GLI OPPOSITORI E L’ATTEGGIAMENTO DI ALCUNI PAESI IN MATERIA DI ADOZIONI ……….………..37 3 CAP. III – IL CASO PARTICOLARE: L’ANONIMATO DELLA MADRE ………………………………………………..41 3.1 LA “CAMPAGNA PRESTIGIACOMO” & IL “MOVIMENTO PER LA VITA” ………….…………..44 3.2 LA PROCEDURA ………………………….…………..47 3.2.1 LA MADRE …………………………………….47 3.2.2 IL NEONATO ……………………….………….48 3.3 LA SENTENZA N. 425 DEL 25.11.2005: LEGITTIMO IL DIVIETO DI ACCESSO DELL’ADOTTATO ALLE INFORMAZIONI, OVE LA MADRE ABBIA DICHIARATO DI NON VOLER ESSERE NOMINATA …………………………………49 CONCLUSIONI ……………………………………………………52 BIBLIOGRAFIA …………………………………………………...53 4 A Francesco Pio & M. Francesca… a cui auguro ogni bene nella vita… «Ai bambini/ragazzi Che non hanno avuto la fortuna Di avere dei genitori Che hanno potuto o saputo essere Archi che lanciano la freccia verso Il domani». Gibran 5 Giunta alla fine di questo percorso vorrei ringraziare molte persone... La mia relatrice, l’avv. Lucia Lepiane, per aver creduto nel mio lavoro, per avermi indirizzato nella scelta del materiale e per avermi sostenuto con la sua presenza, attenzione e disponibilità. La dott.ssa Concezione Maccari, Assistente Sociale presso il Servizio di Assistenza Sociale del P. O. “G. Iannelli” di Cetraro, A. S. L. n. 1 di Paola, per avermi dimostrato la sua disponibilità, comprensione, pazienza, per avermi sostenuta e aiutata durante questo percorso, non solo fornendomi del materiale ma anche contribuendo alla mia crescita e ampliando le mie conoscenze. Le rivolgo un ringraziamento particolare anche per avermi permesso si assistere a tutto l’iter adottivo di due meravigliosi bambini, non riconosciuti alla nascita, Francesco Pio e M. Francesca (Nomi fittizi). Ringrazio i miei genitori che mi hanno sempre sostenuta e che mi hanno permesso di raggiungere anche quest’obiettivo e di essere la persona che sono. Ringrazio i miei fratelli, Roberto, Gemma e Luisa, che hanno sempre creduto in me, mi hanno incoraggiato, sostenuto e aiutato e mi hanno regalato tanto affetto e tanti sorrisi. Ringrazio il mio fidanzato, Salvatore, che mi è stato molto vicino in questi 3 anni, sia nei giorni belli che in quelli “brutti” e mi ha aiutato ad affrontare il mondo universitario con più tranquillità. Ringrazio, inoltre, amici e parenti tutti, nonché alcune colleghe che hanno condiviso con me quest’esperienza e che con la loro voglia di fare e imparare sono state delle valide figure di confronto; confronto che, spero, abbia permesso a tutte noi di riconoscere i nostri limiti e di ampliare le nostre conoscenze. 6 INTRODUZIONE Questo lavoro nasce dalla mia volontà di mettere in luce un argomento, non molto conosciuto, in merito alle adozioni: la possibilità di conoscere le proprie origini. Spunto primario della scelta è stata l’esperienza di tirocinio svolta presso il P.O. di Cetraro, per due anni consecutivi. Nel primo anno, sempre vincolata al segreto professionale, ho conosciuto la madre di Francesco Pio poco prima che partorisse e mi sono fatta un’idea molto negativa per la sua negligenza nei confronti del feto (fumava anche negli ultimi giorni di gravidanza) e per il completo “disprezzo” verso il bambino che portava in grembo e che considerava quasi un male da cui liberarsi: di conseguenza, da una parte, sono contenta che adesso F. P. sia in una famiglia che lo ami, dall’altra, mi dispiace che il bambino non saprà mai chi sono i suoi veri genitori; tutti i giorni sono andata a trovare quella creatura così bella e amorevole e, il destino ha voluto che i genitori adottivi, designati dal Tribunale, venissero a prenderlo proprio l’ultimo giorno in cui io prestavo il tirocinio. Il secondo anno (pochi mesi fa), sono arrivata in Ospedale e il mio supervisore mi ha portato subito a conoscere M. Francesca, una bambina stupenda; anche lei non è stata riconosciuta dalla madre ma, in questo caso, la scelta era legata a problemi psicologici, nonché economici della donna, già madre di altri bambini. Anche qui, il pro è rappresentato dalla possibilità per M. F. di crescere in un ambiente familiare sereno e ricoperta di amore da una coppia che, inevitabilmente, si è innamorata di lei già al primo incontro; il contro è che la bambina non saprà mai la verità su sua madre e magari, un giorno, la odierà per averla abbandonata. Ho deciso di analizzare l’argomento sotto il profilo giuridico proprio perché è solo in questo campo che si incontrano, in molti Paesi ( tra cui l’Italia), resistenze nel favorire l’accesso alle informazioni, soprattutto quando i genitori (e in particolare la madre) dichiarano di non voler essere nominati. 7 La tesi si articola in tre capitoli a loro volta suddivisi in varie parti: Ho iniziato, nel primo capitolo, descrivendo l’adozione quale perno centrale intorno al quale gira tutto l’elaborato, esponendo il profilo storico e l’evoluzione normativa che la contraddistingue. La novità più importante è rappresentata dalla posizione centrale del bambino, dei suoi bisogni ed esigenze di vivere in una famiglia, non più dai desideri e dalle aspettative degli adulti (come avveniva in passato). Ho dedicato una parte allo “abbandono” chiarificando il concetto in termini giuridici e sottolineando l’importanza del suo sussistere per avviare le pratiche di affidamento preadottivo, che rappresenta la seconda fase nell’iter adottivo e che generalmente ha validità di un anno prima di procedere con l’adozione effettiva del minore abbandonato. In seguito, ho precisato la differenza tra l’istituto dell’adozione e quello dell’affidamento, spesso ed erroneamente usati come sinonimi; infatti, quest’ultimo, rappresenta solo un rimedio temporaneo per la tutela del minore la cui famiglia versa in una situazione precaria ma risolvibile, non è una decisione definitiva e indeterminata, qual è l’adozione. Nell’ultima parte ho analizzato le diverse tipologie di adozione, evidenziandone procedure e caratteristiche peculiari delle stesse. Nel secondo capitolo sono entrata nel merito della discussione che dà il titolo alla mia tesi: il diritto di conoscere le proprie origini, soffermandomi in più punti alle modifiche che la l. n. 149/01 ha apportato alla l. n. 184/83, in materia di adozioni. È possibile risalire ai propri genitori quando il bambino è stato riconosciuto alla nascita ma bisogna comunque essere in possesso di determinati requisiti. Primo tra tutti: i venticinque anni di età (salvo eccezioni) e l’idoneità psico-fisica all’acquisizione di tali informazioni. 8 Naturalmente, anche nelle adozioni internazionali il soggetto adottato può esercitare il suddetto diritto e acquisire informazioni anche sulla cultura di appartenenza. Non tutti sono d’accordo nel riconoscere questo diritto agli adottati e, nell’ultima parte, sono spiegate le motivazioni dell’opposizione. Nel terzo capitolo ho trattato il caso “particolare”: la negazione del diritto a conoscere il proprio passato per le persone non riconosciute alla nascita e seguendo le indicazioni della l. n. 149/01, 7° co. È possibile partorire in ospedale e non riconoscere un bambino, soprattutto allo scopo di evitare infanticidi e ridurre le I. V. G. In tale ottica sono nate anche le cosiddette “culle per la vita”, una sorta di moderna “ruota degli esposti”. Nella seconda parte ho descritto la procedura da seguire quando una donna non vuole riconoscere il figlio, in relazione ai diritti/doveri della madre e a quelli del neonato. Infine, ho riportato una sentenza, la n. 425/05, in cui sono espresse chiaramente le motivazioni per cui non è considerato legittimo, per l’adottato, accedere alle informazioni che lo riguardano; primo fra tutti, il rispetto della segretezza della madre che ha acconsentito all’adozione a “patto” di rimanere anonima. 9 CAP. I – CHE COS’E’ L’ADOZIONE? Con il termine “adozione” si fa riferimento ad un istituto con il quale un soggetto può stabilire un legame di parentela legale, simile al rapporto tra genitori e figli, con chi «sia privato, in maniera definitiva ed irreversibile, di un’adeguata assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi»1. Lo stato di abbandono, quindi, rappresenta l’input con il quale si dà avvio all’adozione al fine di garantire all’adottato il sano sviluppo psico-fisico, che non è stato garantito dai genitori e dai parenti, generalmente considerati entro il quarto grado. « Il concetto di abbandono, nel diritto come nella vita sociale, si radica sul riconoscimento che vi è da una parte una persona non in grado di badare adeguatamente a se stessa per insufficienze fisiche o mentali o di sviluppo e, dall’altra, qualcuno che, pur avendone il dovere morale, omette di prendersi cura di lei […] il diritto intende tutelare la persona non solo dalle aggressioni dirette alla sua integrità fisica, ma anche, se il soggetto è incapace, di gestire compiutamente se stesso, da quelle omissioni che potrebbero egualmente provocargli danni fisici ».2 Accertato lo stato di abbandono, il quale viene esaminato in base al caso specifico, all’età, alle condizioni e all’ambiente sociale in cui vive il soggetto adottato, avviene la dichiarazione di adottabilità. «Lo stato di adottabilità comporta ex lege la sospensione della potestà genitoriale e la nomina di un tutore»3. L’adozione, in sintesi, viene definita comunemente come «un provvedimento sociale e giuridico, posto sotto la responsabilità pubblica, per la protezione dei minori, scaturito dal riconoscimento del diritto, universalmente riconosciuto (Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia approvata dall’ONU nel 1989 a New York), di ciascun bambino a crescere e ad essere educato in una famiglia capace di rispettare i suoi bisogni evolutivi»4. 1 P. PERLINGIERI e F. SBORDONE, Istituzioni di diritto civile, Napoli: E.S.I., 2003, 445. A. C. MORO, Definizione di “abbandono”, Dizionario di Servizio Sociale, Carrocci Editore, 13 3 V. FABBRI, Definizione di “adozione”, Dizionario di Servizio Sociale, Carrocci Editore, 31 4 V. FABBRI, Definizione di “adozione”, Dizionario di Servizio Sociale, Carrocci Editore, 29 2 10 1.1 La “storia dell’adozione” L’adozione nasce allo scopo, per chi non aveva figli, di perpetuare il nome (cognome) e di trasmettere il patrimonio ereditario. Interesse tutelato, dal nostro ordinamento, fino al 1967 quando, con la l. n. 431, accanto alla adozione ordinaria venne aggiunta la cosiddetta adozione speciale. Tuttavia, l’adozione ordinaria non raggiunse mai lo scopo per il quale era stata istituita e, con la l. n. 183 del 1984 vi è stata un’ulteriore modifica e si è cominciato a parlare di adozione internazionale. Nel 2001, con la l. n. 149, viene regolamentato l’istituto dell’adozione, apportando modifiche alla l. n. 183/1984. Modifiche significative sottolineate già dal titolo della nuova legge: “Diritto del minore ad una famiglia”. Questi, in breve, sono i passaggi storici più significativi che hanno avuto come tema centrale l’istituto dell’adozione. Entriamo nel particolare, esaminando come è cambiata considerevolmente l’interpretazione del concetto di adozione nel tempo. Le scelte compiute negli anni si conformano o si diversificano, infatti, in base alla tradizioni giuridiche dell’epoche considerate. Partiamo con il precisare che, comunque, l’elemento comune a tutti gli istituti è rappresentato dal vincolo, di natura giuridica (e non di sangue), che si instaura tra due individui non legati biologicamente. Notizie sull’adozione, intesa come passaggio di una persona da un nucleo familiare ad un altro, sono state riscontrate già nel codice di Hammurabi; ma anche nella Bibbia dove si narra che Ester fosse stata adottata da Mardocheo: «Ester era un'orfana ebrea allevata dal cugino Mardocheo»5; «La ragazza era graziosa di forme e di bell’aspetto, e quando suo padre e sua madre morirono, egli la prese con sé come se fosse stata sua figlia»6. Presso i greci, l’adozione (detta póiēsis, eispóiēsis e thésis) era conosciuta esclusivamente in relazione alla possibilità di perpetuare il nome della famiglia. L’adozione,infatti, era riservata a coloro che non avevano figli o che avevano solo figlie femmine, non considerate come eredi e a cui spettava solo il diritto alla dote. I maschi adottati potevano tornare alla loro famiglia di origine ma a condizione che lasciassero un figlio legittimo nella famiglia adottiva. 