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B3 © Yuko rabbit
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Simone Yuko Rabbit
Redazione
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Giovanni Arduino
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Luca Borello
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Andrea Cattaneo
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Fabio di Pietro
Pia Ferrara
Viviana Filippini
Roberto Gerilli
Barbara Maio
Elena Mandolini
Giulia Marengo
Miriam Mastrovito
Gabriella Parisi
Alessandra Penna
Corrado Peperoni
Elisabetta Ossimoro
Elena Raugei
Leni Remedios
Manuela Salvi
Massimo Soumaré
Federica Urso
Emanuela Valentini
Andrea Veglia
03
Segreteria
Valentina Coluccelli
CORREZIONE BOZZE
Cristiana Melis
Si ringraziano
Tommaso de Lorenzis
Michele Foschini
Luisa Gasbarri
Flavia Gentili
Victor Gischler
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Deborah J. Ross
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sommario
editoriAle
 8 di Alessandra Zengo
coverartist
 13 Multipure texture in Disneyland
Arte
 24 INTERVISTA Nuova dignità al fumetto
 28 Il lamento dell'oceano,
la nuova graphic novel di Victoria Francés
 34 RUBRICA – Giro di voci
 36 Spoon River: due poeti e un cimitero
Editoria
 40 RUBRICA – West Egg
 42 Self-publishing, welcome to the jungle
 46 RUBRICA – La frontiera. Nuovo atlante del libro
 48 INTERVISTA – Intervista all'agenzia letteraria Vicolo Cannery
 54 RUBRICA – Pixel Rubati
 56 RUBRICA – Lettori e "Lettori"
 58 INTERVISTA – L'altro modo di leggere
 64 RUBRICA – Il Sottoscala
Letteratura
 70 RACCONTO – The Doll di Du Mauriers
 82 Favole allo smarthphone
 88 INTERVISTA – Darkover, l'eredità del pianeta rosso
 96 RACCONTO – Di un libro mai scritto
 106 INTERVISTA – La Metafisica di Harry Potter
 110 RUBRICA – I luoghi dell'immaginario
 112 La maternità nell'era del web 2.0
 116 La vera scuola dei disoccupati
 118 La verità, vi prego, su Facebook
 122 RACCONTO – Gli imbranati dell'apocalisse
 128 Blog, blogger, blook: coniugazione di un fenomeno
 132 Quando Alice ruppe lo schermo
 136 Latitudini femminili
 138 RACCONTO – Come menta per il cioccolato
 144 Daily planet: notizie fresche degli affari, della guerra e del mondo
 148 Critica alla ragion zombie
 152 Scrivere per non cadere fuori dal tempo
 154 RACCONTO – Un'avventura di Mr. Samurai
 162 Roland Le Gilead, l'ultimo eroe
 164 Il ritorno del Conte Ánghelos
 166 SpecialE – PRIDE & PREJUDICE BICENTENARY
sommario
Musica
sommario
Cinema & serie tv
 182 Il Transmedia Storytelling, tra narrazione e gioco
 186 L’amore secondo Michael Haneke
 188 La crisi delle idee nel cinema
 190 James Bond: un mito tra finzione e realtà
 196 La maledizione di Neal Cassady
 198 La rivincita della bionda
 200 Dal paradiso all'inferno: Birdsong & The Paradise
 202 Nuvole, anime e crossmedia
 210 Nausicaa e la settima arte
8L
di ALESSANDRA ZENGO
a caratteristica dei nostri editoriali
(mi nascondo dietro un plurale fasullo)
è che sono sempre scritti all’ultimo
minuto. Non perché non siano importanti,
al contrario, ma quella dell’editoriale è
un’abitudine difficile da impiantare in
menti dinamiche e un po’ folli come le
nostre, poco avvezze alle regole e sempre
a tremila all’ora.
Anche questa volta, comunque, speriamo
di raggiungervi nei recessi più lontani della
rete, per offrirvi colore, storie da leggere,
personaggi multitasking e artisti a tutto
tondo. Eccoci qui, quasi pronti per mandare in
rete il Numero 3 di Speechless Magazine,
con tutta l’intenzione di lasciarvi… senza
parole! Non solo perché è un numero
Il lamento dell'oceano © Victoria francés
and relax your mind reading
speciale, un numero magico, un numero con
grandi potenzialità, ma anche per il fatto che,
ancora una volta, non sono mancate qualità
che possono apparire scontate per me o per
la redazione, ma che non lo sono affatto
quando si parla di progetti come questo.
Entusiasmo ed energia, nella realizzazione
di questo nuovo numero, l’hanno fatta da
padroni: hanno posseduto le nostre menti,
le nostre penne, le nostre tastiere; ci hanno
trascinati nei meandri di una ricerca grafica
che ha visto coinvolti moltissimi artisti,
italiani e stranieri (a proposito: grazie a
tutti!) per un risultato gratificante.
Sempre tesi al miglioramento – incentivati
dai risultati ottenuti grazie al vostro costante
e caloroso supporto (4 milioni e mezzo di
contatti non sono pochi) – questa volta
abbiamo cercato di accordare gli argomenti
trattati, seguendo una traccia comune: un
filo di Arianna che tortuoso e intrigante vi
accompagnerà dalla prima all’ultima pagina,
proponendovi contenuti coerenti col tema
del #3: Scrittura e Crossmedialità.
E davvero non ci siamo fatti mancare
nulla: dall’intervista a Yuko Rabbit – la
cover artist di questo numero e una dei
più interessanti elementi della nuova
generazione d’illustratori giapponesi – alla
nuova Graphic Novel di Victoria Francès,
Il Lamento dell’Oceano.
Per editoria e dintorni, questa volta la
parola agli editor Alessandra Penna,
che ci racconterà il conflittuale rapporto
editor/scrittore, e Fabio di Pietro, che con
la rubrica La frontiera questa volta ci farà
scoprire i retroscena riguardanti quarta di
copertina e alette. A seguire un viaggio nella
giungla delle auto pubblicazioni con annessa
piccola guida per uscirne illesi (sempre che
sia possibile).
Quando si parla di Graphic Novel, inoltre,
non si può non citare Bao Publishing,
realtà editoriale interessante e dinamica.
Imperdibile il colloquio con l’Agenzia
Letteraria Vicolo Cannery e quello con la
realtà alternativa di Emons Audiolibri.
Anche in questo numero grossi nomi
per la letteratura: proponiamo, infatti, due
racconti inediti succulenti per solleticare
le vostre antenne sensoriali. Daphne du
Maurier, The Doll e H.G. Wells, Di un libro
mai scritto.
Non mancheranno poi news musicali,
librarie e cinematografiche, articoli, immagini
e ancora racconti. Con grande soddisfazione
vi do in pasto le pagine (originali, che
credete) del Daily Planet direttamente dal
2034 e, dulcis in fundo, un tributo al romanzo
Orgoglio e Pregiudizio, in occasione del
Bicentenario dalla prima pubblicazione, con
una lente d’ingrandimento esclusiva, puntata
sulla zia Jane, che ancora una volta stupirà
e incanterà grazie all’alone romantico che
accompagna lei e i suoi scritti, nonostante
di tempo ne sia passato.
È fatta. Editoriale: concluso. Gironi
infernali danteschi: passati. Quindi buona
lettura, cari lettori, e buon divertimento con
Speechless #3!
Scrivetemi a:
[email protected]
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editoriAle
stretch your fantasy, empower your ideas
Disneyland
Multipure texture in
L'arte di
Tradizione e tecnologia,
manga e mito,
Oriente e Occidente
per una sinestesia
multimediale
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Yuko Rabbit è uno dei più interessanti
www.yukorabb.it
elementi di quella nuova generazione d’illustratori e fumettisti giapponesi che stanno cercando
di sviluppare una propria forma espressiva originale capace di fondere in maniera equilibrata le
tecniche di disegno tradizionali con quelle digitali, Oriente e Occidente.
L’uso del computer e della rete le permette
di accedere a un gran numero d’informazioni, le
quali divengono sua fonte d’ispirazione e, contemporaneamente, le consente di far conoscere
i suoi lavori in ogni angolo del mondo. Nasce in
questo modo la serie di opere 3B ispirata al
modello olandese dai tratti androgini Jaco Van
Den Hoven e da lei considerata il suo primo progetto di fine art.
Se Yuko trae ispirazioni dal web, al contempo
i suoi modelli appartengono anche all’arte classica. Artisti universalmente noti come Alfons Mucha, Arthur Rackham, Norman Rockwell, Gustav
Klimt, Caravaggio, Leonardo da Vinci e Rembrandt. Anche i manga e i fumetti europei sono
stati fondamentali per costruire la sua personalità artistica. In particolare, autori quali Naoko Takeuchi, Toru Fujisawa, Akihiro Yamada, Kunihiko
Tanaka e Sergio Toppi. Un ulteriore arricchimento è giunto dalle profonde riflessioni su quanto
ha letto. Letture che vanno da Che Guevara a
Dostoevskij e Hemingway, passando attraverso
la Sacra Bibbia e i miti scandinavi.
Ciò che quindi compone la sua arte è una
ricercata dicotomia tra reale e digitale, su cui
s’inseriscono continuamente una grande varietà
d’influenze provenienti dai più disparati generi
Fantasia Termite Bianca © Yuko rabbit
dello scibile umano mondiale, dando origine a un
fruttuoso e vorticante scambio di elementi che
possiamo definire autenticamente multimediale.
Questo è evidente nell’opera Rain Rain Go
Away, Come Again Another Day, cover di questo
numero di Speechless, che nasce come collaborazione con l’artista Rillie del marchio Ririco:ramu
specializzata nella creazione di copricapi a forma di corna. Il tema stesso dell’opera si lega,
quindi, a una rappresentazione fisica di una realtà che, a sua volta, trova radice in quell’idea
bucolica-erotica del mito del dio Pan protettore
degli armenti dell’antica Grecia e, ancora più anticamente, nel mito dell’uomo selvaggio Enkidu,
punto di contatto tra uomini e animali, dell’epopea mesopotamica di Gilgamesh. L’inserto di parole contribuisce ulteriormente a sviluppare su
più dimensioni il discorso surreale e simbolico
dell’intera composizione, in un gioco di rimandi
continui.
Come il mito, che si esprime tanto nelle raffigurazioni rupestri che nelle pellicole in 3D,
l’opera di Yuko produce una sciarada di rappresentazioni che si diffonde, rizomaticamente, attraverso ogni dimensione della comunicazione,
visiva e non. Per questa ragione è stata scelta
come “varco” per un numero di Speechless che
si muove, esplodendo in un loop di citazioni,
collegamenti e rimandi, attraverso ogni forma
mediatica esistente. Immagine-manifesto per
il primo esperimento in cui la rivista esplora un
tema, quello della crossmedialità, attraverso un
percorso in cui fumetto e cinema, fiction televisiva e letteratura si inseguono in un continuo
processo di trasformazione e rielaborazione.
CoverArtist
di elena bigoni e massimo soumaré — traduzione di Germana Maciocci
Dalle tue opere emerge da su14 Speechless:
bito il particolare ampio uso di tutte le scale
cromatiche. Che importanza dai al colore e quale
funzione ha nel tuo messaggio creativo?
Yuko Rabbit: Credo che i colori riescano a
generare stati d'animo che ci inviano messaggi
non verbali attraverso le opere d'arte. Possono
essere emozioni, odori, sensazioni di caldo o
di freddo, a volte piccoli suoni. Scelgo lo stato
d'animo che deve suscitare ogni opera in base
alle mie esperienze, che per me sono un po' una
sinestesia. I colori si affacciano nella mia mente
al suono di una parola, mentre ascolto musica,
guardo una scena di un film o gusto del cibo.
Scelgo i colori in base a queste esperienze, alle
mie conoscenze scolastiche sulla pittura e al loro
coordinamento.
SL: Il tuo, è stato un esordio artistico potremmo dire "accademico", basato sull'utilizzo delle
tecniche e degli strumenti tradizionali dell'arte (pittura a olio, matite, pastelli, acquerelli).
Cos’ha significato per te l'approdo alla digitalart e quali differenze hai riscontrato tra i due
b1 © Yuko rabbit
modi di fare arte?
YR: Il digitale è il mio strumento principale da
quando ho deciso di passare a questo da quelli
tradizionali. La causa scatenante è semplice da
raccontare: volevo trovare lavoro in una famosa
società produttrice di giochi. Per entrare, ho cominciato quindi a studiare da sola la pittura digitale. Sono passati circa sei anni. Il confine tra
digitale e tradizionale è diventato di recente per
me molto sottile. Importo foto, disegni e trame
pittoriche nelle mie opere digitali, e per esporle
ricorro a stampe in Giclée. Disegno in modo tradizionale con il PC, e utilizzo effetti digitali per
far sembrare le mie opere ancora più tradizionali. Uso prevalentemente il PC per ottenere ciò
che voglio rappresentare esattamente. Quando
lavoro con i supporti tradizionali, è perché voglio
ottenere sfumature espressive che penso i software non potranno mai generare.
SL: A questo proposito, quali sono per te i
vantaggi e gli svantaggi nell'utilizzo dei programmi grafici?
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CoverArtist
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C for Circle © Yuko rabbit
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Good Night Sheep © Yuko rabbit
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YR: Il vantaggio è che si può modificare quasi
tutto prima di stampare, come essere a Disneyland insomma! È possibile unire texture multiple
di diverse carte e materiali, annullare gli errori,
lavorare in modo ordinato, e non c'è bisogno di
preoccuparsi della tenosinovite! Lo svantaggio è
che, come molti artisti dicono, l’arte digitale tende a far perdere preziosità alle opere. Può essere
riprodotta in modo illimitato. E non è possibile
creare l’effetto “impasto”, che è simulabile solo
in fase di elaborazione tramite Corel Painter,
mentre non è possibile renderlo nella stampa
finale.
SL: I tuoi soggetti, pur nella loro diversità oggettiva, sono tutti molto particolari, ognuno di
essi suggerisce una storia che apre all'osservatore un mondo onirico, incantato, persino fantastico. Quali sono i messaggi che vuoi trasmettere attraverso questi soggetti?
YR: Le opere che ci affascinano di solito ci
fanno fermare davanti a esse per le storie che
racchiudono. Così, ho sempre accompagnato i
miei quadri con qualche descrizione, che a volte si trasforma in una storia così complessa da
impedirmi di includerla in un solo elemento, e
questa tendenza si è rafforzata da quando ho
iniziato a lavorare seriamente come disegnatrice
di fumetti. Credo che presto inizierò a produrre
sempre più opere in serie.
SL: Quando ti commissionano un lavoro dal
soggetto diverso dai tuoi, dai contenuti e dal
messaggio lontano dalla tua personalità, come
risolvi l'antitesi? Cerchi un compromesso?
YR: Beh, è una domanda difficile. Voglio dire,
sto ancora cercando una risposta. Per il momento, però, di una cosa sono sicura: vale a dire, i
clienti non mi chiedono mai opere completamente diverse da quelle che ho già prodotto. Cercano
quello che vogliono nelle mie opere. Penso che
noi artisti dobbiamo cercare di trasporre le loro
CoverArtist
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influenzato il tuo percorso professionale?
YR: Per quanto riguarda il mio stile di pittura,
l’ho sviluppato da sola. Ho frequentato per due
anni un corso accademico di disegno a schizzo
in un college di animazione. Mi ha aiutato a migliorare il mio stile di pittura. Nel caso avessi
frequentato una certa università d’arte o una
scuola d'arte digitale, avrei potuto iniziare la mia
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carriera non appena laureata, ma va bene così.
Sono stanca di pensarci. Io sono una persona
che preferisce imparare da sola piuttosto che
attraverso degli insegnanti. Di solito trovo il mio
entusiasmo al di fuori della scuola. Credo che sia
anche questo uno dei fattori che rendono il mio
lavoro unico.
SL: Come illustratrice freelance, quali sono i
desideri e le aspirazioni cui miri?
YR: Mi piacerebbe lavorare all’estero. Spero
che le mie illustrazioni siano un giorno sulle copertine di libri, riviste e CD di molti Paesi. Sarebbe allettante per me anche collaborare con
marchi e prodotti. In verità, devo mantenermi
motivata e sforzarmi sempre di più per diventare
degna di essere scelta.
CoverArtist
idee nei nostri lavori, e molto raramente, quindi,
mi capita che questi non includano la mia volontà
o i miei gusti. Ma è per questa trasposizione che
piace la mia arte e devo farmene una ragione.
Allo stesso tempo, si tratta di brevi viaggi che
mi fanno scoprire alcuni aspetti sconosciuti della mia personalità. Pensandola in questo modo,
non credo che andare incontro alle richieste dei
clienti sia sempre una cosa negativa.
SL: Quali sono le opere alle quali sei più legata e perché?
YR: 3B. Si tratta di una serie di lavori in parte
sperimentali, ma credo che la mia idea sia riuscita. L’opera fornisce qualche accenno sulle mie
intenzioni originali. Il tema è la fragilità della bellezza. Mi rendo conto in quello che trovo bello,
di solito scorgo anche questa caratteristica. Mi
sono ispirato visivamente a Jaco Van Den Hoven, un modello olandese, dotato di un fascino
androgino. Appena l’ho visto, mi ha lasciato una
forte impressione. E sono ormai da anni una sua
grande fan. Anche se ho cercato di non farmi influenzare troppo, è possibile vedere alcune sue
caratteristiche nelle fattezze dei ragazzi nelle
immagini.
3B è l'opera che considero più personale di
tutte. In altre parole, 3B è il mio primo progetto
di fine art.
SL: Il tuo talento artistico spazia dall'illustrazione al fumetto. Ci sono differenze nel tuo modo
di lavorare in questi due settori?
YR: Sì, sono molto diversi. Il lavoro di illustratore è molto simile a una commissione privata,
devo fare quello che vuole il cliente, ma in linea
con la mia arte. Quando si pubblicano fumetti
in Giappone, invece, non è possibile farlo senza
alcuni incontri di un’ora ciascuno con gli editori.
L’industria del fumetto giapponese è molto vasta. Si dice sia grande come quello statunitense.
Significa che ci sono molti concorrenti e così i
fumettisti devono lavorare di solito in modo
strategico. Così i redattori delle riviste di fumetti hanno in qualche modo diritto di consigliare
e modificare trama ed espressioni visive. Per
essere più corretti, fumettisti e editori mettono
su i fumetti insieme partendo da zero. Direi che
questo è il punto, si lavora in modo molto diverso
dagli artisti BD in Europa.
SL: Ti definisci "autodidatta". Quanto la
mancanza di un percorso formativo ad hoc ha
Back to Nature © Yuko rabbit
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SL: All'interno di questo numero di Speechless sarà presente una tua illustrazione che
accompagnerà il racconto di Massimo Soumaré,
com’è nata l'idea dell'illustrazione e su quali degli elementi del racconto hai focalizzato maggiormente la tua attenzione?
YR: I due aspetti di Francesca mi hanno impressionato molto. È una segretaria che lavora
duramente durante il giorno, mentre nella vita
privata è una donna forte e senza limiti. Ho cercato di inserire più elementi possibili della storia nell’illustrazione, per cercare di raccontarla
tutta, invece di disegnare una scena particolare.
Volevo creare una copertina che esaltasse la
fantasia dei lettori.
SL: Per concludere l'intervista, chiediamo
sempre all'artista ospite una citazione o una
frase personale che condensi la propria idea di
Arte. Vuoi dirci la tua?
YR: Dobbiamo parlare con noi stessi per
diventare onesti con noi stessi. Se ignoriamo
quanto ci dice il nostro cuore, la nostra arte diventa falsa, e così la nostra vita.
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Blue Smoke © Yuko rabbit
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Ronald Gloria Brian © Yuko rabbit
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Silk Cocoon © Yuko rabbit
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Intervista a Bao Publishing
di elena bigoni
L
a Bao Publishing, giovane realtà
editoriale specializzata in graphic
novel nata nel 2010, ha saputo in
pochissimi anni conquistare uno spazio
considerevole nel mercato delle pubblicazioni in libreria, diventando il primo
editore a fumetti nella sezione varia per
volume di affari. Complice un inusuale
approccio verso il prodotto libro, si è distinta per capacità innovativa e dinamismo creando nel corso del tempo un
bacino di lettori sempre più vario, affezionato e interessato.
Un catalogo vario, che riesce di volta
in volta a stuzzicare e conquistare il lettore, e una visione diversa del prodotto
editoriale hanno creato una realtà in continua crescita.
Una casa editrice che sin dagli esordi
ha puntato sulla qualità dei prodotti offerti, riportando in Italia grandi classici
del fumetto per ragazzi (i Peanuts per
fare un esempio) e straordinarie storie
di autori più o meno noti. Con un occhio
attento ai talentuosi artisti nostrani, il
pensiero corre subito a Zerocalcare e al
successo delle sue prime opere.
Ne abbiamo parlato con Caterina
Marietti e Michele Foschini soci
fondatori della casa editrice.
intervista
S
peechless: Come nasce Bao Publishing
e con quali intenti?
Caterina Marietti: BAO nasce durante una
tempesta di neve nel dicembre del 2009, eravamo io, il mio socio Michele e un notaio che
doveva scappare per andare al Grande Fratello. Avevamo passato tutto l'anno a far vacanze
usando come scusa le varie ferie del fumetto,
innamorandoci delle cose che leggevamo. E ci
è venuta voglia di portarle da noi per dargli il
risalto che meritavano. Mi ricordo ancora un
treno da Bruxelles verso il museo Hergé a piangere sulle pagine di uno di quelli che è diventato un nostro libro: "Mia mamma è in America,
ha conosciuto Bufalo Bill".
SL: Bao Publishing nasce con una precisa
idea di fumetto, un libro proprio come tutti gli
altri, destinato alle librerie. In che modo questo
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dall'interno; questo è un esempio di come il fumetto può essere importante e può incuriosire
qualcuno che non ha mai pensato di leggerne
uno.
SL: Quali sono i criteri che utilizzate per scegliere un prodotto da pubblicare? Qual è, poi,
l'iter di pubblicazione? In che modo lavora la
vostra casa editrice?
BP: Non abbiamo un criterio preciso, andiamo a pelle e a gusto. Quando si tratta di acquisire diritti dall'estero abbiamo la possibilità
di leggere l'opera già completa quindi siamo
avvantaggiati, se qualcosa ci piace e sappiamo di saperla proporre nel migliore dei modi al
pubblico ci attiviamo per averne i diritti. Mentre
per i libri di autori italiani ci lasciamo guidare
dall'istinto, vogliamo che nei fumetti creati da
noi si senta l'amore e la passione che contraddistingue BAO.
SL: Perché il fumetto, secondo voi, viene
percepito in generale come una creazione letteraria minore e di nicchia, ma soprattutto per
soli “esperti”, mentre il libro è considerato un
prodotto più generalista?
BP: Il mercato del fumetto, soprattutto
quando si parla di librerie di varia, sta crescendo a vista d'occhio proprio in questo momento,
quindi comunque, nonostante la crisi, non si può
che crescere. Magari più lentamente di quanto
sarebbe potuto succedere in altre condizioni,
però lo spazio dedicato sta aumentando. Noi,
poi, essendo nati da relativamente poco abbiamo avuto ampi margini di crescita. I nostri
investimenti iniziali per avere in catalogo alcuni
nomi importanti del fumetto come Alan Moore, Jeff Smith e i Peanuts si stanno rivelando
azzeccati e ci hanno aiutati a portare all'attenzione del pubblico anche opere di autori meno
conosciuti, grazie alla fiducia nei confronti del
marchio che ci siamo guadagnati sul campo.
SL: Quali direzioni avete scelto di intraprendere per diffondere il vostro prodotto e quale è
stata la risposta dei lettori e operatori del settore?
BP: Il canale più importante per comunicare con i nostri lettori è sicuramente Facebook.
La nostra pagina è molto frequentata, ai lettori piace dire la loro sui libri che hanno letto e
soprattutto a noi piace emozionarli mostrando
i work in progress dei nuovi libri, annunciando
le novità in arrivo. Postiamo almeno una volta
al giorno e la risposta dei nostri fan è davvero calorosa, a volte intavolano anche lunghe
discussioni tra loro, si consigliano libri… Poi
ovviamente ci piace moltissimo avere i nostri
autori ospiti e portarli in tour in giro per l'Italia
per farli conoscere ai lettori.
SL: Viviamo nell'era del web 2.0, dove anche
in Italia il supporto digitale sta diffondendosi
all'interno dell'editoria tradizionale, con risultati
più o meni buoni. Qual è la vostra posizione al
riguardo e in che modo il digitale può modificare le vostre scelte editoriali?
BP: È in arrivo il nostro nuovo sito, che sarà
perfettamente coordinato alla nostra applicazione per titoli digitali. L'investimento è ingente,
il ritorno economico non è immediato, né scontato, ma puntiamo a intercettare un tipo di lettore che non desidera rinunciare al piacere del
cartaceo, ma che allo stesso tempo ha desiderio
Editoria
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approccio ha cambiato il vostro modo di gestire
la casa editrice e il rapporto con i lettori?
Bao Publishing: Bao è caratterizzata proprio dal fatto che nasce da due lettori appassionati, dalla concretizzazione commerciale dei
nostri gusti di lettori. Sappiamo che chi non si
è mai avvicinato al fumetto non riesce a considerarlo vera e propria letteratura, ma per noi è
naturale mettere sullo stesso piano libri "solo
con le parole" e libri a fumetti. Il nostro compito è quello di scegliere e proporre opere di
grande valore e rilevanza culturale. Abbiamo
appena dato alle stampe "Manuale per vincere
le elezioni" di Mathieu Sapin, un reportage grafico sulla campagna di Hollande in Francia vista
di leggere bei fumetti in mobilità o a video nelle
pause dal lavoro. Buona parte del nostro catalogo cartaceo sarà da subito disponibile anche
in formato digitale, ci saranno frequenti promozioni per l'acquisto combinato carta+digitale e
non mancheranno le iniziative di pubblicazione
"day and date" in cui la versione digitale sarà
disponibile lo stesso giorno di quella cartacea,
o in cui la versione digitale uscirà in simultanea mondiale, in collaborazione con gli editori
originali e gli altri loro partner internazionali.
Insomma, cercheremo di far diventare anche il
supporto intangibile assolutamente imprescindibile per i nostri lettori. Intanto abbiamo anche
iniziato a rendere disponibile il nostro catalogo
su Kindle tramite Amazon, abbiamo iniziato con
i due libri di Zerocalcare che stanno avendo un
ottimo riscontro.
SL: In un mercato editoriale in crisi, l’editoria
del fumetto è in leggera controtendenza. Qual
è, secondo voi, il motivo?
BP: Partendo dal basso, come dice Jovanotti, si può solo salire.
SL: Il vostro catalogo è molto vario e articolato. Quali sono le vostre punte di diamante, e i
libri più interessanti che siete riusciti a portare
in Italia?
Caterina: Ovviamente Bone è stato per noi
lo spartiacque tra gli inizi e il presente, è il libro che ha cambiato nel lettore la percezione di
quello che è Bao, quello che ha fatto percepire
che stavamo facendo sul serio. Io quest'anno
vado particolarmente fiera di Portugal di Cyril
Pedrosa, che ho amato fin dalla prima immagine vista in rete, per il quale abbiamo lottato per
avere i diritti e che ci sta dando tante soddisfazioni. È impossibile prenderlo in mano e non
innamorarsene. Poi ovviamente c'è Zerocalcare,
la risposta del pubblico è stata davvero sorprendente. La prima tiratura della nostra versione a colori 8-bit de La profezia dell'armadillo
è andata esaurita in meno di tre settimane e
siamo alla sua seconda ristampa. Un risultato
eccezionale, visto che comunque il libro era già
stato ristampato cinque volte nella versione autoprodotta! Un polpo alla gola, grazie ai primi
ordini, è già in ristampa prima ancora di essere uscito. Una cosa che ci ha stupito molto è
che i maggiori acquirenti sono state le librerie
di varia, segno che il pubblico di Zerocalcare è
formato in gran parte da persone che non sono
lettori abituali di fumetti. Ci sono un sacco di
potenziali lettori di fumetti che non sanno di
esserlo. La nostra sfida è quella di portarli fino
a loro.
Michele: Sottoscrivo, ma vado anche particolarmente fiero del rapporto che stiamo forgiando con Alan Moore, per le sue opere, e il
sodalizio con due editori che adoro, Gallimard
in Francia e First Second negli USA.
SL: A vostro parere il fumetto ha un tipo di
lettore specifico oppure dovrebbe rappresentare un prodotto con una fruizione omogenea tra
varie tipologie di lettore?
BP: Chi ama leggere, ama leggere storie,
che siano con o senza immagini. Il fumetto è letteratura a tutti gli effetti, il compito
dell'editoria del fumetto italiana è di portarlo fino ai lettori in tutti i modi possibili. Per
Bao Publishing
website
Editoria
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27
esempio è sempre una grande soddisfazione
partecipare alle fiere più letterarie come "Più
libri più liberi" perché abbiamo incontrato un
sacco di lettori che si sono lasciati consigliare
dei romanzi grafici.
SL: Quali saranno le novità editoriali più
interessanti di quest’anno presenti nel vostro
catalogo?
BP: Abbiamo molte cose che bollono in pentola per questo 2013, tra queste c'è il nuovo
romanzo grafico di Zerocalcare di cui conosciamo già le premesse e sarà davvero bellissimo,
continueremo poi a pubblicare la saga degli
Straordinari Gentlemen di Alan Moore di cui
avremo due inediti e due ristampe, ci saranno
molti prodotti italiani che stiamo vedendo crescere e di cui siamo orgogliosissimi tra cui ci
sono Antonio "Sualzo" Vincenti e Alessandro
Baronciani, il primo volume dell'attesissimo
Battling Boy di Paul Pope e due pietre miliari
del fumetto americano: Zot di Scott McCloud
e Strangers in Paradise di Terry Moore. Ma
con quasi settanta uscite previste nell'anno,
ci stiamo sicuramente dimenticando qualcosa
di enorme!
Who would be
A mermaid fair,
Singing alone,
Combing her hair
Under the sea,
In a golden curl
With a comb of pearl
On a throne
di elena bigoni
D
opo l’edizione speciale della
raccolta “Favole” pubblicata a
settembre dalla Rizzoli Lizard,
una nuova graphic novel di Victoria
Francés saprà far rivivere, in tutti gli
appassionati e i fan, le magiche atmosfere che l’hanno resa famosa in tutto
il mondo.
Il lamento dell’oceano, uscito in
Italia il 9 gennaio e tradotto da Francesco Satta, rappresenta un lavoro magnificamente riuscito per l’illustratrice
spagnola che, dopo i risultati delle graphic novel El corazon di Arlene e Misty Circus, ha trovato un progetto nel
quale esprimere tutto il proprio potenziale artistico e la propria originalità.
28
29
arte
la nuova graphic novel di Victoria Francés
The Mermaid
Lord Alfred Tennyson
1809-1892
Il lamento dell'oceano © Victoria francés
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Riportando il lettore all'interno delle atmosfere conturbanti che avevano caratterizzato Favole, la Frances ritrova una verve
creativa matura, intensa e immediata che
riesce a rappresentare al meglio la tormentata e romantica storia d’amore dei
due protagonisti.
Ambientata agli inizi del 1700, il giovane Zachary, mozzo su una nave mercatile
infestata dalla peste, vede morire il proprio padre tra le sue braccia; così di fronte
anche all’avanzare della pestilenza prende
in mano il suo destino e decide di togliersi
la vita. Spinto da una forza sconosciuta si
getta fuori bordo cercando nell’oblio del
mare la serenità ma un’eterea creatura
degli abissi, una fata dei mari, sceglie di
donargli una nuova vita.
Come nelle opere precedenti il lettore
viene avvolto da disturbanti atmosfere da
favola, elemento cardine presente nelle
illustrazioni dell’artista spagnola, personaggi potenti, drammatici e tormentati;
in biblico tra la realtà e il fantastico la
Frances si immerge nelle ombre e nelle
luci che contraddistinguono l’animo umano e le creature che vivono della fantasia
dell’uomo. Due mondi che si incontrano,
si sfiorano e si conoscono, vivono e bruciano nell’amore più assoluto e infinito.
Facendosi guidare dalla fiaba La sirenetta, nella versione originale, Victoria
Frances crea una nuova storia, un amore
tragico e romantico, nato dalle differenze
ma unito dai sentimenti. Predominante diventa il ruolo del sacrificio, massimo gesto
d’amore altruistico. Lo spazio e il tempo
perdono ogni consistenza nel luogo, dove
il mare sposa la terra, in cui i due innamorati trovano riparo.
Le illustrazioni conferiscono quasi tridimensionalità ai personaggi, che sembrano
quasi uscire dalle tele stesse. La predominanza di colori tenui negli sfondi esprime
il plumbeo grigiore del limbo nel quale i
due amanti si trovano, come in un’onirica
dimensione.
L’influenza delle figure gotiche di Favole si nota soprattutto nei volti tormentati
ed eterei di Zachary e della sirena. La malinconia e l’opprimente senso di ineluttabilità accompagnano le pagine verso l’epilogo, evocativo e potente. L’immagine di
una storia che non avrà fine e che troverà
nel riverbero dell’oceano e nel suo nostalgico lamento la propria colonna sonora.
arte
31
rubrica di di elena raugei
ZOOM
Alessandro Grazian
A
lla larga sia dall’eccesso di seriosità sia
dalla rima facile, Alessandro Grazian è
giunto a una repentina sterzata stilistica
confermandosi al contempo uno dei songwriter
più validi di nuova generazione. Dopo Caduto e
Indossai, il terzo album Armi si allontana dalla
forma-canzone più tradizionale, ambito nel quale
aveva raggiunto livelli di assoluta eccellenza, per
avvicinarsi al rock elettrico: “Da Indossai sono
trascorsi quattro anni e sono accadute tante cose.
Tutte le sensazioni che ho vissuto non potevano
che tradursi nell’irruenza di Armi. Nello scorso
decennio mi sono dedicato quasi esclusivamente
al mondo acustico e ho seguito un approccio decisamente classico, ma per comunicare un certo
disincanto negli ultimi tempi ho avuto bisogno di
un codice linguistico diverso, di riallacciarmi al
mio background più rock”. Archiviate le esperienze con Enrico Gabrielli e Nicola Manzan, il fiuto
per le collaborazioni è confermato dalla presenza
di Leziero Rescigno degli Amor Fou: “La scelta
di Leziero è avvenuta una volta terminati i provini. Durante l’estate scorsa ho capito di volere
un album con un produttore esterno, senza archi
né fiati ma con una forte componente ritmica. Era
fondamentale realizzarlo bene, con cognizione di
causa e senza pasticci estetici dettati dall’urgenza
di voltare pagina. Leziero vive a Milano come me,
è produttore, batterista e conosce bene il mondo
dei synth, per cui raccoglieva in sé le tre figure
che mi servivano. Quando ci siamo confrontati, gli
ho fatto ascoltare i demo ed è rimasto entusiasta.
