art. 35 ter .o.p. – decreto tribunale civile di venezia 20.3

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art. 35 ter .o.p. – decreto tribunale civile di venezia 20.3
TRIBUNALE DI VENEZIA
SEZIONE TERZA CIVILE
DECRETO
Nel procedimento iscritto al n. 2532/14 V.G.
Avente ad oggetto ricorso ex art. 35 ter legge 26/7/1975, n. 354, introdotto con decreto legge
26/6/2014, n. 92 (rimedi risarcitori in favore di detenuti e internati che anno subito un
trattamento in violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguarda dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali), convertito con legge 11/8/2014, n. 117
Promosso con ricorso depositato in data 4/8/2014 da
CAIO SESTO
Nato a XXXXXXX il 00/0/0000 – ricorrente in proprio
Contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA
Rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Venezia
IL GIUDICE
dott.Maurizio Gionfrida
Sciogliendo la riserva assunta all’udienza di discussione del 20/2/2015, osserva:
Il ricorrente, denunciando di essere rimasto ristretto in camera di detenzione nel periodo
compreso tra il 5/7/2008 e il 24/2/2014, con altri due detenuti, con una superficie totale
dell’ampiezza di tre metri per tre metri e mezzo, in condizioni contrarie ai principi dell’art. 3
della Convenzione EDU, ha chiesto il riconoscimento della tutela risarcitoria di cui all’art. 35
ter legge 26/7/1975, n. 354, e la conseguente condanna del Ministero della Giustizia al
risarcimento dei danni.
Il Ministero resistente, ritualmente costituito, ha eccepito preliminarmente:
1)
l’inammissibilità della domanda ai sensi dell’art. 2. comma 2. del D.L. n. 92/2014 in
ragione della pendenza del procedimento “CAIO c/ Repubblica Italiana” n. 69192/2013
avanti alla CEDU di Strasburgo, non avendo il ricorrente dimostrato che non sia
intervenuta decisione sulla ricevibilità del ricorso, al fine di evitare la duplicazione dei
procedimenti;
2)
inammissibilità della procedura per la mancata comunicazione della pendenza del ricorso
al Ministero degli Affari Esteri imposta dall’art. 2 del DL n. 92/2014 cit. ;
3)
inammissibilità della domanda per l’assoluta genericità della “causa petendi”.
Nel merito l’Avvocatura ha sostenuto l’infondatezza della domanda per insussistenza della
pretesa violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, deducendo che le
condizioni di detenzione del ricorrente rispettavano i criteri fissati dalla Corte CEDU con le note
sentenze 6/11/2009 Sulejmanovic, n. 22635/03, e 8/1/2013 Torreggiani e altri n. 43517/09,
posto che in tutte le celle nelle quali il ricorrente era stato ristretto lo spazio individuale
disponibile per il detenuto risultava superiore al limite di quattro metri quadrati, e in concreto
pari a m2 6,87, se computata la superficie dei bagni, ovvero a m2 3,09 se scomputata la sola
superficie occupata dai bagni, ma al lordo di mobili ed arredi costituenti la necessaria dotazione
delle celle.
L’eccezione preliminare riguarda l’applicazione della disposizione transitoria di cui all’art. 2
del decreto legge n. 92 del 2014. Il comma II dell’articolo citato consente ai detenuti che
abbiano già presentato ricorso alla Corte Europea, per violazione dell’art. 3 CEDU, di
presentare la domanda di risarcimento secondo le modalità e le condizioni di cui all’art. 35 ter
della legge n. 354 del 1975, quando non sia intervenuta una decisione sulla ricevibilità del
ricorso (da intendersi nel senso che il ricorso non sia ancora stato dichiarato ricevibile). Ed è
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con riguardo a tale ipotesi che il comma IV dell’art. 2 prescrive che la cancelleria del giudice
adito informi il Ministero degli Affari Esteri di tutte le domande presentate.