5 6 Microsoft ® Encarta ® 2006. © 1993-2005 Microsoft Corporation La Bibbia:nuovissima versione dei testi originali, sesta edizione,1990, Edizioni Paoline, Est., 633 11 La popolazione presso cui l’adozione trovò il suo massimo sviluppo, però, è quella dei Romani dove questo istituto venne utilizzato per una serie di scopi molto importanti: “…fu usata per conservare il nome della famiglia, per esercitare il culto domestico, e per rendere possibile ai parenti naturali, i quali, […], non potevano né essere eredi, né essere tutori, di poter ciò fare divenendo figli adottivi” 7; questi scopi avevano anche (e soprattutto) natura politica. La famiglia, presso i Romani, si presenta indipendentemente dal vincolo di sangue o di parentela, ed è piuttosto assimilabile al prototipo dello Stato. La famiglia è, dunque, anzitutto una società politica organizzata. In questo organismo assume importanza fondamentale la figura del pater familias, supremo giudice e sacerdote del culto familiare, il quale presiede la gestione del patrimonio ed ha un potere assoluto sugli altri componenti del nucleo. È ad esso che fa capo la disciplina dell'adozione. Nel diritto romano sono presenti due diverse forme di adozione, che seguivano procedure diverse ma che entrambe rendevano l’adottato, erede: l’adrogatio e l’ adoptio. L’adrogatio (adrogazione) era l'adozione delle persone sui iuris, in virtù della quale il cittadino romano passava sotto la patria potestà dell'adottante con tutte le persone che da esso dipendevano; nell’adoptio, invece, un individuo alieni iuris modificava il proprio status passando dalla soggezione ad una patria potestà, a quella di un'altra. Con Giustiniano si assiste ad un mutamento della disciplina che vede il delinearsi di altre 2 forme di adozione: l’adoptio plena, che si verificava soltanto quando l'adottante era un ascendente e l'adoptio minus plena, in cui l'adottante era un estraneo. In quest’ultima, l'adozione valeva soltanto a fare acquistare all'adottato il diritto di successione verso l'estraneo che era divenuto suo padre adottivo. Con la caduta dell'Impero romano l'istituto dell'adozione subisce sorti alterne finché, durante il periodo medioevale, cadde in disuso. A partire dalla fine del XVII secolo, l’istituto dell’adozione riacquista un notevole interesse; infatti, fu accolto in tutte le legislazioni europee, esclusa quella anglosassone (in cui si affermerà più tardi). In questo periodo, però, si sviluppò l’idea dell’adozione come un contratto che ha come parti interessate l’adottante e l’adottato. 7 P. Fiore, Adozione, in Digesto italiano, II, Torino, 1884, 161 12 Concezione, questa, ampiamente criticata e, sul finire del XIX secolo, abbandonata. Nel diritto francese l’istituto dell’adozione venne reintrodotto con una decisione dell’assemblea legislativa che ordinò al suo comitato di legislazione di comprenderla nel piano generale delle leggi civili. Ma quando si discusse innanzi al Consiglio di Stato il Code Napoleon, l’istituto dell’adozione trovò opposizione da parte di autorevoli giuristi: “Evidentemente, le resistenze contro l'adozione erano molte, poiché, quando si trattò di inserirla definitivamente nel codice civile, paventando svantaggi per la costituzione di famiglie legittime, se ne propose l'abolizione per motivi naturali e morali. Solamente l'intervento personale di Napoleone rimise più tardi in discussione il problema: consapevole degli effetti che i caduti delle innumerevoli battaglie avevano sortito, cercò una soluzione affinché gli orfani della Francia fossero adottati dalla Francia stessa”8. Alla fine, il Code Napoleon, introdusse la disciplina dell’adozione. Per Napoleone, l’adozione era un istituto che metteva a rischio l’integrità e l’unità della famiglia legittima. A tal proposito, solo chi non aveva figli, e nemmeno speranza di averne in futuro, poteva ricorrervi; inoltre, condizione necessaria di questo istituto, era che l’adottante non poteva avere meno di 50 anni e l’adottato non meno di 18. Era, quindi, un’adozione tra adulti dove ognuno guardava alla convenienza economica che ne derivava: chi adottava lo faceva per non lasciare estinguere il casato. Quest’ultima finalità, insieme a quella della perpetuazione dei titoli e dei possessi delle famiglie nobiliari, fu alla base del concetto di adozione anche nell’ordinamento italiano. Il modello di adozione del codice Napoleonico fu introdotto, in Italia, nel 1865 attraverso il codice civile del Regno, promulgato da Vittorio Emanuele II. Il codice riconobbe la possibilità di adottare le persone che avessero compiuto il diciottesimo anno di età, proibendo l’adozione di bambini fino al 1939 quando fu promulgato il codice civile che prevedeva l’istituto della “affiliazione”. Questo era caratterizzato del fatto che non dava diritti ereditari ma solo un sussidio alimentare che veniva meno con il raggiungimento della maggiore età. È nel 1942 che fu introdotta per la prima volta l’adozione nei confronti di minori anche se è da sottolineare che, in questo tipo di adozione, non venivano minimamente intaccati i rapporti tra l’adottato e la sua famiglia di origine. 8 V. CAMIOLO M., L'adozione nella storia, in Famiglia cristiana, 2002, pag. 5 13 Nel tempo, grazie all’evoluzione scientifica e all’aumento della sensibilità sociale e dei modelli familiari, si forma un movimento di opinione che esercita grande influenza sul piano politico e parlamentare, e che si concretizza nella l. n. 431 del 5 giugno 1967 sulla “adozione speciale”. In particolare, l’art. 4 della suddetta legge (recante Modifiche al titolo VIII del libro I del Codice civile "Dell'adozione" ed inserimento del nuovo capo III con il titolo "Dell'adozione speciale"), introduce l’art. 314/26 del codice civile, secondo il quale a seguito dell’adozione cessano i rapporti dell’adottato con la famiglia di origine (salvi i divieti matrimoniali), e viene attribuito all’adottato lo status di figlio legittimo dei genitori adottivi. Il bambino che è privo di una famiglia ha diritto ad averne una “nuova”. Si assiste ad un cambiamento importantissimo. Al centro di tutto, come protagonista della procedura, è posto (finalmente) il bambino. L’adozione ha lo scopo di dare una famiglia al bambino abbandonato e NON di dare un bambino ad una coppia senza figli; famiglia scelta dai giudici in collaborazione con i servizi sociali; famiglia che favorisce un ambiente stabile, in cui il minore viene accolto ed inserito totalmente e in cui è riconosciuto come figlio legittimo. Fonte del giudizio diventano, quindi, oltre ai requisiti d’età, salute, condizioni economiche e ambiente familiare, anche le capacità psicologiche della coppia ad accogliere un bambino. Si è parlato al riguardo di adozione legittimante, caratterizzata (importante da sottolineare) dalla recisione di qualsiasi legame e rapporto giuridico tra l’adottato e la sua famiglia d’origine. Il 1975 è l’anno in cui, la riforma del diritto di famiglia, promuove il diritto della donna all’anonimato del parto; diritto che và incontro a tutte le donne che attraversano il difficile momento di una maternità non voluta ed atto a contrastare tutti quei fenomeni quali l’abbandono dei neonati, infanticidi e parti realizzati in condizioni tali da mettere in grave pericolo la vita di madre e figlio e forse anche per limitare il ricorso all’ I. V. G. (Interruzione Volontaria di Gravidanza, legittimata nel 1978 con la l. n. 194). A tal proposito ogni donna può decidere di partorire e lasciare il figlio presso l’ospedale, personalmente scelto, ricevendo completa assistenza sanitaria e segnalando solo le informazioni che le vengono richieste riguardo al proprio profilo sanitario, ma omettendo i propri dati anagrafici. 14 Questo quadro ha resistito per oltre un trentennio, risentendo solo delle innovazioni apportate dalla l. 184 del 1983 quali la disciplina dell’affidamento familiare e l’adozione internazionale. In questa cornice è considerato reato qualsiasi tentativo di figli adottivi e genitori naturali di ricongiungersi, ritrovarsi. La riforma del 1983 non pone, comunque, un freno al bisogno di nuove regole per l’adozione internazionale. Il 29 Maggio 1993 è l’anno della Convenzione de l’Aja sulla protezione di minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale volta, di conseguenza, soprattutto all’accordo fra paesi di origine e paesi di destinazione dei bambini adottati all’estero. La Convenzione, sottoscritta da 23 Paesi, è stata firmata dall’Italia l’11 dicembre 1995 e ratificata, poi, nel 1998 quando è stato completamente riscritto e sostituito tutto il capitolo della l. n. 184 relativo all’adozione dei minori stranieri e quando il parlamento ha approvato la l. n. 476 ("ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a l’Aja, il 29 maggio 1993"); legge che (tra le altre cose): - ha favorito una maggiore apertura rispetto alle informazioni che la coppia adottiva riceve circa il minore straniero in corso di adozione (informazioni di carattere sanitario, sulla famiglia di origine e sulle esperienze di vita del minore,...); - ha tutelato maggiormente il superiore interesse del minore e la residualità dell’adozione internazionale che viene concessa solo nel caso in cui, nel Paese di origine dell’adottato, non sussistono le condizioni per garantire, a quest’ultimo, l’inserimento in un contesto familiare che possa soddisfare i suoi bisogni di assistenza materiale e psicologica. Il mutamento sociale (in particolare, l’allungamento della vita media della persona), accompagnato da quello dei modelli familiari (instabilità del matrimonio, aumento delle convivenze, famiglie ricostruite, nascite fuori dal matrimonio,…) ha portato a centrare nuovamente l’attenzione sulla genitorialità e filiazione. Si comincia a fare strada l’adozione da parte dei single; di fatti la genitorialità non è più legata all’idea di coppia la quale, a sua volta, non è più legata all’idea di matrimonio. Infine, possiamo dire che la genitorialità, attualmente, non viene più neanche necessariamente identificata in due persone di sesso diverso. 15 In merito alla possibilità per le coppie omosessuali di adottare un bambino è attualmente in atto un ampio dibattito, a livello internazionale, per il riconoscimento di questo diritto anche a coloro che pur appartenendo allo stesso sesso, costituiscono di fatto una coppia e hanno la volontà di diventare genitori. 1.2 L’abbandono come principale presupposto per l’adozione L’adozione legittimante deve essere pronunciata nei confronti di un minore che si trova in stato di abbandono. L’espressione fa riferimento ad una persona che è priva di assistenza morale e materiale e non ha la possibilità di provvedere a se stessa per diversi motivi (età, incapacità fisica o psichica,…). Sono ritenuti responsabili dell’abbandono dell’incapace, e suscettibili di sanzioni giudiziarie, tutte quelle figure che, nei diversi contesti sono chiamati a prendersi cura del soggetto (in famiglia: genitori, figli, coniugi, tutori; nelle strutture ospedaliere: medici, infermieri,…;nelle strutture scolastiche: educatori, insegnanti,...). A tal proposito citiamo l’art. 591 c.p. : «chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Alla stessa pena soggiace chi abbandona all’estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro. La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale [582], ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore [540], dal figlio, dal tutore [c.c. 346] o dal coniuge, ovvero dall’adottante o dall’adottato [c.c. 291] ». Nel caso dell’adozione, la situazione deve essere così grave da intaccare la sana crescita del minore (dal punto di vista dell’integrità fisica ma anche da quello dell’equilibrio psichico, mentale) per dichiarare lo stato di abbandono. 16 I criteri da adottare, per l’accertamento dell’effettivo stato d’abbandono di un minore, sono stati espressi in modo chiaro e dettagliato e la procedura è stata resa molto rigorosa, proprio al fine di tutelare allo stesso tempo genitori naturali, genitori adottivi e minore nonché allo scopo di valutare tentativi di recupero della famiglia di origine. L’abbandono si ha, quindi, tutte le volte in cui, nei confronti del minore, è presente «una obiettiva e non transitoria carenza di quel minimo di cure materiali, di calore affettivo e aiuto psicologico necessario a consentirgli un normale sviluppo psicofisico» (Cassazione,1983). Diventa, allora, necessario cercare una famiglia sostitutiva a quella di origine che garantisca quanto riportato sopra. L’idea di una famiglia sostitutiva a cui affidare il minore è legata allo studio delle devastanti conseguenze a cui vanno incontro i bambini “rinchiusi” negli istituti socio-educativi, in cui non ci sono le basi per costruire rapporti affettivi sufficientemente validi di cui il bambino ha bisogno, in una fase della vita così delicata. Una famiglia, invece, può rimediare sia all’abbandono materiale che a quello affettivo donando amore ad una persona che non è “sangue del suo sangue”. Il bambino ha la possibilità di sentirsi ancora più amato perché, pur essendo stato abbandonato, è stato scelto da qualcuno che non era obbligato a prenderlo con sé. Tappa successiva alla dichiarazione dell’abbandono è l’affidamento preadottivo. Quest’ultimo è deciso con decreto emesso in camera di consiglio, con l’intervento obbligatorio del PM. Il decreto è impugnabile in Corte di Appello entro 10 giorni dalla comunicazione del provvedimento dal tutore o dal p.m. A seguito dell’affidamento gli affidatari hanno l’obbligo di provvedere al mantenimento e all’istruzione del minore e sono soggetti a controllo da parte del giudice tutelare o dei servizi sociali. In caso di mancata ottemperanza ai doveri da parte degli affidatari o nel caso in cui il minore non riesca a inserirsi armonicamente nella famiglia, l’affidamento potrà essere revocato con decreto