Le idee che ha suggerito mi sono piaciute, quindi era la persona giusta”. Oltre alle sonorità, il
cambiamento riguarda anche l’immaginario, che
accantona i riferimenti retrò per focalizzarsi sul
presente: “Man mano che scrivevo mi sono accorto che emergeva con prepotenza un’attitudine
maggiormente contemporanea. Dovevo assecondarla per fare qualcosa di vero e necessario. Non
c’è stato nulla di calcolato e adoro tuttora Indossai, ma era arrivato il momento di lasciarmi alle
spalle l’immaginario che avevo già sviscerato, di
svelare l’altro lato della mia medaglia”.
Insomma, sembra proprio che Grazian possa raccogliere in un colpo solo tanto l’eredità di
grandi cantautori come Luigi Tenco quanto quella
di formazioni che negli anni 90 hanno conferito
dignità al rock (in) italiano, dai C.S.I. ai La Crus o
ai Marlene Kuntz: “La canzone d’autore dal finire
degli anni 80 in poi è passata anche e soprattutto attraverso varie band di rock alternativo, che
hanno lasciato un segno prezioso”. Ma Alessandro non vive soltanto di musica. Fra Indossai e
Armi c’è stato un periodo per rimettersi in discussione, dedicandosi nel frattempo ad altre attività: “Sono arrivato alla conclusione-traguardo
che la mia natura è trasversale, poco rassicurante. Questi ultimi anni sono stati per me tra i
più importanti in termini di educazione alla vita,
parte la ricercatezza per esprimere un legittimo
desiderio di rivalsa: “Avevo talmente bisogno di
dire qualcosa che in alcuni casi le parole hanno
scavalcato le note. È una modalità abbastanza
inedita, visto che nei lavori precedenti partivo
sempre dalle musiche. Scrivere liberamente,
senza cercare di incastrare se non successivamente i contenuti nella forma, mi ha permesso
di essere più diretto. Dovevo raccontare le mie
emozioni e il mio disincanto senza troppi filtri
perché sentivo il dovere di fare la voce grossa.
Quando c’è una testa a fuoco dietro, l’istinto è
una gran risorsa per creare”.
GRANDANGOLO
Kaki King – Glow
Goat – World Music
È
P
una delle chitarriste
più famose al mondo, ma soprattutto è
un’ottima compositrice. Per
il sesto album Kaki King torna al suo più grande amore:
la musica strumentale. Le
sei corde sono in evidenza,
ma gli arrangiamenti sono
sempre creativi e le note si
dispongono in piccole poesie
sonore.
rovengono da Korpilombolo, un paesino nel nord della Svezia. Si raccolgono
in una folle comune, di generazione in
generazione. Mescolano garage ruvido, psichedelia drogata, tribalismi etnici, folk, post-metal
e colonne sonore. È impossibile resistere alle
ritmiche del loro sabba multicolor.
King of the Opera
Nothing Outstanding
U
n tempo noto come Samuel
Katarro, il giovane Alberto
Mariotti è uno dei più talentuosi musicisti italiani. Il nome rispecchia un nuovo corso artistico, assieme
a Francesco D’Elia e Simone Vassallo.
Tra ballate melodiche ed estese sperimentazioni, un raffinato viaggio dai
risvolti horror.
Tame Impala – Lonerism
A
ustraliani di Perth, i Tame Impala
sono in realtà la valvola di sfogo
di Kevin Parker, mente del progetto e autore di tutti i brani. A seguire il
boom dell’esordio Innerspeaker, Lonerism
aggiorna la lezione del pop psichedelico
nell’era dell’elettronica. Come trasportare
gli anni ‘60 e ‘70 nel 2012.
Corin Tucker Band – Kill My Blues
I
n passato nelle Sleater-Kinney, una delle più grandi indie-rock band
della Storia, Corin Tucker arriva al secondo album e si riappropria
di ciò che sa fare meglio: r’n’r istintivo e sanguigino, macinato a
suon di riff, stop and go e una voce potentissima, inconfondibile.
35
Musica
34
con prese di coscienza ma anche smarrimenti.
A un certo punto sono scivolato in una sorta di
cupio dissolvi tanto amara quanto indispensabile e così mi sono allontanato temporaneamente
dalla musica. Col senno di poi è stato un momento fondamentale per rifondare il mio rapporto con le canzoni. Dipingere, realizzare colonne
sonore e lavorare con il teatro hanno tenuto vivo
il mio bisogno di esprimermi e mi ci sono dedicato anima e corpo con risultati soddisfacenti”.
Tornare a pubblicare un disco ha significato comunicare in maniera più impulsiva, come confermato da testi che mettono leggermente da
All, all are sleeping,
sleeping, sleeping on the hill.
L
a collina è quella del cimitero di Spoon River e loro
sono i duecentoquarantaquattro protagonisti del capolavoro
di Edgar Lee Masters pubblicato nel 1915, la raccolta di poesie Spoon River Anthology.
Curati, medici, ubriaconi,
giudici, uomini e donne di ogni
professione, arte, classe sociale, debolezza e destino – che in
vita si sono amati, traditi, scontrati, invidiati, ignorati o persino assassinati – ora dormono
nello stesso cimitero, l’uno accanto all’altro, uniformati dalla
morte che non ha preferenze
e non fa distinzioni. Ma il loro
sonno non è silenzioso, tutti
hanno una storia da raccontare, un breve epitaffio che ha
di VALENTINA COLUCCELLI
sovente il sapore dello sfogo e
della denuncia per l’ingiustizia
sofferta, per l’incomprensione
subita, per un segreto celato.
L’opera di Masters ha la
forma della poesia – una per
ogni personaggio –, ma il tono
e il linguaggio della prosa; tale
scelta permette all’autore di
adattare il lessico all’espressività dei diversi narratori e
di affrontare temi quotidiani,
violenti, prosaici, tutt’altro che
aulici o lirici. Attraverso le loro
voci, infatti, quelle di anime
che non hanno più nulla da
perdere e nulla da nascondere
e che possono quindi parlare in
libertà e senza paura, Masters
esprime la sua pesante critica
contro la morale puritana che
grava di rigidità e limitatezza
la piccola borghesia delle cittadine del Midwest Americano
del XIX secolo. Quest’impronta libertaria del testo decretò
il disappunto da parte della
critica, ma anche un incredibile successo di pubblico: il libro fu, infatti, ristampato ben
diciannove volte all’epoca e
l’atmosfera bigotta e ipocrita
della sua cittadina di provincia e le figure stereotipate dei
suoi protagonisti permangono
tutt’ora fortemente nell’immaginario americano. In Italia, a
causa del regime fascista che
osteggiava la letteratura anglo-americana, l’opera fu pubblicata solo nel 1943, grazie
alla traduzione di Fernanda
Pivano, che ne aveva ricevuto
in dono una copia da Cesare
Pavese, innamorandosene. Un
atto di coraggio che costò alla
scrittrice la galera.
E chi meglio del cantautore
Fabrizio De André, altra anima
coraggiosa, anarchica e libertaria, avrebbe potuto cimentarsi in un’opera di rivisitazione
dell’Antologia?
Il concept album registrato
nel 1971 e intitolato Non al denaro, non all’amore né al cielo
Ascolta l'album su YouTube
Finì con i campi alle ortiche
finì con un flauto spezzato
e un ridere rauco
e ricordi tanti
e nemmeno un rimpianto.
a partire dal titolo. Ai nomi
propri utilizzati da Masters,
infatti, preferì la tipizzazione in
archetipi, così Wendell P. Bloyd
divenne Un blasfemo, Francis
Turner Un malato di cuore, Selah Lively Un giudice, Dr. Siegfried Iseman Un medico e così
via, realizzando un passaggio
importantissimo dall’individualità, gravata dalla limitazione
della circostanzialità, all’universalizzazione, che ha invece
il pregio di essere valida per
tutti e sempre.
De André ha dunque operato un lavoro di attualizzazione (sottolineato, oltre che
dall’universalizzazione, anche
dalla scelta di un linguaggio
molto contemporaneo, a tratti
brutale e talvolta ammiccante), di arricchimento (trasformò il verso libero di Masters
in ritmo e rima donandogli la
musicalità che gli mancava) e
di rivitalizzazione. Non sfugge che la canzone che chiude
l’album, Il suonatore Jones, sia
l’unica a mantenere nel titolo
il nome proprio originale (Fiddler Jones) e sia anche quella
che maggiormente si discosta
dal processo di archetipizzazione, brillando per intensità e
commuovendo per il contenuto
intimo, che tanto ricorda l’animo dell’immortale e compianto
poeta genovese.
Musica
Due poeti e un cimitero
36
Spoon River
è certamente uno dei suoi lavori più riusciti e indelebili.
Parte del merito di questa
grandezza va riconosciuta
all’idea di base e alle matrici
delle poesie di Masters ovviamente; ma De André ha
saputo valorizzare e arricchire
l’opera originale, non solo con
la sua meravigliosa musica e le
ballate particolarmente adatte
alle atmosfere dell’Antologia,
ma soprattutto con i testi che
ha modificato con la sua spiccata sensibilità e il suo acuto
senso cinico. Oltre a The Hill,
la poesia di apertura che introduce al coro del cimitero, De
André selezionò otto poesie e
le trasformò profondamente,
37
rubrica
di Alessandra penna
Q
uando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa
sul modo in cui l’editor
interviene su un testo, quale
sia la funzione di un editing,
ho pensato che potesse essere utile per chi legge ascoltare,
oltre alla mia voce, anche quella di due scrittori. Scrittrici per
l’esattezza: Antonella Lattanzi
e Lorenza Ghinelli. Quel che
leggerete, nei due passi che
seguono, mi conforta davvero,
perché assomiglia moltissimo
alle parole che io stessa avrei
usato.
«Il rapporto con l’editor è
come il rapporto con il tuo
subconscio, ma molto più
divertente, eccitante e prolifico. Quando è ben fatto,
l’editing scrosta il romanzo di tutto il sedimento, le
concrezioni pesantissime di
cui l’ego dello scrittore, le
sue ingenuità, le sue paure
l’avevano appesantito e sfigurato, vera e propria zavorra. Per me l’editing libera la
vera natura del romanzo e
lo rende leggero e volatile.
Leggero nel senso positivo, calviniano ma non solo,
come il contrario di pesante. L’editing è esperienza
bellissima e vera e propria
scoperta, epifania, anche
perché ti libera dall’ossessione e dalla solitudine che
la scrittura è, sempre. Perché quando è ben fatto non
è mai né compromesso, né
castrazione, né commercializzazione, né cambiamento:
è scarcerazione del romanzo. Dicevo che l’editor è il tuo
più allegro e creativo subconscio perché il vero editor
è quello che, come uno psicologo dovrebbe fare, ti aiuta a trovare le risposte che
già avevi dentro, le illumina.
Quanto più sei umile, quanto
più sei appassionato, quanto più sei innamorato del tuo
lavoro, quanto più sei infaticabile e disposto a lavorare
senza sosta affinché il tuo
romanzo raggiunga il suo
meglio, tanto più l’editor è
fondamentale […]» (A.L.).
«I miei romanzi, dal confronto con la mia editor,
sono sempre cresciuti. Perché si tratta di una persona
che affronta un libro con un
tatto e una sensibilità con
cui spesso nemmeno le persone sanno rapportarsi fra
loro. Questo la rende capace di dirmi dove, secondo
lei, a volte perdo lucidità,
magari perché troppo coinvolta. Come quando scrissi
La colpa, un romanzo che
mi ha richiesto un notevole
sforzo di “vene”. Non si tratta mai di imposizioni direttive: non riuscirei a interveni-
re sul mio
romanzo,
cioè su me
stessa, se
mi venisse imposto
un cambiamento; tantomeno riuscirei
ad accettare che qualcun
altro lo riscrivesse al posto
mio. Da parte dell’editor mi
arriva invece l’invito a soffermarmi su alcuni punti, e
a riscriverli. In questo modo
mi permette di entrare ancora più in profondità nella storia e so che è anche
grazie a questo che sto migliorando. I mestieri dello
scrittore e di editor devono
restare distinti. Per un’ottima riuscita del libro, è necessario che ci si riconosca
reciprocamente professionalità e rispetto. E quel che
ne consegue: fiducia, dialogo, schiettezza». (L.G.)
Se dovessi dire, tra le varie sfaccettature del mestiere
di editor, quale sia quella che
preferisco, non avrei dubbi: il
lavoro con l’autore su un testo,
l’editing vero e proprio. Forse
perché è proprio durante questa fase che, secondo me, io
stessa posso essere arricchita
e quindi accrescere la mia professionalità, ma posso anche
“dare”, ovvero fornire all’autore
e al suo testo tutta la mia espe-
girl inside © Philip Skundric
rienza. Quindi contribuire a rendere quel testo migliore.
Come ho già avuto modo di
scrivere in un’intervista su questa stessa rivista, lavorare su
un testo vuol dire capire in primo luogo cosa in esso funziona
e cosa possa invece essere migliorato. Una volta comprese le
intenzioni dell’autore – sempre
e comunque da rispettare, prima di qualsiasi giudizio o gusto
personale – significa sottoporgli eventuali dubbi e indicargli
una o più possibili strade per
scioglierli. Se dall’altra parte si
avverte fiducia e disponibilità
all’intervento, significa che il
lavoro è sulla buona strada. Se
l’autore ha sentito e capito che
l’editor ha ben compreso il suo
testo e le sue intenzioni, allora
sa di potersi affidare, e non ha
paura di farsi guidare né sente
il proprio libro o la propria autorialità minacciati. Sono convinta che un buon editing sia
anche il risultato di un buon
rapporto con lo scrittore. E non
sto parlando di amicizia. Anche
a livello professionale si può
stabilire senz’altro un buon rapporto di fiducia e complicità che
aiuti a lavorare bene insieme.
Per quanto riguarda il mio
personale modo di lavorare, io
lascio quasi sempre che siano gli autori a decidere come
intervenire, mi limito a consigliare e indicare possibilità
praticabili. Questo aspetto ha
comunque a che fare con il lato
più creativo di questo mestiere,
che è uno dei principali motivi
del suo fascino. Vedere tra le
righe, leggere ciò che un autore
non ha subito visto, intuire una
soluzione migliore, ecco, questo per me equivale a creare
qualcosa. D’altra parte, io sono
anche convinta che, se un testo
di narrativa è creatività, scintille e accensioni, è anche e senza dubbio schema, struttura,
rispetto di alcune geometrie e
proporzioni. Numeri, in qualche
modo. E di conseguenza l’editing che su un testo si esercita
non può non seguire delle regole. Regole che devono attenersi
al genere con cui ci si confronta
e a una precisione sia linguistica che strutturale, che rappresentano l’ossatura stessa di un
romanzo.
Il miglior editing, secondo
me, è quello che riesce a combinare al meglio questi due
aspetti: immaginazione e logica, si potrebbe dire. L’effetto è
riuscito se la lettura di un libro
scorre senza che ci si accorga che quelle pagine possono
essere state a volte anche un
vero e proprio laboratorio, in
cui si sono compiuti esperimenti. Se la mano dell’editor, figura
di cui si sente tanto parlare, in
tutto questo processo è scomparsa. Perché ogni editor – ne
sono convinta – deve sempre
compiere il proprio lavoro senza
perdere di vista il senso ultimo
di quello che fa, ovvero essere
a servizio del testo, dell’autore,
mai di se stesso.
41
Editoria
40
Io abitavo
a West Egg,
nella parte...
bÈ, quella
meno alla moda
delle due
42
L’
autopubblicazione è tra gli argomenti più caldi del periodo. Mentre cresce
esponenzialmente il numero di nuovi
libri disponibili, soprattutto in formato digitale, parallelamente crescono anche i dubbi e le
discussioni che gravitano intorno a questo fenomeno. Una sola parola in grado di accendere
confronti infervorati: si tratta solo dell’ennesimo, grande business o, come altri sostengono,
può essere un buon inizio per autori promettenti? Uno specchio per le allodole o un vero
trampolino di lancio?
Una realtà in piena espansione, che ha trovato terreno fertile soprattutto in America.
Come spesso accade, infatti, le novità trovano
le condizioni migliori per attecchire proprio oltreoceano: complice una maggiore propensione
dei lettori americani a utilizzare supporti elettronici anche per la lettura – fenomeno che,
invece, sta faticosamente prendendo piede in
Italia, nonostante i prezzi allettanti; è proprio
in America che sono nati i primi grandi successi autopubblicati ed è sempre qui che il fenomeno sta avendo maggior risonanza. Infatti,
ben il 78% dei nuovi libri immessi sul mercato
americano sono autopubblicati. C’è da dire che
anche l’Europa ci sta provando, anche se forse
di valentina bettio
con meno convinzione e l’Italia, completamente esclusa dall’ampio bacino anglofono, arranca in coda.
Prendendosi un po’ di tempo per curiosare tra
le proposte di questo nuovo, sfavillante mondo,
compaiono molti nomi di nuovi autori, tra cui
non pochi italiani che, nonostante il tessuto
sociale poco florido e recettivo, hanno deciso
di tentare il tutto per tutto autopubblicandosi,
scegliendo il supporto digitale come primo approccio. Così, giorno dopo giorno, l’autopubblicazione sta diventando punto di raccolta per le
speranze di molti, ma anche fonte di guadagno
per altri. Infatti, mentre supposizioni e riflessioni si sprecano, molte realtà editoriali americane si stanno lanciando nel promettente calderone dell’autopubblicazione, pronte a sfruttare
un evento che sta attirando tanta attenzione.
E, come atteso, il fenomeno non sta tardando
a espandersi anche in Europa, seguendo la scia
dei colleghi americani.
Ed è così che, a fianco di realtà a costo zero
quali Amazon, sono cominciate a comparire
altre agenzie, che tentano gli aspiranti autori
con i propri servizi. È piuttosto recente la notizia della nascita della Archway Publishing,
spin off della Authors Solutions, che propone
43
Amanda Hocking ne sono i migliori esempi – si
accumulano centinaia di autori di ogni nazionalità che inseguono il successo, spesso con scarsi
o ben contenuti risultati, ben lontani dalle milioni di copie vendute dai casi editoriali.
E ancora, nonostante il self-publishing abbia permesso ad alcuni autori di guadagnarsi il
proprio angolo di luce sotto i riflettori, spesso
è solo una tappa che precede la pubblicazione
con case editrici più o meno rinomate. Un ripiego quindi, quasi una scelta obbligata pur di far
apparire da qualche parte il proprio romanzo, in
attesa di pubblicare una più appagante versione
cartacea, che tenta e ammicca ai lettori dagli
scaffali delle librerie, senza dover ricorrere alla
vanity press, che poco dà agli scrittori, se non
il piacere di stringere fra le mani il proprio libro stampato. Questo atteggiamento mette in
luce un aspetto sottovalutato della rivoluzione
dell’autopubblicazione: questa forma di pubblicazione non è ancora considerata dagli autori
stessi e accettata dalla critica come un punto di
arrivo. Non rappresenta il traguardo sognato, il
coronamento di tanti sogni; al contrario sembra
raffigurare per lo più una sfavillante vetrina di
giovani dalle belle speranze, che mirano ad attirare l’attenzione di qualche casa editrice. L’autopubblicazione sarebbe quindi solo un mezzo per
arrivare a quella che è ancora considerata come
una ben più prestigiosa pubblicazione: quella con una casa editrice. Forse perché questo
rappresenta il sogno più grande degli scrittori
moderni, o forse perché la risonanza che ne acquisisce il libro è di tutt’altra portata: campagne
pubblicitarie di larghe vedute e accesso a canali
di comunicazione ad alto impatto portano altri
risultati, anche se i libri che ne sono oggetto
non sono sempre i titoli migliori del genere. Tutto si gioca su un equilibrio delicato di interessi
delle case editrici e prodotto proposto dall’autore, che solo in alcuni casi porta a una felice
pubblicazione.
Questo è il panorama che si prospetta attualmente, perlomeno in Italia: romantici, forse ancora legati alle tradizioni, i lettori italiani fanno
fatica a lasciarsi alle spalle la cara versione cartacea e gli autori subiscono ancora il fascino dei
grandi nomi. Il bacino dei lettori è ancora piccolo
e in crescita lenta: se circa il 50% della popolazione dichiara di leggere almeno un libro all’anno,
Editoria
welcome to the jungle
un’ampia scelta di pacchetti destinati agli autori intenzionati ad autopubblicarsi, con una
fascia di prezzo compresa tra i duemila e i venticinquemila dollari a seconda del tipo di libro.
Ed è qui che, bisogna proprio dirlo, comincia a
essere necessario prestare assoluta attenzione a quanto viene offerto e all'obiettivo stesso
alla base dell’esistenza di queste agenzie: proposte come quelle della Archway Publishing
rischiano di rivelarsi ben poco produttive – per
non dire assolutamente negative – per chi
vorrebbe ricorrere all’autopubblicazione come
canale per diffondere il proprio libro. Inoltre,
l’intervento di queste “agenzie letterarie” ripropone un meccanismo simile a quello delle
case editrici, riportando gli aspiranti autori a
ripercorrere sentieri già battuti, questa volta
però pagando di tasca propria, quando invece
dovrebbero affacciarsi a una nuovo mondo che
vede il suo punto di forza proprio nel fatto che
è gratuito e di facile accesso. Queste realtà
si affiancano e poco si discostano dalle case
editrici a pagamento – vanity press, che hanno
già di per sé attirato molte critiche –, con richieste monetarie importanti, che rischiano di
creare un flusso di denaro a senso unico, i cui
unici beneficiari risulterebbero essere le stesse case editrici.
Una recente statistica effettuata negli USA,
e riportata dal New York Times, ha messo in luce
che ben l’81% delle persone intervistate sentono di “avere un libro dentro di sé” e che, di conseguenza, vorrebbero scriverlo. Non c’è quindi
da stupirsi che l’autopubblicazione rappresenti
un mercato tanto florido. Vero è che l’assoluta
convinzione della validità del proprio lavoro non
è di per sé sufficiente: non basta avere buone
idee per ottenere il successo, né tantomeno basta essere convinti di aver prodotto qualcosa di
buono. Spesso un buon libro non nasce pronto
per la pubblicazione, ma subisce un percorso
di maturazione e revisione da cui emergerà il
prodotto finale. Percorso che, purtroppo, viene
a mancare nel caso dei libri autopubblicati, motivo per cui, esclusi rari casi, questi libri si presentano al pubblico con una serie di pecche e
ingenuità che ne alterano la godibilità. Non per
niente a fianco dei successi dell’autopubblicazione (il successo comunque non ne garantisce,
comunque, la qualità letteraria) – John Locke e
solo il 15% ne ha letti più di 15. Al contrario, il
mercato americano è molto più affascinato dal
mondo digitale e dai nuovi autori, oltre a rientrare nel già citato e ricchissimo bacino anglofono,
tanto che si sta facendo strada un nuovo concetto: “wag the long tail” (far scodinzolare la
coda), che consiste nell’idea di accumulare molte piccole vendite, specie su Internet, che nel
lungo periodo andranno poi a sommarsi dando
grandi profitti. Questo è facile nel mondo digitale, che sta creando tante piccole nicchie, ognuna con la sua fetta di pubblico e di acquirenti.
Indipendentemente dalla visibilità che possono
offrire le case editrici, ogni autore autopubblicato può vendere il proprio prodotto in modo
efficace nella sua nicchia, aumentando il proprio guadagno. Un sistema che si avvale della
pubblicità su blog e social network e che trae
la propria forza dal caro, vecchio passaparola;
efficace e con un grande potenziale sulla carta,
questa catena non è così efficiente nella realtà,
per lo meno non in tutti i mercati. Infatti, come
risulta da una statistica canadese, il 10% degli
autori autopubblicati trae ben il 75% dei profitti. Quindi, la grossa fetta dei guadagni finisce
nelle tasche dei pochi autori che arrivano veramente al successo, mentre gli altri rimangono
nell’anonimato, spartendosi una fetta ben più
piccola della torta.
Tirando le somme, l’autopubblicazione sembrerebbe promettere di esaudire le speranze di
chi crede nel proprio lavoro, ma in realtà si sta
semplicemente affiancando alla pubblicazione
attraverso le case editrici come un ripiego di
scarso successo, tranne che per alcuni casi fortunati. Non si tratta solo di profitti, ma anche di
visibilità e riconoscimenti da parte del pubblico:
in un’era in cui chiunque, a costo zero, può improvvisarsi scrittore e in cui l’offerta di libri è
altissima, tanto da saturare il mercato, l’autopubblicazione non è stata, finora, la grande rivoluzione in cui molti speravano o la grande catastrofe che molti temevano. La verità è che non
basta far apparire il proprio libro sul mercato: il
prodotto che si propone deve avere un effettivo
valore; in caso contrario passerà inosservato,
come se non fosse mai stato pubblicato, nemmeno in versione digitale.
Alcuni consigli per chi vuole cimentarsi in quest’esperienza, facendo
in modo che sia positiva. Il punto cruciale è che il libro non può
essere solo una creatura dello scrittore, ma, per avere successo,
deve piacere a chi lo sta leggendo, di modo che lo faccia conoscere ad altre persone. Ecco i passaggi irrinunciabili per proporre un
buon libro autopubblicato.
Editing: è quel processo di correzione, condensazione e organizzazione del manoscritto con il fine ultimo di produrre un lavoro coerente, accurato e completo.
Spesso sottovalutato, un editing ben fatto può essere invece la carta vincente.
Manoscritti poco curati, pieni di errori, refusi e incongruenze stancano e annoiano
il lettore che, di conseguenza, non serberà un buon ricordo del libro.
Formattazione: un altro punto di forza, molto utile anche al lettore. Un testo
giustificato appaga immediatamente lo sguardo – se vi è mai capitato di trovarvi
di fronte a testi non giustificati potete capire a cosa mi riferisco – e conferisce
prontamente un aspetto ordinato. Ci sono poi altri piccoli particolari di cui avere
cura, come l’utilizzo del corsivo quando si esternano i pensieri di un personaggio,
la dimensione del font e così via.
Copertina: anche se l’abito non fa il monaco, la giusta copertina è un biglietto
da visita importante. Per quanto i lettori non si fermino solo all’impatto visivo –
anche se non c’è da sottovalutare quella nicchia di lettori che comprano un libro
d’impulso perché innamorati proprio della copertina –, è anche vero che una bella
copertina attira la loro attenzione ed aumenta le possibilità che si spingano per lo
meno a leggere la sinossi del libro, valutando la possibilità di comprarlo.
Sinossi: se la copertina ha il compito di attirare lo sguardo del lettore, la sinossi ha l’ardua missione di convincerlo e indurlo all’acquisto. Una buona sinossi
non deve essere troppo lunga e non deve rivelare troppo al lettore, ma, allo stesso
tempo, deve svelargli quel “tanto basta” del libro che catturi il suo interesse. La
sinossi non è un semplice riassunto, né tantomeno una descrizione dettagliata e
va ben ponderata perché induca l’effetto sperato.
Inserire l’e-book nei maggiori distributori: va da sé che tanto
lavoro non può rimanere un triste PDF in una cartella del pc. È quindi d’obbligo
inserire il proprio e-book nei canali di distribuzione, specialmente Amazon – che
permette di farlo in forma del tutto gratuita – e, perché no, l’e-book store di Apple.
Per entrambe le soluzioni sono i distributori stessi a fornire online tutte le linee
guida, rendendo piuttosto semplice il processo.
Studiare una campagna pubblicitaria: il fatto che, finalmente,
il proprio libro sia comparso online non lo rende di per sé un successo. È ora necessario far sì che il pubblico conosca la sua esistenza. Per questo è importante
pianificare un’estesa campagna lancio sul web: coinvolgere blog letterari, condividere le recensioni dei lettori, creare un sito e pagine sui maggiori social network
dedicate al libro. Insomma: tutto ciò che può dare visibilità alla propria opera.
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connections © anita zofia siuda
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Editoria
PICCOLA GUIDA ALL’AUTOPUBBLICAZIONE
LA
FRONTIERA
N U O V O
A T L A N RTOE
DEL LIB
di Fabio di Pietro
una breve (nei casi migliori) orazione che deve
indurre chi tiene in mano il libro – sospeso sul
bordo del precipizio del testo come un tuffatore
al limite del trampolino – a rompere gli indugi e
gettarsi.
Bene: che fine fanno nel mondo digitale? Anche in questo caso la lezione che l’editore deve
accettare è sì amara ma anche breve: scordati di
esercitare un pieno controllo.
L’editore stende un testo di quarta ma non c’è
più alcuna quarta su cui imprimerlo, scrive testi
per le alette ma le alette del libro sono scomparse – come quelle di un animale preistorico che si
è evoluto oltre lo stadio che le richiedeva.
L’e-Book è un oggetto a due dimensioni, non
ha un retro, si muove su coordinate infinitamente ampie ma schiacciate su un piano – anche se
fatto di materia binaria. Eppure anche nelle librerie digitali serve un insieme di informazioni che
descrivano il libro a chi non lo conosce già. La
differenza è che
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Q
:
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Seconda Tapp
N
ella prima tappa della nostra esplorazione della frontiera – la nuova mappa
dell’editoria illuminata dall’alba digitale
– abbiamo visto come la copertina si stia liquefacendo fra le dita di chi se ne occupa: ne resta
solo un ectoplasma incorporeo e spesso lillipuziano, adattato alle esigenze degli scaffali digitali.
Continuiamo dunque a fare a pezzi affettuosamente il libro e a scoprire la nuova parte in
commedia dei suoi elementi costitutivi. È il turno
dei risvolti – o alette – e della quarta di copertina, spesso riassunte gergalmente con il termine
paratesto (impropriamente, perché si tratta di un
termine ombrello più ampio che racchiude tutto
ciò che sta attorno al testo, dalla copertina al colophon, passando per introduzioni e postfazioni).
Parliamo insomma di tutti quei “piccoli testi” che
presentano, inquadrano, profumano il testo principale – quello che solitamente chiamiamo “libro”
identificandolo con il suo contenitore – invitando
il potenziale lettore a scoprirlo e apprezzarlo.
Se la copertina è il ritratto del libro e insieme il
suo biglietto da visita, quarta e alette sono il suo
curriculum e la sua lettera di presentazione. Sono
sono le librerie stesse a scegliere come organizzare queste informazioni, dove collocare questi
testi e quanti prevederne. In poche parole: le librerie online sono diventate gli editor degli editori, facendo proprio il diritto di intervenire sui
testi modificandoli, abbreviandoli o arricchendoli
per adattarli agli spazi che decidono di dedicare a
questa funzione.
Il fulcro del cambiamento è proprio il sovvertimento di questi spazi: mentre i testi pensati per
quarta e alette prima occupavano l’area loro allocata su un oggetto fisico prodotto e controllato
dall’editore (il libro cartaceo), oggi utilizzano spazi
dimensionati e messi a disposizione dalle librerie
digitali. Occupano insomma parte della “metratura” a disposizione sulle pagine web che fanno
da vetrina e da scaffale. Chiaramente i rivenditori
utilizzano ampiamente i testi forniti dall’editore –
in fondo chi conosce il libro meglio di chi l’ha pubblicato? – ma non sono tenuti a farlo, non sono
tenuti a mantenere il testo intatto, e questa è una
differenza fondamentale.
Il gesto di notare un libro su uno scaffale,
prenderlo in mano, girarlo per leggere la quarta
o aprirlo per leggere le alette, viene sostituito nel
mondo digitale dalla lettura (spesso più frettolosa) di informazioni su una pagina web. Pagina
che, nel caso di browsing su dispositivi mobili, potrebbe essere rimpicciolita tanto da scoraggiare
una lettura vera e propria, favorendo lo skimming,
una scorsa superficiale e frettolosa del testo.
Inoltre, come è ovvio, ogni store utilizza standard diversi e ha pagine web impostate in maniera differente, che allocano ai testi descrittivi uno
spazio variabilissimo. Capita dunque di vedere lo
stesso testo “di quarta” tagliato abbondantemente su una vetrina virtuale e ampliato, attingendo
alle più varie fonti, su un’altra.
Che fare dunque, nel momento in cui ci si accinge a lavorare a questa parte paratestuale di
un volume, per poi affidarla alla sensibilità di ogni
singolo rivenditore? Come nel caso della copertina non c’è una risposta giusta, non c’è (ancora?) una prassi consolidata. L’azzardo migliore
sembra quello di pensare modularmente. Dire addio insomma alle lunghe, spesso troppo lunghe,
quarte di copertina dei tempi andati. Dire addio
a biografie degli autori che spesso sfidano il libro
stesso per estensione. Occorre iniziare a pensare
per blocchi di informazione, riportando subito gli
elementi essenziali, nella speranza che almeno
le prime righe siano utilizzate dalla grande maggioranza dei rivenditori, dividendo per tipologie il
contenuto che si vuole trasmettere ed evitando
lunghi discorsi destinati a non essere letti. Andrà
limitata all’essenziale anche la biografia dell’autore/autrice (rimandando ovunque possibile alla
pagina web a lui/lei dedicata sul sito dell’editore
o alla sua pagina personale).
Non facciamo l’errore di dare per scontato che
ragionare in un’ottica “libresca” sia la strada vincente. Oggi vanno studiate con attenzione le strategie utilizzate in mondi un tempo lontanissimi e
oggi contigui nella frontiera, come quello dei videogiochi e delle app: poche informazioni, approccio
diretto, grande visibilità alle recensioni (anche degli utenti). Nessun poema esteso ma tanti haiku.
La frontiera non tollera i sofismi e gli sproloqui,
punendoli con l’irrilevanza. Il mestiere dell’editore diventa, sempre più, una lotta per tenere la
testa dei propri contenuti fuori dal livello delle
rapide, sfruttando la velocità della corrente per
diffonderli ma evitando di essere trascinati via e
dimenticati.