In proposito va osservato che la comunicazione a cura della cancelleria non costituisce
condizione di procedibilità del ricorso, ma semplice adempimento in funzione della verifica
dell’interferenza con il procedimento pendente innanzi alla Corte CEDU, e in specie
dell’assunzione in quella sede di una decisione sulla ricevibilità del ricorso. La conversione
del ricorso alla Corte CEDU con il rimedio risarcitorio deve, invero, ritenersi ammissibile
quando manchi ancora una statuizione della Corte o la stessa abbia sospeso l’esame del
ricorso in attesa della valutazione degli effetti della sentenza pilota “Torreggiani”, ovvero
abbia ritenuto il ricorso non ricevibile proprio in considerazione dell’adozione da parte del
Legislatore nazionale del nuovo rimedio risarcitorio di cui all’art. 35 ter cit. (vedasi sentenza
Stella e altri dieci c/ Italia del 16/9/2014 con la quale la Corte, sul rilievo che il principio di
sussidiarietà è alla base del sistema della Convenzione e che gli Stati non devono rispondere
dei loro atti dinanzi a un organismo internazionale prima di avere avuto la possibilità di far
riparare nel loro ordinamento giuridico interno gli inadempimenti denunciati, ha ritenuto che
“i ricorrenti, nella misura in cui affermano di essere stati detenuti in condizioni contrarie
all’articolo 3 della Convenzione, devono avvalersi del ricorso introdotto dal decreto legge n.
92/2014 allo scopo di ottenere a livello nazionale il riconoscimento della violazione e, se del
caso, una compensazione appropriata”, dichiarando per tale motivo i ricorsi irricevibili).
Peraltro nel caso in esame con ordinanza in data 19/12/2014 questo Giudice ha disposto la
trasmissione a cura della Cancelleria, di copia degli atti al Ministero degli Affari Esteri, in
ottemperanza alla previsione di cui all’art. 2, comma IV del d.l. n. 92 del 2014, e all’udienza
del 20/2/2015 il ricorrente ha esibito comunicazione della irricevibilità del ricorso ad opera
della Corte CEDU.
Ricorrono pertanto le condizioni di ammissibilità e procedibilità del ricorso.
Va inoltre disattesa l’eccezione di inammissibilità, rectius nullità, del ricorso per genericità
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dell’indicazione della causa petendi. E’ pur vero che il procedimento in esame, nonostante
l’assoggettamento alla trattazione con rito camerale di cui agli artt. 737 e ss. c.p.c. (voluto
dall’art. 1, comma III, del dl n. 92 del 2014), mantiene natura sostanzialmente contenziosa
sull’azione risarcitoria ed è quindi soggetto al regime delle nullità di cui all’art. 164 c.p.c.
compatibili con la struttura del ricorso definita dall’art. 125 c.p.c. (sul tema dell’applicazione
analogica dell’art. 164 c.p.c. al rito camerale si veda Cass. CASS Sez. 1, Sentenza n. 22153
del 25/10/2011). Tuttavia nel caso in discussione l’esame del ricorso e dei motivi aggiunti di
cui all’integrazione depositata il 19/9/2014 evidenzia che la richiesta concerne il risarcimento
per la detenzione subita in condizioni di sovraffollamento carcerario per il periodo compreso
tra il 5/7/2008 e il 24/2/2014 e il riferimento al ricorso inoltrato a suo tempo alla Corte CEDU
è chiara indicazione sostanziale della denuncia di una violazione dell’art. 3 della Convenzione
per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali del 1950, relativamente
al divieto di assoggettamento delle persone a pene o trattamenti inumani o degradanti. Non
ricorre pertanto omissione o assoluta incertezza dei fatti costitutivi della domanda, rilevante
quale causa di nullità, e la stessa appropriata difesa svolta dall’Avvocatura evidenzia che il
tema dell’azione era comprensibile e conosciuto. Né costituisce motivo di nullità il
riferimento ad altri profili, quali la generica denuncia di pestaggi o umiliazioni e calunnie,
che non vale ad ingenerare incertezza incolmabile sull’individuazione della domanda.