motivato emanato in camera di consiglio su domanda del PM, del tutore o di coloro che sono preposti al controllo dell’affidamento. Esito diverso si avrà una volta decorso positivamente il periodo di affidamento quando, il Tribunale per i Minorenni, potrà procedere (o meno) con la dichiarazione dello stato di adottabilità. A tal proposito è, però, necessario fare una precisazione, per cui, prima di dichiarare lo stato di adottabilità: 17 il minore deve essere sentito dal Tribunale dei Minori se ha un’età compresa tra i 12 e i 14 anni; - è richiesto il consenso del minore, invece, se lo stesso ha un’età pari o superiore ai 14 anni. Più i generale nella Convenzione di New York del 1989 troviamo enunciati e affermati il diritto di espressione e di ascolto del bambino da parte delle istituzioni. Nella successiva Convenzione europea di Strasburgo del 25 gennaio 1996, viene ribadito il concetto: la capacità di discernimento, del minore, permette allo stesso di esercitare il diritto di ricevere le informazioni che lo riguardano, essere consultato ed informato sulle conseguenze delle sue opinioni e delle decisioni assunte nei suoi confronti. Allo stato attuale, e recepite le suddette Convenzioni, è stato sostituito l’art. 7 della legge 184/83 con la seguente prescrizione: «Se l’adottando ha compiuto gli anni dodici deve essere personalmente sentito; se ha un’età inferiore può, se opportuno, essere sentito, in considerazione della sua capacità di discernimento». Nella legge precedente si affermava che l’infradodicenne potesse essere ascoltato «se opportuno» e «salvo che l’audizione» non comportasse «pregiudizio per il minore». L’interesse si sposta sulla figura del minore e sul suo grado di maturità e giudizio. - Il decreto di adottabilità (che costituisce la cosiddetta competenza funzionale) è dichiarato d’ufficio dal Tribunale dei Minori del luogo in cui il minore si trova al momento iniziale del procedimento. Viene dichiarato con decreto motivato, emesso in camera di consiglio, in cui viene sentito il P.M. competente ed eventualmente il rappresentante dell’istituto (che funge da tutore) presso cui è ricoverato il minore o dalla persona che l’assiste (tutore). La segnalazione di uno stato d’abbandono può e deve provenire da chiunque si renda conto che il minore vive una situazione di disagio. In particolare al comma 1 dell’art. 70 della l. n. 184/1983 troviamo scritto: «I pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio che omettono di riferire alla procura della Repubblica presso il tribunale dei minorenni sulle condizioni di ogni minore in situazione di abbandono di cui vengano a conoscenza in ragione del proprio ufficio, sono puniti ai sensi dell’articolo 328 del codice penale. Gli 18 esercenti un servizio di pubblica utilità sono puniti con la pena della reclusione fino ad un anno o con la multa da duecentocinquantotto euro a milleduecentonovantuno euro ». I servizi sociali, soprattutto, sono chiamati a relazionare tutto. 1.3 L’istituto dell’affidamento L’affidamento non è un sinonimo di adozione. È opportuno tenere ben distinti i due istituti. È la l. n. 183/1984 che ha regolato i due istituti considerando l’affidamento come rimedio temporaneo per la tutela dell’interesse materiale e morale del minore che è privo di un idoneo ambiente familiare ma per un determinato periodo; l’adozione, invece, è volta a dare una famiglia al minore che ne sia privo o che abbia dei genitori incapaci di dargli un’adeguata educazione ed un’esistenza dignitosa. Andiamo, ora, a tracciare le caratteristiche principali che connotano quello che è definito “affidamento”. L’affidamento subentra ogni qualvolta una famiglia versa in un momento di difficoltà legata a diversi motivi che le impediscano anche di prendersi cura dei figli. I minori, allora, possono essere allontanati, per un determinato periodo, dalla propria famiglia d’origine, per essere inseriti in un’altra che rappresenta, appunto, la famiglia affidataria. In Italia l’affidamento familiare è regolamentato dalla l. n. 184/1983, modificata dalla successiva l. 149/2001 che opera una distinzione tra: - affidamento consensuale. Si ricorre all’affidamento in ragione della richiesta della famiglia naturale ai servizi socioassistenziali territoriali di residenza e sentito il minore che ha compiuto i dodici anni e, se opportuno, anche di età inferiore; - affidamento giudiziale. È proposto dai servizi e disposto dall’Autorità Giudiziaria. «L’affidamento familiare è disposto dal servizio sociale locale con un provvedimento, reso esecutivo dal giudice tutelare previo consenso dei genitori esercenti la potestà o del tutore, e sentito il minore in considerazione della sua capacità di discernimento. In mancanza del 19 consenso […] il provvedimento è adottato dal tribunale per i minorenni…»9 L’affidamento, come dicevamo prima, ha durata limitata nel tempo. La l. n. 149/01 (art. 4 comma 4) stabilisce un periodo che deve essere compreso tra un minimo di alcuni mesi ad un massimo di due anni: «…deve inoltre essere indicato il periodo di presumibile durata dell'affidamento che deve essere rapportabile al complesso di interventi volti al recupero della famiglia d'origine. Tale periodo non puo' superare la durata di ventiquattro mesi ed e' prorogabile, dal tribunale per i minorenni, qualora la sospensione dell'affidamento rechi pregiudizio al minore». La durata dell’affidamento è stabilita nell’ambito dell’accordo tra i servizi socio-assistenziali, la famiglia naturale e affidataria e/o stabilita dal provvedimento dell’Autorità giudiziaria. L’affidamento cessa nel momento in cui la famiglia naturale risolve la situazione di temporanea difficoltà da sola e/o con l’aiuto dei servizi o, comunque, in tutti quei casi in cui la sua continuazione risulti negativa per il minore. L’affidatario, può diventare tale rivolgendosi ai servizi territoriali di residenza. Questi ultimi, tramite dei colloqui, verificheranno che la famiglia in esame abbia tutte le caratteristiche necessarie a rispondere in modo appropriato ai bisogni dei minori da affidare. I servizi sociali, inoltre, devono controllare e vigilare costantemente sull’affidato, affinché tutto si svolga al meglio e il minore accetti il nuovo contesto in cui è inserito. Accogliendo il minore presso di sé , l’affidatario, deve provvedere al suo mantenimento, educazione e istruzione. A fronte di quanto appena detto è previsto un contributo economico mensile per le famiglie affidatarie, aiuto economico per particolari spese affrontate nell’interesse del minore e altre misure di sostegno. L’affidamento, pertanto, mira a tutelare e proteggere il minore senza provocarne il completo distacco dal nucleo familiare originario. 9 , P. PERLINGIERI e F. SBORDONE, Istituzioni di diritto civile, Napoli: E.S.I. 2003, 444 20 1.4 Le principali forme di adozione Nel codice civile del 1942 era prevista una sola figura di adozione; questa riconosceva ad una persona che avesse compiuto i 50 anni, priva di figli, la possibilità di assumere come figlio una persona, di età inferiore ai 18 anni, cui trasmettere il proprio nome e i propri beni. Passano gli anni e cambiano anche le finalità di questa istituzione che non è più basata sul “dare un discendente” ma sul “dare una famiglia” a chi, per i più differenti motivi, ne è privo. È importante sottolineare come contribuì fortemente, a questo passaggio, l’opinione pubblica la cui sensibilità sul tema giovò, soprattutto, a tutti quei bambini ricoverati in quegli istituti che avevano solo nel nome la concezione dell’assistenza all’infanzia ma che, in realtà, erano luoghi in cui i bambini sono stati troppo spesso protagonisti di oppressione e violenza e sottoposti a rigide regole di stampo militare provenienti dalla tradizione ottocentesca. Questi istituti erano, prettamente, di natura pubblica e, cosa più sconcertante, erano diffusissimi quelli di natura religiosa. Nel 1967 si assiste al successo di una nuova legge che ristruttura l’istituto dell’adozione e ne fa sorgere una nuova e maggiormente positiva concezione: la l. n. 431, secondo la quale «sono dichiarati in stato di adottabilità i minori di età inferiore ad anni otto privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o di parenti tenuti a provvedervi»; e viene introdotto l’istituto della cosiddetta adozione “speciale”, rivolta specificatamente a persone coniugate o conviventi (purché sussista la stabilità del rapporto) nei confronti di minori di anni 8, privi di assistenza morale e materiale. Segue nel 1975 la riforma del diritto di famiglia e l’anno successivo la Convenzione internazionale di Strasburgo in materia di adozione dei minori (ratificata con legge italiana n. 337/1974). Il provvedimento più recente è la l. n. 184/1983 (modificata dalla l. n. 149/2001, Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184) che «definisce adozione normale quella che nel 1967 era considerata speciale» 10 e a seguito della quale si possono oggi distinguere quattro diverse forme di adozione: 10 V. FABBRI, Definizione di “adozione”, Dizionario di Servizio Sociale, Carrocci Editore, 30 21 1. adozione di persone maggiori di età, detta anche “adozione non legittimante” ,perché fa acquistare all’adottato la posizione di figlio adottivo e non legittimo. Da tale rapporto scaturiscono, pertanto, diritti e doveri coincidenti, solo in parte, con quelli dell’adozione legittimante. Questo tipo di adozione è disciplinata dal codice civile, artt. 291 e ss. In merito ai requisiti per gli adottanti e adottati, possiamo dire che, in questo caso, l’adozione è consentita alle persone che hanno compiuto gli anni 35 e superano di almeno 18 anni (e non più di 40) l’età di chi essi intendono adottare e purché non abbiano discendenti legittimi o legittimati ovvero, nel caso li abbiano, questi ultimi siano maggiorenni e consenzienti. La richiesta di adozione deve essere presentata dall’adottante presso il Tribunale ordinario, non per i Minorenni, del luogo di residenza del richiedente. È necessario dimostrare che l’adozione sia vantaggiosa per l’adottando e che venga espresso il consenso: dell’adottato, del coniuge dell’adottato (eventualmente sia presente) e dell’adottante è della famiglia legittima; restano in vita, infatti, quelli che sono i rapporti con la famiglia di origine anche se l’adottato assume il cognome dell’adottante che l’antepone al proprio (sistema del doppio cognome). Il consenso all’adozione può essere revocato fino all’emanazione della sentenza di adozione, mentre la mancanza ingiustificata dell’assenso del coniuge (e degli ascendenti) non preclude l’adozione, rimanendo in facoltà degli interessati la possibilità di ricorrere al Tribunale per la verifica della infondatezza delle ragioni del diniego. Questo istituto può venir meno nel caso in cui ci sia irriconoscenza da una o entrambe le parti (artt. 306 – 307 c.c.), con sentenza del Tribunale. Lo scopo principale dell’adozione di maggiorenni è quello di perpetuare nome e patrimonio per chi non ha figli e qualora questi siano presenti, l’adottato gode dei loro stessi diritti. 2. adozione dei minori “legittimante”, disciplinata dalla l. 184/1983, artt. 6 – 28. Possono ricorrervi solo coniugi uniti in matrimonio da almeno 3 anni (art. 6) anche se, in un secondo momento, è stato compreso in questi anni, il periodo di convivenza more uxorio, sempre previa accertata continuità e stabilità da parte del Tribunale dei minori. Condizione 22 necessaria, infatti, è l’assoluta assenza di una separazione nemmeno di fatto e che la coppia sia giudicata idonea ad educare ed istruire i minori che intende adottare, nonché in grado di mantenerli. La l. n. 184 richiedeva anche che i coniugi, per l’adozione, non potevano avere un’età superiore ai 40 anni, rispetto all’adottato; questa disposizione è stata rivista con una sentenza successiva che ha innalzato la differenza di età adottato-adottante ad un massimo di 45 anni (l. n. 149/01 art. 6, comma 3: « L'età degli adottanti deve superare di almeno diciotto e di non più di quarantacinque anni l'età dell'adottando») sempre in relazione alla valutazione del superiore interesse del minore come stabilito dalla sentenza n. 1366/2000 della Corte di Cassazione, I 45 anni possono essere ulteriormente aumentati di 10 nel caso in cui s’intenda adottare, per esempio, un consanguineo dell’adottato. Vanno, comunque, tenuti presenti i casi singoli perché studi clinici hanno dimostrato, ampiamente, che una rilevante differenza di età potrebbe alterare, in modo significativo, le dinamiche relazionali all’interno del nucleo famigliare. Il procedimento da seguire, nel caso dell’adozione legittimante dei minori è complesso e si articola in più fasi. Prima fase: dichiarazione di adottabilità, pronunciata dal Tribunale per i minorenni, fatti una serie di accertamenti dai quali risulti lo stato di abbandono del minore perché privo di assistenza morale e materiale (non legata, però, a cause di forza maggiore di carattere transitorio) da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi. Ciò si verifica anche quando il