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Editoria
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Aprire
di Stefania Auci
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n autore che cerchi un agente letterario
vuole raggiungere o mantenere il successo. Vuol trovare il suo personale mago di
Oz, che gli regali una formula per un esordio rapido e indolore e contratti che fioccano a uno
schioccar di dita.
Questo agente non esiste, almeno non nel
panorama editoriale italiano. Esistono però
professionisti che interpretano il loro ruolo con
passione e rispetto, coniugando una conoscenza profonda del mercato a una buona dose di
coraggio e “spalle larghe” che si traducono in
un impegno completo verso l’autore e il suo
manoscritto. Lo stesso tipo di responsabilità
che viene richiesto a chi lo scrive, quel testo,
poiché scrivere significa “sporcarsi le mani”
con le proprie emozioni, spostare più in avanti
il traguardo da raggiungere, non aver paura di
osare e contaminare.
Questa è la filosofia alla base della Vicolo
Cannery, una giovane ma apprezzata agenzia letteraria creata da tre professionisti del
settore che hanno deciso di mettere in comune le proprie esperienze per – come dicono
loro stessi nel corso dell’intervista – reagire
alla crisi e non subirla. Il mondo editoriale italiano sta facendo i conti con una crisi epocale. Un momento di passaggio nel quale le case
editrici ripropongono modelli e prodotti ultra
sperimentati nella speranza di trovare un successo che non arriva. Questo è legato solo in
la pagina
e lasciare
che le storie
v’entrino
strisciando
da sole.
J. Steinbeck
parte alla crisi economica: trova una sua ragion d’essere nella saturazione del mercato
con prodotti-cloni che non stuzzicano in alcun
modo l’interesse del lettore.
I “protagonisti” di questa avventura sono tre,
anzi quattro, come D’Artagnan e i Moschettieri;
Tommaso de Lorenzis – che è la voce narrante
di quest’intervista –, Corrado Melluso, Tommaso Giagni e infine, last but not least, Martina Giorgi, ovvero la graphic designer. Fedeli
all’idea che contino i fatti più che le parole, gli
agenti della Vicolo Cannery hanno un sito,
gestito da Martina Giorgi, dove periodicamente
pubblicano racconti e brevi saggi dei loro autori.
Ciò che si coglie da quest’intervista insolita
e molto interessante è proprio il coraggio e la
voglia di “andare oltre”, di frantumare schemi e
canali di comunicazione su cui si basa l’editoria,
oggi. Ed è forse questo coraggio, questo spirito
di innovazione che potrà ridisegnare gli equilibri del mondo editoriale per traghettarci in una
nuova fase in cui, è il caso di dirlo, “niente sarà
più come prima”.
Tommaso de Lorenzis ha risposto, a nome di
tutti e tre, alle domande che Speechless ha posto loro.
Speechless: Vicolo Cannery, un nome che –
è il caso di dirlo – è tutto un programma. Come
mai avete scelto questa denominazione, e perché proprio Steinbeck?
Tommaso de Lorenzis: Cercavamo un
nome che si collocasse all'incrocio tra letteratura e territori, e che richiamasse le mille storie dei “margini”, di ciò che – in apparenza – è
lontano dal centro. Le vicende dell'umanità di
Cannery Row erano perfette e si prestavano al
gioco di significati ambivalenti. Nell'incipit del
romanzo, Steinbeck scrive che gli abitanti di Vicolo Cannery, a Monterey in California, «sono,
come disse uno una volta, “Bagasce, ruffiani,
giocatori e figli di mala femmina”, e intendeva dire: tutti quanti. Se costui avesse guardato attraverso un altro spiraglio avrebbe potuto
dire: “Santi e angeli e martiri e uomini di Dio”,
e il significato sarebbe stato lo stesso». Ecco,
come in letteratura, anche nella vita è tutta
una questione di prospettive, di punti di vista,
di modi di vedere le cose. Per noi la duplicità
dei reietti di Steinbeck è diventata un'allusione ironica, una buona metafora per ricordare
che le distinzioni tra “centro” e “bordi”, “in”
e “out”, “underground” e “mainstream” sono
saltate da un pezzo. Che nell'industria culturale esiste un'intelligenza collettiva messa al lavoro, centrale a tutti i livelli ma disconosciuta
in termini di reddito e diritti.
invisibili, nelle pieghe profonde, nei coni d'ombra, ed è lì che vanno cercate. Aggiungi che
Cannery Row è considerato da alcuni un antesignano della letteratura beat, e che di sicuro è
il libro più “letteralmente” on the road di Steinbeck, e il gioco è fatto. Era un nome perfetto.
SL: Tre soci, tre persone con cammini culturali e umani diversi. Come vi siete conosciuti
e quando è nata l'idea di metter su un'agenzia
come la vostra?
TdL: Ci siamo incontrati per caso, a Roma,
in tempi diversi. Ho conosciuto Corrado nel
gennaio del 2010, in una libreria vicino a piazza Navona, alla prima lezione d'un corso in editoria. Diciamo che è stata una conoscenza...
onerosa, visto che la quota d'iscrizione al corso
ammontava a circa 3000euro. Comunque l'idea
di fondare un'agenzia letteraria è stata sua. Mi
fece la proposta un anno più tardi. Eravamo entrambi fermi, le cose non giravano granché, e
lui ebbe l'intuizione di provare ad agire la crisi,
invece di subirla. Insomma, se c'è poco lavoro,
proviamo a inventarne uno, diceva. Confesso
il mio scetticismo di allora. L'anagrafe mi ha
dato modo di misurare una certa retorica anni
Novanta sull'intellettualità diffusa e la “classe
creativa”. Quella – per intenderci – che celebrava le mille possibilità di liberazione dai vincoli
del salario e dalla dipendenza della prestazione
d'opera attraverso modelli d'impresa “socialmente sostenibili”, capaci di contendere alla
committenza ambiti di manovra o spazi di autonomia. In quel periodo si parlava di «impresa
politica autonoma». È un discorso che ha illuso
un sacco di gente, prodotto danni incalcolabili e
generato un esercito di precari. Oggi, al di là dei
timori iniziali, posso dire che l'intuizione di Corrado è stata giusta. A debita distanza da letture
ottimistiche, era quello che andava fatto e ne
valeva la pena.
Tommaso Giagni l'abbiamo conosciuto poco
tempo dopo grazie a Marco Di Marco, editor
della Narrativa italiana Marsilio. Quindi, di fatto
siamo partiti tutti insieme, ai tavolini di uno storico bar di via del Pigneto. Ci abbiamo messo un
attimo a intenderci. Stessa insofferenza, stessa
voglia di fare. Peraltro, a proposito di poetica e
“margini”, Tommaso è quello che – per ragioni di ordine letterario – lavora maggiormente
Editoria
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Che le storie crescono spesso negli interstizi
Circa gli autori e i romanzi va precisato che
l'attenzione al cosiddetto “genere” non è marginale. Gli editori sono continuamente alla ricerca di romanzi incardinati sugli schemi della
letteratura pop. Basti pensare alla grande bolla
della crime story che ha segnato – nel bene e
nel male – la produzione libraria degli anni Zero.
Noi accettiamo di giocare la partita, convinti
che la grammatica dei generi vada reinventata
di continuo, liberando il campo da banali ricalchi o pedisseque riscritture. Uno degli aspetti
più interessanti del
pop letterario d'inizio
secolo, in Italia, è la
sovversione “segreta” del registro medio: cioè quel lavoro
sulla lingua che si
consuma nei rovesci
d'una prosa apparentemente colloquiale
e ordinaria, dominata
dalla terza persona
e da un andamento
regolare. Invece, per
quanto riguarda il registro comico che – in
declinazioni differenti
– caratterizza i lavori di due nostri autori
come Gianni Solla e
Mattia Torre, beh, in
quel caso vale quasi
una ragione “politica”.
L'Italia ha smesso di
ridere o – peggio –
ha cominciato a ridere male: più o meno
dagli anni Ottanta in
avanti. Ed è paradossale per un Paese che sul comico ha costruito la fortuna delle proprie arti: da una certa
poesia alla commedia dell'arte, fino alla commedia all'italiana. Per noi, una black comedy
come Il fiuto dello Squalo di Solla o i lavori di
Torre, sospesi tra narrativa e teatro, sono una
scommessa nei termini d'una vera e propria “rieducazione” alla risata.
SL: Rapporti con gli autori. La cosa più buffa
che vi sia capitata di sentirvi dire e/o leggere.
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E la cosa più bella.
TdL: La più buffa, e tragica: «Sono scrittore,
poeta, artista». La più bella: «Avevo deciso di
non scrivere più». Questa è stata detta la mattina del 7 febbraio 2011, in un bar di fronte alla
stazione centrale di Milano, prima di andare a
chiudere con successo un accordo editoriale.
SL: 2012, annus horribilis dell'editoria italiana, specialmente dell'editoria indipendente.
Quali sono le prospettive per il 2013?
TdL: L'impressione è che questa crisi non sia
congiunturale, bensì strutturale. Un uragano,
dopo il quale niente sarà più come prima, che
ha pesantemente inciso sui fondamentali del
settore, determinando un calo di tutti gli indicatori: prenotati, tirature, anticipi, venduti, numero
dei cosiddetti “lettori forti”, ecc... In questo senso, il ragionamento anno per anno è fuorviante.
Se anche il 2013 registrasse un'inversione di
tendenza, siamo comunque in un “dopo Cristo”
del mercato librario. La prospettiva dovrebbe
essere quella del medio-lungo periodo, l'unica
temporalità in cui è possibile immaginare significative innovazioni e misurare la bontà di investimenti strategici.
SL: Quali sono le caratteristiche che deve
avere un manoscritto per interessare voi e, in
seconda battuta, gli editori?
TdL: Semplicemente dev'essere un buon libro. La nostra idea è che la furbizia, il calcolo
commerciale, la ricerca della tendenza o della
moda – alla lunga – non paghino. Non importa
che si tratti di un poliziesco, d'una commedia
nera o di un romanzo caratterizzato dalla ricerca linguistica. Certo, non sempre i buoni libri
vengono pubblicati e si prova tanta frustrazione quando un titolo in cui hai creduto non trova un piazzamento editoriale. Il problema è che
non esiste, almeno per noi, il discorso inverso:
cioè, l'individuazione d'una chiave che in astratto possa incontrare il favore dell'editore, prima,
e del pubblico, dopo. Anche perché il successo
dei libri, il più delle volte, è dettato da clamorose botte di culo o da ragioni imperscrutabili. Diciamo spesso che ci piacerebbe trattare perfino
romanzi di fantascienza, genere che, dopo
il fenomeno sociale del cyberpunk nei Nineties, è diventato un filone disgraziato.
Quindi, nessuna preclusione pregiudiziale.
SL: Siete tre persone con background diversi. Come lavorate sui testi che giungono sulle
vostre scrivanie? Quali sono le basi, a vostro avviso, per un buon lavoro di squadra in un campo
"particolare" qual è quello della scrittura?
TdL: Se viene fatto bene, il lavoro collettivo produce un incalcolabile valore aggiunto e la
differenza di background da problema trasmuta
in occasione. Il fatto che abbiamo trascorsi diversi e differenti attitudini diventa una grande
risorsa quando “incrociamo” le letture dei testi.
Il giudizio su qualcosa che esula dal naturale
campo di occupazione e interesse richiede una
maggiore assunzione di responsabilità, insieme a un esercizio di disciplina teso al contenimento di gusti, orientamenti, idiosincrasie. Il
confronto continuo è la premessa per fondare
questo tipo di condivisione, per socializzare gli
specifici delle singole esperienze. Come in tutte
le realtà collettive non mancano gli scazzi e i
confronti accesi, ma – senza cedere al politicamente corretto – aiutano pure quelli. I testi su
cui lavoriamo sono selezionati sostanzialmente
all'unanimità. Puntando su un numero contenuto di titoli, dobbiamo basarci per forza di cose
su un convincimento solidissimo. Anche perché
i nostri editing sono gratuiti e questo significa
investire tempo e lavoro in assenza di un immediato riscontro economico. Una pratica di questo tipo pretende una fortissima comunanza di
intenti. E alla fine meriti ed errori sono sempre
e rigorosamente di tutti.
SL: Quali sono gli autori che un aspirante autore tassativamente dovrebbe leggere prima di
dire "Ho scritto un romanzo”?
TdL: Qui rispondo a titolo del tutto personale.
Per quanto mi riguarda non s'impara a scrivere
leggendo. O meglio: non ci sono letture vincolanti – tassative, per l'appunto – senza le quali
non si ha il “diritto” di scrivere un romanzo. Se
uno mi dice che ha imparato a usare le tecniche narrative guardando i film di Sergio Leone,
sfogliando fumetti, “drogandosi” di fiction tv o
leggendo per tutta la vita due geni come Salgari e Dumas, a me va benissimo. Non pretendo la
conoscenza di Kafka, Joyce e Proust. Leggere
serve – oppure dovrebbe servire – a editor, critici, storici e teorici della letteratura.
SL: Il mercato editoriale italiano viene spesso
accusato di essere provinciale, legato a logiche
Editoria
sul rapporto tra centro e periferie, e sul confine sfuggente che separa il primo dalle seconde, come testimonia L'estraneo, il suo romanzo
d'esordio uscito nel maggio dello scorso anno
per Einaudi Stile libero.
Ad ogni modo, più che di “tre soci” parlerei
di quattro amici (e molto più) che – da circa due
anni – condividono i tempi della quotidianità.
L'agenzia non esisterebbe senza l'apporto complessivo e, in particolare, il lavoro di selezione
iconografica di Martina Giorgi, che dal primo
post “veste” il sito e
crea di fatto lo stile con
cui stiamo sulla scena
pubblica.
SL: Nel panorama
editoriale italiano, la
Vicolo Cannery si segnala per l'attenzione
agli scritti di saggistica
e per la scelta di autori
e di romanzi "outsider".
Che risposte avete avuto da parte degli editori
per questi generi?
TdL: In realtà il nostro interesse per la
saggistica
riguarda
più le inclinazioni personali che una vera e
propria “linea d'agenzia”. Ci accomuna uno
sguardo laico e privo di
pregiudizi. Nel lavoro
editoriale non accettiamo gerarchie precostituite né discriminiamo
tra saggio e narrativa,
narrativa del “vero”
e narrativa di finzione, “Letteratura” con la “elle” maiuscola e letteratura
popolare. Personalmente nutro grande interesse per forme di scrittura ibrida, per quel tipo
di espressione che si colloca a metà strada tra
saggio, biografia, narrazione letteraria, e che
guarda – tra le altre cose – ai modelli del new
journalism d'oltreoceano. Di certo sul nostro sito
ospitiamo interventi d'una saggistica disinvolta
e pop, che spesso ammicca ai popular culture
studies.
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w w w . u r b a n - f a n t a s y. i t
nome di quella che taluni chiamavano “paraletteratura”.
SL: Con quale interesse e come vi ponete
dinanzi al mercato digitale? Credete che esso
possa davvero risollevare le sorti dell'editoria
italiana, come alcuni affermano, o si tratta di
una modalità di pubblicazione che si assesterà
su logiche diverse e proprie rispetto a quelle del
mercato cartaceo?
TdL: I commerciali delle case editrici esibiscono da un po' di anni grafici con diagonali che
svettano a indicare la crescita del mercato digitale e dell'e-book. Io non credo nella palingenesi
a mezzo pixel. Rispetto all'Italia immagino una
situazione in cui l'e-book affiancherà – come
già accade – il cartaceo, sollecitando particolari forme di consumo, complementari a quelle
tradizionali. Detto questo, è bene specificare
che il vero salto tecnologico non è stato ancora compiuto. Il libro digitale non è una versione
smaterializzata di quello cartaceo. Dovrebbe
essere piuttosto una forma espressiva nuova
che mette in discussione la stessa nozione di
autore, aprendo al lavoro collettivo, alla ricerca di equipe, all'elaborazione di prodotti in cui
si mischiano davvero immagini, testi, contenuti
audio-video e perfino elementi ludici secondo
inedite regole di significazione. Quella è la vera
frontiera.
SL: A vostro avviso, cosa manca oggi al mercato editoriale in Italia per uscire dalla crisi?
TdL: Direi il coraggio. La risposta degli editori alla crisi è stata la reiterazione di formule
vincenti nel passato. Parlo di generi, titolazioni,
confezionamenti, campagne di marketing e via
dicendo. L'assioma recita: «Ciò che ha funzionato
prima deve funzionare anche ora». E invece non
è così. Per il semplice fatto che non è un assioma, bensì il mantra della paura, dello scongiuro
e dell'autoconvincimento. Come non è detto che
un prodotto straniero di successo debba essere
declinato automaticamente in versione “made
in Italy” con le medesime performance commerciali. Ho l'impressione che si sia persa quella
capacità di sperimentazione che ha alimentato
la letteratura italiana tra la fine dei Novanta e
la metà degli anni Zero. Lo dico anche rispetto a
quegli autori che ripropongono chiavi narrative
ormai acquisite. Il punto è non farsi trovare mai
dove ci si aspetterebbe, tentare di sparigliare o
rilanciare. Di sicuro è un discorso pericoloso che
presuppone un'importante assunzione di rischi.
Ma è proprio nei periodi recessivi che occorre
investire, scommettere, affilare il cervello e farsi venire buone idee.
SL: In una parola: cosa cercano oggi gli editori italiani?
TdL: Quello che cercavano ieri: libri che
vendano.
Editoria
www.speechlessmagazine.altervista.org
pseudointellettuali che spesso affossano libri e
letture. Voi cosa ne pensate?
TdL: Se ti riferisci a certi pregiudizi di matrice idealistica che inquinavano la produzione libraria, discriminando – ad esempio – tra generi
e letteratura “alta”, credo che queste posizioni
conservatrici e oggettivamente “di destra” oggi
siano residuali. Gli anni Zero hanno affermato
nuove centralità, rovesciato gerarchie, sdoganato chiavi espressive. Di sicuro in questo processo c'è stato anche un aspetto negativo, un backlash, una contro-spinta normalizzatrice, legata
all'inflazione di un particolare genere, al banale
ricalco dei modelli, alla riduzione di complessità dei registri sotto la dittatura della commedia
d'ambiente. Penso a quello che è successo nel
giallo post-camilleriano dove ormai prevalgono
le chiavi di un'ironia comoda che punta quasi
tutto sugli effetti dell'ingiuria dialettale e della
battuta facile. Tuttavia, se attualmente, in Italia, esiste una cittadinanza più larga in campo
narrativo, è merito delle battaglie condotte nel
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Non so se questa puntata verrà
pubblicata perché sto sforando lo sforabile, ma sarebbe
un peccato (eppuoi capire):
un amico che segue un corso
di scrittura mi ha inviato
i consigli del suo Maestro
('M' rigorosamente maiuscola). Lui li ha registrati e
trascritti. Io ve li propongo, appena riscaldati.
Si vada a cominciare.
Statemi sani,
Giovanni
[email protected]
P IX E L
RUBATI
di GIOVANNI ARDUINO
... perché la cosa più importante sono i polpi. Insomma, non fai un buon romanzo
se non ci metti i polpi. Da qualche parte devi infilarceli. In particolar modo in un
buon romanzo fantasy. Dai, togliamo anche buono, sia da romanzo sia da fantasy.
Se fai un romanzo, punto. Anzi, no, forse
no. Se fai un romanzo che vende. No, che
venda, bisogna ricordarsi del congiuntivo.
Però, se devi scegliere, butta a mare
il congiuntivo e conserva i polpi. Oppure butta a mare anche i polpi che loro ci
stanno benissimo, lì dentro. Ci sguazzano.
Il congiuntivo meno.
Mi raccomando, cerca di conoscere
il tuo polpo. Guardalo dritto negli occhi
come farebbe l’ispettore Callaghan. Non
chiederti che cosa c’entri adesso Clint
Eastwood ma fallo lo stesso. E mi raccomando, polpo, non polipo, ché sono due
cose diverse. Con il polipo il romanzo non
è buono. Insomma, non vende. Con il polpo invece sì, ti giuro.
Il polpo lo puoi ficcare dappertutto.
Se vuoi il fantasy, ci sono le regine polpo
i re polpo i principi polpo i mostri polpo i
draghi polpo i nani polpo gli elfi polpo i
maghi polpo gli stregoni polpo i troll polpo. Se vuoi l’horror ci sono i vampiri polpo
i lupi polpo i frankenstein polpo gli spettri
polpo gli zombi polpo (mi fermo prima). Se
vuoi il thriller, mi stoppo addirittura con
più anticipo: il detective polpo e la femme
fatale polpo. Sono sufficienti e farai un figurone. Si schioccano certi baci a ventosa
che lévati. Se vuoi lo storicomistericofinancoesoterico, l’incunabolo maledetto
del polpo segreto è la via dritta e sicura;
trova una ricetta adatta e cucina il polpo
dove vuoi tu, magari in una biblioteca o
in una catacomba. Nel caso, indicato il
polpo albino: fa la sua polpa figura.
Se vuoi l’erotico, già prima abbiamo
parlato di ventose, che altro bisogna aggiungere, l’octopus porn (per gli amanti
del genere octopussy porn, e chi vuole capire capisca) è il filone che tira e fa tirare
da New York a Crescentino, e suo protagonista incontrastato è il polpo con la frusta. Ventose, frusta, inchiostro, tentacoli,
dai, fermiamoci di nuovo. Se vuoi la nuova
letteratura semi-chick per lettrici semi-ebasta che si vergognerebbero a leggere
svevacasatimodignani ma in realtà farebbero meglio a, ci sta il polpo tiffany e il
polpo che profuma di polpo. Eppoi, se
non ti sconfinfera, considera le classifiche: l’oroscopolpo, il gramepolpo che pare
non porti gramo (a dispetto del nome) ma
piace tanto ai lettori de La Stampa, la polpozzetta che fa ridere le polpozzette con
battute di alto polpo, oppure...
Per i ragazzi, mi chiedi? Beh, i piccini adoreranno Polpo Polpilton (su, il
nome te lo regalo) mentre per i più grandicelli Polplight è polpo vecchio che può
ancora fare buon brodino di pesce (anche
qui, titolo regalato).
Come dici, non vuoi parlare di polpi ma preferisci storie vere? E che, il
polpo è falso? Vabbe’, ricominciamo: a
Napoli, da un container escono centinaia
di polpi morti... Su, su, prendi appunti, se
no che mi paghi a fare.
Editoria
LE ROSE CHE NON POLPI
55
56
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u
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Le
a uno scrittore...
C
aro S., conosco la tua bella scrittura
italiana e, riguardo al confronto con
la letteratura straniera, ti rispondo
osubito. Su madrelingua e traduzioni, la risp
tile
sta è pur troppo semplice e tranchant. Inu
sta
girarci intorno: la traduzione o è disone
overso lo scrittore o è disonesta verso il lett
rapre. Cioè, il suo risultato è l’effetto di un
nte.
por to asfittico tra il significato e il refere
deIl testo tradotto o soffre d’insufficienza
anotativa perché per non padroneggia abb
ione
stanza il referente (deficit di significaz
ica
in entrata) o soffre d’infedeltà semant
sirispetto al testo originale (arbitrio nella
gnificazione in uscita).
Se ti sembra esagerata la critica alle tra
lo è.
duzioni, ti segnalo che agli stranieri non
ioni
Negli Stati Uniti, un mercato da 500 mil
blidi copie all’anno, nel 2011 sono stati pub
un
cati 15 (dicesi quindici) titoli italiani, per
e in
totale di non oltre 200.000 copie vendut
e
un anno! Quindi è evidente che lì sanno ben
no
qual è il deficit delle traduzioni… E san
eraanche come difendere la loro civiltà lett
e
ria, che artisticamente non è assolutament
so
superiore alla nostra. E io, caro S., lo pos
testi
ben dire, alla luce iperrealista di quattro
(in
inediti al giorno di tutti i generi letterari
ole)
gran par te romanzi di oltre 50.000 par
che la mia casa editrice riceve in media.
E quindi, caro S., quando hai fatto il mashai
simo possibile nella tua lingua, cioè
si,
dato nitore a lessico, grammatica, sintas
ermacrodrammaturgia (nel racconto div
)e
samente che nel romanzo, come ben sai
ro
microdrammaturgia, hai prodotto di sicu
ere
una buona prova d’arte, e puoi solo ess
que
un madrelinguista. L’ottimo su questi cin
sapiani è rarissimo (ma non è solo respon
di
bilità tua, S.!), in quanto tesse una tela
re
enorme complicazione, che non può ave
a
falle: il progetto è sempre semplice (un’ide
proletteraria, una trama…) anche se, poi, la
sduzione eccellente è enormemente comple
que
sa, per il rispetto microscopico dei cin
co.
punti, in modo singolare, plurale e recipro
que
Quando si ottiene che quella stella a cin
fipunte brilli, è già arte finissima (in arte
, Ingurativa qualcosa che somiglia a David
poi,
gres, Vermeer, Canova…). Per riuscire,
ndo
a produrre arte non soltanto maneggia
gi
la lingua, ma maneggiandone anche le leg
ani,
(Turner, Van Gogh, gli affreschi pompei
re
Rodin, Caravaggio…), ci vuole un superio
te,
senso sistemico della stella a cinque pun
o di
che brilli lo stesso pur se di sghimbescio
profilo…
Ma caro S., non estenuarti…
La luminosità della stella a cinque punte
e.
è condivisa con un’altro soggetto: l’editor
57
Editoria
di SERGIO BEVILACQUA
ì l’ar tista con la pubblicità: più si mostra
Cos
to
tut
to
fat
ha
e
tor
edi
un
afaCaro S., quando
meno dimostra. Lo scrittore dev’essere
isib
pos
nte
me
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sio
fes
pro
quello che gli è
(che sico.
le per valorizzare un processo artistico
o che la scrittura ritrova il suo deecc
Ed
le
è
re,
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scr
uno
no
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e
non è un’opera
e il suo stile. E l’albatros di Baudelaire
o
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lui,
cui
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due cose ins
spiega il resto.
iene
no l’emulsione) e di proiettarlo dove avv
grossolano, S.: capisci il proere
di
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No
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la
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la magia
i del personalismo, accetta e rirat
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l’aiuto. Nei mercati delle altre lingue
i
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il
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esco e francese) questo aiuto si chiama,
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Ha creato l’ar te.
perlopiù, Agente Letterario, mentre in Ital
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toper to: creato, col
questo aiuto si chiama quasi soltanto Edi
il
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Sul versante editor
re. E deve essere un aiuto vero: non ti dev
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versante però dov
privare del volare, anzi! Ti deve dotare
Itain
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L’editore non è un
E non deve essere come il gatto
!
are
min
cam
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lia è costretto a esserlo e quindi a res
Non dev’essere come il vecchio
pe!
vol
la
e
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L’editore è un co-artefice del succes
assassino di Coleridge o i derisori
io
rina
ma
o
ent
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tistico, e ciò consiste nel per fezion
rinai baudelairiani… Deve essere come
ma
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ent
am
ion
dell’opera d’arte letteraria, per fez
fratello amoroso, dalle spalle larghe e dal
un
rove
ing
to,
itche avviene nell’iperbole del tes
cuore buono, il primo lettore e l’ultimo scr
un
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com
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nabile dallo scrittore: testo lan
tore del tuo testo.
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razzo nel
Deve essere un Editore.
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a
la stella
E così, vola via di nuovo, S.: vola alto, alroant
pio
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l’es
bel
più
Lo scrittore è il
batros, per il cielo dei mari del sud!
tivo
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e
le
pologico del natura
tedell’esistenza della comunicazione: il con
tare
nuto. Non posso fare a meno di consta
e
che l’animazione che lo scrittore produc
pito
nel lettore col suo testo avviene a sca
tro
del suo parlare. Come un burattinaio die
(il
la baracca, se vuole che il suo burattino
otesto) sia espressivo, deve rimanere ass
e
lutamente immobile, mostrare unicament
enatarassia, distacco da contenuti e sentim
ino
ti: ed ecco, come per magia, il suo buratt
i.
(il testo) esprimere contenuti e sentiment
L'altro
modo di
leggere
A
prire una casa editrice è sempre una scelta coraggiosa. Nel caso di Emons il coraggio è amplificato dalla particolare linea editoriale, dal
momento che si occupa di audiolibri.
Cinque anni fa tre amici esperti e appassionati di
editoria, Hejo Emons, Viktoria von Schirach e Axel
Huck, si sono accorti che in Italia mancava quello che
in altri paesi era una salda realtà da tempo. Hanno
deciso di provarci, chiedendo ad amici autori se volevano leggere i loro romanzi. Grazie a Sandro Veronesi, Gianrico Carofiglio, Francesco Piccolo, Giuseppe
Culicchia e Melania Mazzucco, Emons ha potuto realizzare i primi audiolibri.
«All'inizio dovevamo convincere gli editori e gli
agenti a cederci i diritti audio» dice Viktoria von Schirach, fondatrice e direttrice editoriale. «Non era facile, ma grazie all'aiuto dei nostri autori ci siamo riusciti.
Un altro scoglio molto arduo da superare era la Siae
che protegge il diritto d'autore, e con cui bisognava
studiare una procedura per questo nuovo prodotto
editoriale. Ci sono voluti tempo, pazienza e molta
tenacia. Ci siamo però subito alleati con altri editori di audiolibri che erano già presenti sul territorio, Il
Narratore e Full color sound, e abbiamo creato un'associazione, AEDA, che avesse il compito di aiutare
l'audiolibro a farsi conoscere. È stata un’importante
conquista la creazione di aree audio nelle librerie e di
spazi per le recensioni sulla stampa. Grazie all'AEDA
abbiamo potuto istallare dei juke-box in quasi trenta
librerie. Questo permette al cliente di "assaggiare" gli
58
intervista a
Emons
audiolibri
audiolibri che rispetto al libro stampato hanno
il problema di non poter essere sfogliati. Per la
Emons in particolare la creazione di coproduzioni col marchio congiunto è stata molto positiva: con Marsilio, con Feltrinelli, con la LEV. Da
quando esiste la co-produzione con Feltrinelli,
poi, la collana Emons-Feltrinelli, siamo più visibili nelle librerie Feltrinelli, e questo è stato un
passo importante».
Nel 2011 secondo il rapporto sullo stato
dell’editoria in Italia a cura dell’Associazione Italiana Editori, il fatturato degli audiolibri
è stato di circa 700mila euro ed è in continuo
aumento. Questo significativo incremento è
dovuto al fatto che tutto il mercato digitale è
in piena crescita e raggiunge il 9,9% di quello
complessivo. Se fino a poco tempo fa i fruitori di audiolibri erano soltanto i non-vedenti e
gli ipovedenti, oggi in molti si rivolgono ai file
audio per poter gustare il piacere della lettura,
nonostante la vita frenetica. In auto, mentre si
fa sport o mentre in casa si svolgono le faccende quotidiane si può «leggere» un libro ascoltandolo dalla voce narrante di un attore o dello
stesso autore.
Noi di Speechless abbiamo intervistato
Viktoria von Schirach, Francesca Tabarrani,
dell’ufficio stampa e Flavia Gentili, direttrice di
Editoria
di gabriella parisi
59
Claudio santamaria durante le registrazioni
(g.c. Emons ©)
60
E: Anche qui le riunioni di redazioni gioca-
no una parte importante. Dopo cinque anni, ci
siamo resi conto che a volte funziona l’istinto:
riflettendo su un titolo, l’associazione con una
voce, e quindi un volto, è spesso immediata. Ci
piace pensare che per ogni libro ci sia il suo lettore.
S: Secondo voi, la lettura da parte di un
professionista è un valore aggiunto che aiuta il
lettore a comprendere meglio la trama e il messaggio di un romanzo? O per la comprensione
sarebbe meglio che il lettore vedesse il testo
con i propri occhi?
E: Come per l’appunto dice Benni, libro e audiolibro sono due diversi incanti. Anche a livello
di comprensione del testo, offrono due chiavi
di lettura differenti, ma ugualmente valide.
L’audiolibro a volte, grazie all’abilità del lettore
(autore o attore che sia), soprattutto quando
il testo è complesso (per esempio con Gadda
o Saramago), indubbiamente scioglie quei nodi
interpretativi – con il tono della voce, l’intonazione, il respiro – che la pagina muta non sempre rivela.
S: La lettura è indubbiamente un mezzo educativo che può essere volto anche a perfezionare la conoscenza della grammatica e dell’ortografia. Ovviamente, chi ascolta anziché leggere
non può trarne beneficio. Cosa ne pensate a
proposito?
E: Ci sono tanti altri vantaggi. I bambini allargano e perfezionano il loro lessico. Come
quando si studiano le poesie ad alta voce, la
ripetizione del suono permette di memorizzare meglio. I capolavori della nostra letteratura
sono nati con la recitazione, quindi l'ascolto
restituisce loro la qualità originale e ci aiuta a
capire meglio la loro struttura. Questo vale in
particolare per le nostre produzioni di epica –
Odissea, Iliade, Eneide – che permettono il piacere dell'ascolto integrale di un classico di cui di
solito si conoscono solo dei brani antologizzati
– ascoltare uno di questi capolavori nella loro
interezza è un'esperienza nuova e sorprendente. La musicalità del linguaggio, la capacità degli autori di catturare l'attenzione del pubblico
vengono evidenziati di più che non leggendolo
su carta, e questo è sicuramente un elemento
positivo anche per la didattica.
S: Come nasce un prodotto Emons, quali
sono le fasi salienti della preparazione di un
audiolibro?
E: Una volta stabiliti titolo e lettore e verificata la disponibilità dei diritti, si entra in sala di
registrazione. Questo è il tratto del percorsoaudiolibro più affascinante, il momento in cui
la parola scritta si fa voce. E poi, una volta terminata la lettura, inizia il lavoro da certosino
del fonico, che ascolta e quindi ricompone la
lettura, così come in sala di montaggio accade
per i film con il montatore. Nel frattempo, in
redazione, si ragiona sulla copertina, sui testi
per questa e sulla fase di lancio nelle librerie.
S: Nella narrativa per bambini ascoltare i
libri non è una novità – mi riferisco alle varie
edizioni di fiabe sonore e all’abitudine di farsi
leggere libri dalla voce dei genitori. Qual è il
fattore innovativo di Emons rispetto al prodotto
per l’infanzia?
E: Meglio sarebbe chiamarlo fattore di recupero. L'approccio di Emons nei confronti dei
bambini – rispetto appunto alle fiabe sonore
che hanno sempre avuto anche l'accompagnamento della musica – è quello, molto semplice,
di leggere una fiaba a voce alta, così come lo
farebbero una mamma, un papà, un nonno o
una nonna. Niente orpelli, solo la voce.