Nel merito va chiarito che il nuovo rimedio risarcitorio introdotto dall’art. 35-ter della
legge 26/7/1975, n. 354, è dichiaratamente volto ad attuare una peculiare tutela con riguardo
alle violazioni dell’art. 3 della Convenzione CEDU nei confronti di soggetti detenuti o
internati, e costituisce, come precisato nelle premesse del dl n. 92 del 2014 relative ai requisiti
di necessità ed urgenza di cui agli artt. 77 e 87 della Costituzione, specifica misura doverosa
in ottemperanza “a quanto disposto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza
dell’8 gennaio 2013 (causa Torreggiani e altri contro Italia), nella quale è stato stabilito che
lo Stato Italiano debba predisporre un insieme di rimedi idonei a offrire una riparazione
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adeguata del pregiudizio derivante dal sovraffollamento carcerario”. Da ciò consegue che
l’azione risarcitoria, malgrado il riferimento generico al disposto dell’art. 69, comma 6, lett. b,
dell’Ordinamento Penitenziario (concernente “l'inosservanza da parte dell'amministrazione di
disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al
detenuto o all'internato un attuale e grave pregiudizio all'esercizio dei diritti”), nella
speciale disciplina sostanziale e processuale in esame è volta specificamente ad indennizzare
il pregiudizio alla persona ristretta a causa delle condizioni di sovraffollamento, limitando il
tema dell’azione e della domanda a tale profilo. Laddove le altre condizioni della detenzione,
eventualmente denunciate come pregiudizievoli, non si profilano come autonome cause di
danno ma possono costituire – come si preciserà nell’esposizione che segue - motivo per
rafforzare o contrastare il rilievo della limitatezza dello spazio disponibile da parte del
recluso.
La disposizione del legislatore nazionale si adegua ai principi normativi della Convenzione
CEDU e alle pronunce della Corte di Strasburgo, dandone per certo il valore vincolante nel
sistema delle fonti definito dall’art. 117 della Costituzione (sul quale vedasi Corte Cost. n. 80
del 2011), riconoscendo il ruolo della Corte CEDU nell’applicazione ed interpretazione di tale
normativa ai sensi dell’art. 32, § 1, della Convenzione.
Nel risolvere la questione interpretativa deve pertanto farsi diretto riferimento alla
giurisprudenza della Corte CEDU nella materia, e del resto lo stesso art. 35 ter, introdotto dal
dl 92/2014, fa espresso riferimento alle violazioni del divieto di trattamenti inumani di cui
all’art. 3 della Convenzione “come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo”.
I principi direttamente ricavabili dalla sentenza Torreggiani c/ Italia (Provvedimento del
08/01/2013 Seconda Sezione) richiamano gli arresti della Corte di Strasburgo in tema di
sovraffollamento e, in estrema sintesi, possono enuclearsi nella regola (§§ 67, 68 e 69 sent
Torreggiani) che: A) la mancanza di spazio in un istituto penitenziario può costituire
l’elemento centrale da prendere in considerazione nella valutazione della conformità di una
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data situazione all’articolo 3, sicché nei casi emblematici in cui lo spazio personale concesso
ad un detenuto era inferiore a 3 m2 (Kantyrev c. Russia, n. 37213/02, §§ 50-51, 21 giugno
2007; Andreï Frolov c. Russia, n. 205/02, §§ 47-49, 29 marzo 2007; Kadikis c. Lettonia, n.
62393/00, § 55, 4 maggio 2006; Sulejmanovic c. Italia, n. 22635/03, §§ 41,42,43, 16 luglio
2009) tale condizione è da sola sufficiente per affermare la ricorrenza di una violazione
dell’articolo 3 della Convenzione; B) quando, invece, la condizione di sovraffollamento non
sia così seria, come nei casi in cui il detenuto abbia a disposizione uno spazio variabile dai 3
m2 ai 4 m2, (sebbene inferiore a quello minimo di m2 4 a persona raccomandato dal Comitato
Europeo per la prevenzione della tortura (CPT)), può essere affermata la violazione dell’art. 3
della Convenzione valutando anche altri aspetti delle condizioni detentive, quali la possibilità
di utilizzare i servizi igienici in modo riservato, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce e
all’aria naturali, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base
(principio espresso chiaramente in particolare nella richiamata Sulejmanovic c. Italia, n.