minore si trovi presso istituti di assistenza (pubblici o privati), comunità di tipo familiare o nel caso esso sia stato dato in affidamento (familiare). Lo stato di adottabilità cessa per adozione o per raggiungimento della maggiore età da parte dell’adottando; è anche possibile chiederne la revoca se, successivamente alla pronuncia, siano venute meno le condizioni di abbandono e non sia già in corso l’affidamento preadottivo che costituisce la seconda fase del procedimento di adozione. Dichiarata l’adottabilità, i coniugi interessati devono presentare domanda di adozione (richiesta formale) al Tribunale per i minorenni del circondario in cui sono residenti, specificando l’eventuale 23 disponibilità ad adottare più fratelli o minori handicappati e allegando i seguenti documenti (in carta semplice): «1. Domanda diretta al Presidente del Tribunale per i minorenni 2. Certificato di nascita dei richiedenti 3. Stato di famiglia 4. I genitori viventi degli adottanti devono rendere dichiarazione di assenso all’adozione richiesta dai figli, per quanto disposto dalla Legge 4 maggio 1983 n. 184, nella forma della dichiarazione sostitutiva di atto notorio davanti al Segretario comunale, oppure 5. Certificato di morte dei genitori degli adottanti 6. Certificato rilasciato dal medico curante 7. Certificati economici: Mod. 101 oppure Mod. 740 o busta paga 8. Certificato generale del Casellario giudiziale dei richiedenti 9. Atto notorio oppure dichiarazione sostitutiva con l’attestazione che fra i coniugi adottanti (indicare le generalità) non sussiste separazione personale neppure di fatto»11. Successivamente, il magistrato affida ai servizi sociali il compito di procedere alle indagini sull’effettiva adeguatezza dei coniugi ad essere genitori adottivi: la loro situazione personale ed economica, la loro salute, l’ambiente familiare, i motivi per cui essi intendono procedere all’adozione. Le indagini devono essere svolte entro 120 giorni dalla presentazione della domanda da parte dei coniugi. Concluso questo iter, ascoltato il minore che abbia compiuto i 12 anni e ottenuto il consenso espresso del minore che abbia compiuto i 14 anni, il Tribunale dispone, in caso di esito positivo, l’affidamento preadottivo. Trascorsi 12 mesi, durante i quali i servizi sociali hanno l’obbligo di sorvegliare e quindi di effettuare i controlli affinché la situazione sia vantaggiosa sia per il minore che per la famiglia (il tutto dettagliatamente relazionato e depositato presso il Tribunale), il Tribunale per i minorenni provvede con sentenza in camera di consiglio decidendo di dar luogo o meno all’adozione. Tale provvedimento è impugnabile (entro trenta giorni dalla comunicazione del decreto di adozione) avanti alla sezione per i minorenni della Corte di Appello da parte del PM, degli adottanti e del tutore del minore; avverso la sentenza di secondo grado è ammesso ricorso in Cassazione per motivi di legittimità. Divenuta definitiva, la sentenza di adozione viene trascritta su apposito registro e annotata a margine dell’atto di nascita dell’adottato, ad opera dell’ufficiale di stato civile; per effetto dell’adozione, il minore acquista lo stato di figlio legittimo degli 11 www.intrage.it/approfondimenti/famiglia /adozione/procedure.pdf 24 adottanti, di cui assume e trasmette il cognome, mentre cessano i suoi rapporti con la famiglia di origine (salvi i divieti matrimoniali di cui all’art. 87 c.c.). È prevista anche la possibilità di revocare, giudizialmente, lo stato di figlio adottivo: - per indegnità di quest’ultimo e quando questi commetta gravi delitti nei confronti dell’adottante o della sua famiglia, come previsto all’art. 51 della l. n. 183/84; - per indegnità dell’adottante (art. 52 l.n. 183/84); - su richiesta del Pubblico Ministero, quando vi sia violazione degli obblighi gravanti sugli adottanti. 3. adozione dei minori “internazionale”. È disciplinata dalla l. 184/1983, artt. 29 – 43, riformata in seguito alla Convenzione dell’Aja, e relativa alla possibilità di adottare un minore straniero da parte di coniugi residenti in Italia o all’estero; sempre se sussistono le condizioni di abbandono e di cessazione degli effetti giuridici indicate nell’art. 31 della suddetta legge. Prima della riforma del 1983, l’adozione internazionale veniva disciplinata seguendo l’ordinamento di appartenenza dello Stato del minore. Nel 1998, con la l. n. 446, in Italia si comincia ad avere una regolamentazione ben precisa. Con essa viene istituita una Commissione Internazionale che rappresenta l’autorità centrale (la cui creazione è prescritta dalla Convenzione Aja, per ogni Stato) in grado di coordinare la cooperazione tra Stati di origine/accoglienza dei minori e che si occupa solo di adozioni internazionali ed ha sede presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. La Commissione attribuisce competenze specifiche (delega) in materia di adozioni internazionali ad enti “autorizzati” che non hanno finalità di lucro (ONLUS) e che sono regolarmente iscritti agli Albi (la cui attività è, di conseguenza, riconosciuta, controllata ed eventualmente modificata dalla Commissione stessa come descritto nel regolamento emanato con DPR n. 492/99). Questi enti hanno, inoltre, l’obbligo di trasmettere alla Commissione rapporti e relazioni annuali sull’attività svolta e le competenze ad esse attribuite sono dettagliatamente descritte nell’art. 31, comma 3 della l. n. 476/98 e corrispondono alle singole procedure che devono essere espletate per realizzare l’adozione internazionale. 25 L’atto che inserisce l’ente autorizzato nell’iter adottivo è la ricezione dell’incarico di seguire la procedura per l’adozione da parte degli aspiranti adottanti. Anche in questo caso abbiamo un procedimento articolato in più fasi. Per cominciare, i coniugi interessati devono presentare una dichiarazione di disponibilità presso il Tribunale per i minorenni competente per territorio (il Tribunale del distretto in cui si trova il luogo della loro ultima residenza o, in mancanza, il Tribunale di Roma) per la verifica della loro idoneità all’adozione. Pronunciata l’idoneità con decreto, il Tribunale ha 15 giorni per inoltrare la domanda ai servizi sociali che hanno 4 mesi di tempo per redigere una relazione sulla coppia e, quindi, avviare il contatto con il Paese straniero. A questo punto, viene risentita la coppia e, dopo 2 mesi, viene confermata o meno l’idoneità della stessa ad adottare il minore e, se l’esito è positivo, viene emesso il relativo decreto. Decreto che viene trasmesso dal Tribunale alla Commissione Internazionale e all’ente prescelto che si occupa di effettuare i contatti con il Paese straniero e che, ricevuto il mandato, ha il dovere di contattare le coppie per informarle sul procedimento di adozione e sulle reali possibilità di realizzazione dello stesso. Successivamente l’ente trasmette tutta la documentazione (la domanda di adozione, il decreto di idoneità e la relazione ad esso allegata con le indicazioni necessarie alla formulazione delle proposte di incontro tra gli aspiranti genitori e il minore da adottare; è ivi compresa anche la relazione dei servizi sociali) all’Autorità straniera che si occupa di adozioni. Si informano anche i genitori del minore, qualora vi siano, e iniziano i primi contatti. L’ente è ora chiamato a verificare la completezza delle informazioni inerenti il minore e a comunicare tutte le notizie in suo possesso e la proposta di incontro, agli aspiranti adottanti da cui deve ricevere un consenso scritto. Quest’ultimo è trasferito all’Autorità straniera, previa autenticazione delle firme da parte di un impiegato comunale, un notaio, un segretario di qualsiasi ufficio giudiziario o dell’ente stesso. A questo punto l’Autorità straniera pronuncia il provvedimento di adozione e affida il minore ai genitori adottivi e provvede, successivamente e mediante l’ente, a darne comunicazione sia al Tribunale che ai servizi sociali e alla Commissione. 26 Infine, quest’ultima, valutato tutto l’iter procedurale, autorizza l’ingresso e la permanenza del minore in Italia, il quale, diventa figlio legittimo e acquista la cittadinanza italiana per effetto della trascrizione del provvedimento dell’adozione nei registri dello stato civile (su ordine del Tribunale per i minorenni). In questa fase, un’altra funzione è stata attribuita agli enti autorizzati: sostegno alla coppia, su richiesta degli adottanti, nella formazione del nuovo nucleo familiare. Infine, a proposito degli enti autorizzati, secondo il disposto dell’art. 39ter della legge n. 183 del 1984, come modificato dalla legge n. 476 del 1998, per ottenere l’autorizzazione alla gestione delle pratiche di adozione internazionale devono possedere le seguenti caratteristiche: “a) essere diretti e composti da persone con adeguata formazione e competenza nel campo dell'adozione internazionale, e con idonee qualità morali; b) avvalersi dell'apporto di professionisti in campo sociale, giuridico e psicologico, iscritti al relativo albo professionale, che abbiano la capacità di sostenere i coniugi prima, durante e dopo l'adozione; c) disporre di un'adeguata struttura organizzativa in almeno una regione o in una provincia autonoma in Italia e delle necessarie strutture personali per operare nei Paesi stranieri in cui intendono agire; d) non avere fini di lucro, assicurare una gestione contabile assolutamente trasparente, anche sui costi necessari per l'espletamento della procedura, ed una metodologia operativa corretta e verificabile; e) non avere e non operare pregiudiziali discriminazioni nei confronti delle persone che aspirano all'adozione, ivi comprese le discriminazioni di tipo ideologico e religioso; f) impegnarsi a partecipare ad attività di promozione dei diritti dell'infanzia, preferibilmente attraverso azioni di cooperazione allo sviluppo, anche in collaborazione con le organizzazioni non governative, e di attuazione del principio di sussidiarietà dell'adozione internazionale nei Paesi di provenienza dei minori; g) avere sede legale nel territorio nazionale”. 4. adozione dei minori in casi particolari, disciplinata dalla l. 184/1983, artt, 44 – 57. I «casi particolari» di questo tipo di adozione di identificano nella possibilità di adozione: 27 - da parte di persone unite al minore (orfano di padre e di madre) da vincoli di parentela fino al sesto grado o da rapporto stabile e duraturo preesistente alla perdita dei genitori; - da parte del coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; - quando vi sia l’impossibilità (provata) di affidamento preadottivo; es. minore portatore di handicap. In quest’ultimo caso è previsto al comma 8, art. 6 della l. n. 149/01 che: «Nel caso di adozione dei minori di età superiore a dodici anni o con handicap accertato ai sensi dell'articolo 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, lo Stato, le regioni e gli enti locali possono intervenire, nell'ambito delle proprie competenze e nei limiti delle disponibilità finanziarie dei rispettivi bilanci, con specifiche misure di carattere economico, eventualmente anche mediante misure di sostegno alla formazione e all'inserimento sociale, fino all'età di diciotto anni degli adottati». Tra adottato ed adottante deve sempre esserci una differenza di età compresa tra i 18 e i 45 anni. 28 CAP. II - IL DIRITTO DELL’ADOTTATO A CONOSCERE LE PROPRIE ORIGINI: “UNA LUNGA STORIA”. È, ormai, consolidata l’idea che per completare il proprio sviluppo e costruire una propria identità personale, completa, l’individuo deve conoscere non solo la realtà in cui è inserito e opera e in cui dovrà vivere ed operare nel futuro, ma anche il suo passato: le sue origini, la sua storia personale, i suoi affetti, etc. Questo processo gli permette di trovare delle risposte alle classiche domande filosofiche, meglio conosciute come dubbi esistenziali:“chi sono?”, “da dove vengo?”, “cosa ci faccio qui?”,etc. Come tutti gli individui, quindi, anche coloro che sono stati adottati hanno il diritto di conoscere il loro status di figlio adottivo e di accedere alle informazioni relative alla propria nascita, quindi alle generalità dei propri genitori biologici. Questo però, non sempre è possibile e quando lo è, vi sono alcune condizioni a cui il soggetto adottato deve sottostare. Quanto appena detto si verifica perché sono molti gli “interessi in gioco” in questo tipo di procedura; infatti, e tra le altre cose, deve essere valutato: • quale tipo di reazione può provocare sul soggetto adottato, la conoscenza delle proprie origini; • a quali “rischi” va incontro il rapporto tra famiglia adottiva/soggetto adottato nel momento in cui quest’ultimo vuole ristabilire un contatto con la propria famiglia di origine; • fino a che punto vengono lesi i diritti personali dei genitori biologici i quali, permettendo la dichiarazione dello stato di adottabilità del proprio figlio, hanno acconsentito (conseguentemente) all’interruzione di qualsiasi rapporto con il figlio stesso lasciando che “altri” si prendessero cura di lui. Guardando all’evoluzione storica possiamo analizzare il tema dell’informazione all’adottato sulle proprie radici, partendo dall’esame dell’esperienza statunitense, continente le cui “sperimentazioni” in materia si sono poi estese agli altri continenti. In America si è assistito, in un primo momento, al riconoscimento, all’adottato, della possibilità di venire informato sulla famiglia di origine. 