S: Quali sono stati, finora, i prodotti più apprezzati dal pubblico e perché?
E: Emons festeggia quest'anno il suo quinto compleanno. Da quando siamo nati, dunque,
gli audiolibri in assoluto più venduti sono stati
Orgoglio e pregiudizio letto da Paola Cortellesi,
L'eleganza del riccio letto da Anna Bonaiuto e
Alba Rohrwacher e Luna di carta di Camilleri
61
Editoria
produzione di Emons per comprendere qual è la
realtà italiana degli audiolibri.
Speechless: Molti dicono che il piacere
dell'ascolto non sia equivalente a quello della
lettura. È davvero così? Qual è il suo parere?
Emons: Sono due piaceri diversi ma al tempo stesso, trattando la stessa materia – che
è poi la lettura –, simili. Uno non annulla l’altro, anzi, si sostengono a vicenda. D’altro canto, l’oralità è parte del nostro Dna: prima che
i libri si diffondessero nella loro meravigliosa
forma cartacea, erano raccontati ad alta voce.
Diciamo che sono due modi di godere la lettura. Noi citiamo spesso, a questo proposito, una
bellissima frase di Stefano Benni: “Non c’è né
rivalità né inimicizia tra libro e audiolibro. È un
confronto tra due diversi incanti”.
S: In base a quali criteri scegliete i libri da
pubblicare?
E: Ne parliamo durante accese riunioni di redazione, improntate su una buona dose di spirito democratico e dove senso pratico e passione si incontrano e, a volte, anche si scontrano
nella scelta di un titolo, un autore, un attore, un
progetto.
S: Nel caso di classici stranieri, in base a
cosa scegliete l’edizione italiana da trasformare in audiolibro?
E: Due sono gli elementi imprescindibili: la
qualità della traduzione e la possibilità di ottenere dall’editore in cartaceo i diritti di riproduzione audio.
S: A parte i non-vedenti e gli ipovedenti, chi
sono oggi i più grandi fruitori di audiolibri?
E: I lettori forti e sicuramente i lettori nella
fascia d'età 35/40 anni. O i bambini, che adorano ascoltare qualcuno che legge loro le storie.
S: Nella realizzazione di un audiolibro solitamente scegliete per leggere il testo o lo stesso
autore, oppure un attore/doppiatore di grande
esperienza. Come fate a capire qual è il lettore
più indicato per uno specifico testo?
62
S: Esistono dei romanzi impossibili da trasformare in audiolibro? Quale progetto avete
dovuto abbandonare, perché irrealizzabile?
E: Crediamo che non ci sia testo che non
possa essere letto ad alta voce e quindi realizzato in audiolibro. Se qualcosa ci ha, a volte,
frenato è stata la lunghezza di un’opera – ma
non sempre. Produrre un audiolibro è costoso,
ore e ore in sala di registrazione, quindi di montaggio, e il mercato italiano, se pur più sensibile
di cinque anni fa, ha ancora delle preclusioni nei
confronti di un numero elevato di ore d’ascolto.
Ma, alla fine, l’integralità del testo, che è uno
dei nostri punti di forza, si è spesso rivelata la
scelta migliore.
S: In Italia il mercato degli audiolibri è in costante crescita, ma ancora troppo al di sotto
della media di altri paesi. Cosa si può fare per
migliorare?
E: L’Italia è un mercato editoriale a sé. I tempi
di assimilazione sono molto più lunghi. Pazienza, costanza, qualità, comunicazione e molto ottimismo. In realtà la ancora scarna diffusione e
quindi recezione degli audiolibri sono generate
Guarda
il backstage di EMONS
e l'intervista esclusiva
a Flavia Gentili,
Direttore di Produzione
63
Website: www.emonsaudiolibri.it
Jukebox (pillole di ascolto gratuito)
da un problema ben più endemico: la mancanza
di una seria, capillare, ragionata campagna a
livello nazionale a favore della lettura, in qualunque forma essa si presenti. Certo, i numeri
in Italia sono ancora lontani da quelli del mercato anglosassone, ad esempio. Ma l'audiolibro
è protagonista di una costante, anche se lenta
crescita. Le fiere – come quella appena conclusa al Palazzo dei Congressi dell'Eur, Più Libri Più
Liberi – sono il termometro di un suo graduale
affermarsi che vede attrarre a sé, e a noi, sempre meno scettici, sempre più curiosi e ormai
una folta schiera di "audiolettori" forti. Che si
trovano prima di tutto tra i lettori forti. Questo
proprio perché l'audiolibro è solo un'alternativa,
non un sostituto del libro. Per migliorare, si dovrebbe prima di tutto superare questa paura.
Aiuterebbe anche che i primi a mettere da parte lo scetticismo, o l'indifferenza in tanti casi,
fossero i giornalisti (fortunatamente non per
tutti è così!): sarebbe bello avere un approccio
maggiormente critico all'audiolibro, sempre più
recensioni sui giornali o nel web, classifiche addirittura, come già avviene in Germania, America, Gran Bretagna.
Editoria
letto da Luigi Lo Cascio. Nel cercare di dire perché resta sempre uno spazio insondabile (come
quello del passaparola per i libri), ma sicuramente il principale elemento vincente risiede in
tutti e tre i casi nell'abbinamento perfetto tra
testo e attore/lettore. Nell'adesione, nella rispondenza della voce a quel mondo che il testo
evoca. Così succede per Paola Cortellesi che
ha dato spessore e colore al microcosmo della
Austen in maniera impeccabile; alla Bonaiutoportinaia; ad Alba-Paloma; a Luigi Lo Cascio
che ci trascina nella Sicilia di Camilleri. Un titolo che, invece, sta andando benissimo oggi è
Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana letto
da Fabrizio Gifuni: in questo caso il successo
dipende sicuramente dall'eccezionale bravura
di un attore come Gifuni, che ha il merito di
sciogliere, proprio attraverso la lettura, un testo tanto letterariamente complesso e renderlo
più vicino a noi.
Una rubrica di
di MANUELA SALVI
N
oi abitanti del sottoscala siamo
piuttosto confusi, al momento.
Una volta era semplice vivere qui
tra vecchie scope (magiche) e cataste di
libri: sapevamo di essere autori per bambini e ragazzi ed eravamo felici, anche se
impolverati e spesso dimenticati.
Poi è arrivato lo Young Adult e niente
è stato più lo stesso. Le fasce d’età, già
storico problema, hanno invaso gli uffici
marketing e le redazioni, trasformando
delle banali conversazioni tra professionisti in messaggi in codice.
— Questa serie è più 7-9 o 8-10, secondo te?
— Ma un 9-12 può andare alle medie?
— Per favore, potresti trasformarmi
questo +11 che hai scritto in uno YA?
Lo YA ha portato una ventata di
freschezza nel settore, è innegabile.
drammatiche eppur filosofiche) mentre
agli autori italiani si chiede di volare basso. Di edulcorare. Di non pensare nemmeno di sfiorare certi argomenti perché
poi i genitori si lamentano. I genitori dei
giovani adulti, si intende, che hanno il radar in libreria ma una ventina di gradi di
miopia davanti alla TV, visto che di quella
non si lamentano mai.
Ecco perché quando si dice Young
Adult, in Italia non si è mai d’accordo. Chi
è questo Young Adult? Che fa? Cosa legge? Cosa vorrebbe leggere? Nel dubbio,
gli uffici marketing – terrorizzati – alternano momenti di impavida sperimentazione a ondate di perbenismo reazionario, costringendo noi scrittori per ragazzi
alla psicoanalisi e allo smarrimento in una
landa pericolosa chiamata Fascia d’Età.
Così in libreria troviamo “Proibito” di
Giovani Adulti e Vecchie Volpi:
Come il mercato ha inventato la letteratura per ragazzi
Menagerie © Kari-Lise Alexander
Ci ha regalato autori come John Green e
Sarah Dessen. Scrivere romanzi per un
pubblico di lettori che vanno dai quattordici ai diciassette anni è stimolante –
leggi: finalmente anche noi scrittori per
ragazzi possiamo ammettere che il sesso
esiste e che qualcuno lo fa. Se scrivi uno
YA, anzi, a volte sei obbligato a inserire
del sesso. Quanto? Dipende dall’editore,
ma è un primo punto fermo. Forse l’unico, a pensarci bene.
Perché poi la definizione di YA sfuma
in mille incertezze, specchio della cultura
italiana Paladina dell’Infanzia Cieca e Infinita e dell’altrettanto infinita discussione tra esperti, autori, insegnanti e genitori, educatori e saltimbanchi su cosa sia
giusto mostrare ai ragazzi, o meno. Salta
all’occhio come i fortunati autori stranieri
trattino i temi più disparati (incesto, omicidio, morte, cancro ma anche cose meno
Tabitha Suzuma direttamente dallo UK
– storia di un amore tra fratello e sorella, molto intensa e vera – accanto a una
serie di romanzi italiani in cui la psicologia dei personaggi adolescenti starebbe
bene in una fiction della RAI (e non è un
complimento).
Divertente osservare i poveri librai alla
ricezione delle novità. Proibito dove lo
metto? Nella sezione YA? Ma è troppo vicina ai libri di Geronimo Stilton, solo due
scaffali di distanza… e se qualche ragazzino lo sbircia? A nessuno è ancora venuto
in mente di mettere i libri proibiti sotto
una teca antiproiettile apribile solo con il
riconoscimento vocale del libraio, ma in
molte librerie si sceglie di spostare questi
romanzi direttamente nella sezione adulti. Perciò da noi il lettore è più Young e
meno Adult. Prendiamo nota.
Come dovremmo prendere nota di ciò
65
Editoria
64
Ingredienti per scrivere uno YA classico:
che accade a volte a un romanzo che arriva dall’estero: viene etichettato per una
fascia d’età più alta rispetto a quella d’origine. Cosa vuole dire?
Prendiamo “Sette minuti dopo la mezzanotte” di Patrick Ness (sì, ancora lui, lo
stracitato) che in Inghilterra e negli USA
esce nella fascia 9-12. Pluripremiato da
orde di ragazzini, osannato dalla critica,
già studiato come un futuro classico, approda in Italia grazie a Mondadori nella
fascia +12, scattando dunque verso i Teen.
Il tema è difficile, un genitore con un
cancro allo stadio terminale, un ragazzino protagonista in lotta contro un mostro
che ogni notte, sette minuti dopo la mezzanotte, lo tormenta psicologicamente.
Nessuno chiude questo libro senza piangere, e forse a nove anni è meglio risparmiarsi qualche lacrima. Va bene. Poi però
il romanzo attira l’attenzione della critica
e arriva in finale al Premio Andersen nostrano ma – sorpresa – nella fascia YA.
Risultato: i ragazzini inglesi di nove anni
leggono gli stessi libri degli adolescenti
italiani in prima superiore. Come è successo? Una semplice svista che è facile
correggere dando una giusta definizione.
Per YA non si intende “ciò che gli adulti
impongono come adatto ai lettori dai 14
anni in su”. La fascia d’età non è una fascia
elastica. Segue delle regole precise e condivise nell’editoria di tutto il globo. Per YA
si intende “romanzo contemporaneo che
tratti tematiche attuali e i cui protagonisti
abbiano tra i sedici e i diciotto anni”.
Il Conor di Patrick Ness ne ha dodici e il
lettore italiano è perciò confuso, e i genitori protestano perché della morte non si
parla a nessuna età, e gli editori piangono,
e gli autori valutano di tornare a fare quello che facevano prima di diventare autori
per ragazzi, e gli esperti si chiedono come
mai i ragazzi dopo le elementari non leggano praticamente più.
La risposta è tra queste righe. Ma forse tra qualche mese non sarà più valida,
perché è stato appena annunciato dagli
editor americani l’arrivo dei romanzi NEW
ADULT, per lettori dai 18 ai 23 anni. Che
qui in Italia saranno libri +50, probabilmente.
Uscire da questo tunnel è complicato.
Non basta dare tutti questi numeri. Del
resto siamo in un Paese in cui i “giovani
scrittori” possono avere anche quarantacinque anni…
di Sarah Dessen
,
o
n
ta
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lo
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a
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Troppo vicino pe
, di John Green
Colpa delle stelle
a Suzuma
Proibito, di Tabith er
ll
Niente, di Janne Te i Cate Tiernan
,d
Amore immortale ba, di Aidan Chambers
m
Danza sulla mia to
67
Editoria
- Un lui e una lei, o due lui, o due lei. Insomma, una coppia di qualche tipo
- Una tematica attuale, contemporanea, da sedici-diciottenni
- Un contesto che includa famiglia e scuola
- Un conflitto o una distanza con il mondo adulto
- Un tono onesto e diretto
- Un finale che non sia lieto in modo classico
di Leni Remedios
La Bambola
70
di Daphne du Maurier
A
lle volte succede che l’amorevole
ostinazione di uno studioso, di un
cultore, di un semplice appassionato porti alla luce materiali che sarebbero altrimenti consegnati per sempre
all’oblio.
Nel 2010 Ann Wilmore, una libraia antiquaria della Cornovaglia, ritrovò, dopo
quattro anni di ricerche, l’esemplare di
una raccolta uscita nel 1937 e mai più
ristampata: si trattava di The Editors Regrets di Daphne du Maurier, una serie di
scritti giovanili in precedenza rifiutati dagli editori.
È grazie alle cure di Miss Wilmore se
oggi possiamo leggere quei racconti che,
assieme ad altri otto, costituiscono la raccolta The Doll. Short Stories, pubblicata
nel Regno Unito da Virago nel 2011. Per
quanto riguarda almeno questi cinque ritrovati dalla Wilmore, si tratta di racconti ancora non tradotti nel nostro Paese.
Possiamo perciò affermare in tutta sicurezza che la traduzione seguente costituisca un’esclusiva.
Quando scrisse La bambola Daphne du
Maurier aveva solo vent’anni. Tutti gli altri
racconti sono stati scritti fra i diciannove
e i venticinque anni d’età, con l’eccezione
di The Limpet (Il mollusco). Questo fatto
rimbomba sempre nelle orecchie durante la lettura del volume. In realtà tutti e
tredici sono accomunati da un filo rosso che accompagna l’intera produzione
della scrittrice inglese: la disillusione e
l’amarezza nei rapporti sociali, soprattutto quelli fra uomo e donna, la doppiezza
dei sentimenti.
Chi conosce a fondo Daphne du Maurier sa benissimo come nei suoi lavori ci
sia un costante e pervicace lavoro di disseppellimento dei sentimenti umani più
gretti e biechi. Un’ostinata, quasi perversa volontà di sondare l’altra faccia, il rovescio, non solo dei personaggi, ma anche
dei luoghi: la sua Cornovaglia non è quel
ridente e solare angolo d’Inghilterra illustrato nei depliant turistici, bensì quello
delle cupe e inospitali brughiere che attorniano Jamaica Inn; quella delle onde
che si arrampicano minacciose e ruggenti
sugli scogli di Manderley.
Persino i fiori, in du Maurier, hanno un
aspetto mostruoso. La Venezia di Don’t
look now, tradotto in A Venezia... un mattino rosso shocking (con la nostra orribile consuetudine di storpiare le traduzioni dei titoli), è un luogo che al calar della
sera cambia volto: un dedalo di calli buie
nel quale si nascondono insidie paranormali, un luogo da cui scappare, prima che
sia troppo tardi. Il racconto è fra i più famosi anche grazie alla trasposizione cinematografica di Nicolas Roeg, protagonista
un folgorante Donald Sutherland.
Non è improprio dire che, nei preziosi
lavori giovanili portati alla luce, s’intravveda, oltre al dispiegamento di temi che
saranno approfonditi nei romanzi successivi, un’incredibile maturità e profondità
di pensiero che va ben oltre l’età anagrafica. Ne La bambola c’è la stessa disillusione dei lavori successivi, ma con in più
la fresca brutalità dei vent’anni che, se a
tratti non garantisce una qualità eccelsa
dei racconti – d’altra parte cosa si può
pretendere di più? – tuttavia costituisce
un vero e proprio valore aggiunto. E non
è tutto.
C’è un motivo per cui, fra tutti, La bambola è il racconto che spicca, che lascia
tramortiti. In sintesi è un racconto di
amore e follia, di sadismo e disperazione,
d’indipendenza e di contraddizione.
Può essere che al pubblico odierno,
abituato alla banale,
esplicita
illustrazione
delle perversioni così
come si evince dal successo di Cinquanta sfumature di grigio, il racconto della du Maurier
non dica nulla. Eppure
sono convinta che l’intrico di sentimenti e passioni di questo racconto,
scritto negli anni ’20 da
una donna in un periodo
storico nel quale nessun esponente del sesso
femminile avrebbe mai
osato scrivere di un giocattolo sessuale meccanico con le sembianze di
un uomo, crei molto più
disturbo.
Rebecca
(ebbene
sì, è proprio questo il
nome della protagonista, come l’ingombrante non-personaggio del
suo romanzo più conosciuto) è un essere quasi soprannaturale, una
sorta di moderna Ligeia.
E, proprio come la Ligeia
di Edgar Allan Poe, nulla si sa di preciso di lei:
da dove venga, chi siano
i suoi genitori, quale sia il suo passato.
Forse è proprio il mistero che la abita a
nutrire l’ossessione del protagonista maschile, che consegna le memorie della
propria esperienza a un piccolo taccuino,
ritrovato per caso. Come nel racconto
di Poe, non si riesce bene a decifrare se
quando scritto corrisponda a realtà o se
esso sia frutto della mente devastata del
suo narratore. Forse non è nemmeno importante.
Nel mare di incognite rimane fermo
solo l’enigma iniziale che egli pone subito
avanti a mo’ di scudo: gli uomini si rendono conto di quanto sono folli?
71
Letteratura
Tesori riemersi:
traduzione di Leni Remedios
La Bambola
di Daphne du Maurier
Prefazione
L
e pagine seguenti vennero ritrovate in un taccuino malconcio, alquanto fradicio e scolorito dall’acqua salata, riposto fra le spaccature di
una roccia in –Bay. Il loro proprietario non è mai stato rintracciato, e le
ricerche più diligenti hanno fallito nel
risalire alla sua identità. O il miserabile si è annegato vicino al punto in cui
nascose il suo taccuino e il suo corpo
si è perso nel mare; oppure sta ancora
vagando per il mondo tentando di dimenticare se stesso e la sua tragedia.
Alcune delle pagine della sua storia
erano talmente danneggiate dall’esposizione da renderle completamente illeggibili; perciò ci sono molti vuoti, e
molto sembra essere senza successione, incluso il brusco e insoddisfacente
finale.
Ho apposto tre puntini fra le frasi
in cui le parole o le righe erano indecifrabili. Se le sregolate improbabilità
della storia siano vere, o se il tutto non
sia altro che l’isterico prodotto di una
mente malata, non lo sapremo mai.
La mia sola ragione per pubblicare
queste pagine è nel soddisfare le suppliche di molti amici che si sono interessati alla mia scoperta.
Firmato Dr E. Strongman
–Bay,
Inghilterra
V
oglio sapere se gli uomini si rendono
conto di quando siano folli. Talvolta penso che il mio cervello non riesca a tenere
tutto insieme, è pieno di troppo orrore, di una
disperazione troppo grande.
E non c’è nessuno; non sono mai stato cosí
completamente solo. Perché dovrebbe aiutarmi scrivere questo? Vomitare fuori il veleno nel
mio cervello. Perché sono avvelenato, non riesco a dormire, non riesco a chiudere gli occhi
senza vedere il suo dannato viso...
Se solo fosse un sogno, qualcosa di cui ridere, un’immaginazione corrotta.
È abbastanza facile ridere, chi non si piegherebbe in due e non si spaccherebbe la lingua
dalle risate? Ridiamo finché il sangue non esca
dagli occhi – è divertente, se vi piace.
No, è il vuoto che fa male, il rompersi di
qualsiasi cosa dentro di me.
Se avessi potuto sentire, l’avrei seguita
fino alla fine del mondo, non importa quanto
73
Two white hairs tentacle girls © Javier G. Pacheco
Letteratura
racconto
72
Riesco a ricordare come piovesse fuori, e la
pioggia tracciava delle righe sporche sui vetri
della finestra. La stanza era piena, un mucchio
di gente stava parlando presso il pianoforte –
Vorki era lì, stavano provando a farlo cantare,
e Olga gridava dalle risate. Ho sempre odiato la
forte sottile vibrazione della sua risata.
Te ne stavi seduta – Rebecca sedeva su uno
sgabello davanti al camino. Teneva le gambe
intrecciate, e sembrava un elfo, una sorta di
ragazzo. La schiena era girata verso di me, e
portava in testa un buffo berretto impellicciato. Ricordo che fui divertito dalla sua posizione,
volevo vederla in faccia. Chiesi a Olga di presentarmela.
«Rebecca» disse «Rebecca, mostrati» [...]
gettando via il berretto mentre si girava. I suoi
capelli spuntarono fuori dalla testa come un
selvaggio, i suoi occhi spalancati – ed ella mi
sorrise, mordendosi il labbro.
Riesco a ricordare quando sedetti sul pavimento a fianco a lei, e parlando, parlando
– cosa importa ciò che ti dissi, sciocchezze,
naturalmente cose senza senso, ma lei parlava affannosamente, con una sorta di ansia
trattenuta. Non diceva molto, sorrideva... occhi
di un visionario, di un fanatico – avevano visto troppo, esigevano troppo – uno si perdeva
in essi, e diventava incapace di resistere. Era
come annegare. Dal momento in cui allora la
vidi, fui condannato. La lasciai e me ne venni
via, camminai lungo l’argine come un ubriaco.
Facce mi farfugliavano qualcosa e spalle mi
sfioravano, ero cosciente di pallide luci riflesse
sui marciapiedi umidi e del confuso fragore del
traffico – attraverso tutto questo c’erano i suoi
occhi e i suoi impossibili capelli selvaggi, il suo
corpo magro come quello di un ragazzo... tutto
è chiaro ora, riesco a vedere ogni evento così
com’è successo, ogni momento del gioco. Tornai da Olga ed ella era lì.
Venne diretta da me. «T’interessi di musica?» disse solennemente, come un bambino.
Perché disse così non lo so, non c’era nessuno
al piano – risposi vagamente e notai il colore
della sua pelle, color caffè chiaro, e trasparente come l’acqua.
Era vestita di marrone, una sorta di velluto,
penso, con una sciarpa rossa al collo. Il suo collo era lungo e sottile, come quello di un cigno.
75
Sweet Dreams © Daria Azolina
Letteratura
lei supplicasse o mi detestasse. Avrei dovuto
insegnarle che cosa sia essere amata da un
uomo – sì, un uomo – e io avrei gettato il lurido, malconcio corpo di lui da una finestra, lo
avrei guardato scomparire per sempre, la sua
maledetta bocca scarlatta distorta...
È la calda passione che mi ha riempito, la
suprema incapacità di ragionare. E m’inganno
quando dico che lei sarebbe tornata da me.
Non l’ho seguita perché sapevo sarebbe stato
senza speranza. Non mi avrebbe mai amato –
non amerà mai nessun uomo.
Talvolta posso pensare a ciò a mente fredda, e allora ho pietà di lei. Le manca così tanto
– così tanto – e nessuno saprà mai la verità.
Cos’era la sua vita prima che la conoscessi,
cos’è ora?
Rebecca, Rebecca, quando penso a te con il
tuo pallido, serio viso, i tuoi grandi occhi fanatici come quelli di un santo, la bocca sottile a
nascondere i denti, aguzzi e candidi come l’avorio, e la tua aureola di capelli selvaggi, elettrici,
scuri, sfrenati – non c’è mai stato nessuno di
più bello. Chi conoscerà mai il tuo cuore? Chi
conoscerà mai la tua mente?
Intensa, riservata e senz’anima; perché devi
essere senz’anima per aver fatto quel che hai
fatto. Hai quella fatale qualità del silenzio –
una rigida repressione che suggerisce un fuoco
nascosto – sì, un implacabile fuoco bruciante.
Cosa non ho fatto con te nei sogni, Rebecca?
Saresti fatale per qualsiasi uomo. Una scintilla che illumina e non si brucia, una fiamma
che soffia su altri fuochi.
Che cosa non amai in te se non la tua indifferenza, e le suggestioni che giacevano sotto
la tua indifferenza?
Ti ho amato troppo, ti ho voluto troppo,
ho avuto per te una tenerezza troppo grande.
Ora tutto questo è come una radice ritorta nel
mio cuore, un veleno mortale nel mio cervello.
Hai fatto di me un folle. Mi hai riempito con
una sorta di orrore, un odio devastante affine
all’amore, una fame che è nausea. Se solo potessi essere calmo e chiarire per un momento,
un momento solamente...
Voglio fare un piano, una sistemazione metodica delle date.
Fu presso lo studio di Olga all’inizio, penso.
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Ricordo che pensai quanto facile sarebbe stato
stringere la sciarpa e strangolarla. Immaginai
la sua faccia mentre moriva: le labbra aperte
e uno sguardo inquisitore sui suoi occhi – essi
avrebbero mostrato il bianco, ma non avrebbe
avuto paura. Tutto questo nello spazio di un
momento e mentre ella mi stava parlando. Riuscivo a stento ad allontanarmi da lei. Era apparentemente una violinista, un’orfana, e viveva
da sola a Bloomsbury.
Sì, aveva viaggiato molto, disse, specialmente in Ungheria. Aveva vissuto a Budapest
per tre anni, studiando musica. L’Inghilterra
non le interessava, voleva tornare a Budapest.
Era l’unica città al mondo.
«Rebecca» chiamò qualcuno, ed ella guardò
oltre la sua spalla con un sorriso. Quanto potrei
scrivere sul sorriso di Rebecca! Era così vivace, così intensamente vivo, e tuttavia ancora
distante, soprannaturale, non aveva relazione
con nulla di ciò che uno dicesse.
I suoi occhi si sarebbero come transfigurati
da un raggio d’argento.
Se ne andò presto quel giorno, e io attraversai la stanza per chiedere di lei a Olga. Olga era
in grado di dirmi poco. «Viene dall’Ungheria»
disse «nessuno sa chi fossero i suoi genitori,
ebrei, immagino. Vorki l’ha portata qui. La trovò
mi fossi tuffato nel nero abisso dell’eternità per
dormire e mi fossi risvegliato ancora una volta.
Nessuno mi aveva notato, Vorki stava distribuendo da bere, e Rebecca stava sedendo
al piano sfogliando degli spartiti. Quando le
chiesero di suonare ancora rifiutò, era stanca,
disse. La implorarono, così afferrò il suo violino
e suonò ancora una volta – qualcosa di molto
breve, ma molto gradevole e puro, come la preghiera di un bambino.
Più tardi, durante la serata, venne a sedersi
accanto a me, per pochi attimi fui troppo commosso per parlare. Poi maledii me stesso, uno
sciocco, e mi girai verso di lei, guardandola in
faccia.
«Mi hai dato una sensazione meravigliosa
mentre suonavi» le dissi «è stato bellissimo,
inebriante, non lo dimenticherò mai. Hai un
talento raro – no, molto pericoloso.» Lei era
silenziosa, e poi parlò con la sua piccola voce
ansimante, riservata.
«Ho suonato per te» disse «volevo vedere
com’era suonare per un uomo.» Le sue parole
mi sconcertarono, sembravano completamente
inesplicabili. Non stava mentendo, i suoi occhi
guardavano dritto ai miei e sorrideva.
«Cosa vuoi dire?» le chiesi «Non hai mai
suonato per nessuno prima, usi il tuo talento
solo per soddisfare te stessa? Non capisco.»
«Forse» disse lentamente «forse è così, non
posso spiegare.»
«Voglio vederti ancora» le dissi «vorrei venire e vederti da solo, in un posto in cui possiamo
parlare, parlare veramente. Ti ho pensata sin
dal momento in cui ti vidi allo studio di Olga,
lo sapevi, non è vero? Ecco perché hai suonato
per me stasera, non è vero?»
Volevo strapparle una risposta dalle labbra,
volevo costringerla a dire di sì. Scrollò le spalle,
si rifiutò di chiarire, era esasperante.
«Non so» disse «non so.» Poi le chiesi il suo
indirizzo, e me lo diede. Era impegnata, non
avrebbe potuto vedermi fino alla fine della settimana. La compagnia si sciolse poco dopo e lei
scomparve.
I giorni che passarono sembravano interminabili, non riuscivo ad aspettare per rivederla.
Pensavo a lei continuamente.
Venerdì non ce la facevo più, così andai da
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lei. Viveva in una strana sorta di casa da qualche parte a Bloomsbury. Aveva preso in affitto
l’ultimo piano come appartamento. A prima vista era scialbo e desolato, mi chiesi come potesse tollerare di vivere lì.
Fu lei ad aprirmi la porta e mi portò in un’ampia stanza spoglia, una sorta di studio, con una
stufa a olio che stava bruciando. Fui colpito dalla tristezza di ciò, ma lei sembrava non notare
nulla, e mi fece sedere su una poltrona logora.
«Qui è dove mi esercito» mi disse Rebecca
«e dove mangio. È una stanza luminosa, non
trovi?» Non dissi nulla su questo, poi lei andò
alla credenza, tiró fuori da bere e alcuni biscotti
raffermi. Non prese niente per sé.
La trovai strana, distaccata – sembrava annoiata dal mio trovarmi lì. La nostra conversazione era forzata e c’erano delle pause. Trovai
impossibile dire una qualsiasi delle cose che
volessi dire. Suonò per me per un po’, ma erano
tutti classici che conoscevo, e molto diversi da
quel che aveva suonato quella sera da Vorki.
Prima che me ne andassi mi mostrò il suo
piccolo appartamento. C’era un piccolo spazio
che utilizzava come cucina, un bagno angusto
e la sua piccola stanza da letto che era ammobiliata come la cella di una suora, piuttosto
semplice e spoglia. C’era un’altra stanza procedendo dallo studio, ma non me la mostrò. Era
ovviamente una stanza di larghe dimensioni,
poiché in seguito vidi la finestra dalla strada, e
vidi lei mentre tirava le pesanti tende...
(Nota. Qui le pagine erano completamente
illeggibili, coperte di macchie e scolorite. La
storia sembra continuare nel mezzo di una frase. Dr Strongman.)
«...non veramente fredda» insisté lei «ho
provato a spiegarti che sono strana in qualche
modo, non ho mai incontrato qualcuno di cui
m’importasse, non sono mai stata innamorata.
Ho sempre detestato le persone piuttosto che
esserne attratta.»
«Questo non spiega la tua musica» proruppi
impaziente «Tu suoni come se sapessi tutto –
tutto.»
Stavo cominciando a impazzire per la sua
indifferenza, non era naturale ma calcolata; mi
dava sempre l’impressione di nascondere qualcosa. Sentivo che non avrei mai scoperto cosa
c’era nella sua testa, come se fosse un bimbo
addormentato, un fiore prima di schiudersi – o
se ella stesse mentendomi completamente, nel
qual caso ogni uomo sarebbe stato suo amante, ogni uomo.
Ero torturato dal dubbio e dalla gelosia, il
pensiero di altri uomini mi faceva impazzire.
Ed ella non mi dava sollievo, mi avrebbe guardato con i suoi grandi occhi pallidi, puri come
l’acqua, fino a che io potessi giurare che era
intoccata – eppure, eppure? Uno sguardo, un
sorriso, e sarebbero tornate la mia tortura e la
mia miseria. Lei era impossibile, evadeva ogni
cosa, e tuttavia fu questa fatale qualità di riservatezza a lacerarmi e a spezzarmi, finché il
mio amore per lei divenne un’ossessione, una
terribile forza trainante.
Chiesi di lei a Olga, chiesi a Vorki, chiesi a
tutti quelli che la conoscevano. Nessuno seppe
dirmi nulla, nulla. Sto dimenticando i giorni e le
settimane mentre scrivo, niente sembra avere
alcuna sequenzialità per me, è come resuscitare, è come reincarnarsi dalla polvere e dalle
ceneri per viverlo ancora, per vivere di nuovo
la mia maledetta vita – perché cos’era la mia
vita prima che amassi Rebecca, dov’ero io, chi
ero io?
Sarebbe meglio che scriva di domenica ora,
domenica che fu veramente la fine; e non lo
sapevo, pensavo fosse l’inizio. Ero come qualcuno che cammina, nel buio, no, che cammina
nella luce con gli occhi aperti ma senza vedere
– accecandosi deliberatamente.
Domenica, giorno di vuoto e di felicità errata.
Andai presso il suo appartamento verso le
nove della sera. Mi stava aspettando. Era vestita di rosso come Mefistofele, bizzarri, strani vestiti che solo Rebecca poteva indossare.
Sembrava eccitata, ebbra – correva per la
stanza come un elfo.
Poi sedette ai miei piedi con le gambe raccolte sotto di sé, e stiracchiò le sue brune mani
sottili verso la stufa. Rideva e ridacchiava in
maniera infantile, mi ricordava un monello che
pianifica qualche birichinata.
Poi all’improvviso si girò verso di me, il viso
Letteratura
a Parigi, suonava il violino in uno di quei caffè
russi. Nonostante questo non avrà nulla a che
fare con lui, vive completamente sola. Vorki
dice che il suo talento sia meraviglioso, se solo
continua non ci sarà nessuno a eguagliarla. Ma
non si darà da fare, sembra che non le importi. L’ho sentita all’appartamento di Vorki – mi
ha fatto venire brividi freddi lungo la schiena.
Stava alla fine della stanza, guardando come
se fosse qualcosa da un altro pianeta – i suoi
capelli rizzati in alto, una sorta di cespuglio peloso attorno alla testa, e suonò. Le note erano
strane, struggenti. Non ho mai sentito qualcosa del genere, è impossibile da descrivere.»
Di nuovo lasciai lo studio di Olga in un sogno, con il viso di Rebecca che danzava dinanzi
ai miei occhi. Riuscivo anche a vederla suonare
il violino – se ne starebbe dritta e ferma come
un bambino, i suoi occhi spalancati, le labbra
schiuse in un sorriso.
Avrebbe suonato all’appartamento di Vorki
la sera successiva, e andai a sentirla. Olga non
aveva esagerato, in tutta la sua palpabile, superficiale falsità. Sedevo come un drogato, incapace di muovermi. Non so cosa suonò, ma fu
sconvolgente, stupendo. Non ero cosciente di
nulla se non del fatto che io e Rebecca fossimo
insieme – fuori dal mondo, via, persi – persi in
una beatitudine indicibile. Ci stavamo arrampicando, poi volando, più in alto – più in alto.