22635/03, §§ 41,42, 16 luglio 2009 “41. Nonostante ciò, la mancanza di uno spazio personale
per i detenuti era talmente flagrante in alcuni casi da giustificare, da sola, la constatazione di
una violazione ai sensi dell’articolo 3. In quei casi i ricorrenti avevano a disposizione, in
linea di principio, meno di 3 m2 ciascuno (Aleksandr Makarov c/Russia, n. 15217/07, § 93,
12 marzo 2009; si vedano anche Lind c/Russia, n. 25664/05, § 59, 6 dicembre 2007; Kantyrev
c/Russia, n. 37213/02, §§ 50-51, 21 giugno 2007; Andreï Frolov c/Russia, n. 205/02, §§ 4749, 29 marzo 2007; Labzov c/Russia, n. 62208/00, § 44, 16 giugno 2005, e Mayzit c/Russia, n.
63378/00, § 40, 20 gennaio 2005). § 42. In compenso, nei casi in cui la sovrappopolazione
non era così eccessiva da sollevare da sola la questione sull’applicazione dell’articolo 3, la
Corte ha rilevato che, valutando l’osservanza di questa disposizione, fosse necessario tenere
conto di altri aspetti relativi alle condizioni detentive. Tra di essi viene elencata la possibilità
di utilizzare privatamente i servizi igienici, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce e
all’aria naturali, la qualità del riscaldamento ed il rispetto delle primarie esigenze sanitarie
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(si vedano anche le regole penitenziarie europee adottate dal Comitato dei Ministri, citate nel
precedente paragrafo 21). Conseguentemente, ogni qual volta ciascun detenuto disponeva di
uno spazio variabile dai 3 ai 4 m2 , la Corte ha riconosciuto una violazione ai sensi
dell’articolo 3 dal momento che la mancanza di spazio sufficiente si aggiungeva ad una
mancanza di ventilazione e di luce (Moisseiev c/Russia, n. 62936/00, 9 ottobre 2008; si
vedano anche Vlassov c/Russia, n. 78146/01, § 84, 12 giugno 2008; Babouchkine c/Russia, n.
67253/01, § 44, 18 ottobre 2007; Trepachkine, succitata, e Peers, succitata, §§ 70-72”Ciò premesso, l’applicazione concreta di tali regole comporta la definizione del concetto di
spazio personale o spazio minimo disponibile per ciascun detenuto.
La tesi restrittiva propone che lo spazio personale disponibile vada calcolato senza sottrarre
dalla superficie della cella lo spazio occupato da mobili ed arredi (tavolini, sgabelli, armadi e
altro) e computando anche la superficie occupata dai servizi igienici collocati in adiacente
vano-bagno.
A sostegno di tale assunto si è tratto spunto dalla pronuncia della Sez.I della Corte di
Cassazione 27/9/2013 (ric. Greco), ma la motivazione della pronuncia non affronta la
questione, né vale a fornire un criterio interpretativo, posto che la Corte nell’occasione si è
limitata a ritenere corretta la valutazione del Magistrato di Sorveglianza che aveva rilevato
come il Greco dividesse con un altro detenuto una cella di mq. 10,17, il che rendeva lo spazio
disponibile per ciascuno ben superiore al limite dei 3 m2 al di sotto del quale si profila il
trattamento inumano.
Si richiama peraltro anche un orientamento che risulterebbe implicito nelle statuizioni della
Corte CEDU, traendo argomenti da alcune decisioni nelle quali il calcolo dello spazio minimo
disponibile è stato effettuato semplicemente dividendo la superficie totale della cella per il
numero degli occupanti.
L’argomento è però chiaramente privo di base e fondamento
ogniqualvolta la Corte CEDU abbia sanzionato la violazione dell’art. 3 della Convenzione
perché il quoziente personale del detenuto risultava al di sotto dei 3 m2, sicché non aveva
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senso porsi un problema circa la detrazione dalla superficie totale di arredi o spazi. Ma non è
dato rinvenire nelle pronunce richiamate una implicita affermazione del computo dello spazio
in base alla sola superficie lorda a disposizione del singolo recluso, non essendo stata presa in
considerazione la specifica questione relativa all’incidenza dello spazio eventualmente
occupato da mobili, arredi, letti o servizi igienici.