29 Diritto ammesso sulla carta ma, effettivamente, non riscontrabile nella pratica dove spesso andavano distrutte tutte le informazioni sulla genitorialità biologica al fine di salvaguardare la famiglia adottiva da probabili intrusioni della prima. Questo atteggiamento era anche dettato, però, dal disprezzo verso le persone che abbandonavano e maltrattavano i propri figli e quindi era come una sorta di punizione che non permettesse loro di ricostruire la famiglia perduta, una “pena” che li condannasse alla perdita definitiva della loro stessa prole. Fra gli anni ’20 e ’50 del XX secolo si assiste ad un inversione di tendenza anche, e soprattutto, a livello legislativo che porta all’imposizione della regola della segretezza, sia a livello teorico che pratico, collegata ai cosiddetti “archivi chiusi”. Questa nuova concezione si và consolidando nel tempo a causa della diffusione del pensiero secondo il quale è determinante, nella formazione della personalità dell’individuo, l’elemento sociologico più di quello psicologico; sarebbe, di conseguenza, più importante non il fattore genetico dell’adottato, quanto l’ambiente in cui è inserito e in cui vive. Da quanto sopra scritto possiamo dedurre che passa in secondo piano la conoscenza delle proprie origini, l’importante sarebbe che l’individuo cresca in un ambiente sereno che gli permetta di esplicitare al meglio tutte le sue facoltà, che non subisca traumi di alcun tipo, che sia ben inserito non solo nel contesto familiare ma anche in quello sociale; perché questo (e altro) avvenga, assumono un ruolo fondamentale i genitori, siano essi biologici o adottivi. L’importante è che chi è chiamato a farlo riesca a esercitare il “mestiere più difficile del mondo”: ESSERE UN BUON GENITORE. Questo modello si estende e trova ampi consensi anche in Europa. Siamo agli anni ’70 ed è a partire da questi anni che assistiamo ad una nuova inversione di tendenza che parte sempre dagli Stati Uniti per poi estendersi in Europa. Non è importante solo il dato sociale. Certamente un individuo deve crescere in condizioni di vita ottimali, ma il fattore genetico non è assolutamente un dato secondario. Solo conoscendo le proprie origini si può completare il processo di identità che non dovrebbe essere negato a nessuno. La propria storia familiare deve essere chiara a tutti. 30 È solo conoscendo il nostro passato che possiamo vivere pienamente il presente e, così, proiettarci nel futuro; ed è solo così che non avremo mai quella sensazione di vuoto che cancella parte del nostro essere e non ci fa capire chi veramente siamo e cosa vogliamo da noi stessi, prima, e dagli altri dopo! In definitiva và sostenuta la causa secondo la quale ogni adottato deve avere la possibilità di accedere alle informazioni circa la sua origine sia familiare che genetica. In un Paese come l’Italia questo processo di cambiamento, questo nuovo modo di pensare non si è ancora affatto radicato anche se qualche passo verso questa direzione si è intrapreso come dimostra la stessa modifica all’art. 28 della l. n. 184/1983 (che tutelava il riserbo assoluto in merito alle origini del minore, il cui stato adottivo non doveva essere menzionato in alcuna attestazione di stato civile) avvenuta con la l. n. 149/2001. Viene riconosciuto allora, e finalmente, per tutte quelle persone che sono venute a conoscenza della loro “natura” di adottato, il diritto a conoscere il proprio passato. Tuttavia (come in tutte le cose) non mancano dei limiti a questo tipo di riconoscimento che spesso influiscono sulla possibilità dell’adottato di avere le informazioni a loro attinenti; limiti quali l’età giusta per poter accedere alle informazioni, le circostanze che devono verificarsi, la volontà dei genitori biologici di mantenere l’anonimato. Una volta superati questi limiti è estremamente opportuno che l’adottato goda di un forte sostegno psicologico che lo aiuti ad accettare, comunque, quello che rappresenta uno dei più grandi traumi per un adottato come scoprire il perché è stato abbandonato (e non sempre il motivo è giustificabile, quale può essere, ad esempio, l’impossibilità economica di mantenere un bambino) o, ancor peggio, scoprire che è stato sottratto ai genitori biologici perché soggetto a trascuratezza e maltrattamento da parte degli stessi. 31 2.1 Gli ostacoli nel percorrere la strada della conoscenza del passato. Il diritto riconosce, come «primaria esigenza», quella di «far crescere il bambino nella famiglia di origine, sacrificabile solo in caso di pregiudizio grave, non superabile attraverso l’insieme di tutti i possibili sostegni concreti»12. Questo comporta la necessità di fare una valutazione seria della realtà concreta in cui il soggetto è inserito; ovvero si rende «necessario verificare, in base a riscontri obiettivi, il pregiudizio che la crescita in una famiglia disagiata comporterebbe all’equilibrio psico-fisico del bambino»13. Quando parliamo di pregiudizio ci riferiamo anche alla mancanza di volontà, quindi alla mancanza di cure affettive (non solo di cure materiali), che un genitore dovrebbe riservare ai propri figli. Ci possono essere diversi motivi che possono spingere i genitori a non volersi prendere cura del proprio figlio e a scegliere di darlo in adozione, nei casi a lieto fine; ad abbandonarlo, nei casi più drammatici e di cui i telegiornali ed i quotidiani ci portano costantemente a conoscenza. Ed è soprattutto per prevenire la diffusione di questi ultimi casi che il diritto cerca di trovare delle opportune soluzioni. Ritornando alla possibilità dell’adottato a poter accedere alle informazioni sulla propria origine, non può che essere messa al centro della questione, la l. n. 149/2001. Innanzitutto l’adottato deve essere messo al corrente dai propri genitori di essere un figlio adottivo e, proprio a tal proposito, la legge 149/01 nell’art. 24, comma primo, recita: “Il minore adottato è informato di tale sua condizione ed i genitori adottivi vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono opportuni”. È la prima volta che viene ufficialmente riconosciuto il diritto alla verità ma anche, e soprattutto, il dovere dei genitori adottivi ad onorarlo, dovendosi occupare loro stessi di informare il minore del suo status di adottato, ricorrendo alla cosiddetta “verità narrabile” (cioè la storia delle sue origini sottoforma di un racconto sprovvisto dei particolari che potrebbero compromettere negativamente lo sviluppo della sua personalità) che contribuisce alla formazione e costruzione dell’identità dell’individuo stesso. 12 13 M. E. LA TORRE, “Il diritto di famiglia e delle persone”, 2006, Giuffrè editore, 1647 M. E. LA TORRE, “Il diritto di famiglia e delle persone”, 2006, Giuffrè editore, 1648 32 «Risulta modificato pertanto significatamene il sistema protettivo assicurato dall’art. 28 l. n. 184/1983, diretto, nella formulazione originaria, ad impedire – al soggetto adottato allo stesso modo che ai terzi – la conoscenza di dati relativi sia al rapporto di filiazione costituito con il provvedimento di adozione sia al rapporto di filiazione biologico»14. Al quinto comma dell’art. 24 viene precisato che “L’adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, può accedere ad informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica…” e, continuando, all’ottavo comma, troviamo: “l’autorizzazione del tribunale dei minori non è richiesta per l’adottato maggiore d’età quando i genitori adottivi sono deceduti o divenuti irreperibili”. In merito a quanto appena enunciato, dobbiamo aggiungere che, attraverso la nuova legge italiana sull’adozione, la soddisfazione dei figli adottivi è parziale in quanto rimangono ancora interrogativi e polemiche irrisolte che riguardano, ad esempio, la scelta della soglia d’età, venticinque anni, al di sopra della quale sarebbe possibile richiedere, laddove siano disponibili, informazioni riguardo alle proprie origini; rimane, infatti, oscuro il motivo di una tale scelta quando di contro sarebbero sufficienti i diciotto anni (comma 4, art. 24 della l. n. 149/01) per risalire alle stesse informazioni nel caso si tratti di figli adottivi rimasti orfani dei genitori adottivi. In tutti i casi il procedimento, che è di natura non contenziosa e di competenza del Tribunale per i minorenni, conferisce una facoltà piena all’adottato (che implica un’azione di tipo positivo, da far valere cioè attraverso una specifica istanza all’organo competente – il Tribunale dei minorenni ove lo stesso risiede - atta a perseguire la finalità da lui dichiarata) ed è basato sull’ascolto, non solo dell’adottato, ma anche di tutte le persone che sono direttamente coinvolte in questa pratica avviata dal soggetto, di tutte quelle persone, cioè, che il Tribunale designa come “meritevoli” di prendervi parte attiva. Il procedimento, inoltre, deve essere avviato solo in seguito all’acquisizione di tutte le notizie di carattere psico-sociale sull’adottato, al fine di valutare se, effettivamente, il richiedente è in grado di avere accesso alla conoscenza delle proprie origini, di 14 M. PETRONE, “Il diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini”, 2004, Giuffrè editore, 3-4 33 qualunque natura sia la verità che riguarda il suo passato, senza che questo rappresenti un ulteriore trauma (sia esso a livello psichico e/o fisico) per colui che ha voluto esercitare quello che è un suo diritto (come previsto al comma 6 dell’art.24 della suddetta legge). Solo in questo caso il Tribunale emana un decreto di autorizzazione. Infatti, venire a conoscenza dell’identità dei propri genitori biologici, o anche solo di informazioni che li riguardano, è certamente un’esperienza emotiva di massima consistenza che, non è escluso, potrebbe anche causare delle dolorose delusioni, riaprire delle ferite che, in qualche modo, con l’affetto della famiglia in cui il soggetto è inserito, erano state lenite. L’art. 24 della l. n. 149/2001 «ha previsto per la prima volta nell’ordinamento l’espresso riconoscimento del diritto dell’adottato ad ottenere informazioni circa la sua origine e i suoi genitori naturali, in attuazione dell’art. 30 della Convenzione internazionale dell’Aja sull’adozione internazionale del 29 maggio 1993, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. n. 478 del 1998, in base alla quale le autorità competenti di ciascuno Stato contraente conservano con cura le informazioni in loro possesso sulle origini del minore, in particolare quelle relative all’identità della madre e del padre, ed i dati sui precedenti sanitari del minore e della sua famiglia, ed assicurano l’accesso del minore o del suo rappresentante a tali informazioni, con l’assistenza appropriata, nella misura consentita dalla legge dello Stato»15. L’Anfaa ( Associazione Nazionale delle Famiglie Adottive ed Affidatarie ) si è opposta, però, ed ha fortemente contestato l’articolo del disegno di legge che riconosce, al figlio adottivo, il diritto a rintracciare le sue origini, ritenuto «in contrasto palese con la specifica ratio ispiratrice dell’adozione legittimante che, con la cesura di qualsiasi legame con la famiglia di origine (art. 27 ult. Comma l. n. 184/1983 non modificato dalla novella n. 149/2001), esalta il ruolo della famiglia adottiva quale unica vera famiglia»16. Infatti, la paura delle famiglie affidatarie è proprio quella di crescere un bambino che viene considerato come un vero e proprio figlio e poi vedersi mettere in secondo piano dallo stesso che è mosso dal desiderio di avere, soprattutto, delle risposte. Questo, naturalmente, non è un discorso che si può generalizzare. Non tutte le famiglie affidatarie si oppongono alla volontà del figlio di 15 G. GALUPPI ne “Il diritto di famiglia e delle persone”, 2005, Giuffrè editore, 919-920 M. PETRONE, “Il diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini”, 2004, Giuffrè editore, 5 16 34 avere notizie sulla sua provenienza, anzi si offrono come aiuto in questa “ricerca”. Opporsi costituisce solo una sofferenza in più se si considera che la maggior parte delle persone adottate è assolutamente certa di avere il diritto di cercare ed ottenere i propri atti di nascita. A questo punto è bene fare una distinzione tra: «il caso in cui il contenuto delle informazioni che possono essere fornite e le cautele delle quali devono essere circondate siano tali da impedire di identificare le persone dei genitori d’origine; il caso in cui non sono previsti limiti a tal fine, sicché l’informazione porta inevitabilmente all’identificazione personale»17. Nel primo caso sono fondamentali, soprattutto, le cartelle cliniche per tutelare la salute e prevenire possibili malattie; infatti, anche se esistono procedure che consentono l’accesso alle informazioni per emergenze mediche, il tempo necessario per ottenere i permessi è spesso troppo lungo. In questo caso, quindi l’interesse prioritario è quello di tutelare la propria persona e non quello di stabilire un contatto con la famiglia di origine. Cosa che, invece, diventa principale nel secondo caso dove la persona adottata vuole avere notizie sui propri “veri” genitori per completare il suo processo di crescita e per esigenze psicologiche. Ottenute le informazioni, il gradino successivo, in questo secondo caso, è costituito proprio dalla ricerca fisica tra persone, da un contatto chiarificatore che permetta all’adottato, in primo luogo, di dare un volto a quella madre e a quel padre che, dal momento in cui è venuto a conoscenza del suo status, ha potuto solo immaginare e a cui, magari ha attribuito fattezze che gli appartengono (colore degli occhi, dei capelli, forma del viso e delle labbra, etc.). Può, in secondo luogo, trovare risposte alle sue domande, prima fra tutte sapere il perché è stato abbandonato e valutare se è il caso di ricostruire un rapporto oppure no! Sarebbe opportuno, a tal fine, riconoscere, ai figli adottivi ed ai genitori naturali, la possibilità di decidere per conto proprio se vogliono stabilire un rapporto oppure no, pur accettando dei limiti che impediscano che gli archivi vengano aperti pubblicamente o ai minorenni. Tuttavia, c’è da sottolineare come l’accesso alle informazioni sulla propria origine mette in gioco complicati meccanismi psichici che hanno a che fare soprattutto con due elementi fondamentali quali la 17 “Trattato di diritto di famiglia”, volume II: filiazione, 2002, Giuffrè editore, 616 35 cosiddetta “morte simbolica” dei genitori biologici ed il senso di colpa che si può sviluppare nei confronti della famiglia adottiva, intesa nel suo complesso (quindi anche nei confronti di eventuali fratelli e/o sorelle naturali o adottivi, presenti all’interno del nucleo). 