Una volta sembrò che il violino stesse protestando, ed era come se mi stesse rifiutando, e
io la stessi inseguendo – poi venne un torrente
di suoni, un misto di accettazione e rifiuto, una
confusione di note nelle quali erano mescolati desiderio e dolcezza, e intollerabile piacere.
Potevo sentire il mio cuore battere come la vibrazione di un massiccio vascello, e il sangue
pulsava alle mie tempie.
Rebecca era una parte di me, era me stesso
– era troppo, era troppo magnifico. Avevamo
raggiunto il culmine, non potevamo andare oltre, il sole sembrava colpirmi gli occhi. Guardai
in sù: Rebecca mi stava sorridendo, il violino
proruppe in una nota di squisita bellezza – era
appagamento.
Esausto, mi appoggiai indietro sul divano, i
miei sensi fluttuavano – era troppo meraviglioso, troppo meraviglioso. Tre minuti passarono
prima di tornare cosciente. Mi sentivo come se
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Watch me Fall © Culpeo fox
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Poi presi coscienza di uno strano senso di
disappunto, una sensazione di incomprensione
impotente, di muta incredulità. Non era un ragazzo quello che sedeva sulla sedia. Era una
bambola. Sufficientemente umana, dannatamente realistica, con una peculiare orribile personalità, ma una bambola. Solo una bambola.
Gli occhi fissavano i miei senza riconoscermi, la
bocca stupidamente lasciva.
Guardai Rebecca, lei stava sorvegliando il
mio viso.
«Non capisco» dissi «qual è il senso di tutto
questo? A che scopo tutto ciò? Dove hai trovato questo giocattolo disgustoso? Mi stai prendendo in giro?» parlai aspramente, mi sentivo
agitato e freddo. Poco dopo la stanza era nel
buio, aveva spento la lampada. Sentii le sue
braccia attorno al collo, e la sua bocca sulla
mia.
«Ora ti devo dire che ti amo?» sospirò «Devo
dirlo?»
Un’ondata di calore mi investì, il pavimento
sembrava oscillare sotto i miei piedi. Si appese
a me e mi baciò il collo, potevo avvertire le sue
dita sulla nuca. Lasciai le sue mani vagare sul
mio corpo e mi baciò ancora. Fu devastante –
era follia – era come la morte.
Non so quanto rimanemmo lì, non ricordo
nulla, parole, pensieri o sogni – solo il silenzio
della stanza buia, il bagliore debole del fuoco, il battito del mio cuore, il canto nelle mie
orecchie, e Rebecca. Rebecca. Quando, e non
so dire se passarono ore oppure anni, quando
alzai gli occhi sopra la sua testa guardai dritto
negli occhi di lui – i suoi dannati occhi di bambola.
Sembrava che strizzasse gli occhi e che
sogghignasse, un sopracciglio era sollevato e
l’angolo della sua infida bocca cremisi era ritorto. Volevo saltargli addosso e rompere quella sua sorridente faccia di bestia, calpestare il
suo sordido corpo umano. Era pazza Rebecca a
tenere un giocattolo simile, che motivo aveva,
dove l’aveva trovato? Ma non avrebbe risposto
alle mie domande.
«Vieni via» disse, e mi trascinò via dalla
stanza, di nuovo nella rigida luce accecante
dello spoglio studio. «Devi andare ora» disse
affannosamente «è tardi – avevo dimenticato.»
Letteratura
pallido, i suoi occhi stranamente illuminati.
Disse «È possibile amare qualcuno così tanto
da provare piacere, un inspiegabile piacere nel
ferirlo? Ferirlo con la gelosia voglio dire, e ferire se stessi allo stesso tempo. Piacere e dolore, un misto equo di piacere e dolore, solo un
esperimento, una rara sensazione?»
Mi sconcertò, ma provai a spiegarle cosa significasse il sadismo. Sembrava capire e annuì
pensosamente una o due volte. Poi si alzò e
attraversò lentamente la stanza fino alla porta
che non avevo mai visto aperta. Era curiosamente pallida mentre stava lì, la sua massa di
bizzarri capelli selvaggi sulla testa, la mano sul
pomello della porta.
«Voglio presentarti Julio» disse. Lasciai
la sedia e mi avvicinai a lei, non avevo idea
di cosa stesse dicendo. Prese la mia mano e
aprì la porta. Vidi una stanza bassa, rotondeggiante, i cui muri erano drappeggiati con delle
specie di tendaggi vellutati come per soffocare
ogni rumore e lunghe, spesse tende stavano
appese alle finestre. C’era un fuoco a legna,
ma bruciava molto poco. Vicino al caminetto
vi era un divano, coperto con cuscini messi a
caso, e l’unica luce proveniva da un lampada
con un paralume, lasciando così la stanza per
metà al buio.
C’era una sola sedia nella stanza, di fronte
al divano. Qualcosa sedeva sulla sedia. Avvertii
un gelo inquietante al cuore, come se la stanza
fosse infestata da fantasmi.
«Cos’è?» sussurrai.
Rebecca prese la lampada e la tenne sopra la sedia. «Questo è Julio» disse piano. Mi
avvicinai e vidi quel che sembrava un ragazzo
sui sedici anni, vestito con un abito da sera,
camicia e panciotto, e lunghi pantaloni spagnoli. Il suo viso era la cosa più malvagia che
avessi mai visto. Era di un colore pallido come
la cenere, e la bocca era un taglio color cremisi,
sensuale e depravato. Il naso era sottile, dalle
narici arcuate, e gli occhi erano crudeli, luccicanti e stretti, e curiosamente fermi. Sembravano fissarti attraverso – gli occhi di un falco.
I capelli erano lisci e bruni, pettinati indietro
dalla fronte.
Era il viso di un satiro, un odioso satiro
sorridente.
di ferro. Giaceva fredda e inerte fra le mie
braccia. La sua bocca era di ghiaccio. La lasciai
disperato.
Seguì una settimana di dubbio e tormento.
Talvolta sedeva lontano da me senza una parola, talvolta avrei potuto giurare mi amasse.
E non mi avrebbe lasciato toccarla, non era
nell’umore, diceva. Devo aspettare finché mi
vorrà di nuovo. Devo aspettare in apprensione, in agonia. Non menzionò mai Julio. Non
andammo più in quella stanza. Le chiesi che
cosa ne avesse fatto. Volevo sapere che cosa
c’era dietro. Mi rispose evasivamente e cambiò
discorso. Era inutile sollecitarla. Stava impazzendo. Era intollerabile.
E tuttavia non potevo stare lontano da lei.
Non potevo vivere senza di lei.
Una sera fu gentile e affettuosa. Si sedeva ai miei piedi e parlava della sua musica, dei
suoi progetti futuri. Cambiava sempre. Non era
mai la stessa.
Mi sentivo senza speranza. La mia posizione
era ridicola, ma cosa stavo per fare? Ella era
diventata una follia per me – un’ossessione.
Sono giunto ora all’ultima sera, l’ultimissima.
Poi il collasso, il vuoto, le profondità dell’inferno – e desolazione, massima desolazione.
Lasciatemi chiarire – quando fu, che ora era?
Le sette, le otto forse. Non riesco a ricordare.
Stavo lasciando l’appartamento e lei mi accompagnò alla porta. Improvvisamente mi mise le
braccia attorno al collo e mi baciò...
Vi sono stati uomini in deserti aridi, dove il
sole li ha talmente sfigurati da farli diventare
orribili – riarsi e bruciati, deformi e lacerati. Dai
loro occhi scorre sangue, le loro lingue sono
piene di morsi – e poi s’imbattono nell’acqua.
Lo so, perché ero uno di quelli.
Ridete a tutti questi paragoni, chiamatemi
pazzo, ma la risata mi dà ragione. Ci sono donne – ma voi non avete baciato Rebecca, non
potete capire. Sei uno sciocco addormentato.
Non hai mai inizato ad immaginare...
(Nota. Molto di questo sembra completamente incomprensibile, e il quarto di pagina
che segue consiste di nulla tranne frasi spezzate e idee formulate a metà. Poi la storia
continua.)
Fu sconvolgente. Si lasciò baciare ancora e
ancora. Presi il suo viso fra le mani e la guardai
dritto negli occhi.
«Chi erano i tuoi amanti?» chiesi «Quante
volte li hai baciati in questo modo? Chi ti ha
insegnato a baciarli così? Chi è stato il primo, il
primissimo? Dimmelo.» Una nebbia furiosa era
davanti ai miei occhi, le mie mani tremavano.
«Ti giuro che sei il primo uomo che io abbia
mai baciato. Ti giuro che non c’è mai stato un
uomo prima di te. Mai. Mai.» Guardava dritto
verso di me. La sua voce era ferma. Vidi che
stava dicendo la verità.
«Ora devi andare» disse «domani verrai, e
allora avremo tanto da dirci l’uno all’altra, così
tanto.» Mi sorrise. Vidi attraverso il muro di autocontrollo, attraverso il ghiaccio la fiamma, il
fuoco nascosto.
Ricordo che lasciai l’appartamento e che cenai
da qualche parte. La mia testa era infuocata. Mi
sembrava di camminare fra gli dei. Era incredibile che Rebecca mi amasse, era incredibile che io
conoscessi una tale felicità. Volevo urlare. Volevo
buttarmi da un tetto.
Andai a casa, e passeggiai su e giù per la stanza. Non riuscivo a dormire, ogni nervo del mio corpo sembrava vivo.
Improvvisamente, a mezzanotte, non ce la feci
più. Dovevo andare da Rebecca, dovevo. Sentivo
che il mio amore per lei era talmente forte che
doveva saperlo. Mi avrebbe aspettato. Avrebbe
capito. Avrebbe dovuto capire.
Non so come andai all’appartamento. I secondi sembravano passare rapidamente, e io rimanevo fuori nella strada, guardando su alle finestre.
Convinsi il portiere di notte a farmi entrare, era
mezzo addormentato e mi lasciò andare di sopra.
Origliai fuori dalla sua porta – non un suono proveniva da lì dentro. Poteva essere stata l’entrata
di una tomba.
Misi la mano sul pomello della porta e lo girai lentamente. Con mia grande sorpresa non era
chiusa – Rebecca doveva aver dimenticato di girare la chiave dopo che me n’ero andato.
Entrai, tutto era nel buio. «Rebecca», chiamai
sottovoce «Rebecca.» Nessuna risposta.
La porta della sua stanza da letto era aperta,
non c’era nessuno dentro.
Poi andai in cucina e nel bagno, entrambi vuoti.
Poi capii. Qualcosa mi strinse il cuore, una
fredda, viscida paura.
Guardai verso l’altra stanza – la stanza di lui –
la stanza di Julio. Sapevo che Rebecca era lì, con
la bambola – con Julio.
Trovai la via verso la stanza e bussai alla
porta. Era chiusa a chiave. La presi a calci, la
graffiai con le unghie. Cedette al mio peso.
Udii un grido furioso da Rebecca, e accese la luce.
Oh! Cristo, non scorderò mai gli occhi di lei, la
luce terribile – lo spaventoso delirio nei suoi occhi
e il suo cinereo, cinereo viso.
Vidi tutto – la stanza, il divano – sapevo tutto.
Fui colto da un malessere mortale – una terribile
disperazione.
E tutto il tempo il sudicio, ignobile viso di lui mi
stava guardando.
I suoi occhi non mi lasciarono mai, fissavano
in un’immobilità vitrea, senza vita. L’umida bocca
cremisi sogghignava – ciuffi dei lisci capelli bruni
penzolavano sulle guance. Era una macchina –
qualcosa montata con le viti – non era vivo, non
umano – ma terribile, spettrale.
E Rebecca si girò verso di me. La sua voce era
fredda – distaccata – soprannaturale.
«E tu ti aspetti che io ti ami. Non vedi che non
posso – non posso? Come può importarmi di te, o
di qualsiasi uomo? Vai via, lasciami stare. Ti odio.
Vi odio tutti. Non ho bisogno di te. Non ti voglio.»
Qualcosa si ruppe nel mio cuore. Mi voltai. Li
lasciai. Li lasciai soli. Corsi in strada – lacrime
scendevano copiose sul mio viso – piansi rumorosamente – agitai il pugno verso le stelle...
E questo è tutto, non c’è nient’altro da dire.
Tornai il giorno dopo e lei se n’era andata, se
n’erano andati entrambi. Nessuno sapeva dove
fosse. Chiesi a tutti quelli che vidi, nessuno sapeva dirmi qualcosa.
Tutto è confuso, tutto è inutile. Non rivedrò
mai più Rebecca, nessuno la rivedrà più. Ci saran sempre Rebecca e Julio. Passeranno giorni, e
notti, e nulla – mi perseguiteranno – non dormirò
più – sono maledetto. Non so cosa sto dicendo,
cosa sto scrivendo. Cosa farò? Oh! Dio, cosa farò?
Non posso vivere – non ce la faccio...
81
Letteratura
Cercai di tenerla, ancora una volta, volevo baciarla ancora ed ancora, sicuramente non voleva dire che me ne andassi.
«Domani» disse impazientemente «Ti prometto domani, ma al momento no. Sono stanca
e confusa – non vedi? Lasciami sola solo per
stanotte, è stato troppo intenso, non riesco a
realizzare nulla.»
Pestò il piede con impazienza, sembrava
malata. Vedevo che era inutile. Presi le mie
cose e me ne andai – e camminai, camminai
tutta la notte, penso. Osservai l’alba irrompere
su Hampstead Heath, grigia e senza sole; pioggia battente cadeva da un celo plumbeo. Il mio
corpo era freddo, ma la mia mente era in fiamme. Ero sicuro una volta di più che Rebecca mi
avesse mentito – dal momento in cui mi baciò
sapevo che mi avrebbe mentito.
Aveva conosciuto cinque, dieci, non importa
quanti, venti amanti – e io non ero solo uno di
loro.
No, non ero uno di loro.
Mi ritrovai vicino a Camden Town, gli autobus rombavano lungo le strade; stava ancora
piovendo, la gente rimaneva indietro dopo di
me, figure chine sotto gli ombrelli.
Trovai un taxi da qualche parte e andai a
casa. Andai a letto senza spogliarmi e dormii.
Dormii per ore. Quando mi risvegliai era di nuovo buio; devono essere state circa le sei della
sera. Ricordo che mi lavai meccanicamente e
poi ancora una volta camminai nella direzione
di Bloomsbury.
Raggiunsi l’appartamento e suonai il campanello. Mi lasciò entrare senza una parola e si
sedette nello studio davanti alla stufa a olio.
Le dissi che sarei stato il suo amante. Non disse nulla. C’erano segni rossi sotto i suoi occhi
come se avesse pianto e linee sottili attorno
alla bocca. M’inchinai verso di lei per baciarla,
ma mi spinse via.
Iniziò a parlare rapidamente.
«Devi dimenticare quel che è successo la
scorsa notte. Oggi ho realizzato che ho fatto
un errore. Non mi sento bene, non ho dormito.
Tutto questo mi ha preoccupata considerevolmente. Devi lasciarmi da sola.»
Provai ad afferrarla e a vincere il suo ferreo
autocontrollo. Era come martellare un muro
80
allo
smartphone
82
C’era una volta un bimbo
che sognava di diventare
un robot vero
Stanislaw Lem è, nel mondo della fantascienza, un autore di culto, un personaggio
leggendario. La sua immaginazione ha saputo creare mondi incredibili e disegnare futuri
lontanissimi. Fiabe per robot è il suo omaggio
alla dimensione più pura del fantastico, cioè
la fiaba. Il C’era una volta di Lem ha un sapore galattico, innesca le avventure di robot di
ogni sorta ed esseri mai visti sulla terra: i re
Biskalar, Metametrico e Globares, con le loro
bizzarre abitudini, e poi draghi, principesse,
inventori e avventurieri. Un raro esempio di
racconti di oggi che non temono il confronto
con quelli del passato e – dato l’argomento –
del futuro.
Fiabe per robot, Stanislaw Lem
Marcos y Marcos 2005, 198 p. – 11,90 euro
di Selene Pascarella
L
a vita non è una favola. Fin da piccoli ci
viene insegnato che crescere è, prima
d’ogni cosa, imparare a separare il sogno
dalla realtà, i fatti dall’immaginazione. «Smetti
di credere alle fiabe» è il refrain che bombarda la choosy generation. Che sia la storia del
principe azzurro o del posto fisso poco importa. Ciò che conta è tenere sempre a mente che
C’era una volta equivale a mai, mai nella vita,
perlomeno non nella tua. Un fatto strano se
pensiamo che, per secoli, le fiabe sono state il
principale strumento con cui la società ha trasmesso alle nuove generazioni regole e valori
condivisi. Un vero e proprio rovesciamento di
senso, considerando che le fairy tales, nel passaggio dalla tradizione orale alla pagina scritta,
hanno segnato l’ingresso del realismo, del più
crudo realismo, nella letteratura europea.
Prendete un grande classico come Pollicino. Pollicino è un bimbo minuscolo, al limite
dell’handicap fisico, eppure non se ne cruccia.
Ha sei fratelli e la classica famiglia povera ma
felice. Quando la famiglia diventa “solo” povera, i suoi genitori decidono di abbandonare
i figli nel bosco. Non possono sopportare di vederli morire di fame davanti ai loro occhi e non
vogliono scegliere di morire al posto loro. Vivono in un tempo in cui a mangiare sono prima gli
adulti e poi i bambini.
Pollicino è furbo e riesce a riportare a casa se
stesso e i fratellini con uno stratagemma, cioè
tracciando la strada verso il focolare con piccoli
sassi. La fame e la povertà sono però ostinate:
lasciati nella foresta una seconda volta, Pollicino
e i suoi fratelli si perdono senza rimedio. L’unica
dove la realtà storica, di qualsiasi tipo, sia stata
salvezza è nella casa di un orco. La moglie dell’orrappresentata».
co, che ha sette bambine, è gentile, mentre il
La realtà o, per meglio dire, le realtà. Permarito si diletta a divorare fanciulli. L’orchessa,
ché è nella produzione favolistica, orale e
mossa dalla pietà, nasconde in casa Pollicino
scritta, che si fanno avanti le istanze e le
e gli altri nella sua dimora. In tutta risposta
rappresentazioni che la letteratura alta ha
Pollicino, per salvare la vita sua e dei congiunti,
sempre relegato in secondo piano. Le fiabe
fa divorare all’orco le sue stesse figlie e sottrae
sono storie di donne e di bambini, di contadini
con l’inganno all’orchessa tutte le ricchezze che
e boscaioli. Storie di poveri che possono solo
possiede. Quindi torna felice e contento (cioè
sperare in un asino che caga monete d’oro o in
ricco) dai genitori e vive senza un
rimpianto al mondo. Il suo, dopoBiancaneve © Ka-pow
tutto, è un mondo in cui la vita dei
bambini, anche di quelli minuscoli
e malnutriti, vale molto più di quella dei cuccioli di orco.
Quella di Pollicino è un’orribile
storia. Piena di patimenti, sacrifici, crudeltà e miseria. Il che non
stupisce, considerato il contesto
storico che l’ha prodotta. Legata a
doppio filo a un’altra celebre fiaba
di bambini abbandonati e (quasi)
divorati, cioè Hansel e Gretel, la
vicenda di Pollicino richiama miti
antichi (il filo di Arianna) e nasce
nell’Europa fredda e perigliosa del
medioevo. La prima versione moderna poi, che porta la firma del
francese Perrault, è interamente
imbevuta della glaciale atmosfera
della Francia a cavallo tra il 1600
e il 1700, quella del Re Sole, delle
grandi carestie e degli inverni siberiani. Un’era dove sopravvivere
all’infanzia è già un miracolo che
sa di fiabesco.
Immaginate Pollicino che vaga
di notte, con i fratellini per mano,
un tavolino che produca cibo senza sosta per
mentre la terra è prigioniera di settanta cm di
vincere un destino di fame e indigenza. Portano
ghiaccio. Figuratevi la paura, resa ancora più
il lettore all’interno di cucine polverose, all’inimmensa dalla consapevolezza di essere stato
seguimento di una spoletta di filo perennemenmandato a morte da chi avrebbe dovuto curarte in movimento. Sono storie raccontate dal
lo e proteggerlo. Aggiungete la violenza di una
punto di vista degli sconfitti prima che il loro
lotta per sopravvivere che non disdegna l’omidestino cambi. Un mix di fantasia sfrenata e
cidio e sarete nel bel mezzo di un romanzo di
verismo che passa di generazione in generazioVictor Hugo, con almeno un secolo di anticipo.
ne modificando leggermente forme e nomi ma
«La fiaba – ha scritto Silvana De Mari nel saglasciando immutata la sostanza.
gio Il drago come realtà – è l’unica narrazione
83
Letteratura
Favole
Realtà e fantasia
nei racconti fantastici
di ieri e di oggi
Listener © Ka-pow
Le fiabe sono una narrazione antagonista. Di
bambini disubbidienti e adulti che si ribellano.
Narrazioni di libertà in cui il lettore può identificarsi, trovare soluzioni ai suoi problemi emotivi
ed esistenziali, senza restare incastrato in allegorie di alcun tipo. Nelle fiabe non c’è univoca
interpretazione, manca del tutto un messaggio
etico unidirezionale.
Le metafore moraleggianti appartengono, difatti, a un altro genere, quello vicino ma assai
diverso delle favole. La volpe e l’uva o La cicala
e la formica, per esempio. Parabole dove è ben
chiaro quale sia il comportamento da seguire e
quale no ed è sempre amarissimo (vedi la cicala) il destino di chi fa la scelta sbagliata. Para-
bole prive di empatia (la formica lascia che la
cicala muoia di fame) pensate per irreggimentare giovani menti. Storie edificanti dove la crudeltà, se votata a un fine di maggior interesse e
pacificazione sociale, passa per ottima regola.
Anche le fiabe sono crudeli, intendiamoci.
«Tanto più un’epoca è atroce – la citazione è
sempre dal testo della De Mari – tanto più lo
sono le fiabe che essa ha prodotto o amato».
È immergendosi nella loro dimensione orrorifica che i cuccioli d’uomo possono trovare una
strada per gestire le ombre che portano dentro
e gli orrori che vedono nel mondo reale. Solo
che possono scegliere se essere cicala o formica, senza che ciò implichi una sentenza d’inade-
84
85
Le fiabe classiche saprebbero interpretare
il nostro mondo eppure le abbiamo rifiutate.
Dall’avvento del modello Disney in poi si è innescato un processo di appiattimento del loro
universo simbolico. Non è certo un caso che per
il lettore (e lo spettatore) di oggi favole e fiabe
siano la stessa cosa.
Fate un giro in libreria, scoprirete a cosa si
sono ridotte le nostre fiabe. Prima di tutto le
troverete quasi esclusivamente relegate al settore per l’infanzia e poi scoprirete che, tranne
pollicino © Ka-pow
Letteratura
guatezza o, peggio, di cattiveria e immoralità.
Come abbiamo visto Pollicino usa metodi
non proprio ortodossi e come lui anche Jack,
in lotta contro i giganti, o la piccola Gretel. Con
loro i bambini possono esplorare il lato oscuro sapendo che in qualche modo (e non in uno
solo) si può arrivare a un lieto fine. Sanno per
certo che, per quanto triste sia ciò che gli sta
accadendo, è già accaduto e continua ad accadere, poiché fa parte della normalità delle cose.
Ed è questo che distingue la fiaba da un’altra
antichissima espressione dell’animo umano, il
mito. Il racconto mitico – lo ha spiegato assai
bene Bruno Bettelheim nel volume Il mondo incantato – è costruito intorno a personaggi unici
(eroi, dei, semidei) dalle caratteristiche quasi
irripetibili. Nelle fiabe, invece, i protagonisti,
spesso, non hanno nemmeno un nome proprio
(“un pescatore”, “un sarto”, “la figlia di un boscaiolo”) tanto è quotidiana, non straordinaria,
la loro natura.
Edipo è un personaggio unico. Jack è uno
come tanti. Edipo è costretto da un fato avverso a scontrarsi con il padre e finisce molto
male. Jack ha la meglio sul gigante – cosa che
ogni padre, ogni adulto, è per un bambino – e lo
sconfigge senza conseguenze negative. Edipo è
una maschera tragica, Jack l’ammazza-giganti
è un personaggio fantastico. Il mito offre espiazione, la fiaba consolazione. «Il mito – conclude
Bettelheim – è pessimistico, mentre la fiaba è
ottimistica, per quanto possano essere tremendamente seri certi aspetti della storia».
Per questo le fiabe hanno avuto e continuano ad avere successo. Sono veritiere eppure
benigne, fantastiche e pragmatiche.
Pensate alle minacce che oggi associamo
all’età infantile, come l’incesto, la violenza sessuale e l’omicidio in ambito familiare. Sono tutte ben presenti nelle avventure di Cappuccetto
Rosso, Barbablù, Raperonzolo e Biancaneve.
Cappuccetto, mandata letteralmente in pasto
a un lupo feroce dalla sua stessa mamma. Rapunzel, rinchiusa in una torre e per di più minorenne incinta. Biancaneve, condannata a morte
per essere più attraente della genitrice, che, già
nella prima trascrizione dei fratelli Grimm, è la
mamma e non la matrigna.
assai rare eccezioni, non disdegnano di offrire
una morale. Sono racconti in cui la descrizione
sottrae posto alla creazione di mondi e le scommesse interpretative del lettore sono ridotte a
un ben misero, stai col buono o col cattivo?
Anche l’incredibile revival di cui negli ultimi
anni pare oggetto il mondo incantato è un’illusione, un patto truccato di Tremotino.
Torniamo ancora a Biancaneve, figura predi-
Viaggio alla (ri)scoperta
dei fratelli Grimm
Nel 1812 Jacob e Wilhelm Grimm
diedero alle stampe la prima edizione delle loro Fiabe (Kinder –
und Hausmärchen) restituendo
ai lettori di tutta Europa grandi
classici del folklore orale (e non
solo) quali Hansel e Gretel, Cenerentola, Cappuccetto Rosso,
Biancaneve, Il principe ranocchio
e molti, molti altri. Racconti destinati a incantare tutte le generazioni a venire e, in qualche caso,
a cadere nell’oblio. A duecento
anni di distanza l’editore Donzelli
recupera lo sconosciuto racconto
La principessa Pel di topo e altre
41 storie (evergreen come Raperonzolo compresi) riproposte nella
versione originale a cura di uno
dei più grandi studiosi delle fiabe,
Jack Zipes, e illustrate da Fabian
Negrin.
Animus © Jacques Leyreloup
La principessa pel di Topo e
altre 41 fiabe da scoprire
Jacob e Whilelm Grimm,
a cura di Jack Zipes
Donzelli 2012, 250 p. – 20,31 euro
87
letta nelle trasposizioni televisive e cinematografiche delle fiabe. Dopo il 1937 (anno in cui
Biancaneve e i sette nani uscì al cinema) Snow
White si è impressa nell’immaginario come il
simbolo della virtù femminile. Buona, operosa,
votata al sacrificio. Una che arriva nella casetta
dei nani sfuggendo a morte certa e, per prima
cosa, si mette a pulire per terra. Ed ecco che
dal serial tv Once Upon a Time a Biancaneve e
il cacciatore la nostra Snow viene trasformata
in una specie di guerrigliera, nel tentativo di ribaltarne la natura di massaia operosa. Peccato
che, in realtà, i nani fossero assai più ordinati
della giovane principessa. Leggendo la versione
dei Grimm, scoprirete una Biancaneve decisamente fuori schema. Cercando di modernizzarla
la fiction contemporanea l’ha schiacciata in una
chiave allegorica, dove la sua figura aggraziata
sta o per “oppressione femminile” o per “girl
power”, senza vie di mezzo, sfumature di senso.
Il che ha reso la sua storia molto meno magica,
in egual misura irrealistica e priva di spinta fantastica. Inutile.
La lingua delle fiabe, dunque, non ci appartiene più? Più che altro torniamo a impiegarla in
maniera inconsapevole. Quando paure indicibili
e sommovimenti inconsci sembrano travolgerci
troviamo rifugio nel C’era una volta. Trasformando la cronaca nera, ma anche quella politica, in narrazione fantastica. Michele Misseri,
accusato di aver ucciso la nipote tredicenne, è
«l’orco di Avetrana». Nelle parole della ex moglie di Berlusconi, Veronica Lario, le olgettine
sono «vergini che si offrono al drago». Contro
le ricette anticrisi che strangolano le nuove generazioni si armano i «draghi ribelli» e i membri
della vecchia nomenclatura partitica diventano
«morti viventi» contro cui si scaglia un Grillo
parlante.
Cercate le nostre fiabe tra le pagine dei tabloid o nei programmi tv del pomeriggio. Sono
le narrazioni atroci della più atroce delle epoche, la nostra.cino, per salvare la vita sua e dei
congiunti, fa divorare all’orco le sue stesse figlie e sottrae con l’inganno all’orchessa tutte
le ricchezze che possiede. Quindi torna felice e
contento (cioè ricco) dai genitori e vive senza
un rimpianto al mondo. Il suo, dopotutto, è un
mondo in cui la vita dei bambini, anche di quelli
minuscoli e malnutriti, vale molto più di quella
dei cuccioli di orco.
Letteratura
86
l’eredità del pianeta del sole rosso
intervista a Deborah J. Ross
di gabriella parisi
foto di Nina Kiriki Hoffman © 2010
I
l 25 settembre 1999 si spegneva a Berkley
Marion Zimmer Bradley, da molti considerata la regina del fantasy. Scrittrice molto
prolifica, la Bradley ha lasciato numerosissime
saghe e cicli di romanzi che spaziano dalla scifi al fantasy al paranormal. E ha lasciato un
pianeta, il quarto della stella di Cottman, con il
suo sole rosso e le sue quattro lune e millenni
di storia e di personaggi memorabili: Darkover.
I romanzi del ciclo di Darkover sono di fantascienza con una forte contaminazione fantasy:
in un futuro di conquiste interstellari, una navicella dell’Impero Terrestre naufraga su un pianeta sperduto e quasi disabitato. Dall’accoppiamento di alcuni membri dell’equipaggio con
una popolazione autoctona, i chieri, nasce una
nuova stirpe di abitanti dotati di poteri telepatici. Tutto lo sviluppo tecnologico del pianeta si
baserà sulla scienza delle pietre matrici, degli
strumenti che servono ad amplificare i poteri
telepatici dell’aristocrazia di Darkover.
Fin dal primo romanzo della serie, The Planet
Savers (Le Foreste di Darkover), nel 1962, Marion Zimmer Bradley affronterà scottanti temi
di attualità — l’ecologia, le armi di distruzione di massa, il movimento di liberazione della
donna, le comuni e l’amore libero, solo per fare
alcuni esempi — trasportandoli su Darkover
secondo un’etica maturata da una storia planetaria diversa dalla nostra ma curiosamente
parallela.
Nel corso della sua vita la Bradley ha avuto
modo di incoraggiare le fan-fiction su Darkover, raccogliendo e pubblicando racconti ambientati sul pianeta. Fra gli scrittori che hanno
contribuito alle sue antologie compare Deborah Wheeler (oggi Deborah J. Ross) che, alla
morte della creatrice, viene chiamata a continuare il lavoro di Marion Zimmer Bradley. Si
può dunque dire che la Ross abbia ricevuto in
eredità il pianeta del sole rosso.
Originariamente io e Marion dovevamo lavorare insieme ed è così che abbiamo incominciato. Dopo la sua morte c’è stato un lungo processo di elaborazione per decidere cosa fare,
che ha coinvolto la Fondazione letteraria (The
Marion Zimmer Bradley Literary Works Trust),
il suo agente, l’editore e diverse altre persone.
Il pianeta deserto © Sergio quaranta
89
La designazione di un «autore di Darkover» è dipesa interamente dalla Fondazione. Finora sono
stati molto contenti della mia scrittura e lavoriamo a stretto contatto. Generalmente devono
approvare una proposta prima che io vada
avanti, lo stesso accade con il manoscritto finale. Su un progetto hanno anche revisionato
dei capitoli in fase di scrittura. Questa è la tutela per assicurarsi che ciò che scrivo sia fedele
alla visione di Marion. Io e Marion avevamo
già progettato i primi tre libri (quelli della Clingfire Trilogy: The Fall of Neskaya — 2001; La
caduta di Neskaya, Longanesi 2007 — Zandru’s Forge — 2003, Gli inferni di Zandru, Longanesi 2011 — A Flame in Hali — 2004) e
avevo cominciato a lavorare sullo schema del
primo quando è morta, cosicché, mentre la
maggior parte del testo è mia, la trama è stata
scritta in collaborazione. Hastur Lord (2010) è
basato su un manoscritto parziale che scrisse
nell’ultimo anno della sua vita. Lavorando con
la Fondazione, l’ho sviluppato fino a renderlo
un lavoro completo, utilizzando anche altro materiale inedito. Il libro che verrà pubblicato la
prossima primavera, The Children of Kings, è
ambientato nelle Terre Aride e per scriverlo mi
sono basata non solo su La catena spezzata
(The shattered Chain, 1976 — Nord 1981), ma
anche su La casa tra i mondi (The Door Through Space, 1988 — Fanucci 1997), ambientata
in una primordiale versione di Darkover, così
come lo era I falconi di Narabedla (Falcons of
Narabedla 1964 — TEA, 1991). Dunque, finora,
eccezion fatta per The Alton Gift, ho avuto la
possibilità di utilizzare il materiale della stessa
Marion Zimmer Bradley. Fortunatamente Marion ha lasciato non soltanto i suoi meravigliosi
romanzi e racconti, ma anche gli articoli delle
vecchie pubblicazioni dei Friends of Darkover
e le lettere che mi ha scritto negli anni. Quindi,
non credo di rimanere a corto di materiale!
A oltre tredici anni dalla scomparsa di
Marion Zimmer Bradley e dopo la pubblicazione di cinque romanzi che portano la sua firma — che diventeranno sei in primavera —,
abbiamo intervistato Deborah J. Ross, a cui è
toccato in lascito un intero pianeta con le sue
problematiche e la sua tormentata storia.
la sfida degli alton © Sergio quaranta
Letteratura
Darkover
88
Speechless: Ci può raccontare della prima volta che ha incontrato Marion Zimmer Bradley?