La circostanza che nelle decisioni
richiamate il dato base considerato è stato desunto per quoziente della superficie totale
dipende dalla natura delle informazioni fornite dal ricorrente e dall’Amministrazione, non
assumendo il significato di un criterio di computo: così, ad esempio, nella richiamata
decisione Tellissi (5 marzo 2013 - Ricorso n.15434/11 - Tellissi c.Italia) la corte ai §§ 52 e 53
ha argomentato sulla contestata violazione dell’art. 3 dando per buoni i dati offerti
dall’Amministrazione e non contestati dal ricorrente, senza alcuna particolare specificazione
( a in senso analogo nella decisione della Corte CEDU seconda sezione 22/10/2014 n.
73869/10/2014).
In senso contrario va rilevato che, riconducendo l’ambito di protezione della
persona
ristretta in condizioni di sovraffollamento carcerario alla tutela dei trattamenti inumani e
degradanti assicurata dall’art. 3 della Convenzione CEDU, non va dimenticato che il
Preambolo della Convenzione ammonisce in ordine alla necessaria riaffermazione e garanzia
dei principi già affermati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo proclamata
dall’ONU nel 1948 per “il riconoscimento e l’applicazione universali ed effettivi dei diritti
che vi sono enunciati”, sicché la protezione in discussione costituisce concreta attuazione del
principio dell’art. 5 della Dichiarazione per il quale “nessun individuo potrà essere sottoposto
a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti” (ma va anche rapportata
al principio espresso dalla Dichiarazione ONU all’art. 29, comma 2: “nell’esercizio dei diritti
e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono
stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli
altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere
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generale in una società democratica”). Tali valori protetti costituiscono direttamente il
fondamento etico della regola inespressa relativa all’accertamento in concreto dello spazio
minimo vitale ritenuto indispensabile ad assicurare condizioni di vita che, compatibilmente
con la limitazione della libertà personale indotta dalla necessità della custodia, possano
definirsi umane e dignitose. Ed è significativo che nelle premesse della sentenza Torreggiani
la Corte di Stasburgo abbia sentito la necessità di ammonire: “§ 65. La Corte rileva che di
solito le misure privative della libertà comportano per il detenuto alcuni inconvenienti.
Tuttavia, essa rammenta che la carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti
sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere
bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di
trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l’articolo 3 pone a
carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia
detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di
esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una
prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che,
tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto
siano assicurati adeguatamente”.
Nel raffronto con i principi richiamati l’affermazione di uno spazio minimo a disposizione
del detenuto non inferiore a m2 3, costituente il limite sotto il quale in via di principio la
condizione di sovraffollamento deve ritenersi in contrasto con l’art. 3 della Convenzione, non
sembra lasciare adito alla possibilità che una simile già angusta dimensione di “libertà” sia
ulteriormente ridotta perché comprensiva dello spazio del letto e degli arredi o mobili
(armadi, tavoli e simili) compresi nel computo della superficie. Va invero considerato come,
anche tenendo conto del solo ingombro di un comune letto, la misura dello spazio a
disposizione per una stazione eretta del detenuto verrebbe limitata a poco più di un metro
quadrato e molto meno se si tenga conto di mobili ed arredi. Né può ragionevolmente
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sostenersi che costituisca spazio disponibile quello del letto perché il detenuto può utilizzarlo
stando sdraiato o seduto, o quello occupato da armadi o tavoli.
Ma anche nella giurisprudenza della Corte CEDU si rinvengono utili indicazioni che
confortano il criterio di individuazione dello spazio minimo vivibile con esclusione
dell’ingombro di letti, arredi e mobili, e dello spazio dei servizi igienici.
In proposito va richiamata la sentenza Modarca c/ Moldova del 10/5/2007 n.294 con la quale
la Corte ha sanzionato la violazione dell’art. 3 della convenzione rilevando che nella specie il
ricorrente era rimasto con altri tre detenuti in una cella di m2 10, ossia 2, 5 m2 per detenuto ,
ma che la metà della superficie era occupata da mobili con ciò lasciando a ciascun detenuto
soltanto 1,19 m2.