2.2 Adozioni internazionali e diritto di “conoscere”. «Scarse indicazioni si traggono dal referente internazionale uniforme dell’art. 7 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, del 20 novembre 1989, resa esecutiva in Italia con l. n. 176 del 1991, che prevede espressamente il diritto del bambino a conoscere “nella misura del possibile” i suoi genitori e ad essere allevato da loro […] trattasi di norma finalizzata alla protezione dei minori dagli abusi della società degli adulti, ed il riferimento al diritto di conoscere i genitori appare, più che altro, una variabile verbale del diritto a che i bambini non siano loro sottratti per esigenze estranee alla crescita ed al benessere psico-fisico. Può solo rilevarsi che tale Convenzione, […], pone una sorta di primogenitura degli interessi del bambino rispetto a quelli della famiglia.[…] l’art. 30 della Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993 […] riconosce che “per lo sviluppo armonioso della sua personalità, il minore deve crescere in un ambiente familiare, in un clima di felicità, d’amore e di comprensione”; che “ogni Stato dovrebbe adottare, con criterio di priorità, misure appropriate per consentire la permanenza del minore nella famiglia d’origine”; che “l’adozione internazionale può offrire l’opportunità di dare una famiglia permanente a quei minori per i quali non può essere trovata una famiglia idonea nel loro Stato di origine”; e che “le adozioni internazionali si facciano nell’interesse superiore del minore e nel rispetto dei suoi diritti fondamentali, e che siano evitate la sottrazione, la vendita e la tratta dei minori”».18 Nell’adozione internazionale, la conoscenza delle proprie origini assume un’importanza ancora più elevata, in quanto l’adottato non solo è all’oscuro dell’identità della sua famiglia biologica ma anche della propria cultura, crescendo, così, in un contesto culturale che non è il suo. In particolare, se il minore è stato adottato sin da neonato, crescendo, coglierà presto le differenze con gli altri bambini, soprattutto se 18 G. GALUPPI ne “Il diritto di famiglia e delle persone”, 2005, Giuffrè editore, 922-923 36 sussistono caratteristiche somatiche evidenti o se l’ignoranza di alcune persone, trasmessa ai bambini, farà diventare il minore oggetto di scherno e/o di emarginazione dello stesso; se il minore adottato è già “grandicello”, invece, potrà incontrare ancor più ostacoli che lo porteranno a sentirsi come “un’estraneo” e a non sentire propria la cultura in cui viene inserito e a subire scherno anche in relazione alla pronuncia, che risulta più evidente quando si parla una lingua diversa da quella madre. Quanto detto comporta, quindi e necessariamente, una valutazione accurata della famiglia adottiva, la quale dovrà presentare tutti i requisiti idonei all’accoglimento di un minore “straniero” all’interno del proprio nucleo e capace di inserirlo in modo completo e salubre all’interno della società. Di fatti, la legge prevede che un minore può essere adottato da una famiglia residente in altro Stato solo nel caso in cui all’interno dello Stato del minore non sia stata valutata idonea alcuna famiglia per l’adozione dello stesso. « La regolamentazione del diritto di accesso del minore straniero alla conoscenza delle proprie origini e dell’identità dei genitori naturali è affrontata con una specifica disposizione, l’art. 37, collocato sistematicamente nel titolo III del capo I dedicato all’adozione dei minori stranieri…»19 ,articolo che prevede, naturalmente, che le informazioni comprendano anche “la provenienza culturale e nazionale” dell’adottato; le possibilità e modalità seguono quelle già viste per l’adozione nazionale. In merito all’accesso alle informazioni sulla propria origine, la legge 184/83 si è dimostrata in principio sfavorevole alla segretezza dell’identità genitoriale. La Convenzione Aja, invece, aveva già previsto, al comma 2 dell’art. 30, che il minore adottato, nonché il suo legale, possono accedere alle informazioni sull’origine del primo, in conformità a quanto previsto dalla legge dello Stato in questione e sotto la guida e assistenza delle sue autorità, competenti in materia. Ancora più incisiva è la Convenzione di New York, che riconosce al fanciullo: • all’art. 7, la possibilità di accedere alle informazioni sulla propria origine; • al successivo art. 8, il diritto di preservare la propria identità; 19 M. PETRONE, “Il diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini”, 2004, Giuffrè editore, 64 37 • all’art. 13, la libertà di espressione ( ivi compresa quella di ricercare, ricevere e divulgare informazioni. Infine, agli artt. 20 e 21, sono elencati i criteri generali per la conformazione delle linee dell’istituto. «Né è possibile trascurare, […], le indicazioni provenienti dalla Raccomandazione 1443 (2000) del Consiglio d’Europa…» che «…fa appello al Comitato dei Ministri affinché inviti gli Stati membri, tra l’altro, ad assicurare il diritto dei bambini adottati a conoscere le proprie origini “al più tardi al raggiungimento della maggiore età” e ad eliminare dalla legislazione nazionale ogni clausola contraria»20. Comunque, in tutti i casi, il diritto da tutelare in maniera “immediata e diretta” è quello relativo alla salute, grazie al quale è possibile acquisire informazioni sulle proprie origini, presentando richiesta direttamente alla Commissione per le adozioni: il che non richiede alcuna autorizzazione da parte del Tribunale dei Minori. 2.3 Gli oppositori e l’atteggiamento di alcuni Paesi in materia di adozioni Tra gli oppositori degli “archivi aperti”, come abbiamo già visto, troviamo l’Anfaa; ma è solo l’associazione più famosa. Infatti, appartengono a questa “categoria” anche tutti coloro che vedono nell’apertura degli archivi una sorta di catastrofe che avrebbe come immediata conseguenza un calo significativo delle adozioni ed un aumento delle interruzioni di gravidanza. A questo và aggiunto il convincimento che il riconoscimento di questo diritto corrisponderebbe, nei fatti, al mutamento del comportamento dei figli adottivi nei confronti dei propri genitori adottivi, spingendoli ad atteggiamenti di ingratitudine ed irriverenza. Questo porterebbe a due conseguenze molto negative: - in primo luogo, condurrebbe al fallimento delle relazioni adottive, infondendo, tra le altre cose, una profonda sofferenza nei genitori adottivi che hanno fatto di tutto per garantire il 20 M. PETRONE, “Il diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini”, 2004, Giuffrè editore, 70 38 meglio, sia moralmente che materialmente, al “loro” bambino e che l’hanno visto crescere e ora allontanarsi improvvisamente per ricercare chi? Chi lo ha abbandonato! Inoltre, in questi casi, un genitore adottivo, non può opporsi alla volontà del figlio di voler conoscere i propri genitori biologici perché questo susciterebbe un sentimento di odio, nei loro confronti, da parte dell’adottato stesso. Quindi i genitori adottivi non possono che rimanere inermi o, ancora una volta, essere di aiuto; - in secondo luogo (che poi è strettamente collegato a quanto appena sostenuto), il riconoscimento di questo diritto, scoraggerebbe il ricorso all’adozione per il timore della sofferenza che potrebbe arrecare alla coppia l’eventuale ricongiungimento del proprio figlio adottivo con la sua famiglia naturale. In definitiva, si ha la paura che avvenga quanto, effettivamente avviene ricorrendo all’istituto dell’affido a cui “partecipa” solo chi ha la preparazione psicologica per reagire all’allontanamento della persona che gli è stata affidata e con la quale, comunque, deve stabilire una relazione affettiva e offrire delle condizioni di vita ideali. Tutto questo, come è stato dimostrato, non è vero nella maggioranza dei casi, quindi non si può affatto generalizzare. Nei Paesi nord europei, ad esempio, in cui c’è una realtà totalmente diversa da quella italiana e in cui la legislazione consente l’apertura degli archivi da tempo, c’è una diminuzione delle adozioni ma, questo, è un fenomeno che è stato collegato: alla forte denatalità degli ultimi decenni; al ricorso massiccio a pratiche contraccettive ormai alla portata di tutti, anche dei più giovani; all’educazione ricevuta dalla scuola; all’informazione proveniente dai mezzi di comunicazione; etc. Ma, senza andare troppo lontano dall’Italia, esaminiamo quella che è la situazione in Svizzera, circa il tema trattato. Riporto, di seguito, il testo integrale trovato su “Il Portale Svizzero”: «Le informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici possono essere iscritte nel registro delle nascite o nel registro delle famiglie. Ogni figlio adottivo ha il diritto di ottenere informazioni sull’identità dei propri genitori biologici, anche senza il loro consenso. Fondamentalmente, solo le persone adottate hanno accesso ai dati 39 personali concernenti la loro adozione, e ciò a partire dal 18° anno di età. Prima di allora l’accesso a questi dati è molto più limitato; il figlio deve provare di avere un motivo valido (ad es. se l’incertezza delle sue origini minaccia gravemente il suo stato di salute fisico o psichico). Prima di trasmettere al figlio i dati in questione, l’autorità cantonale di sorveglianza informa i genitori biologici. I cantoni designano un ufficio dove il figlio adottivo può ottenere la necessaria consulenza. I genitori biologici possono conoscere l’identità dei genitori adottivi, ma solo con il consenso di questi ultimi. Ogni autorità che dispone di informazioni relative all’identità dei genitori biologici di un figlio adottivo è tenuta a comunicarle agli aventi diritto, a meno che il Cantone non abbia istituito un’autorità centrale che coordina le pratiche. In particolare, l’autorità cantonale responsabile dello stato civile è competente per rilasciare queste informazioni. La persona adottata deve rivolgersi all’autorità cantonale di vigilanza del proprio luogo di nascita oppure, in caso di nascita all’estero, alle autorità del proprio Comune di attinenza»21. In America, invece, dove l’accesso agli archivi è negato in alcuni stati e non in altri, emerge che è proprio negli stati in cui vige l’apertura degli archivi che è più alto il tasso di adozioni. Questo dimostra che la possibilità di essere un giorno rintracciate e di poter, di conseguenza, rivedere un giorno il proprio bambino, incoraggerebbe, invece di inibire, il “ricorso” all’adozione da parte delle madri. Diminuisce, in questo modo, il ricorso all’I. V. G. e si può riscontrare anche una significativa diminuzione dei maltrattamenti o abbandoni (in diversi luoghi) e, soprattutto gli infanticidi nei confronti di bambini non voluti o che “sono arrivati nel momento sbagliato” e mancano i giusti requisiti per permettere loro uno stile di vita dignitoso. È da sottolineare, inoltre, che l’esperienza e quindi la dimostrazione di quelle che in tempi remoti potevano rappresentare solo delle ipotesi, insegna che, quando la ricerca delle proprie origini viene sostenuta e incoraggiata dai genitori adottivi, non si fa altro che andare a consolidare i rapporti all’interno della famiglia adottiva. Chi