Deborah J. Ross: Intorno al
1980 scrissi a Marion una lettera da ammiratrice. Praticavo arti
marziali (t’ai chi chu’an e kung
fu san soo) e incominciammo un
discorso che riguardava l’autocoscienza, le donne, il fantasy e
la scrittura. Poi Marion cominciò
a curare le raccolte Sword and
Sorceress, per la quale acquistò
il mio primo racconto da professionista.
S: Prima di cimentarsi con i romanzi ambientati su Darkover, lei
ha scritto diversi racconti per le
antologie di Swords and Sorcery e
di Darkover. Qual è la differenza fra
lo scrivere short stories e romanzi
lunghi e con quale dei due generi
si trova meglio? Specialmente nel
caso specifico di romanzi fantasy,
è possibile condensare tutte le
informazioni necessarie in poche
pagine? I racconti possono essere
propedeutici alla narrazione di un
romanzo?
DJR: Quando ho cominciato a
lavorare con Marion su La caduta
di Neskaya, avevo scritto una larga varietà di generi, dal fantasy
contemporaneo all’epopea spaziale. Avevo venduto all’incirca quaranta racconti sul mercato professionale a magazines come Fantasy
and Science Fiction, Asimov’s,
la signora delle tempeste © Sergio quaranta
Realms of Fantasy e Star Wars: Tales From
Jabba’s Palace e avevo già scritto due romanzi
di fantascienza (Jaydium and Northlight) pubblicati come Deborah Wheeler. Sword and
Sorcery è un sottogenere del fantasy con uno
stile e un’estetica molto particolari, mentre
Darkover è, tecnicamente parlando, sci-fi con
un gusto fantasy, perché si tratta di un mondo a bassa tecnologia. La gente va a cavallo, utilizza le spade, ma in realtà non ci sono
davvero elementi fantastici: tutto ha una base
scientifica.
Comunque — e questo è un punto
fondamentale — la buona scrittura è buona
scrittura, non importa quale sia l’ambientazione o il genere. Che si stia scrivendo un romanzo storico o un’epopea spaziale, si utilizzano
le stesse tecniche per costruire l’ambientazione, sviluppare i personaggi e i loro scopi,
ecc. Riguardo alla domanda se è più facile per
me scrivere romanzi o racconti, rispondo che
sono sfide diverse, perché in un romanzo si ha
spazio per sviluppare e lavorare su molti livelli
di argomento e struttura, mentre nel racconto
c’è solo una ristretta linea guida e ogni dettaglio deve assolvere almeno due o tre funzioni
(e con ciò intendo che deve creare tensione,
rivelare il carattere, suscitare un livello emozionale, far progredire la trama e così via).
In generale, non è una buona idea cercare
di realizzare un romanzo partendo da un racconto. Alcuni scrittori molto bravi sono riusciti
a farlo, ad esempio Of Mist, And Grass, And
Sand, di Vonda N. McIntyre che è diventato
Dreamsnake (Il serpente dell’oblio — Nord
1993), o Dragonriders di Anne McCaffrey, che
è diventato l’omonimo romanzo (Il volo del drago — Nord 2005). Questo perché un racconto
Letteratura
90
91
ritorno a darkover © Sergio quaranta
l'esilio di sharra © Sergio quaranta
davanti alla difficoltà di dover scrivere un prosieguo ad Attacco a Darkover (Traitor’s Sun
1998 — Nord 2004), con il grosso problema
etico nato per l'utilizzo improprio del Dono degli Alton (che veniva utilizzato per cancellare
ricordi dalle menti dei terrestri)?
DJR: Bene, quello è il punto cruciale di The
Alton Gift: con un maggiore potere arrivano
anche maggiori responsabilità… e ciò con cui i
vari personaggi devono venire a patti per il loro
comportamento. In questo senso Lew, Marguerida e Jeram sono specchio l’uno dell’altro.
Marion era sempre molto categorica riguardo
alle conseguenze dell’abuso di potere.
S: Le tematiche affrontate su Darkover
variano in base ai cambiamenti nella società
terrestre (reale), in quanto il pianeta potrebbe
essere considerato una metafora della Terra
e delle sue problematiche. Quanto la storia
di Darkover viene influenzata di conseguenza
dalla nostra storia? Ad esempio, si è dedicata
ai romanzi della Clingfire Trilogy per rappresentare la sua posizione — e, logicamente,
quella di Marion — verso le armi di distruzione di massa, in particolar modo verso le armi
chimiche e batteriologiche?
DJR: Marion aveva già inventato il Patto,
in parte — credo — per mostrare una società
radicalmente diversa dalla nostra nell’approccio con le armi e l’etica legata al loro utilizzo.
Così ci siamo chiesti come si fosse potuti giungere fino a esso: come da un tempo di conflitti
senza regole si fosse arrivati a quello che è
un principio universalmente onorato. Marion
ne aveva accennato ne Il sapiente di Darkover
(Two to conquer,
1980
—
TEA,
1991) e ne
La donna del
falco (Hawkmistress!
1982 — TEA,
1989), ma volevamo andare più a fondo: ecco perché abbiamo messo insieme una trama che si dipana nell’arco di tre
libri. Qualsiasi lezione i Terrani contemporanei
ricavino dal racconto, dipende da loro.
93
Letteratura
92
deve essere completo in sé e se uno scrittore
inesperto cerca di ampliarlo, il romanzo che ne
scaturirà potrebbe essere povero o episodico.
D’altro canto, molti scrittori — me compresa — preferiscono «esplorare» un mondo a
distanza più breve, prima di intraprendere
il compito di scrivere un romanzo o una serie ambientati in quel mondo. La mia serie di
racconti «Azkhantiani», pubblicati in Sword
and Sorceress, sono diventati la base per la
mia trilogia epic-fantasy, il cui primo volume,
The Seven-Petaled Shield, verrà pubblicato da
DAW l’estate prossima.
S: Marion Zimmer Bradley sosteneva che la
sua “voce” nei romanzi di Darkover fosse Lew
Alton, il primo personaggio da lei creato. Lei,
Deborah J. Ross, ha una sua personale “voce”
su Darkover? Qual è il personaggio a cui si sente più legata?
DJR: Ho la tendenza a innamorarmi di qualsiasi personaggio di cui scrivo nel momento in
cui lo faccio, ma nessuno di essi mi rappresenta. D’altro canto, ho dovuto affrontare la sfida
di rappresentare personaggi creati da qualcun
altro, sia da Marion che dalle altre scrittrici
con cui ha lavorato. In questi casi, ho dovuto
stare molto attenta a rispettare la loro visione
creativa.
S: Qual è il periodo storico del pianeta del
Sole Rosso che la appassiona maggiormente,
quello in cui si sente più a proprio agio e perché?
DJR: Mi piace esplorare nuovi aspetti di
Darkover, così, se ho già scritto di un particolare periodo, sento che ci sono meno cose da
scoprire. Credo che il periodo di transizione dal
naufragio su Darkover (Darkover Landfall 1972
— Naufragio sulla terra di Darkover Nord,
1985) alle Età del Caos sarebbe fantastico da
esplorare e mi piacerebbe anche continuare la
linea del tempo «moderna» con il ritorno della
Federazione Terrestre. La visione originaria di
Darkover di Marion Zimmer Bradley si incentrava sul conflitto fra i Domini e le culture della
Federazione. Entrambi questi periodi implicano
grandi sconvolgimenti, che offrono grandi opportunità di scrivere intrecci drammatici.
S: In Italia non abbiamo ancora avuto modo
di leggere The Alton Gift, ma come si è posta
I libri di
Marion Zimmer Bradley
editi in Italia:
TEA Libri
NORD
95
FANUCCI
Letteratura
LONGANESI
darkover e l'impero © Sergio quaranta
S: Ha pensato di ambientare un romanzo
su uno degli altri pianeti dell’Impero terrestre
citati da Marion Zimmer Bradley? Creando magari millenni di storia, come è accaduto per
Darkover?
DJR: La visione di Darkover di Marion era
piuttosto limitata al solo pianeta: non ha scritto molto sugli altri pianeti. Adrienne MartineBarnes lo ha fatto in parte in Attacco al pianeta
Darkover, ma la mia preferenza è di attenermi
alle intenzioni di Marion. Penso anche che il lettore voglia proprio una specifica esperienza su
Darkover, ciò significa i luoghi e le culture
che Marion ha creato su questo specialissimo
mondo.
S: Cosa succederà quando i progetti di cui
aveva discusso con Marion si esauriranno?
Continuerà a scrivere di Darkover seguendo
idee personali o… abbandonerà il pianeta (da
brava terrestre)?
DJR: Ho parlato prima di un paio di periodi storici che mi piacerebbe esplorare, ma i
prossimi romanzi saranno stabiliti dall’editore
e dalla Fondazione. Nel frattempo, ho avuto
tantissimo lavoro personale da svolgere: la
trilogia The Seven-Petaled Shield e un romanzo di fantascienza, Collaborators — entrambi
progetti che spero saranno graditi ai miei lettori di Darkover!
96
Di un libro
mai scritto
di H.G. Wells
traduzione di MARA BARBUNI
L
a letteratura esistente è tutta molto buona a suo modo, non c’è dubbio, ma molto più affascinanti agli occhi dell’uomo
contemplativo sono i libri che non sono stati
scritti. Essi non sono un impiccio da tenere in
mano; non ci sono pagine da voltare. Durante
le notti insonni uno può leggerli a letto senza candela. Per cambiare argomento, l’uomo
primitivo nelle descrizioni di un antropologo è
sicuramente un soggetto molto interessante
e bizzarro, ma l’uomo del futuro, se soltanto
ne conoscessimo le vicende, ci incuriosirebbe
di più. Sì, ma dove sono i libri? Come disse
Ruskin da qualche parte a proposito di Darwin, non è ciò che l’uomo è stato che dovrebbe interessarci, ma ciò che sarà.
L’uomo contemplativo seduto nella sua
poltroncina, mentre pensa a questa affermazione vede improvvisamente nel fuoco,
attraverso l’alone azzurrognolo della sua
pipa, uno di questi grandi volumi mai scritti.
È di grandi dimensioni, dai caratteri spessi,
a quanto pare è opera di un tale Professor
Holzkopf, presumibilmente docente a Weissnichtwo. I caratteri necessari dell’uomo del
futuro remoto dedotti dalle tendenze odierne
è il suo titolo. Mentre segue le sue elucubrazioni, l’uomo contemplativo scopre che l’illustre Professore è puntualmente scientifico
nel suo metodo, ed è cauto e prudente nelle
sue deduzioni, e tuttavia le conclusioni sono
come minimo straordinarie. Dobbiamo immaginarci che l’eccellente Professore si sia molto
Change © Javier González Pacheco
97
dilungato sulla materia, che è grandemente
tecnica, ma l’uomo contemplativo – poiché
ha accesso all’unica copia – è chiaramente
libero di prendere gli estratti e fare i riassunti
che vuole per il lettore non scientifico. Ecco,
per esempio, qualcosa di molto pratico e lucido che egli considera degno di essere citato.
“La teoria dell’evoluzione”, scrive il Professore, “è oggi universalmente accettata dagli
zoologi e dai botanici ed è tranquillamente
applicata anche all’uomo. Alcuni, in verità,
si domandano se si applichi alla loro anima,
ma tutti concordano che vale per il loro corpo. L’uomo, ci è stato assicurato, discende da
progenitori scimmieschi, che le circostanze
hanno poi modellato in esseri umani, e tali
scimmie a loro volta sono derivate da forme
più antiche e di ordine inferiore, e così via
fino al brodo primordiale protoplasmico. È
chiaro quindi che l’uomo, a meno che l’ordine
dell’universo non sia arrivato alla fine, sarà
sottoposto a ulteriori cambiamenti in futuro, e infine smetterà di essere uomo, dando
origine a qualche altro tipo di essere animato. Di colpo si pone l’affascinante domanda:
cosa sarà questo essere? Consideriamo per
un attimo le influenze plastiche che sono in
atto sulla nostra specie.
“Così come l’uccello è una creatura delle
ali, ed è plasmato e modificato per il volo, e
così come il pesce è una creatura che nuota,
e deve affrontare le inflessibili condizioni di
un problema di idrodinamica, così l’uomo è
una creatura del cervello; se vivrà, vivrà della
sua intelligenza, e non della sua forza fisica.
Perciò quanto è puramente ‘animale’ di lui
sta per essere, e deve essere, al di là di ogni
dubbio, soppresso nel suo definitivo progredire. L’evoluzione non è una tendenza meccanica che vada verso la perfezione, secondo le idee vigenti nell’anno di grazia 1897; è
semplicemente il continuo adattamento della
vita plastica alle situazioni che la circondano,
nel bene nel male. Notiamo oggi intorno a noi
questa decadenza della parte animale nella
perdita dei denti e dei capelli, nelle mani e
nei piedi meno grandi, nelle mascelle più piccole, nelle bocche e orecchie più sottili. Oggi
l’uomo fa con l’arguzia e la tecnologia ciò che
Letteratura
racconto
taggiato rispetto al suo fratello più smilzo.
Non ha successo nella vita, non si sposa. Chi
si adatta meglio, sopravvive”.
L’uomo che verrà, dunque, avrà chiaramente un cervello più grande e un corpo più
minuto rispetto a oggi. Ma il Professore individua un’eccezione. “La mano umana, poiché
è insegnante e interprete del cervello, diverrà
sempre più potente e sottile mentre il resto
della muscolatura si rimpicciolirà”.
Così nella fisiologia di questi discendenti
degli uomini, con il loro cervello in espansione, le loro grandi mani sensibili e i loro corpi
in regressione, si elaborano grandi cambiamenti. “Oggi noi notiamo”, dice il Professore,
“negli strati più intellettuali dell’umanità una
crescente sensibilità agli stimolanti, e una
98
crescente incapacità di reggere cose come
l’alcol, per esempio. Gli uomini non riescono
più a bersi una bottiglia di porto; alcuni non
possono bere il tè; è troppo eccitante per il
loro sopraffino sistema nervoso. Il processo
continuerà, e il Sir Wilfrid Lawson di qualche generazione non lontana nel futuro potrà
trovare piacere e dovere nel far tintinnare le
proprie argentee scintille di saggezza contro
un vassoio da tè. Questi fatti inducono naturalmente alla comprensione di altri. Una volta
la carne cruda fresca era un piatto da re. Oggi
le persone raffinate toccano appena la carne
se non è abilmente mascherata. E ancora,
considerate il caso delle rape; la radice cruda oggi è una cosa quasi immangiabile, ma
tanto tempo fa una rapa doveva esser stata
un ritrovamento raro e fortunato, da spezzarsi con avidità delirante e da essere divorata
in estasi. Verrà il tempo in cui il cambiamento influenzerà tutti gli altri frutti della terra.
Anche oggi, solo i giovani mangiano le mele
crude – perché i giovani mantengono sempre
le caratteristiche ancestrali che scompaiono nell’età adulta. Un giorno
anche i ragazzi considereranno le mele senza
provare emozioni.
99
THIS IS MY HONEY © Javier González Pacheco
Il ragazzo del futuro, bisogna credere, guarderà a una mela con la stessa indifferenza
con cui oggi guarda a una pietra” – quando il
gatto non c’è.
“Inoltre le nuove scoperte chimiche sono
intervenute a modificare le abitudini dell’uomo. Anche nel periodo preistorico la bocca
dell’uomo aveva cessato di essere uno strumento per afferrare il cibo; sta diventando
sempre meno prensile, i suoi denti davanti
sono più piccoli, le sue labbra più sottili e
meno forti; egli possiede un nuovo organo,
una mandibola non di tessuto irreparabile ma
d’osso e d’acciaio – coltello e forchetta. Non
c’è ragione per cui le cose dovrebbero fermarsi alla parziale divisione fin qui ottenuta;
al contrario abbiamo tutte le ragioni di credere alla mia affermazione che qualche astuto
meccanismo esterno interverrà a masticare
e a insalivare la cena dell’uomo, ad alleggerire il lavoro delle sue sempre più piccole
ghiandole salivari e dei suoi denti, e alla fine
ad abolirli del tutto”.
E poi ciò di cui non c’è bisogno scompare.
Che necessità c’è ora di avere orecchie, naso
e arcate sopraccigliari esterni? Gli ultimi due
una volta proteggevano gli occhi dalle ferite in battaglia e nelle cadute ma oggi noi ci
manteniamo sulle nostre gambe, e in pace.
Se la pensa così, il lettore si immaginerà una
strana e oscura visione del volto dell’uomo
del futuro: “occhi grandi, luminosi, belli, profondi; sopra di essi, non più separata da rozzi
archi sopraccigliari, la sommità della testa,
una cupola glabra, scintillante, affusolata
e bellissima; non c’è alcun naso prospicente che disturbi con le sue inutili ombre
la simmetria di quel calmo volto;
non ci sono padiglioni auricolari sporgenti;
Letteratura
un tempo faceva con l’esercizio del corpo;
poiché un tempo egli doveva procacciarsi
la cena, conquistare una donna, sfuggire ai
suoi nemici e continuamente esercitarsi a
compiere al meglio tali doveri per amore di
se stesso. Ma ora è tutto cambiato. Carrozze,
treni e vetture tranviarie rendono la velocità
non necessaria, ed è più facile procurarsi il
cibo; non bisogna più andare a caccia di una
moglie, anzi, considerando l’affollamento del
mercato matrimoniale, è la donna che va a
cercarsi un marito. Oggi per vivere serve l’ingegno, e l’attività fisica è una droga, persino
una trappola; ha bisogno di sfoghi artificiosi e abbonda di giochi. L’atletismo porta via
tempo e limita l’uomo nella sua competitività
e nei suoi affari. Così l’uomo in carne è svan-
Non c’è dubbio che molti Artropodi, una categoria di animali più antica e più diffusa
dei Vertebrati anche ai giorni nostri, hanno
subito più modifiche filogenetiche” – frase straordinaria – “anche del più modificato dei vertebrati. Le forme semplici come le
aragoste mostrano una struttura primitiva
parallela a quella dei pesci. Tuttavia, in una
forma regredita come quella del ‘Chondracanthus’, la struttura si è allontanata di più
dalla sua forma originale che nell’uomo. In alcuni di questi crostacei altamente modificati,
l’intero canale alimentare – ovvero tutte le
parti atte alla digestione e all’assorbimento
del cibo – forma un inutile cordone solido:
l’animale è nutrito – è un parassita – per assorbimento del fluido nutritivo in cui nuota.
Herbert George Wells
Herbert George Wells, meglio conosciuto come H. G. Wells, è stato
un prolifico autore britannico a cavallo tra XIX e XX secolo. Tra i
più popolari autori della sua epoca, Wells ha dato alle stampe opere fondamentali di genere fantascientifico, infatti oggi è ricordato
come uno degli iniziatori di tale genere narrativo.
Tra i suoi romanzi più famosi La macchina del tempo (The Time
Machine, 1895), L'isola del dottor Moreau (The Island of Dr. Moreau, 1896) L'uomo invisibile (The Invisible Man, 1897) e La guerra dei
mondi (The War of the Worlds, 1897).
ci suppone che le funzioni corporee possano
essere sostituite artificialmente. Abbiamo la
pepsina, la pancreatina, l’acido gastrico artificiale – e non so che altro. Perché dunque lo
stomaco non dovrebbe essere infine sostituito del tutto? Un uomo che possa non solo lasciar cucinare, ma anche masticare e digerire
la sua cena da altri, avrebbe ampi vantaggi
sociali su uno che si digerisca il cibo da solo.
Permettetemi di ricordarvi che questa è la
più sobria, imperturbabile e scientifica elaborazione delle forme future delle cose deducibile dai dati del presente.
A questo punto i fatti che seguono posso forse stimolare la vostra immaginazione.
liquido chiaro, mobile e ambrato, e in esso si
immergono e galleggiano strani esseri. Sono
uccelli?
“Sono i discendenti dell’uomo – a cena.
Guardateli come saltano sulle mani – un metodo di movimento già evocato da Bjornsen –
sul puro, candido pavimento di marmo. Hanno grandi mani, enormi cervelli, occhi teneri,
liquidi e profondi. Tutti i loro muscoli, le gambe, l’addome, sono ridotti a niente, un’appendice penzolante e regredita delle loro menti.”
Le successive visione del Professore sono
meno intriganti.
“Gli animali e le piante muoiono prima
degli uomini, a eccezione di quelle che egli
coltiva per il cibo e per proprio diletto, o di
100
È assolutamente impossibile supporre che
l’uomo sia destinato a un simile cambiamento; immaginare che non sieda più a cena, circondato da ingombranti annessi e connessi
di camerieri e di piatti, con un cibo buffamente allestito e distorto, ma si nutra invece
in elegante semplicità immergendosi in una
vasca di fluido nutritivo?
“Si presenta alla vivace immaginazione un
edificio, una cupola di cristallo, sulla traslucida superficie della quale passano, svaniscono e mutano flussi dei più puri e gloriosi
colori del prisma. Al centro di questa cupola
trasparente e camaleontica c’è una vasca
circolare di marmo bianco con dentro un
101
quelle che convivono con lui temporaneamente come commensali e parassiti. Questi
animali e piante infestanti devono prima o
poi soccombere alla incessante inventiva e
alla progressiva disciplina dell’uomo. Quando
costui imparerà (e gli scienziati stanno senza
dubbio oggi per scoprire il segreto) a fare il
lavoro della clorofilla senza le piante, allora
la sua necessità di altri animali e piante sulla
terra sparirà. Prima o poi, quando non ci saranno più né resistenza né necessità, ci sarà
l’estinzione. Negli ultimi giorni l’uomo sarà
solo sulla Terra e il suo cibo sarà estratto dallo scienziato dalle morte rocce e dalla luce
del sole.
“E – uno può comprenderne la ragione
in quell’esplicito e dolorosamente giusto libro, i Dati dell’Etica – l’irrazionale consorzio
umano lascerà il posto a una cooperazione
intellettuale, e anche l’emotività rientrerà
nell’ambito della ragione. Indubbiamente ci
vorrà tanto tempo, ma tanto tempo è niente rispetto all’eternità, e ogni uomo che osa
pensare a queste cose deve guardare in faccia l’eternità.”
E poi il Professore ci ricorda che la Terra
sta continuamente disperdendo calore nello
Spazio. E così infine insorge una visione di angeli terrestri, teste saltellanti, grandi intelligenze prive di emozioni e cuori piccoli che per
forza combattono insieme, e ferocemente,
contro il freddo che li attanaglia sempre più.
Perché il mondo si sta raffreddando – lentamente e inesorabilmente diviene più freddo
man mano che passano gli anni. “Dobbiamo
immaginarci queste creature”, dice il Professore, “in gallerie e laboratori sprofondati nel
cuore della Terra. Tutto il mondo sarà coperto
di neve e di ghiaccio; animali e vegetazione
scomparsi ad eccezione di quest’ultimo ramo
dell’albero della vita. Gli ultimi uomini sono
andati ancora più in profondità, seguendo il
calore residuo del pianeta, ed enormi condotti metallici e ventilatori convoglieranno l’aria
di cui hanno bisogno”.
Così, con uno sguardo a questi girini umani nelle loro profonde gallerie chiuse, con la
loro pesante tecnologia che rintrona lontano,
con luci artificiali che abbagliano e che gettano ombre oscure, si chiude la profezia del
Professore. L’umanità in tetra regressione dal
freddo, e mutata al di là di ogni riconoscimento. E tuttavia il Professore è sufficientemente ragionevole, i suoi dati sono attualmente
scienza, il suo metodo è ineccepibile. L’uomo
contemplativo rabbrividisce all’idea, si mette
a ravvivare il fuoco e tutto questo notevole
libro che non è mai stato scritto svanisce
all’istante nel fumo della sua pipa. Questo
è il grande vantaggio delle letteratura mai
scritta: non c’è bisogno di cambiare i libri.
L’uomo contemplativo si consola pensando
al destino della specie con l’ultima parte di
Kubla Khan.
Letteratura
la bocca è piccola, un’apertura perfettamente rotonda senza denti, senza gengive, senza
mascella, senza vita, senza nessuna emozione futile che disturbi la sua perfezione, come
la stella della sera o la luna di settembre
sull’ampio firmamento della faccia”. Questo è
il viso del futuro immaginato dal Professore.
Naturalmente cambiamenti simili toccheranno anche il corpo e le membra. “Ogni giorno tantissime ore e tantissima energia sono
richieste per la digestione; un pesante torpore, una letargia corporea, agguantano i mortali dopocena. Questo può essere evitato. La
conoscenza umana della chimica organica
cresce quotidianamente. Già oggi l’uomo può
aiutare le ghiandole gastriche con dispositivi
artificiali. Ogni medico che prescrive farma-
H.G. Wells, Lo scrittore contemplativo
102
H
erbert George Wells, precursore del
moderno romanzo scientifico, è stato
uno scrittore britannico tra i più popolari. Versatile e prolifico, idealista, dedito al
pacifismo, Wells produsse opere di storia e
critica sociale oltre che di narrativa contemporanea. In questa sede parleremo più approfonditamente della propensione di Wells per i
temi fantascientifici, una capacità, la sua, che
sconfina in taluni casi nella predizione. Basti
pensare all’impatto fortemente drammatico
che l’adattamento radiofonico de La guerra dei
mondi, interpretato da Orson Welles nel 1938,
scatenò nelle città della costa orientale degli
Stati Uniti. Welles lesse in radiocronaca alcuni passaggi del testo, scatenando il panico tra
gli ascoltatori. La bravura dell’attore, unita alla
forza evocativa della catastrofe fantascientifica diffusa nell’etere, terrorizzò migliaia di persone in quella che viene ricordata come una
delle più grandiose burle nella storia dei media.
Sin da piccolo, Wells dimostrò un vivo interesse per lo studio e per la scienza. Assiduo
frequentatore di biblioteche e circoli culturali,
nel 1890 si laureò in zoologia e biologia presso
la University Correspondence College. Fu ragazzo di bottega presso un ingrosso di tessuti,
aiuto professore, ripetitore di biologia, giornalista.
Nei suoi racconti, sempre conditi da una
sottile vena di umorismo inglese (il lettore capisce sempre troppo tardi che è stato “preso in
giro”), è possibile trovare spunti di riflessione
critici per una attenta analisi sociale. È sempre chiaro come la scienza, con tutte le sue potenzialità, debba restare al servizio dell’uomo,
di Emanuela Valentini
per un progresso utile, quasi filantropico nella
sua illusione di paternità, da parte dell’uomo,
del potere sulle macchine che lui stesso ha
creato e che, spesso, gli si rivoltano contro.
Da una lettura approfondita dei suoi scritti,
risulta chiaro come Wells sia riuscito a creare
una perfetta combinazione tra pensiero scientifico e fantasia; da questa abile fusione alchemica sono nati capolavori come L’uomo invisibile (Bompiani, 1988), La macchina del tempo
(Mursia, 1990), L’isola del dottor Moreau (Mursia, 1991), La guerra dei mondi (Mursia, 1991).
Tra i suoi numerosi racconti ancora inediti
nel nostro paese, ne abbiamo scelto uno particolarmente significativo ed esemplificativo
dello stile morale e didattico di Wells: Di un
libro mai scritto (Of a book unwritten fa parte della raccolta di saggi Certain personal matters, "A Collection of Essays and Short Stories,
some autobiographical" del 1898. Traduzione
per Speechless di Mara Barbuni). Narrato in
parte come cronistoria, in parte come parabola, il racconto fornisce un commento sociale
attraverso l’uso di personaggi immaginari, inseriti in ruoli simbolici, che si relazionano con
un argomento straordinario.
Il protagonista del racconto è l’uomo contemplativo, una figura allegorica rappresentante il cittadino medio, di modesta cultura,
aperto e interessato alle novità sociali e scientifiche del suo tempo. Un uomo normale, curioso e in parte spaventato dal tema illustrato
nel testo, essendo questo niente di meno che
un trattato scientifico sulle sorti dell’umanità
in un lontano futuro.
Già dall’incipit appare chiara l’intenzione
103
dell’autore di dare al racconto la parvenza di
un fatto reale (nell’assurdo). Nelle prime righe,
il testo propone una riflessione sulla rilevante
importanza del passato e del già accaduto, che
è però poca cosa rispetto al futuro e al non ancora accaduto. Per rendere l’idea, Wells fa uso
della metafora sul fascino esercitato dall’uomo
primitivo (il conosciuto) in contrapposizione a
quello, infinitamente maggiore dell’uomo del
futuro (lo sconosciuto) e cita per l’occasione
John Ruskin – scrittore, poeta, pittore e critico d’arte britannico (Londra, 8 febbraio 1819 –
Brantwood, 20 gennaio 1900) – che scrisse, a
proposito di Darwin e della sua teoria sull’evoluzione: Non è ciò che l’uomo è stato che dovrebbe interessarci, ma ciò che sarà (cit. dal
testo).
Wells rafforza il pensiero teso al non ancora
accaduto con l’analogia e il paradosso – uso
futuristico della narrativa – sulla letteratura
esistente, che è tutta buona, a suo modo, non
c’è dubbio, ma molto più affascinanti agli occhi
dell’uomo contemplativo sono i libri che non
sono stati scritti. L’uomo contemplativo, quindi,
mentre è seduto nella sua poltroncina perso
Letteratura
POSTFAZIONE
nelle profondità dell’affermazione
proposta nell’incipit, d’improvviso
vede, tra le fiamme del camino,
attraverso l’alone azzurrognolo del
fumo della sua pipa, un libro mai
scritto. Questo tomo è di grandi
dimensioni, tant’è che l’uomo contemplativo è perfettamente in grado di leggere il nome dell’autore e
il titolo, scritto in grossi caratteri; a
quanto pare è opera di un tale Professor Holzkopf, presumibilmente
docente a Weissnichtwo. I caratteri
necessari dell’uomo del futuro remoto dedotti dalle tendenze odierne, è il suo titolo. Nomi palesemente inventati, bizzarri, buffi, persino.
Eppure non tolgono un filo di solennità al pathos della narrazione.
Da questo punto in poi, segue
la lettura del libro mai scritto, con
qualche intervento di mediazione
transletterale da parte di un narratore invisibile. Dopo solo poche
righe, però, il protagonista che legge, seduto davanti al fuoco con la
pipa tra le labbra, svanisce. Scompare dalle pagine e dalla memoria del lettore
esterno (davvero!), per riapparire nelle righe di
chiusura, terrorizzato dall’ipotesi evocata dalla
lettura della teoria catastrofista del Professor
Holzkopf.
In questo breve racconto, Wells costruisce
una geniale trama espressiva; non usa piani
temporali: tutto rimane perfettamente in mostra. Solo, illumina, argomentando di volta in
volta, gli oggetti narrati ai quali desidera dare
priorità, spegnendo quelli da tenere in sospeso. È con questo sistema che l’autore ci illustra
la tesi sul futuro dell’essere umano e la sua
evoluzione, sino alla sua fine, ipotizzati da Holzkopf, regalando qui e là interessanti digressioni storiche e sociali del periodo temporale
reale – presumibilmente fine ottocento.
Così come l’uccello è una creatura delle ali,
ed è plasmato e modificato per il volo, e così
come il pesce è una creatura che nuota, e deve
affrontare le inflessibili condizioni di un problema di idrodinamica, così l’uomo è una creatura del cervello; se vivrà, vivrà della sua intelligenza, e non della sua forza fisica. Con questa
104
si lancia in una prospettiva disarmante e visionaria: Al centro di questa cupola trasparente e
camaleontica c’è una vasca circolare di marmo
bianco con dentro un liquido chiaro, mobile e
ambrato, e in esso si immergono e galleggiano strani esseri. Sono i discendenti dell’uomo.
In questo modo egli descrive creature che si
nutrono degli elementi minerali contenuti nel
liquido in cui sono immersi, entità non più paragonabili all’uomo, sempre più simili a girini
nel brodo primordiale. Solo che questa non è la
descrizione di un inizio, ma la tragica presa di
coscienza di una fine annunciata.
E così, con uno sguardo agli esponenti
dell’ultimo ramo dell’albero della vita, fuggiti
dalla natura ormai distrutta e rifugiatisi nelle
profondità della terra, in fuga verso il nucleo
caldo, in cerca dell’antico vigore, si chiude la visione del Professore e la luce torna a spostarsi,
rapida, quasi dolorosa a quel punto, sull’uomo
contemplativo che, preso dall’ansia rimesta il
fuoco e nel fumo, il libro mai scritto svanisce,
lasciando chi osserva dall’esterno senza fiato,
col cuore che batte all’impazzata – in un certo
qual modo, per quanto mi riguarda, un sollievo
(la conferma della vita, del sangue che scorre.
La consapevolezza che quanto descritto è un
incubo ancora molto, molto lontano).
Wells con questa perla narrativa non solo
ha precorso i tempi, rendendo visibile agli occhi
del lettore il rischio che l’umanità corre snaturandosi e allontanandosi progressivamente dai
cicli naturali, dal cibo, dai processi fisici, ma ha
anche regalato al mondo la splendida illusione
di ciò che non è ancora stato. Soltanto la concezione dell’esistenza ideale di libri mai scritti
è uno dei più bei paradossi mai creati. E poi c’è
la speranza che il futuro sia diverso. Sì, perché
egli disegnando un futuro tragico, prospetta
anche la possibilità che questo atroce destino
venga in qualche modo mutato. All’uomo del
presente, dunque, l’ultima parola.