E anche la sentenza Torreggiani, più volte citata, nell’affermare la
violazione dell’art. 3 ha fatto riferimento ad uno spazio individuale abitabile di 3 m2 peraltro
ulteriormente ridotto dalla presenza di mobilio nelle celle. Ma ancora più recentemente con
la sentenza Mursic c/ Croazia del 12/3/2015 la Corte, riaffermando i principi generali espressi
in tema di violazione dell’art. 3 con il precedente arresto del 10/1/2012 (Ananyev et autres c/
Russia), ha avuto modo di precisare ulteriormente come il criterio per verificare la carenza di
spazio personale ha una triplice valenza, nel senso che: a) ciascun detenuto debba disporre di
un posto letto individuale, b) che ciascuno disponga di almeno 3 m2 di spazio al pavimento,
c) che la superficie totale della cella deve essere tale da consentire ai detenuti di circolare
liberamente tra i mobili, con la conseguenza che
l’assenza di qualsiasi degli elementi
suindicati determina di per se stessa una presunzione forte che le condizioni di detenzione
costituiscano trattamento degradante e in violazione dell’Articolo 3 - (Mursic c/ Croazia § 53
“The absence of any of the above elements creates in itself a strong presumption that the
conditions of detention amounted to degrading treatment and were in breach of Artcle 3” ).
Né, sotto altro profilo, può essere aggiunta allo spazio personale vivibile la superficie
dell’annesso vano bagno destinato non al soggiorno ma all’uso dei servizi igienici.
Nel caso in esame il detenuto SESTO CAIO nel periodo di detenzione presso la Casa di
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reclusione di Padova (dal 12/7/2008 al 13/9/2012 e dal 29/9/2012 al 24/2/2014) risulta (nota
della Direzione 24/11/2014 doc. 2 Ministero) essere stato ristretto in camera avente misure
standard di m2 9,2825 (al lordo dello spazio occupato da un tavolo 81,07 x 59,5 , tre sgabelli,
tre armadi piccoli 49,2 x 37,2, e tre armadi grandi 49,2 x 37,2), occupandola insieme a uno o
due altri detenuti, sicché lo spazio individuale di m2 4,64 o m2 3,09 risultante dal quoziente
personale, se si escludono le zone occupate dai mobili e dal letto, viene sicuramente a ridursi
al di sotto della soglia dei m2 3 che rende manifesta la violazione dell’art. 3 della
Convenzione CEDU.
Nei periodi dal 25/8/2012 al 5/9/2012 ha occupato con quattro detenuti una camera del
reparto infermeria della superficie totale di m2 24,8292 (dotata di tavolino 81,07 x 59,5,
cinque sgabelli, cinque armadi piccoli 49,2 x 37,2 e cinque grandi 49,2 x 37,2) e dal
5/9/2012 al 13/9/2012 in altra camera delle medesime dimensioni e attrezzature con tre
detenuti, così avendo uno spazio personale di m2 4,96 nel primo caso o di m2 6,20 nel
secondo, pur sempre inadeguati se ridotti degli spazi occupati dal letto e da mobili ed arredi.
Nel periodo dal 13/9/2012 al 29/9/2012 è stato ristretto presso la Casa Circondariale di
Verona ospitato da solo in camera di pernottamento n. 260 presso il reparto di osservazione
psichiatrica della superficie di m2 11,515 che peraltro, pur con detrazione dello spazio
occupato da letto e mobili, risulta certamente superiore ai m2 4,00 e idonea ad escludere la
violazione dell’art. 3 della Convenzione.
Va pertanto riconosciuta la violazione in discussione relativamente alla sola detenzione
presso la Casa di reclusione di Padova per i periodi dal 12/7/2008 al 13/9/2012 e dal
29/9/2012 al 24/2/2014. Conseguentemente in applicazione del criterio di liquidazione del
danno espresso dall’art. 35 ter della legge 26/7/1975, n. 354, l’Amministrazione resistente va
condannata al risarcimento dei danni in favore del ricorrente nella misura complessiva di €
16.296,00 ( € 8 x 2037 giorni).
Spese compensate per la peculiarità e novità della normativa di cui al dl n. 92/2014 e delle
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questioni relative.
P.
Q.
M.
Il Tribunale,
In accoglimento del ricorso, accertata la violazione dell’art. 3 della Convenzione CEDU per i
profili di cui in motivazione, condanna il Ministero della Giustizia a pagare a SESTO CAIO, a
titolo di risarcimento danni, la somma complessiva di € 16.296,00.
Dichiara integralmente compensate le spese processuali.
Si comunichi.
Venezia, 20 marzo 2015
IL GIUDICE
dott. Maurizio Gionfrida
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