non sarebbe grato a delle persone che incondizionatamente si sono prese cura di un bambino che i propri genitori hanno avuto il “coraggio” di abbandonare? L’affetto nei loro confronti non può allora che aumentare: una famiglia ha accettato di prendersi cura di uno 21 www. ch.ch 40 “sconosciuto” e l’ha fatto perché lo voleva, senza costrizione alcuna. Come si può non riconoscere questo ai genitori adottivi? Il cui desiderio più grande era avere un figlio a cui dare tutte le attenzioni possibili? Inoltre, i genitori adottivi possono ancora una volta rappresentare un grosso sostegno per l’adottato il quale, una volta ottenuta la concessione a conoscere le proprie origini può acquisire verità dolorose (come già esposto, sopra). Il rischio di scoprire una verità sconvolgente, però, non deve e non può legittimare l’oblio, la cancellazione definitiva del passato di chi viene adottato ma deve indurre ad usare estrema cautela, a preparare e supportare adeguatamente i protagonisti di questa esperienza che dovrebbe essere, dove la situazione lo richiede, mediata da figure di riferimento competenti e, naturalmente, dalla famiglia adottiva che, più di tutti, conosce la persona adottata. CAP. III - IL CASO PARTICOLARE: L’ANONIMATO DELLA MADRE 41 «L’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo». Così recita l’art. 24 della l. n. 149/01 al comma sette. Nella prima fattispecie, parliamo del cosiddetto “figlio d’ignoti”; implicita è la scelta della madre di ricorrere al “parto anonimo”, garantito dall’art. 30 d.P.R. n. 396/2000 (Regolamento per l’ordinamento dello stato civile) e dalle norme in materia di assistenza al parto. Viene allora avviata la procedura di adozione prevista al comma 2 dell’art. 11, l. n. 149/01; nella seconda fattispecie, parliamo di un minore riconosciuto o legittimo ma i cui genitori (o solo uno di essi) optano per la sua adozione, a patto di rimanere anonimi. In questo caso, è possibile solo individuare l’eventuale rifiuto della madre, contenuto nell’atto di nascita e/o il certificato di assistenza al parto; impossibile individuare il rifiuto del padre non contenuto da nessuna parte. È prevista, inoltre, la possibilità che al momento dell’adozione, in Tribunale si presentino anche i genitori biologici, i quali possono decidere di non nascondere i loro dati anagrafici ai genitori adottivi e al figlio, al fine di garantire, più facilmente, all’adottato il diritto a conoscere le proprie origini; la terza fattispecie sussiste quando uno dei genitori biologici abbia prestato il proprio consenso all’adozione, condizionandolo però al suo rimanere ‘anonimo’ e fa esplicito riferimento all’adozione internazionale di minori il cui Paese di origine non rientra nella Convenzione Aja. La Convenzione Aja prevede che ciascuno Stato conservi con cura le informazioni sull'origine del minore ma lascia, a ciascuno Stato, la libertà di regolare l’accesso agli stessi. Nel diritto di famiglia italiano è riconosciuta, alla madre, la possibilità di rifiutare di essere nominata nell’atto di nascita: il figlio assume, di conseguenza e unicamente per sua decisione, lo stato di figlio d’ignoti. Questa possibilità di non riconoscere il figlio partorito e mantenere segreta la propria identità, ha comportato una notevole diminuzione degli aborti, degli infanticidi e degli abbandoni in condizioni rischiose per l’incolumità dei neonati. Ma, allo stesso tempo, ha acceso nuovi dibattiti: 42 - in merito alla conoscenza delle proprie origini (in tutti quei Paesi in cui l’anonimato della madre ha validità “eterna”), da un lato, - il diritto alla riservatezza e all’anonimato garantito dal Codice privacy, D.lgs. 31 maggio 2003, n. 196 (protezione dei dati personali e riservatezza), che all’art. 177. comma 2, incide sulle disposizioni soggette al giudizio di legittimità, dall’altro. L’accesso alle informazioni è consentito, quindi, all’adottato, purché la madre non abbia dichiarato (all’atto della nascita) la sua volontà di non voler essere nominata, rimanendo anonima. Nonostante le recenti normative hanno comportato significativi progressi in questo campo, la segretezza illimitata su qualsiasi notizia che possa portare l’adottato (da adulto) alla conoscenza delle proprie origini, persiste e prevale sugli altri diritti; come, di conseguenza, persiste l’impossibilità per i genitori naturali di risalire all’identità di quel figlio che non hanno riconosciuto “per tempo” e indipendentemente dalle motivazioni che hanno comportato tale scelta. È importante, in questo contesto, sottolineare come la maggior parte delle donne che abbandonano i loro figli neonati sono madri giovani, e la quasi totalità di queste è “sola” (cioè non ha un partner). In tutti i modi, sarebbe opportuno, perlomeno che, nel momento in cui una madre decida di non riconoscere il nascituro, i servizi raccogliessero la più ampia gamma possibile di notizie, anche sanitarie, sui genitori biologici e che una vasta documentazione sulla vita del bambino (dal momento della nascita fino a quello dell’adozione) venga messa a disposizione dei genitori adottivi; sempre rispettando l’anonimato dei genitori omettendo solo gli elementi che potrebbero ricondurre alla coppia. In più, al comma 3 dell’art. 24, l. n. 149/01 (ex art. 28 l. n. 184/83) è previsto che: «L'ufficiale di stato civile, l'ufficiale di anagrafe e qualsiasi altro ente pubblico o privato, autorità o pubblico ufficio debbono rifiutarsi di fornire notizie, informazioni, certificazioni, estratti o copie dai quali possa comunque risultare il rapporto di adozione, salvo autorizzazione espressa dell'autorità giudiziaria. Non e' necessaria l'autorizzazione qualora la richiesta provenga dall'ufficiale di stato civile, per verificare se sussistano impedimenti matrimoniali». All’ufficiale di stato civile, quindi, deve essere rilasciata l’attestazione di stato civile contenente solo il nuovo cognome dell’adottato, salvo diversa disposizione. Inoltre, all’art. 73 della stessa legge è disposto che: « Chiunque essendone a conoscenza in ragione del proprio ufficio fornisce qualsiasi notizia atta a rintracciare un minore nei cui confronti sia 43 stata pronunciata adozione o rivela in qualsiasi modo notizie circa lo stato di figlio legittimo per adozione e' punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da lire 200.000 ( 103 euro) a lire 2.000.000 (euro 1032). Se il fatto e' commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni. Le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano anche a chi fornisce tali notizie successivamente all'affidamento preadottivo e senza l'autorizzazione del tribunale per i minorenni».« Ritornando al comma 7, di cui sopra, c’è da dire che la dichiarazione a cui si fa riferimento, viene resa all’ufficiale di stato civile (presso la direzione sanitaria dell’ospedale o il Comune di residenza dei genitori) da uno dei genitori, da un procuratore speciale, dal medico, dall’ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto (l. n. 127/97, Bassanini bis). La Circolare del 22 febbraio 1999 del Ministero di Grazia e Giustizia, per evitare confusione, ha sottolineato la differenza tra quella che è la "dichiarazione di nascita" e la "attestazione di nascita" (ora CeDAP, certificato di assistenza al parto) e i relativi documenti devono restare distinti perché hanno funzioni autonome e radicalmente separate. «La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l'eventuale volontà della madre di non essere nominata» (art. 30 D.P.R. 396/2000) e serve a redigere l’atto di nascita che, una volta inserito negli appositi registri dello Stato civile, conferiscono rilevanza giuridica all’evento: «nell'atto di nascita sono indicati il luogo, l'anno, il mese, il giorno e l'ora della nascita, le generalità, la cittadinanza, la residenza dei genitori legittimi nonché di quelli che rendono la dichiarazione di riconoscimento di filiazione naturale e di quelli che hanno espresso con atto pubblico il proprio consenso ad essere nominati, il sesso del bambino e il nome che gli viene dato ai sensi dell'articolo 35» (art. 29 del già citato D.P.R.); l’attestazione di nascita, invece e innanzitutto, può essere rilasciata esclusivamente dal personale sanitario che ha assistito al parto o che lo ha accertato in un momento successivo e riguarda il fatto fisiologico dell'avvenuto parto di un bambino da una certa donna; viene redatta secondo le indicazioni disposte nel D.M. 16 luglio 2001, n. 349, che, predispone anche lo schema da seguire nella redazione del CeDAP, individuando le generalità della puerpera tra i contenuti necessari. Anche se l’attestazione di nascita viene compilata in forma 44 anonima, la cartella clinica, oltre ad essere compilata apportando il codice 999, conterrà sempre le generalità della partoriente e tramite il collegamento tra la prima e la seconda imposto dalla legge è tecnicamente possibile risalire al nome e al cognome della madre dell’adottato tramite l’accesso alla cartella clinica custodita presso l’ospedale dove il bambino è stato dato alla luce. L’anonimato garantito dal comma 7, infatti, ha lo scopo di garantire alla madre la possibilità di partorire in una struttura ospedaliera (quindi in ambienti e in condizioni sicure e igieniche) e di distoglierla dalla scelta di abortire o di abbandonare il “frutto” di una gravidanza indesiderata. È per questi motivi che si ritiene necessario che (per sollecitare maggiormente le donne a dare la vita e una famiglia al bambino che portano in grembo) la segretezza sulle generalità deve essere assoluta ed illimitata nel tempo. Và sottolineato come questa segretezza si estende anche al padre e agli eventuali fratelli di un soggetto “abbandonato”; la volontà di conoscere o allacciare rapporti con i propri fratelli, in particolare, rischierebbe di collidere con il pari diritto di questi ultimi e dei loro genitori adottivi (se a loro volta sono stati adottati) a mantenere il segreto sulle origini. La riservatezza è necessario che venga garantita, in questi casi soprattutto, proprio perché la scelta di far nascere il bambino e di darlo in adozione sono state fatte proprio in relazione a questa condizione. 3.1 La “campagna Prestigiacomo” & il “ Movimento per la vita” Troppo spesso, se non quotidianamente, i media trasmettono notizie di neonati che vengono abbandonati da madri sole, giovani, disperate o semplicemente irresponsabili, e spesso tale loro scelta comporta la morte dei bambini abbandonati che, per mancanza di cure, per i luoghi in cui solitamente vengono lasciati (come nei cassonetti dell’immondizia) , per le condizioni in cui sono lasciati e a quelle a cui sono sottoposti non riescono a sopravvivere. Per ovviare a queste situazioni, in Italia, come in altri Paesi è possibile il parto anonimo: ogni donna può non riconoscere il figlio pur mantenendo il diritto di usufruire di tutta l’assistenza medico-sanitaria per il parto. Citiamo, in proposito: 45 l’art. 250 c. c. «La donna ha il diritto ad essere aiutata e informata sul fatto che può partorire senza riconoscere il figlio e senza che il suo nome compaia sull'atto di nascita. Il bambino quindi non avrà il suo cognome»; - l’art. 9 del R. D. L. 798/27 « È rigorosamente vietato rivelare il nome della madre che non intende riconoscere il figlio. Coloro che per motivi d'ufficio sono venuti a conoscenza del nome della madre, hanno il rigido divieto di rivelare tale conoscenza Artt. 163-177-622 Codice Penale…e commettono reato se lo rivelano». Si può non riconoscere il bambino, mentre è reato abbandonarlo. Se la donna trova insuperabili difficoltà, è possibile partorire in anonimato e rinunciare al figlio garantendogli, comunque, il diritto di crescere in una famiglia. Anche se clandestina, l’immigrata può far nascere il proprio figlio in una struttura pubblica senza temere di subire provvedimenti di espulsione. Se straniera e non in regola, la madre può chiedere un permesso di soggiorno per motivi di salute per il periodo di gravidanza e fino a 6 mesi dopo il parto, avendo altresì la possibilità di iscriversi al Servizio sanitario nazionale. - Il Ministro per le pari opportunità, Stefania Prestigiacomo, si è espressa in questi termini: "Mi farò promotrice di una iniziativa per pubblicizzare e far conoscere a tutte le donne, italiane e, soprattutto, immigrate, che è possibile partorire in ospedale senza lasciare le proprie generalità e lasciando il proprio bambino alla struttura sanitaria che provvederà ad avviarlo all'adozione. La normativa italiana in questa materia è avanzata, ma purtroppo poco conosciuta, soprattutto dalle fasce più a rischio della popolazione, mi riferisco in particolare alle donne immigrate, che magari temono di entrare in contatto con le istituzioni, fosse anche l'ospedale, perché non in regola col permesso di soggiorno o per timore di perdere il lavoro o ancora per altri motivi. La legge italiana protegge i minori e le madri e consente che qualsiasi donna che si reca in una struttura pubblica in prossimità del parto sia seguita e curata senza alcun obbligo di fornire le proprie