105
Letteratura
premessa didascalica, l’illustre professore ipotizza e chiarisce i cambiamenti cui sarà sottoposto l’uomo nei secoli a venire, dipingendo
un quadro ambientale terrifico e descrivendo
l’aspetto grottesco che l’essere umano assumerà, perdendo gradualmente quanto è puramente animale, di lui. L’uomo che verrà, dunque, avrà chiaramente un cervello più grande
e un corpo più minuto rispetto a oggi. Ciò che
non è necessario all’evoluzione, scompare,
dice Holzkopf. E quindi l’uomo del futuro sarà
in fine privo di orecchie, di naso, di mascella,
denti, appendici. Dello stomaco. E qui, approfondendo il tema della digestione, lo studioso
106
Se ci trovassimo in libreria,
dinanzi a una copia de
La metafisica di Harry Potter
(Camelozampa, 2012),
di Marina Lenti,
la prima domanda che
ci verrebbe in mente
potrebbe essere:
“Perché un altro saggio
su Harry Potter?”
sette nella saga di Harry Potter, fino a
risalire al significato del sette secondo
la Cabala. Il viaggio alchemico di Harry
Potter individua insospettati parallelismi
tra l’opera alchemica di trasformazione
dei metalli non nobili in oro e la storia
di Harry. L’inizio… della fine verte sulla
profezia pronunciata da Sibilla Trelawney
(Cooman in Italia) che segnerà il destino di Voldemort, Harry e persino di un
altro ragazzo, Neville Longbottom (Paciock nella versione italiana). Le quattro
Case di Hogwarts analizza la personalità e la simbologia delle quattro Case di
Hogwarts, Grifondoro, Tassorosso, Corvonero e Serpeverde. La via… horcrucis
analizza gli Horcrux creati da Voldemort
nel corso della saga. I Doni della Morte
è un capitolo in un certo senso speculare rispetto al precedente, in cui la Lenti
si sofferma sulle corrispondenze psicanalitiche tra i segmenti della personalità e i Doni ricevuti dalla Morte dai fratelli Peverell, la Bacchetta di Sambuco,
la Pietra di Resurrezione e il Mantello
dell’Invisibilità. Il Prescelto, l’Ombra e il
mito della rinascita verte sul rapporto di
Harry e Voldemort con la morte e sulle
rinascite affrontate da entrambi nel corso della saga (fisiche e spirituali).
Gli aiuti magici si sofferma su quelli che
Letteratura
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107
di Pia Ferrara
arina Lenti ha già – più volte – detto la sua sulla saga potteriana di
J.K. Rowling: suo è L’Incantesimo
Harry Potter (Delos Books, 2006), così
come Harry Potter a test (Alpha Test,
2007) e ha curato il progetto dell’antologia di beneficienza di saggi Potterologia
per Camelozampa. Ce lo spiega la stessa
Lenti, con cui abbiamo avuto occasione
di fare due chiacchiere dopo aver letto
il volume: “Perché dopo la pubblicazione de L'Incantesimo Harry Potter avevo
avanzato molto materiale che, dato il taglio di quel saggio, non poteva trovarvi
cittadinanza. Ed era un peccato lasciarlo
lì. Infatti, una volta che l'ho raggruppato, mi sono resa conto che, con ulteriori
ricerche, avrebbe potuto costituire l'oggetto per un secondo saggio interessante, di taglio completamente diverso e
sicuramente mai affrontato in Italia. Ma
credo neppure all'estero. Benché la produzione saggistica estera su Harry Potter, specialmente in lingua inglese, sia
sterminata e non consenta di fare affermazioni sicure al 100% come nel caso
del nostro Paese, direi che il fatto di aver
trovato, nelle mie ricerche, un solo saggio in volume incentrato unicamente su
queste tematiche possa essere abbastanza indicativo”.
La metafisica di Harry Potter si articola
in nove capitoli: Una saga magica lunga
sette libri, Il viaggio alchemico di Harry
Potter, L’inizio… della fine, Le quattro
Case di Hogwarts, La via… horcrucis, I
Doni della Morte, Il Prescelto, l’Ombra
e il mito della rinascita, Gli aiuti magici
e I poteri interiori. Abbiamo chiesto a
Marina Lenti da dove sia partito il suo
processo di documentazione per scrivere il saggio: “Come dicevo, sono partita
dal materiale avanzato, ma mi sono resa
conto ben presto che questo era in grado
di figliare copiosamente e infatti così ha
fatto. Basti dire che fra ricerca e stesura
ho impiegato quattro anni a terminare il
lavoro”.
Una saga magica lunga sette libri affronta il tema della ricorrenza del numero
italia
primo sito italiano
www.moonlightitalia.com/vampirediaries
WRITER'S DREAM
Perché scrivere non è solo un sogno
www.writersdream.org
la lettura, con più tempo a disposizione per riflettere su quanto appreso nel
singolo capitolo. Particolarmente degni
di nota i capitoli dedicati all’alchimia, un
argomento ignoto ai più in cui la Lenti riesce a introdurci in modo naturale e mai
noioso.
Un’ultima domanda si è affacciata alla
mente: Marina Lenti ha già messo per
iscritto tutto ciò che aveva da dire sulla
saga di Harry Potter? “Su Harry Potter
– risponde l'autrice –, per via della sua
ricchezza, restano da dire un sacco di
cose, ma dopo avergli dedicato due saggi in volume, un manuale e un saggio
breve, direi che è tempo che mi fermi, almeno per quanto riguarda le pubblicazioni. Continuerò naturalmente a scrivere di
lui sul mio blog www.marinalenti.com,
ma sul versante editoriale voglio concentrarmi ora su altre cose e altri generi”.
Letteratura
109
Propp denominava “oggetti di valore”,
dei mezzi che
permettono
all’eroe di assolvere il suo compito all’interno della
storia (i Patronus, la fenice, le bacchette). Ne I poteri interiori l'autrice chiude
il saggio analizzando l’aspetto magico in
Harry Potter e i poteri mostrati dai personaggi della saga.
Alcuni capitoli si sono rivelati difficili da scrivere, e come ci spiega Marina
Lenti c’è stato più di un capitolo in grado
di metterla in difficoltà: “Sì, più di uno.
È stata dura confezionare la prima parte
del primo capitolo, quella che analizza i
simbolismi del numero sette nella cultura
babbana, perché la quantità di materiale
è sterminata. È stata dura confezionare la
parte strettamente alchemica del secondo capitolo, dove paragono le fasi della
Grande Opera ai sette romanzi, principalmente perché l'alchimia è una materia
molto complessa e, prima di raccapezzarcisi un minimo in modo da riuscire a spiegare almeno i principi base ad altri, bisogna faticare un bel po'. E poi sono state
ardue alcune parti del terzo capitolo, laddove mi impelago nel discorso su Libero
Arbitrio e Predestinazione, e alcune parti
sulla simbologia delle Case di Hogwarts,
che tratto nel quarto capitolo. Dopo questi scogli, che almeno un paio di volte, lo
confesso, mi hanno fatto temere che il
compito fosse oltre la mia portata, il resto
è andato relativamente in discesa”.
La metafisica di Harry Potter è un saggio oggettivamente ben scritto, strutturato in modo da risultare interessante
anche per un lettore che non conosca il
mondo potteriano come le sue tasche.
Una volta iniziata la lettura ci si ritrova
immersi tra alambicchi e calderoni senza
neppure sapere come.
La struttura indipendente dei capitoli
è un valore aggiunto perché permette
al lettore di segmentare ulteriormente
Da Reverie alla Fucina della Morte
RUBRICA di MIRIAM MASTROVITO
C
hi di voi non ha mai fantasticato, anche solo per
pochi istanti, di poter
scambiare la quotidianità con
una realtà ovattata e perfetta da videogame? Un’infinità
di dimensioni tra cui scegliere
scorrazzando nello spazio e nel
tempo, miriadi di paesaggi in
cui potersi trasformare nei personaggi più disparati e vivere
avventure di ogni tipo con la
sicurezza di non correre alcun
rischio. È una prospettiva allettante, non vi pare?
Ebbene oggi ho il piacere
di condurvi alla scoperta di un
luogo in cui tutto ciò è possibile: Reverie. Si tratta di un
mondo nuovo, collocato in un
ipotetico futuro, sorto dalle ceneri del nostro mondo o di uno
che in origine gli somigliava.
Quando l’apocalisse è giunta
sotto forma di tempeste di Etere che hanno reso l’aria quasi
irrespirabile seminando morte e distruzione, un gruppo di
scienziati ha creato una biosfera ipertecnologica e al suo interno ha edificato una città per
pochi eletti. Qui non si invecchia più, non ci si ammala e non
si soffre, si vive come sospesi
110
in una sorta di
morire, perché
queste, nella
bolla protettiva
realtà virtuale,
dalla quale è
sono ipotesi
stato espulso
impraticabili.
il male in ogni
sua
forma.
Ma i sogni, si
Unico limite di Veronica Rossi sa, spesso si requesto “eden” vive nel nord della Ca- alizzano a caro
è che ha con- lifornia con il marito e prezzo e anche
fini ristretti, due figli. Questo è il in questo caso
ma il progres- suo primo romanzo che ce n’è uno da
so tecnologico inaugura una trilogia di pagare. Come
ha saputo far genere, bestseller negli avrete intuito, a
fronte anche Stati Uniti e in Inghilter- Reverie non esia questo. Ecco ra, in corso di pubblica- stono emozioni
dunque che da zione in 25 paesi e i cui né sensazioni
cinematografici autentiche, poReverie è pos- diritti
so
no
sta
ti
opzionati dal- sitive o negative
sibile accedela Warner Bros.
che siano, la sotre ai Reami.
tile membrana
Basta indossare
che separa il reale dal virtuale
l’Iride − una specie di occhio
si è completamente dissolta e
biomeccanico − perché si dil’esistenza è diventata simuschiudano le porte di migliaia di
lazione. Chi è nato e vissuto
regni virtuali in cui poter sconqui non riesce a comprenderlo
figgere la noia sperimentando
perché non ha un termine di
tutte le avventure possibili e
paragone ma c’è qualcuno che
immaginabili. Nei Reami, prosi appresta a scoprirlo.
prio come nei videogame, si
possono affrontare battaglie,
Aria, una ragazzina di diciassette anni, un giorno viene
scalare montagne, attraversaaccusata di un crimine che non
re fiumi, esplorare antiche civilha commesso e subisce la contà e persino assaporare i piadanna più terribile che si posceri della carne conservando
sa comminare nel suo paese:
la certezza di non ferirsi e non
ad animali, sporchi, malati, feroci. Suo malgrado, Aria sarà
costretta a conoscerli e dovrà
allearsi proprio con uno di loro
per poter sopravvivere e trovare un modo per tornare a casa.
Lui è Peregrine, gli stanziali
hanno rapito suo nipote per ragioni che ignora e Aria rappresenta la sua unica possibilità di
fare breccia nella biosfera per
ritrovarlo.
Se giunti a questo punto,
deciderete di lasciarvi definitivamente alle spalle l’ambientazione paradisiaca di Reverie
per seguire Aria nel suo viaggio, vi incamminerete sotto il
cielo selvaggio di Never Sky.
La sensazione di pericolo non
vi abbandonerà più e la paura
sarà vostra compagna di avventura; ma insieme alla protagonista scoprirete che si annida
qualcosa di irrinunciabile anche
nell’inferno. I selvaggi hanno
pochissimo di cui cibarsi e vivono di costanti privazioni, ma
godono di sensi iper-sviluppati
attraverso cui sperimentano
sensazioni reali nella maniera
più intensa. Alcuni di loro sono
Segnati. Ci sono i Veggenti, capaci di vedere al buio, gli Auscultanti in grado di percepire
anche i suoni più flebili e i Sagaci, come Peregrine, il cui olfatto può captare l’umore delle persone. Nella Fucina della
Morte Aria imparerà a provare
il dolore e la paura, la fame, la
stanchezza, la speranza e persino l’amore. Nonostante tutto
sarà qui che per la prima volta
potrà davvero assaporare la
vita. E allora scegliere da che
parte stare non sarà più facile.
Voi cosa scegliereste tra
una perfetta realtà simulata e
una realtà più che imperfetta
ma autentica?
Viaggiando nel meraviglioso/terrificante universo creato
da Veronica Rossi, ho udito
il canto di Aria. Riecheggia ancora nelle mie orecchie rafforzando in me la convinzione che
sia preferibile convivere con
la certezza di morire piuttosto
che esistere a oltranza senza
aver vissuto mai.
111
Letteratura
#4
viene estromessa dalla biosfera e abbandonata nel territorio al di fuori, quello che tutti
chiamano la Fucina della Morte. È questo ciò che rimane del
vecchio mondo, un territorio
impervio spazzato da continue
tempeste di Etere nel quale i
pochi scampati all’apocalisse
lottano per la sopravvivenza.
Selvaggi, li chiamano gli stanziali di Reverie, uomini simili
La mate rnwitebà2.0
medalion IV © anita zofia siuda
nell’era del
intervista a Claudia Porta, mamma-blogger-imprenditrice
di elisabetta ossimoro
Speechless: Ciao Claudia
e benvenuta su Speechless.
Prima di diventare mamma
vendevi yacht a Montecarlo
e adesso vivi e lavori in una
casa di campagna in Provenza insieme a tuo marito e ai
tuoi tre figli: vuoi raccontare
ai nostri lettori che cosa ti ha
portato alla decisione di “fuggire dalla città”?
Claudia Porta: Volevo che
i miei figli crescessero il più
possibile all’aperto, a contatto con la natura.
S: La blogosfera è come
una grande casa con tante finestre su piccoli mondi: il tuo
è un mondo variegato e pieno
di colore; sul tuo blog (e nei
tuoi libri) si parla di yoga, di
educazione Montessoriana, di
metodo Steineriano, di “portare i bambini” (i tuoi meitai
sono bellissimi), di bambole
waldorf, di ritorno alla natura;
qual è l’idea di base che sta
dietro al modello educativo
che segui e proponi?
CP: In realtà non c’è un’idea
112
Letteratura
S
cegliere di lasciare un lavoro fuori casa per restare tra le mura
domestiche a prendersi cura dei propri figli al giorno d’oggi può
sembrare una scelta anacronistica: tuttavia, al tempo del web
2.0, è possibile conciliare lavoro e famiglia grazie a internet, riuscendo persino a trasformare un proprio hobby in un’occupazione fruttuosa e appassionante, in grado di aggregare intorno a sé una comunità
viva, che si scambia consigli sulle molteplici sfaccettature della maternità.
La community delle mamme sul web è forte e unita, come dimostrano le pubblicazioni di Claudia Porta, che riferisce la sua esperienza, oltreché nel seguitissimo blog www.lacasanellaprateria.com,
anche in due libri editi da Leone Verde Edizioni nella collana Bambino
Naturale: in La mia mamma sta con me (2008) racconta la storia personale sua e di altre “mamme imprenditrici da casa” (tra cui Daniela
Sacerdoti, autrice di Watch over me) e in Giochi con me? (2012) parla
della necessità di un ritorno alle origini nell’approccio al gioco con
i figli, un momento che può trasformarsi anche in un’occasione per
riscoprire un rapporto più genuino con la natura e con l’arte. Noi di
Speechless oggi ne parliamo proprio con lei.
113
114
CP: Questo può essere il primo
passo di una grandissima rivoluzione personale. Molti di noi non usano più le mani perché non ne hanno
bisogno. Quando, grazie ai figli, proviamo la gioia di creare, ci si apre un
mondo ormai dimenticato, che può
trasformarsi in passione se non addirittura, come nel mio caso, in professione.
S: Nei tuoi libri sostieni l’assenza
della tv dalla quotidianità dei bambini (e, vista la pessima influenza
di pubblicità e programmi attuali,
ne capisco bene il motivo). Io però
conservo degli splendidi ricordi delle conversazioni che
intrattenevo con le
mie compagne di
classe, alle elementari, sugli ultimi episodi di Lady Oscar e
Il mistero della pietra azzurra, capolavori dell’animazione
che hanno segnato
in positivo la mia infanzia e hanno contribuito ad accendere il mio già precoce
interesse per la storia e la letteratura.
Lo stesso vale per
alcuni preistorici videogiochi (sono stata una bambina che
giocava con il DOS).
Non pensi che negare del tutto l’accesso
alla televisione e ai
videogiochi possa
privare i bambini di
un’ulteriore possibilità di arricchimento e confronto con
i coetanei che è un
tratto distintivo – per
quanto opinabile –
del nostro tempo?
claudia porta
CP: La mia idea non è di negare
completamente l’accesso alla tv e
ai videogiochi. Questo non si deve
però sostituire al gioco. Penso che,
nell’ideale, sarebbe meglio evitare
questi strumenti o limitarsi a un uso
sporadico prima dei sei anni. Dopodiché vanno proposti in modo critico
e consapevole, scegliendo attentamente i contenuti da offrire ai bambini. Detto questo, la vita di una mamma è dura, e in certi momenti questi
strumenti possono essere un ripiego
utile. L’importante è non abusarne.
S: In “Giochi con me?” illustri tanti modi creativi e anche “esotici” per
intrattenersi con i propri bambini.
C’è un gioco, una costruzione, qualcosa di semplice da realizzare che
vuoi condividere con i lettori di Speechless?
CP: Le bamboline-papavero che mi
faceva mia nonna quando ero bambina. Un ricordo bellissimo!
ia.com :
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(se mai ce ne fosse bisogno),
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i semi in giro per il prato. Poi
aprendo la capsula e spargendo
nmboline che mi faceva mia no
mi sono tornate in mente le ba
che ai miei bambini.
na, e che sono piaciute tanto an
lo delicatamente con le
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eriore (che diventerà quella su
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altro papavero con un pezzetperiore) infilate la capsula di un
ci
le come questi semplic i gesti
to di gambo (foto 2). Inc redibi
ni.
icato, anche dopo tanti an
ac compagnino, carichi di signif
115
Letteratura
né un modello educativo particolare
a cui mi ispiro. Semplicemente osservo le varie possibilità e, da ciascuna,
traggo ciò che mi sembra maggiormente in linea con il mio concetto
di educazione, che consiste nell’accompagnare i figli, aiutandoli a tirare
fuori la loro vera essenza, e non nel
“plasmarli” in base alle nostre aspettative.
S: Essere una mamma imprenditrice che lavora da casa, tramite internet, fa dell’ambiente domestico
lo spazio della propria professione:
come imparare a gestire tempi e spazi, tra cura dei bambini e lavoro?
CP: Non è facile.
La cosa più difficile
è far capire agli altri
membri della famiglia che si sta effettivamente lavorando,
e riuscire a far rispettare i propri tempi e
i propri spazi. Questo è uno degli argomenti che affronto
nel mio libro.
S: In “Giochi con
me?” parli della necessità di tornare a
usare le mani per permettere ai bambini
di liberare la propria
creatività, creando
da sé spazi di gioco
e gli stessi giocattoli, riscoprendo una
connessione profonda con la terra e con
i materiali da lavorare. In che modo questa può essere una
buona occasione per
ritrovare
qualcosa
che nella vita adulta
e cittadina di oggi si
è fondamentalmente
perso?
dei
disoccupati
si. La situaL’Italia è in cri
è grave e le
zione lavorativa
ivano a fine
famiglie non arr che l’Itamo
mese – ricordia
nno, ha regilia, nell’ultimo a eclino delle
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rec
ta a ruota da G è in aune
La disoccupazio
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mento – una pe così come
o –,
non trova lavor
di lavoratori
la percentuale
lita al 35%.
inattivi, che è sa
N
umeri, statistiche, considerazioni da pausa caffè in cui incappiamo ormai tutti i
giorni. Chi ha un lavoro ha paura di perderlo e chi non ce l’ha è demoralizzato e scoraggiato, spesso tentato ad abbandonare ogni
manovra di ricerca dopo mesi di porte in faccia
e sonori “non siamo interessati” o “le faremo
sapere”.
“L’Italia è in crisi. La crisi non esiste. Si rischia
la recessione. Nera situazione lavorativa. L’Italia
sta uscendo dalla crisi”. TG e giornali ci bombardano di notizie contrastanti e viene proprio da
chiedersi a chi sia giusto prestare attenzione.
Ognuno di noi, nella vita di tutti i giorni, è sicuramente stato interessato da problematiche
116
di Valentina Bettio
riguardanti la ricerca di un lavoro, se non per
esperienza diretta per lo meno attraverso le
esperienze di parenti e amici. Per ogni italiano
che trova lavoro altri due continuano a rimanere invischiati nel circolo vizioso dei colloqui inconcludenti, inviando curriculum che spesso non
vengono nemmeno letti, affidandosi ad agenzie
di lavoro interinale nel disperato tentativo di trovare un’occupazione, almeno per qualche mese.
Senza dilungarsi nelle solite polemiche e senza puntare il dito contro nessuno, l’unica cosa
intelligente che rimane da fare è cercare di crearsi una propria opinione: leggere, informarsi,
perdere tempo a sviscerare le statistiche e i dati
raccolti, al fine di meglio comprendere cosa sta
succedendo a un mercato del lavoro che sembra pietrificato. Facendo ciò, ci si imbatte in dati
interessanti, che possono essere reperiti molto
facilmente anche online sul portale ISTAT: senza
nulla togliere a chi analizza una situazione che è
critica e che critica sembrerebbe dover rimanere
purtroppo anche nei prossimi anni – e non solo
in Italia, anche in Europa la situazione non è tra
le più rosee, anche se nel nostro paese, triste
fanalino di coda, la crisi sembra farsi sentire in
modo più pesante –, si trovano anche dati che
lasciano basiti e increduli. Di fronte ad un tasso di disoccupazione in continua crescita, tolti
i lievi miglioramenti periodici, si scopre che ci
sono settori in cui la richiesta di manodopera è
altissima e in cui la forza lavoro disponibile non
riesce a soddisfare le necessità. Incredibile. Impossibile penserete voi. Eppure è proprio così:
da parte della ditta piuttosto
che cambiare ambito lavorativo.
Quindi, tra un mercato del
lavoro dalle proposte limitate
e ricerche a volte troppo mirate, trovare lavoro sembra ormai
diventata quasi più un’arte che
una necessità, fino all’instaurarsi di situazioni quasi paradossali, che si avvicinano all’estrema
distopia di Joachim Zelter ne
La scuola dei disoccupati. In
questo libro, ambientato in Germania, è lo Stato stesso a dover intervenire per tentare di rimarginare una situazione ormai
invivibile, per cercare di contenere un tasso di
disoccupazione che ha raggiunto livelli impensabili, arrivando a interessare la maggioranza della
popolazione.
E come intervenire se non con una scuola che
insegni ai disoccupati a trovare lavoro? Scrivere
curriculum brillanti, rimaneggiare completamente la propria vita e romanzarla, diventare attori,
scrittori e interpreti di un nuovo sé: tutto pur di
accalappiare una qualsiasi occupazione.
Un libro interessante, che estremizza la situazione odierna e la porta a limiti grotteschi,
trasformando la ricerca di un lavoro in una sorta
di talent-reality show, in cui non conta nulla se
non il sapersi vendere, creando un personaggio
nuovo di cui vestire i panni e che potrebbe trovare un lavoro in quanto candidato perfetto. Poco
importa se il tutto si basa su una menzogna.
Dai toni cupi ed estremi della distopia di
Zelter alla vita di tutti i giorni, è agghiacciante
quanto, partendo da situazioni eccessive, alcuni
piccoli dettagli sembrino così reali e alcuni ragionamenti non così impossibili. Forse li abbiamo già sentiti. Forse non sono solo frutto della
penna di uno scrittore. Ovviamente La scuola
dei disoccupati non ci insegna a trovare un
lavoro, ma ci impone di fermarci a riflettere sui
nostri obiettivi, sulle scelte e sulle idee che stiamo perseguendo. Ci porta a chiederci se stiamo
affrontando il problema nel modo giusto o se ci
limitiamo a seguire la corrente dei sogni e dei
desideri, schiacciati tra una fantasia irrealizzabile e una realtà che vuole tutt’altro da noi.
Letteratura
La vera scuola
si tratta spesso dei classici lavori
che “nessuno vuole fare”, per motivi personali o di competenze.
Il primo settore in assoluto in
cui il lavoro non manca è proprio
quello alberghiero e della ristorazione: baristi, camerieri, cuochi e
così via. Lavori che spesso vengono snobbati, soprattutto dai giovani, in quanto vanno a incidere
sul tempo libero e sulle attività
sociali – sono i tipici casi in cui si
lavora quando gli altri si divertono, feste comandate incluse. Seguono altri settori, quali tessile e
abbigliamento, manutenzione e
riparazione impianti, industria dei metalli, mezzi
di trasporto, gomma e plastica, tutti con grandi
difficoltà di reperimento di forza lavoro, specie
di manodopera specializzata, con picchi anche
del 20%.
È anche fin troppo facile notare che si tratta, per lo più, di professioni operative e manuali
e viene da chiedersi come sia possibile che ci
siano campi così ampi in cui vi è lavoro ma nessuno che lo svolge. Riflettendoci, alcuni dubbi
iniziano ad affiorare: senza arrivare a toccare
la sensibilità di persone che si trovano in situazioni critiche e che ce la stanno davvero mettendo tutta, forse in alcuni casi la ricerca di un
impiego è viziata dal proprio percorso di studi e
dalle aspettative personali. Infatti, come è facile
imbattersi in persone disoccupate alla disperata
ricerca di un lavoro, è altrettanto facile trovarsi
ad ascoltare discorsi del tipo “ah no, io un lavoro
del genere non lo farei mai e poi mai” e ancora
“non ho studiato tutti questi anni per finire a fare
un lavoro del genere. Voglio lavorare nel campo
che corrisponde ai miei studi”.
Tra tutte le sfumature esistenti, questa è la
più affascinante da analizzare e quella che più fa
riflettere. Se è vero che bisogna sempre prestare
attenzione e non finire nel limbo degli impieghi
sottopagati – quasi ai limiti dello sfruttamento
–, fa veramente una strana impressione pensare
a giovani forti e in buona salute che non arrivano
a nulla solo per questa sorta di “fissazioni” e che
preferiscono rimanere bloccati in stage non reperiti e senza possibilità di una futura assunzione
117
La verità, vi prego, su Facebook
Confessioni di uno scrittore social network addicted
L’
aspetto più difficile
dell’affrontare il tema
della scrittura nell’era
dei social network è staccarsi da facebook e cominciare
a scrivere. Ma ce l’ho fatta, e
ne emergo persino con un paio
di idee. Che si scriva nell’età
della pietra, in quella digitale
o da qualche parte in mezzo,
lo si deve fare sempre a partire dall’esperienza. E io di
esperienze ne tiro in ballo tre:
quella del sottoscritto, per cui
l’ingresso in facebook ha significato un periodo di infogno e
singhiozzo creativo; quella di
un mio amico scrittore serio,
con all’attivo un romanzo per
Fernandel (Mi mangiassero i
Grilli), il quale ha abbandonato
facebook; infine, la vicenda di
un mio “amico” (tra virgolette
perché non l’ho mai conosciuto
di persona) di facebook il quale
ha recentemente autopubblicato una raccolta del meglio
della sua produzione sul social
network, una specie di libro di
aforismi e racconti brevi apprezzati dal suo seguito.
Sono tre storie diametralmente opposte, collegate
Social Sites Icon © Levente Korponai
come i vertici di un triangolo.
E, almeno in premessa, sono
tre storie diametralmente tristi.
La mia, in quanto appunto
vicenda di infogno, roba da
cliché tipo “facebook è una dipendenza” (il che la rende doppiamente infelice: c’è l’infogno, c’è il cliché). Quella dello
scrittore, la quale dimissione
da facebook si è ammantata
da un certo strazio interiore,
tipico di chi si trova costretto dal medico a smettere di
fumare. Infine, quella del mio
“amico”, che probabilmente
non lo riguarda affatto: è una
tristezza del tutto retorica che
si manifesta in me di fronte al
termine “autopubblicazione”,
ma che non ha nulla a che vedere con il talento dell’autore
o con il proprio vissuto emotivo; è una specie di tristezza di
sistema, per così dire: la piattaforma digitale – che di per
sé è una gran trovata, senza
dubbio – ha il rovescio di farsi
davvero paradiso di chi se la
canta e se la suona; e il cantarsela e suonarsela (e autopubblicarsela), a me, in fondo
in fondo, restituisce un senso di
118
incomprensione, come il pianto di un bambino che non sa
come altro attirare l’attenzione ma deve assolutamente
farlo. A prescindere dal risultato del cantante-suonatoreeditore, tengo a precisare.
Cominciamo dalla mia, di
vicenda. In trance da sincerità (scrivi sempre la Verità! È
il dogma dello scrittore, pare),
ammetto senza vergogna di
essere entrato in facebook
con due precisi obbiettivi: da
un lato, come parte integrante
della strategia necessaria per
Rifarmi Una Vita in Seguito a
un Evento Traumatico (scrivo
con le Maiuscole per fornire
Epicità a una vicenda brutta sì,
ma Tutto Sommato Diffusa);
dall’altro, promuovere il mio
romanzo e mostrare al mondo
le mie formidabili doti espressive. Naturalmente è andato
tutto a rotoli. Lo schiaffo umiliante della Pagina Bianca, che
già da tempo mi colpiva coadiuvato dallo stress psicofisico
cui l’Evento Traumatico mi aveva costretto, è stato sublimato
dalla facilità di nascondere il
vuoto creativo dietro a brevi
ed efficaci frasette, brandelli
di dialoghi fulminanti, spinose
provocazioni, tutte da spacciare come parti della mia vera
produzione, e tutte destinate
ad appassire tanto rapidamente quanto erano sbocciate, che
questa è la speranza di vita di
un post su facebook.
Esatto: proprio come masturbarsi quando non si ha
nessuno con cui fare l’amore,
e chi ama scrivere sa che il
paragone erotico non ha nulla
di azzardato. Mi sfogavo così,
arrivando al punto di aprire il
foglio di scrittura per mettere
alla prova i post prima di pubblicarli. Che tristezza, eh? E
non ho confessato ancora nulla. L’effetto moltiplicatore dei
“mi piace” o dei commenti positivi sul rilascio di endorfina
nel mio cervello affamato ha
aggravato la situazione. Abituato a ricevere rimandi positivi a cadenza mensile, a ridosso
dell’uscita dei miei contributi
sui blog, o a cadenza semestrale da chi ha avuto la ventura
di imbattersi nel mio romanzo
trovandolo godibile, l’impatto
quasi quotidiano dei “mi piace” aveva proiettato questo
povero scribacchino scioccato
nel vortice della dipendenza
psicologica, o quasi. Tutto ciò
a scapito della produzione –
come dire – seria. Facevo sempre più fatica a concentrarmi
su qualcosa di più profondo.
Inoltre, ero in qualche modo
costretto a postare quotidianamente su facebook, a caccia di
pollici alzati. Volatilizzando letteralmente le energie creative
che avrei potuto convogliare in
almeno uno dei dieci libri che
ho in mente di scrivere.
Quei pochi che abbiano un
minimo di dimestichezza con i
fenomeni di dipendenza sanno
che essi potrebbero essere
rappresentati
graficamente come sinusoidi, con curve ascendenti di “picco” che
scendono in periodi di parziale o totale remissione. È stato durante uno dei periodi di
picco, e quindi di crisi creativa
sublimata da facebook, che mi
sono imbattuto nello scrittore
serio. L’ho conosciuto di persona, poi siamo diventati amici
sul social network. Ci si è annusati per un po’, come spesso
accade tra scrittori esordienti
o semi, e come sempre accade tra cani randagi e di razza
incerta, che devono capire se
far branco o meno. Poi ci siamo confessati il disagio della
crisi creativa, imputandola
entrambi al potere distraente
di facebook. Una sera, alticci
– almeno: io avevo bevuto, lui
non saprei –, ci dicemmo che
se la passione per la scrittura
comporta davvero una certa
necessità di sacrificio, rinunciare a facebook per coordinare meglio tempi e energie
poteva essere accettabile.
119
Letteratura
di Luca Borello
Social Braekdown © John Francis
trovato coraggioso. E drastico.
Per uno come me, che tenta di
smettere di fumare più o meno
da quando ha iniziato, sarebbe
stata una mossa impensabile:
molto meglio cercare un approccio sensato con facebook,
proprio come cercare di fumare, sì: ma il meno possibile.
Ed ecco in soccorso la terza
vicenda: quella del mio “amico”
di facebook. Il quale, a questo
punto, si è guadagnato la mia
stima incondizionata. Perché
laddove il mezzo facebook era
divenuto per me un fine, e per
il mio amico scrittore serio un
bastone tra le rotelle creative,
per lui era rimasto un mezzo:
uno strumento a disposizione
della propria creatività. Con
facebook lui ha composto un
libro, mentre io aprivo falle
di creatività. Ha usato il social network per mettere alla
prova le proprie idee e il proprio stile, per selezionare direttamente a contatto con il
pubblico la propria produzione:
se ne è servito, in sostanza,
per costruire.
Perché questo è facebook:
uno strumento. Punto. Con
cui puoi fare quello che credi.
Sta alla tua fantasia e intelligenza ed esigenza (e dio solo
sa quanto sia difficile, oggi,
distinguere le fantasie dalle esigenze). Puoi usarlo per
creare, oppure per nascondere il tuo vuoto creativo, come
facevo io. È evidente che il
problema, per me, non è mai
stato facebook, ma il fatto che
avevo altro per la testa e non
riuscivo ad accettarlo; quando
è stata ora di rimettersi a scrivere, cioè quando ne ho avuto
di nuovo desiderio e quando
ho potuto reindirizzare lì le mie
energie, facebook non è più
stato un problema. E fortunatamente non ho avuto bisogno
di abbandonarlo. Anzi: ne ho
finalmente individuato le potenzialità. Non solo l’innegabile rapidità di scambio
di idee e informazioni
(lo scambio di idee e informazioni è costante e
ridondante: comunque
sta a noi selezionare,
sta a noi non limitarci
a leggerle a monitor e
replicare o concordare
dimenticandocene due
istanti dopo; sta a noi
essere attivi); ma anche, e soprattutto, nella
messa alla prova delle
nostre idee, e nell’affinamento della nostra
capacità di sintesi e
selezione dei vocaboli
esatti, dato che occorre
essere concisi e chiari.
Facebook (o twitter,
credo: ma non lo uso)
può diventare davvero
un trampolino di lancio
per le idee e le sperimentazioni: a patto che
non si fermino lì. Che
non sia il mero sfogo di
una pulsione. Non c’è
nulla di più piacevole
che pubblicare un’idea
o un’opinione o un’immagine e vedere che
effetto faccia, come
muti di forma sotto i
colpi dei commenti,
per poi riprenderla ed elaborarla e tirarci fuori qualcosa di
articolato e approfondito. Se
facebook è il regno dello sfogo
istantaneo, credo che compito
dello scrittore sia mantenere
saldo il controllo razionale:
del resto, la scrittura è la più
ragionata delle arti, se è vero
che scrivere è riscrivere. È
l’emozione rielaborata, poi ancora rielaborata, infine scritta.
E questo è il modo con cui,
oggi, cerco di sfruttare facebook. E se mi accorgo che
facebook mi distrae, probabilmente è perché in quel momento va così. Allora faccio un
piccolo sforzo, oppure accetto
di essere distratto.
Adesso credo proprio che mi
procurerò il libro del mio “amico” di facebook. Se lo merita.