generalità o altre informazioni sulla propria identità. È una normativa di civiltà che punta in primo luogo a proteggere la salute del bambino e quella della madre. Ed è una normativa che deve essere conosciuta. È inaccettabile 46 che nel nostro paese si continuino a lasciare neonati nei cassonetti o nelle stazioni. “La vita di un bambino è preziosa quanto la salute della madre, spesso costretta a partorire in condizioni sanitarie più che precarie. Tutto ciò si può e si deve evitare. Una campagna mirata e chiara su questo tema a questo punto credo sia doverosa e necessaria ed il Governo se ne farà carico in tempi brevissimi, accelerando un progetto già avviato dalla Commissione Nazionale Pari Opportunità. Questa iniziativa si affiancherà alle molte che già esistono nel mondo del volontariato, nell'ottica di una attiva collaborazione con quanti operano in questo campo per la massima diffusione ed efficacia di un messaggio di forte tutela per la vita dei bambini e per la salute delle madri”22. Per partorire in anonimato ci si può recare presso i centri ospedalieri pubblici della propria zona di residenza, nei reparti di ginecologia e ostetricia, o ci si può rivolgere alla A. S. L., ai servizi sociali, sanitari ed educativi. Uno dei tanti movimenti a sostegno della “campagna” promossa dal Ministro è il “Movimento per la vita”, presieduto da Carlo Casini, che però e in aggiunta, ha dato vita a una rete di “Culle per la vita”, strutture in grado di accogliere neonati e atte a venire incontro (soprattutto) a quelle donne che non possono/vogliono entrare in ospedale: il rifiuto del neonato riguarda soprattutto famiglie o madri straniere, sovente in condizioni di povertà e prive di permesso di soggiorno. Le “Culle per la vita”, rappresentano una nuova “forma”, una rielaborazione delle Ruote degli esposti che, in passato, sono state il simbolo della capacità di accoglienza della società verso i figli più deboli. Questa rete è stata, poi, integrata anche con un numero verde sempre attivo per l’ascolto e l’aiuto di donne gravide in difficoltà, nonché per raccogliere segnalazioni di emergenza, come l’abbandono di un neonato. 3.2 La Procedura Quando una donna decide di non riconoscere il proprio bambino, i due soggetti, agli occhi del diritto, appaiono come entità distinte a cui gli 22 Intervista tratta dal sito: www.gravidanzaonline.it 47 operatori sanitari, socio-assistenziali, amministrativi devono garantire l’attuazione dei loro diritti. 3.2.1 La madre Le visite di controllo rappresentano i momenti fondamentali in cui un operatore deve cogliere la “posizione” della donna in stato di gravidanza, come ella vive questo periodo, leggendo attraverso le sensazioni che trasmette. Le sensazioni non sono sempre positive ed è per questo che si parla dei cosiddetti “indicatori di difficoltà” dell’atteggiamento materno, tra cui: richiesta di praticare l’I.V.G. decorsi i 90 giorni (come previsto dalla l. n. 194/78), il rifiuto del feto con conseguente mancanza di cure e attenzioni verso lo stesso (es. donne che fumano anche gli ultimi mesi di gravidanza), gli “stati confusionali” relativi al futuro, la “paura” dei genitori per le ragazze gravide, etc. In questi casi è necessario che la donna venga seguita e ascoltata dal servizio sociale ospedaliero che provvederà, tra l’altro, a informarla sull’aiuto di cui può disporre e sui propri diritti. Se la donna ha intenzione di non riconoscere il futuro figlio si procede, garantendole la massima riservatezza, a fornirle informazioni dettagliate in merito alla normativa in materia (in particolare sul parto anonimo, sul non riconoscimento e sui suoi effetti) e aiutandola ad effettuare una scelta saggia e completamente consapevole. Un altro momento estremamente delicato, in cui le figure ospedaliere devono dimostrare la massima professionalità, è quello del parto: la donna deve essere inserita in un ambiente appartato, deve avere informazioni su tutte le persone che sono nella sala parto con lei e, soprattutto, non deve sentirsi giudicata per la scelta che ha fatto di non riconoscere il bambino. Una volta partorito, la donna può chiedere di vedere il bambino o di allontanarlo e può essere informata, qualora voglia, del suo stato di salute e del sesso del nascituro. Se la donna vuole allontanarsi subito dopo il parto, prima delle dimissioni, và informata sulle norme che regolano il non riconoscimento e sulle procedure adottive che questo mette in atto, nonché andrà raccolta formalmente la sua volontà di non riconoscere il bambino. L’attesa delle dimissioni (che avviene in brevissimo tempo) può diventare, per la donna, un periodo lunghissimo. Altro momento critico: la donna può tornare sui suoi passi o persistere nella scelta e 48 ha 10 giorni di tempo per decidere cosa fare. La madre, quindi, ha tempo 10 giorni dalla data della nascita per riconoscere il neonato, successivamente, dall’undicesimo giorno viene dichiarato lo stato di abbandono e il Tribunale cerca una famiglia a cui affidare il bambino. Il rischio giuridico (la possibilità che il bambino debba ritornare alla famiglia di origine) permane per un breve periodo pari a circa due mesi, poi parte il periodo di 12 mesi di affido preadottivo, a conclusione dei quali l’adozione diventa definitiva. In questo caso la donna, prima di allontanarsi dall’ospedale lasciandovi il bambino, avrà un altro colloquio con un operatore qualificato, quale l’Assistente Sociale Ospedaliero che provvederà a rimarcare le informazioni alla madre, cogliere la decisione di non riconoscere, e farle prendere atto formale di quanto le è stato comunicato. Il tutto verrà messo in archivio, nella Direzione Sanitaria dell’Ospedale in questione, sempre dopo aver effettuato la dichiarazione di nascita integrata dall’indicazione “nato da donna che non consente di essere nominata”. Sarà l’Ufficiale di stato civile a dare nome e cognome al bambino; sarà la Procura della Repubblica, presso il Tribunale per i Minorenni, ad avviare la procedura di adottabilità, una volta dichiarato lo stato d’abbandono. 3.2.2 Il neonato Per tutto il periodo necessario al Tribunale dei Minori a nominare la coppia adottiva con i migliori requisiti, il bambino resta all’interno della struttura ospedaliero presso cui è nato, affidato alle cure del personale ivi operante. Sarà cura degli Assistenti Sociali, far pervenire al Tribunale una scheda sociale e una contenente i dati sanitari del neonato e quelli dei genitori biologici (il cui nome è naturalmente omesso) necessari per la tutela della salute del primo; dati che, al momento dell’incontro, saranno trasmessi anche ai genitori adottivi, unitamente ad una relazione clinica del bambino e ad altre informazioni relative alla sua cura e alla sua “vita” all’interno della struttura, dalla nascita fino a quel momento. La cartella clinica e tutti i documenti sanitari del bambino devono essere tenuti separati da quelli materni. 49 3.3 La sentenza n. 425 del 25.11.2005: Legittimo il divieto di accesso dell’adottato alle informazioni, ove la madre abbia dichiarato di non voler essere nominata. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 425/05, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, co. 7, della legge 184/1983, nel testo modificato dall’art. 177, co. 2, del Codice della Privacy (d.lgs. 196/03), sollevata dal Tribunale di Firenze, nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare l'adottato all'accesso delle informazioni sulle proprie origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non essere nominata da parte della madre biologica. La questione, sollevata dal Tribunale per i minorenni di Firenze, scaturisce dalla vicenda di un trentenne, adottato all'età di pochi mesi che, spinto dal desiderio di conoscere le proprie origini, chiedeva di poter accedere alle informazioni circa l'identità della madre biologica. Quest’ultima, però, al momento del parto, aveva dichiarato l'intenzione di non essere nominata. Il rimettente rivela, in proposito che, la negazione a priori dell'autorizzazione all'accesso alle notizie sulla propria famiglia biologica per il solo fatto che il genitore abbia dichiarato di non voler essere nominato, costituirebbe una violazione del diritto di ricerca delle proprie origini e dunque del diritto all'identità personale dell'adottato. La motivazione della sentenza: "la norma impugnata mira a tutelare la gestante che - in situazioni particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico e sociale - abbia deciso di non tenere con sé il bambino, offrendole la possibilità di partorire in una struttura sanitaria appropriata e di mantenere al contempo l'anonimato nella conseguente dichiarazione di nascita: e in tal modo intende, da un lato, assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio e, dall'altro, distogliere la donna da decisioni irreparabili per quest'ultimo ben più gravi. L'esigenza di perseguire efficacemente questa duplice finalità - continua la Corte - spiega perché la norma non preveda per la tutela dell'anonimato della madre nessun tipo di limitazione, neanche temporale. Invero la scelta della gestante in difficoltà che la legge vuole favorire – per proteggere tanto lei quanto il nascituro – sarebbe oltremodo difficile se la decisione di partorire in una struttura medica adeguata, rimanendo anonima, potesse comportare per la donna, in base alla stessa norma, il rischio di essere, in un imprecisato futuro e 50 su richiesta di un figlio mai conosciuto e già adulto, interpellata dall’autorità giudiziaria per decidere se confermare o revocare quella lontana dichiarazione di volontà. Pertanto la norma impugnata, in quanto espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda, non si pone in contrasto con l’articolo 2 della Costituzione". In merito all’art. 32 Cost.: «La violazione dell’art. 32 Cost., sotto il profilo del pregiudizio del diritto dell’adottato alla salute e all’integrità psico-fisica, è prospettata come conseguenza della lesione del suo diritto all’identità personale, garantito dall’art. 2 Cost.. La censura è quindi infondata per le ragioni sopra esposte » Infine, il Tribunale per i minorenni di Firenze aveva prospettato anche la violazione dell’articolo 3 Cost. in base alla «disparità di trattamento fra l’adottato nato da donna che abbia dichiarato di non voler essere nominata e l’adottato figlio di genitori che non abbiano reso alcuna dichiarazione e abbiano anzi subito l’adozione. Il rimettente ritiene irragionevole la scelta legislativa di vietare al primo l’accesso alle informazioni sulle proprie origini e consentirla invece al secondo, mentre l’equilibrio dell’adottato e quello dei genitori adottivi può essere esposto nell’ultimo caso ad insidie maggiori che non nel primo, nel quale il genitore biologico a distanza di anni potrebbe avere elaborato la condotta passata». La Corte costituzionale ha dichiarato infondate le sopra riportate argomentazioni «perché la diversità di disciplina fra le due ipotesi non è ingiustificata. Solo la prima, infatti, e non anche la seconda, è caratterizzata dal rapporto conflittuale fra diritto dell’adottato alla propria identità personale e quello della madre naturale al rispetto della sua volontà di anonimato». «La tutela del concepito, dunque, ha fondamento costituzionale, tuttavia, non può avere prevalenza assoluta sugli altri beni costituzionalmente tutelati, e, di più, non è interesse equivalente al diritto, non solo alla vita, ma anche alla salute, di chi è già persona (come la madre), visto che l’embrione persona ancora non è». Il riconoscimento normativo dell'interesse della madre all'anonimato secondo la sentenza del TAR - sarebbe giustificato "non solo da esigenze di tutela della riservatezza della persona, ma anche da superiori ragioni attinenti alla salvaguardia degli interessi, giuridici e sociali, sia della famiglia legittima e dei suoi componenti sia degli stessi figli non riconosciuti". 51 CONCLUSIONI 52 Con questo lavoro ho voluto offrire una panoramica sul che cosa significhi adottare ed essere adottato, soprattutto dal punto di vista giuridico. L’adozione è una realtà in continua evoluzione, nonché una tematica delicata da trattare; molto si è fatto e si sta facendo per favorire una genitorialità adottiva consapevole e matura. Solo in questo modo un bambino può crescere in un ambiente sereno e, solo in seguito all’istaurarsi di un rapporto di reciproca fiducia (tra i genitori adottivi e il bambino stesso), egli potrà vivere tranquillamente la sua “condizione” di adottato e acquisire ( già dai suoi genitori adottivi) quelle informazioni che gli sono necessarie per completare il suo percorso di maturità e di costruzione della propria identità personale. Aiutato dai genitori adottivi, il bambino potrà anche affrontare con più tranquillità e con la sicurezza di un valido sostegno, l’iter giuridico per accedere alle informazioni sul suo passato; non avendo, così, neanche il peso di fare un “torto” ai propri genitori, nella sua ricerca del passato. BIBLIOGRAFIA 53 L. 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