Lui ha capito in fretta. Non oso
segnalarne qui il titolo, perché
non vorrei fosse effettivamente una boiata. Ma se ne varrà
la pena, lo rilancerò su facebook: serve anche a questo.
Per quanto riguarda il mio
amico scrittore serio, l’ho incontrato di recente mentre
passeggiavo con mia figlia.
Non l’avevo più visto né sentito dall’epoca del suo abbandono. L’ho trovato sereno e
sorridente. Non ho avuto bisogno di chiederglielo, ma credo
proprio stia scrivendo, e con
profitto. Su facebook non è più
riapparso; ma ripeto: ognuno,
di facebook, ne fa l’uso che
crede. L’importante è che ne
faccia uno.
Letteratura
Concludemmo che facebook
doveva essere usato meno, se
proprio doveva essere usato.
Ci siamo incrociati ancora
un paio di volte, ma di fretta.
Poi ho ricevuto un comunicato da parte sua, destinato a
tutti i suoi contatti facebook.
Abbandonava per sempre la
nave. Non senza fatica o rammarico. La considerava una
mera perdita di tempo e di
energie, e un dannoso palliativo alle relazioni umane. L’ho
120
Gli im branati
122 d e
ll'Apocalisse
Traduzione di Marco Piva-Dittrich
U
no non ci pensa che si possa morire ammazzati
in quella maniera, ma io l’ho visto succedere.
No, non è vero. Però l’ho sentito. Il toc inconfondibile di una pallina da golf che colpisce una testa
umana. Certo, può mandare uno al tappeto, ma ammazzarlo? Quanto improbabile è? All’inizio non lo sapevamo
nemmeno, noi tre lì sulla piazzola.
Io e Pete Dexter avevamo guardato Tony DeLuca dare
il suo primo colpo. Era partito verso sinistra, basso e
veloce come un missile Cruise terra-terra. E l’avevamo
sentito colpire il bersaglio. Pensavamo avesse centrato
il tronco di un albero.
«Sarà un problema uscire di lì,» disse Pete. «In mezzo
agli alberi.» Fece un passo avanti, si chinò grugnendo,
piantò il tee e ci piazzò una Top Flight arancione sopra.
Pete era alto, curvo, dinoccolato come una cicogna;
l’età gli faceva stringere le spalle già strette.
Tony non si era mosso, pareva fosse in posa per una
foto, la mazza immobile a mezz’aria. Fissava gli alberi
come se si aspettasse che la pallina ne uscisse da sola.
«Merda.» Era un ciccione in tuta viola; si faceva il riporto
con i pochi ciuffi di capelli neri che aveva. Nessuno ci
cascava. Non aveva solo il doppio mento: aveva il collo
pieno di menti. Finalmente si spostò per permettere a
Pete di tirare.
«Adesso ti faccio vedere come si fa.» Pete andò per
lo swing con il legno da tre, tutto sciolto, con i suoi gomiti appuntiti. Un bel colpo. La pallina si sollevò molto,
atterrò proprio nel centro del fairway centocinquanta
metri più avanti. «Penso che da lì posso farcela in tre.»
Toccava a me. Mi misi dritto sul tee e guardai lontano, verso il fondo del fairway. L’erba era verde, il cielo
era blu. Nessuno avrebbe potuto dire che stavo affannandomi, rotolando, scivolando verso la fine del mondo.
di Victor Gischler
O almeno la fine del mio mondo. Piazzai una Pinnacle
sul tee e il vento si alzò. È così che fa il vento in Oklahoma. Si alza e ti soffia via.
Colpii la pallina nell’aria fredda, secca di novembre
ma non la vidi atterrare. Mi piegai su un ginocchio, la
fitta nelle budella peggio di quanto non fosse stata negli ultimi tempi. Serrai i denti per evitare di emettere un
lamento.
«Cos’hai?» chiese Tony.
«Niente, ho una scarpa slacciata.» La slacciai e la
riallacciai. Lentamente. La fitta passò e improvvisamente sentii tutta la mia età. Ero così stanco, come se le
ossa fossero pronte a frantumarsi ed essere disperse
dal vento. Mi sollevai. Mi girava un po’ la testa ma mi
sforzai di sorridere. «Niente male.» La mia pallina era
rotolata qualche metro più avanti di quella di Pete.
«Bel colpo», disse Pete.
«Andiamo a cercare la mia.» Tony era già nel suo
carrello elettrico.
«Ti aiuto a cercare.» Salii sul mio.
Avevamo un carrello elettrico a testa. Quasi tutti i
residenti della comunità per pensionati vicino al campo
da golf ne avevano uno, anche quelli che non giocavano. Era comodo per andare in giro: al campo, fino alla
piscina, al supermercato, al centro sociale e da Dotty,
il ristorantino semplice semplice vicino all’autostrada.
Qualcuno lo usava addirittura per andare fino alla chiesa metodista, più avanti lungo la strada. Io no. Dio e io
non ci parlavamo.
Superai gli altri perché il mio carrello era più veloce.
Dopo aver passato trent’anni lavorando come meccanico per l’Esercito degli Stati Uniti non sapevo resistere
alla tentazione di mettere le mani su qualunque cosa
avesse le ruote. Il mio carrello era più veloce della
maggior parte degli altri di cinque o sei cilometri all’ora.
Comunque, è per questo che trovai la pallina di Tony per
primo e trovai il cadavere.
Ecco quello che voglio che sappiate di me. Mi chiamo Roscoe Carter, e non sono una cattiva persona. Non
faccio le cose sbagliate. Rispetto il limite di velocità
quando guido. Pago le tasse prima della scadenza. Mi
sono comprato un telefono nuovo, senza fili, e bisognerebbe lasciarlo in carica ventiquattr’ore prima di usarlo.
Così dicono le istruzioni. Non so cosa succede se non
lo si lascia in carica per ventiquattr’ore, e non voglio
saperlo. Le regole ci proteggono.
Ma quando non ti occorre più protezione, quando
non ti serve più, quelle regole iniziano a sembrarti un
po’ tirate a caso e inizi a sentirti come se fossi sempre
vissuto un solco stretto, piccolo, e solo una certa disgrazia ti avesse aperto gli occhi.
E allora inizi a trattare le regole in maniera rilassata.
Non sono una cattiva persona. Sto solo reagendo
come reagireste anche voi se il mondo vi si fosse mosso
sotto i piedi.
Aggirai la collinetta e lo trovai nel bunker. Era caduto
su se stesso con il sedere per aria. Un paio di occhiali
con le lenti spessissime e la montatura di corno era
caduto lì vicino. Aveva la bocca aperta e un livido nero
e viola in mezzo agli occhi. Mi guardai intorno, vidi la
Titleist di Tony a qualche metro di distanza e capii tutto.
Quando i carrelli di Tony e Pete arrivarono, due secondi
dopo, ero già sceso dal mio e mi ero avvicinato.
«Oh merda,» disse Tony. «Adesso mi denuncia.»
Mi inginocchiai vicino all’uomo a terra e gli toccai
una spalla.
Pete chiese «Sta bene, Roscoe?»
Scossi la testa. «No.»
«Adesso mi denuncia,» disse Tony. «Merda, merda,
cazzo, porca puttana.»
Pete aprì la lampo di una tasca della sua sacca da
golf e ne tirò fuori il cellulare. «Vuoi che chiami l’ambulanza?» Abitavamo in una comunità per pensionati, la
terra delle anche fratturate, degli infarti, delle schiene
bloccate. I paramedici erano venuti così spesso che
l’ambulanza sarebbe potuta arrivare da sola.
Tony disse «Lo conosco. È Freddy... Freddy qualcosa.
È il ritardato mezzo orbo che aiuta l’inserviente capo e
fa lavoretti qui e là.» A meno di un metro c’era un rastrello, il che dimostrava che era impegnato a sistemare
il bunker.
«Quando torna in sé chiedigli se vuole un’ambulanza,»
disse Pete. «Ce l’ho in selezione rapida.»
Scossi la testa e risi. Sì, risi. Era tutto così ridicolo.
«Non capisci. È andato.»Una lunga pausa, un silenzio
imbarazzato. Il vento soffiò delle foglie morte tra di noi.
«Non dire cazzate,» disse Tony.
Pete chiese «Allora, non vuoi che chiami l’ambulanza?»
«Ma non rompere con quella cazzo di ambulanza.»
Tony ondeggiò fino al cadavere e si accucciò al mio fianco. «Controlla di nuovo.»
Gli toccai la gola e poi il polso. «Non ha pulsazioni.»
«Oh porca troia.»
Pete si era avvicinato e osservava il morto come se
fosse un monumento pubblico. Non si era ancora reso
conto che era successo davvero. «Cosa gli è successo?»
«Penso che lo abbia ucciso Tony con la pallina da
golf.»
«Col cavolo. Non si può uccidere uno con una pallina
da golf.»
Indicai il livido viola. Si vedevano benissimo i segni
delle fossette della pallina. «Quella è la tua Titleist, no?»
«Merda!» Tony si colpì il palmo della mano con un
gran pugno. «Lo stupido ritardato ha la testa soffice. Chi
può venire ammazzato da una pallina da golf?»
Indicai il cadavere di Freddy. «Lui.»
«Forse è il caso di chiamare la polizia,» disse Pete.
«Ho anche loro in selezione rapida.»
«Aspetta un momento.» Tony si raddrizzò e fece cenno di calmarsi con le mani grassocce. «Un momento,
Pensiamoci un attimo.
«Cosa c’è da pensare?» chiese Pete. «È stato un incidente disgraziato.»
«Aspetta.»
Pete scosse la testa. «Io chiamo la polizia.»
Tony gli strappò di mano il cellulare.
«Ehi!»
«Niente sbirri.»
«E perché?» chiesi.
«Non sono mai stato molto fortunato con gli sbirri,»
disse Tony.
Tony era arrivato dall’est tre anni prima con un accento di Brooklyn e un camion pieno di mobili brutti.
Erano girate certe voci sul suo conto, ma girano voci su
tutti. I vecchi non fanno altro mentre giocano a dama o
bevono whisky: parlano, parlano, parlano, fanno rivivere
il passato come se avesse importanza.
Ma a quel punto non erano solo voci.
«Non possiamo lasciarlo qui» disse Pete.
Tony si guardò intorno. Non c’era nessuno.
Letteratura
racconto
123
di nebbia intangibile? Che aspetto aveva un’anima, e
come faceva a spegnere una persona semplicemente
uscendole da una narice, da un orecchio, dal didietro?
Avrebbe qualche possibilità di sopravvivenza, un’anima,
in quel vento?
Freddy non sembrava morto, non sembrava a pezzi.
Sembrava semplicemente sgonfio, come se qualcuno
potesse arrivare, dargli una pompatina e mettere tutto
a posto.
Tony disse «Prova a metterti nei miei panni. Chiamare la polizia non lo farà tornare tra noi, e ci creerebbe
solo problemi.»
Tony, contava che sarei stato sobrio, misurato. Un mese
prima sarei stato dalla sua parte. Ma in quel momento
non sentivo nulla. Nessun rimorso per Freddy, nessun
senso di colpa perché lo stavamo seppellendo. Non mi
pareva nemmeno di stare facendo un favore a Tony.
C’era solo il vento freddo, la sabbia sotto le unghie e
la carne morta. E se Dio stava guardando non aveva un
cazzo da dire.
Più tardi, quel pomeriggio, mi ero seduto in poltrona
e avevo guardato la televisione. Non mi ricordo che cosa
davano, c’erano luci e gente che parlava. Pete e Tony
125
124
Pete stava scuotendo la testa. «Solo una baruffa.»
«Ascoltami, Pete. Ho avuto qualche problema in passato. Non importa cosa. Ti basti sapere che gli sbirri non
mi daranno il beneficio del dubbio, capisci?»
«No, sei matto» disse Pete. «È evidentemente stato
un incidente.»
«Fanculo gli incidenti. Non ho intenzione di rischiare.»
Pete voltò le spalle a Tony e iniziò a supplicarmi. «Roscoe, aiutami a farlo ragionare.»
Non li avevo ascoltati con attenzione. Più che altro
ero stato a guardare Freddy diventare freddo nel ventaccio dell’Oklahoma. Che cos’era che quella pallina da
golf gli aveva fatto perdere? Che scintilla, che sbuffo
golf balls of fire © David Martin & Keifer Blandon
«Cristo» disse Pete «Non puoi...»
«Copriamolo» dissi.
Pete sbatté gli occhi. «Cosa?»
Presi il rastrello e iniziai ad ammucchiare la sabbia
contro il cadavere di Freddy.
«Ecco, bene,» disse Tony. «Buona idea, Roscoe. Ti
do una mano.» Cercò di usare la mazza, ma visto che
non funzionava bene si mise in ginocchio e cominciò a
prendere la sabbia a manciate.
«Non è possibile» disse Pete.
Qualche istante più tardi Pete si accucciò con noi
e iniziò anche lui. Lo sapevo che avrebbe ceduto. Aveva contato su di me per aiutarlo nella discussione con
se l’erano filata, erano tornati a casa. Probabilmente
stavano cercando un modo per tirare avanti nonostante
la vergogna. Io ero rimasto al campo, avevo finito il giro.
Nove sopra il par. Alla diciottesima buca il vento si era
fatto così forte che neanche i putt andavano dritti.
Mandai giù una pillola con un sorso di Johnny Walker
caldo. Mi sudava la fronte. Il dolore alle budella bruciava, si contorceva, si muoveva fuori e dentro come un
verme. Le pillole mi facevano andare via di testa e non
è che il whisky aiutasse, ma non potevo fare altro. Ne
presi un’altra. Non facevano effetto abbastanza in fretta. Il resto della mia vita si poteva misurare con mezzo
calendario, si poteva contare, ore e minuti. Forse quattro mesi. Centoventi giorni circa. Trecentottanta pasti.
E quanti giri di golf?
Bestemmiai Dio per ogni minuto che sprecavo su
quella poltrona aspettando che il dolore se ne andasse.
I dottori avevano cercato di spiegare, come se capire
cosa avevo in termini medici mi avesse potuto far stare meglio. Non sapevo che aspetto avesse un tumore,
ma me lo immaginavo come un'erbaccia nera, un rovo
spinoso che mi cresceva nella pancia avvolgendomi lo
stomaco, il fegato, i reni, torcendosi, stringendo, soffocandomi.
Quello che avevo in testa me lo immaginavo diverso. Una montagnola di carne che vomitava vermi che
si mangiavano le diverse parti del mio cervello. Non mi
faceva male quanto l’altro ma certe volte spariva qualche parte del giorno, come quando tagliano una scena
da un film.
Non volevo passare i miei ultimi giorni parlando con
la polizia. E non volevo che chiudessero il campo da golf
in quanto “scena del crimine”. E non volevo vedere nessuno spargere lacrime per un inserviente morto quando
io ero lì, morto in piedi. Dov’erano le mie lacrime? Non
ne volevo. Volevo solo tenermi la mia vita per qualche
mese ancora. Volevo mangiare cibo-spazzatura e antidolorifici, bere whisky, svegliarmi la mattina, giocare a
golf e maledire l’universo e tutti quelli che lo abitavano.
Aprii gli occhi all’improvviso. La televisione era spenta e non c’era luce. Fuori, il mondo era tutto rosso. Bagliori infernali venivano dalle finestre aperte. Il vento si
era alzato ancora di più, volavano rami e spazzatura.
Ebbi l’impressione che l’edificio stesse ruotando lentamente, come una giostra pigra. Era per via di tutto quello che vedevo volare fuori dalle finestre. E per le pillole,
per il whisky e perché avevo la testa leggera come una
piuma.
Mi alzai in piedi barcollante e andai in cucina. Tutto
risplendeva come sangue caldo. Il sole rosso-arancione
quasi sull’orizzonte pulsava come l’odio attraverso un
cielo offuscato dal fumo. Allucinazioni. Stavo sognando
di essere all’inferno.
La luce della cucina non si accendeva. Presi la radiolina a batterie dal cassetto dove lasciavo la roba inutile
e trovai un canale che stava dando il radio giornale. Da
nord era arrivata la tempesta. Venti fortissimi, fino a
centodieci chilometri all’ora, avevano strappato alcuni
cavi dell’alta tensione che a loro volta avevano appiccato degli incendi. Erano diffusi in tutta la parte orientale
dello stato.
Non erano allucinazioni. Ero semplicemente in
Oklahoma.
Letteratura
«E perché no?»
Pete sgranò gli occhi. «Ti prego dimmi che stai scherzando.»
«No che non sto scherzando, cazzo» disse Tony.
«Senti, la settimana scorsa lo avevo pagato per lavarmi
e lucidarmi la Lincoln, e me l’ha rigata. Gli ho gridato
dietro di fronte a tutti, gli ho detto che gli volevo spezzare quel cazzo di collo. Mi ha chiesto di pagarlo e gli
ho detto di andarsene affanculo. Mi ha urlato dietro e
io gli ho detto che se alzava di nuovo la voce con me lo
avrei ammazzato. Almeno mezza dozzina di persone mi
hanno sentito minacciarlo.»
Mi svegliai alle ore piccole. Il vento stava ancora cercando di spazzare via l’Oklahoma, le finestre
sferragliavano, il tetto e i muri vibravano come se stessero per volare via. Non ero sicuro se fosse un sogno o
no.
Portami nel regno di Oz, zefiro infernale di merda!
La mattina dopo andai in garage e mi misi al lavoro
sul carrello da golf. Volevo farlo andare più veloce per
sprecare meno tempo tra buca e buca. Una partita alla
velocità della luce. Un carrello-razzo. Mandai giù un antidolorifico con il caffè, aprì la porta del garage e uscii.
In vento si era fatto un po’ meno forte. Solo un po’.
Notai immediatamente le auto. Non si vedevano mai
tante auto in zona, tutti giravano con i carrelli da golf.
Ma sui vialetti e per la strada quel giorno ce n’erano
un sacco. E c’era gente che correva qui e là, carica di
valige.
La signora della porta accanto, Naomi Zoller, stava
muovendosi a tempo di record con il deambulatore. Era
diretta verso un fuoristrada.
«Cosa si dice, Naomi?» le chiesi.
«Mio figlio è venuto da Denton per portarmi via di
qua» disse. «Non hai sentito l’ultima?»
«L’ultima cosa?»
«L’incendio ha passato Moss Point, sono bruciate
cinquanta case. E sta venendo in questa direzione. Spero che te ne andrai presto.»
«No, non saprei dove andare.» Non avevo figli a Denton, o nessun altro da nessun altro posto se era per
quello. Avevo solo le mie mazze Ping e il campo da golf
prenotato.
Tornai in garage e caricai il borsone da golf sul carrello. Aggiunsi una bottiglia di whisky nuova, qualche tee
e una scatola nuova di palline. Avevo diciotto buche da
fare. Guidai fuori dal garage e mi fermai sul vialetto. Il
cielo era denso di fumo. Ne sentivo l’odore. Mi fece
tornare in mente il campeggio.
L’attività frenetica all’altro capo della strada attirò
la mia attenzione. C’era una macchia della polizia con i
lampeggianti accesi e un’ambulanza. Proprio davanti a
casa di Pete. Due tizi stavano portando fuori qualcuno
su una barella. Aveva un lenzuolo sul viso.
Oh merda.
Improvvisamente Tony apparve al mio fianco, sul carrello. Quel ciccione di merda stava ansimando come se
si fosse appena fatto un chilometro e mezzo di corsa.
Aveva un cappellino dei Sooners, la squadra di football
dell’università dell’Oklahoma, e degli occhiali a specchio.
«Vai» disse.
«Che cavolo dici?»
127
«Ho sparato a Pete. Cristo santo. Non volevo...» sembrava che stesse per scoppiare in lacrime. «Abbiamo
cominciato a litigare, ho cercato di fargli capire... non
stava zitto un secondo, cazzo, non mi ascoltava. Devo
scappare da qua. Portami da Dotty, da lì chiamo un
taxi.»
«Scendi dal mio carrello.»
«Userei il mio ma l’ambulanza mi impedisce il passaggio. Cristo, è uno sbirro quello che sta andando verso casa mia? Merda.»
«Ti ho detto di scendere.»
Mi sentii qualcosa tra le costole. «E io ti ho detto di
muoverti.»
Abbassai lo sguardo. Un revolver di nickel. Canna
corta.
Iniziai a guidare, girai nella direzione opposta all’ambulanza, verso il campo da golf. L’aria si faceva più scura
ogni secondo che passava. Era il fumo.
«Ti ho detto di portarmi da Dotty» disse Tony.
«Chi vuoi che ti cerchi al campo da golf? Dai, facciamoci una partita.»
«Sei impazzito? Gira il carrello.»
«Nove buche» dissi. «Solo nove.»
«Girati, cazzo!» Mi pungolò di nuovo con il revolver.
Spinsi l’acceleratore del carrello a tavoletta. Dopo
che l’avevo rimaneggiato andava almeno ai cinquanta
all’ora, forse addirittura sessanta. Poi inchiodai. Tony fu
sbalzato in avanti, quasi cadde fuori dal carrello. Lasciò
cadere il revolver, che mi atterrò sferragliando sotto i
piedi. Mi chinai in avanti e lo spinsi giù. Atterrò con un
tonfo grasso sulla stradina. Accelerai. Mi guardai indietro, lo vidi che mi correva dietro già con il fiato grosso.
Continuai a guidare, e in due minuti arrivai al circolo.
Il tizio che lavorava nel negozio corse fuori e caricò un
computer su una Jeep. Guardai alle sue spalle. Vidi che
le fiamme stavano spazzando il campo di allenamento.
Mi misi in bocca una pillola e la mandai giù con un
sorso di whisky. «Ho prenotato» urlai. Presi il revolver e
me lo infilai nella cintura.
«Ma sei scemo, vecchio?» Saltò nella Jeep e sgommò via.
Il vento cambiò. Il fumo era così denso che faticavo
a vedere la sede del circolo a trenta metri di distanza.
Voltai il carrello in direzione della prima buca.
Bevvi un altro sorso di whisky e misi la pallina sul tee.
Non avevo tempo da perdere. La colpii con forza. Finì
proprio in mezzo al fairway. Almeno duecentocinquanta
metri. Un buon inizio.
Tony apparve da in mezzo al fumo e mi si avvicinò.
«Dobbiamo andarcene da qui. Il fuoco...»
Estrassi il revolver e glielo puntai in faccia. Si immobilizzò. «Sparisci.»
Se ne andò come era arrivato, con gli occhi sgranati
dal terrore.
Finii quella buca, e poi la successiva.
Il fuoco si avvicinava da tutti i lati, il vento continuava a soffiare e a girare, il fumo mi bruciava gli occhi.
E poi i vermi colpirono.
Ero alla diciottesima buca, vicino al green. L’acqua
di fuoco a una mezza dozzina di metri di distanza; stavo lacrimando, e il moccio mi colava dal naso. Tossii.
Guardai in basso e vidi che stavo stringendo il revolver.
Guardai dietro di me e vidi Tony sul mio carrello, mezzo
fuori e mezzo dentro. Mi avvicinai di corsa a lui e vidi
i buchi delle pallottole che aveva nel petto. Probabilmente aveva cercato di prendere il carrello e scappare
dall’inferno, come avrei dovuto fare anch’io.
Mi protesi con l’idea di prenderlo per le spalle e trascinarlo fuori dal carrello, ma poi vidi il cartoncino dei
punti. Sbattei gli occhi e contai di nuovo per sicurezza.
Ero tre sotto il par. Guardai il green strizzando gli occhi
a causa del fumo. La mia pallina era a nove metri di
distanza dalla buca, dieci al massimo. Se fossi riuscito
a centrarla avrei battuto il record del campo per gli over
sessantacinque. Presi in mano il putter ma le fiamme,
che ormai mi arrivavano a metà gamba, mi avevano tagliato la strada.
Saltai sul carrello e accelerai attraverso il fuoco. Lo
parcheggiai sul green. Bevvi un altro sorso di whisky e
ne uscii, sempre con il putter in mano. Cenere e polvere
turbinavano intorno a me, spinte dal vento. Il green era
circondato dal fuoco.
Mi preparai per il colpo. Cercai di immaginare come
avevo fatto ad arrivare a quel punto, come ero riuscito a superare la buca con l’acqua in soli sette colpi,
come avevo potuto finire in quattro colpi la buca lunga
da cinque. Non lo avrei mai saputo. I vermi se l’erano
mangiato.
Il green era ormai in fiamme, c’era troppo fumo tra
me e la buca. Ci provai lo stesso. Colpii la pallina, ne
seguii la traiettoria. Mi presero fuoco le gambe dei pantaloni.
Non vedevo più la buca. Ma sentii il plonk della pallina che cadeva.
Dio aveva promesso a Noé che non avrebbe mai più
tentato di distruggere il mondo con l’acqua. No, toccava
al fuoco. Dite quello che volete del Vecchio lassù, ma
non è un bugiardo.
Brucia, tesoro mio, brucia.
Letteratura
Inciampai, mi mossi a tentoni nella casa buia e
rossa come l’inferno. Proprio nel momento nel quale
arrivai in soggiorno la porta d’ingresso si aprì e andò a
sbattere contro il muro. Sul cielo insanguinato si stagliava una silhouette nera.
Feci un gridolino e un passo indietro. Avevo paura.
Per un istante mi ero dimenticato di essere già morto.
«Roscoe?» Una voce incerta. «Scusa, Roscoe. Ho
bussato, ma probabilmente non mi hai sentito. Ho provato a vedere se la porta era aperta e si è spalancata.»
Il vento spazzava la casa.
«Chiudi la porta, Pete.»
Entrò e la chiuse. «Cosa sta succedendo?»
«La radio dice che c’è stata una tempesta e i cavi
dell’alta tensione hanno appiccato un incendio.»
«Vieni con me a parlare con Tony.»
«No. Vuoi del whisky?»
«Ma mi stai ascoltando?» chiese.
«Stai sprecando tempo» gli dissi. «Bevi o vaffanculo.»
Gli passai la bottiglia.
«Non mi dai un bicchiere?»
«È roba da fighetti.»
«Cristo, Roscoe, sei cambiato.» Inclinò la bottiglia,
bevve un bel sorso, tossì e se ne sputacchiò un po’ sulle
labbra. «È un bel po’ che non bevo qualcosa di forte. Il
dottore dice...»
«All’inferno il dottore.»
Annuì e ne bevve un altro po’. «La storia di Tony non
mi va giù. Dobbiamo denunciare quello che è successo.
L’ho chiamato, ma mi ha urlato dietro. Mi ha detto che
in galera le spie durano poco. Chi si crede di essere,
Jimmy Cagney?»
Pete mi restituì il whisky. La sua mano uscì dall’ombra, il liquido ambrato rifletteva la luce infernale che
veniva da fuori dalla finestra. Era come se mi stesse
allungando una bottiglia piena di fuoco. La presi e bevvi.
«Vieni con me a parlargli» disse Pete. «Per piacere.
Mi piace stare qui, non voglio che revochino il mio contratto di affitto.»
«Non è un problema mio.» Strinsi gli occhi il più forte
possibile e bevvi due sorsate di Johnny Walker.
Quando riaprii gli occhi ero seduto sul cesso con i
pantaloni alle caviglie. Mi ci volle qualche secondo per
rendermene conto, visto che era buio pesto. Avevo perso
ogni traccia del tempo che passava, di Pete e del whisky. I vermi si erano mangiati il filmato. Scena tagliata.
Mi pulii il culo e andai a dormire.
126
k
o
o
l
b
,
r
e
g
g
o
l
b
,
g
Blo
di un fenomeno
coniugazione
sembrerebbe quanto mai vacua visto che, in fin
dei conti, il gradimento di un romanzo è una
mera questione di gusti personali, ma il mondo dell'editoria è una giungla molto insidiosa e
quello che sembrerebbe una polemica inutile,
può diventare uno scontro epocale sul delicato
campo della libertà di parola.
Perché il blogger possiede un'arma potente
chiamata followers, un'arma che gli editori temono e gli autori odiano. A seconda del parere
espresso, i lettori del blog potrebbero essere
influenzati nell'acquisto del dato libro. Scrivere
una recensione negativa potrebbe affossare
il destino di un romanzo, così come firmarne
una positiva potrebbe aumentare il volume di
vendita dello stesso. È il vecchio metodo del passaparola, niente di più, ma
facilitato e amplificato dal web. Una
realtà che mette il blogger al centro di
un inestricabile nodo gordiano fatto di sospetti, illazioni e, incredibilmente, anche minacce.
Da una parte i followers, che pretendono onestà intellettuale e coerenza, dall'altra
editori e autori, che mal digeriscono critiche
e opinioni negative, nel mezzo la reputazione
del blogger, concetto tanto importante quanto
difficile da definire e valutare con esattezza. Il
volume di lettori generato può essere un parametro valido per classificare la reputazione di
un blog? Oppure bisognerebbe tenere in considerazione come tale numero di lettori è stato
guadagnato? E soprattutto, i blog influiscono
veramente in maniera così determinante sulle
vendite di un libro?
L'Associazione Italiana Editori ha recentemente tentato di dare una risposta alle precedenti domande attraverso una conferenza
Letteratura
I
l termine blog è nato da una contrazione
linguistica (web-log, diario in rete), e in
circa quindici anni è diventato il simbolo di
un fenomeno in continua espansione. Vista la
loro origine diaristica, i blog possono essere
considerati, di fatto, gli antenati dei moderni
social network (diventarono famosi perché
ogni utente poteva creare il suo spazio web
personale attraverso cui condividere alcuni
aspetti della propria vita), ma a differenza di
alcune mode passate sono riusciti a evolversi
sopravvivendo all'avvento dei vari Facebook,
Twitter e Google+.
Tale evoluzione è stata favorita dal progresso tecnologico, che ha reso il web sempre più
facilmente accessibile, dalla nascita di
piattaforme come Wordpress, Blogger
o Joomla, che permettono di creare
un sito anche senza conoscere nessun
linguaggio di programmazione, e dalla comparsa di una tipologia d'utente interessata a sfruttare internet come cassa di risonanza delle sue
passioni: il blogger.
Attualmente, basta scegliere un argomento casuale e inserirlo in un motore di ricerca
per scoprire migliaia di blog a esso dedicati.
Dai blog di moda a quelli di cucina, dai blog
di divulgazione scientifica a quelli di storia, di
filosofia o di lifestyle. Senza dimenticare quelli di letteratura ovviamente. Ci sono talmente
tanti blog dedicati ai libri da essersi meritati
una etichetta specifica: lit-blog. Anteprime,
recensioni, interviste, tutto disponibile con
pochi semplici click se si conosce "il blog giusto"; ma qui iniziano i problemi. Come si riconosce il blog affidabile e come il blogger attendibile? Parlando di letteratura la questione
di Roberto gerilli
128
Connections © Dan Matutina
SPEECHLESS
VUOLE TE!
INVIA
il tuo racconto
e le tue generalità
alla Redazione:
[email protected]
IL PROSSIMO
RACCONTO
POTREBBE ESSERE
PROPRIO IL TUO!
tenutasi in occasione dell'ultima edizione di
Più libri più liberi – Fiera della piccola e
media editoria, ma il fenomeno dei Books
Blogger è difficilmente inquadrabile in una
statistica esatta. Il fatto che la AIE ne abbia
parlato, tuttavia, dimostra come gli editori si
siano accorti del potenziale comunicativo dei
blog, un mezzo che, se usato bene, risulta essere molto più capillare ed economico rispetto
ai canali tradizionali. L'importanza crescente
dei blog letterari è anche suffragata da altre
prove come la presenza sempre maggiore di
Books Blogger nelle manifestazioni letterarie, la creazione del K-Lit, festival italiano
dei blog letterari promosso da Sul Romanzo,
e la nascita, addirittura, di una nuova tipologia di libro, il blook. Tale neologismo, nato
dalla fusione dei termini inglesi blog e
book, dovrebbe indicare per sua definizione un romanzo scritto sotto
forma di blog (come Diario di un
sopravvissuto agli zombie di
J.L. Bourne) o realizzato con
i contenuti di un blog (come
i libri di cucina tratti dal sito
Giallo Zafferano), ma viene
anche esteso ai libri scritti
da blogger.
Questi ultimi romanzi, in verità, rappresentano una realtà
molto delicata dell'editoria moderna: cosa spinge l'editore a offrire un contratto di pubblicazione
a un blogger? La bravura, la preparazione su un determinato tema o, più
semplicemente, il numero dei followers?
131
Letteratura
Hai un
racconto
inedito che
vorresti veder
pubblicato?
Per un autore esordiente non è semplice crearsi un seguito di fedeli lettori, mentre un blogger che diventa scrittore gode della visibilità
offerta dal proprio sito. Seguendo questa logica, tuttavia, si torna alla domanda principale:
questi followers come sono stati "conquistati"?
Amministrare un blog è un modo per mettere
in luce le proprie qualità, o solo un'opportunità
per trasformarsi in un personaggio mediatico
di successo?
È ormai assodato che l'importanza dei blog
all'interno dell'editoria sia aumentata e stia
continuando a farlo, ma resta da capire se questo fenomeno sia un passo avanti o un passo
indietro per l'editoria stessa. I blog, i blogger
e i blook rappresentano la naturale evoluzione
dello scrivere in un'epoca sempre più web-centrica, o sono solo un tentativo di sfruttare la
discutibile popolarità di alcuni personaggi della
rete per promuovere e vendere nuovi romanzi?
Dove finisce la passione del blogger per i libri e
dove inizia il suo desiderio di fama? Quali sono
i confini che separano l'interesse di un editore
per una nuova crescente realtà, dalla voglia di
guadagnare sfruttando fenomeni mass-mediali
temporanei? Interrogativi questi a cui bisognerebbe trovare una risposta.
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Strategie
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contro la ca
P
arlare di cattiva comunicazione presuppone che esista anche una buona comunicazione. O, almeno, che sia esistita in passato. Per passato della “buona comunicazione”
intendo il post boom economico, quando sussisteva una sorta di “democrazia” mediatica,
in cui il ruolo primario della comunicazione era
quello di informare. Ruolo che si è andato smarrendo mano a mano che l’oggetto del comunicare ha assunto il significato del raggiungimento
di uno status symbol. Ovvero: l’immaginario oltre l’oggetto.
In parole povere: se compro un impermeabile Burberry (tanto per fare un nome), dimostro
al prossimo di appartenere a un certo tipo di
classe sociale, di avere determinati gusti, di far
parte della “gente che conta”.
Questo per ciò che concerne strettamente la
comunicazione pubblicitaria, ma l’argomento si
estende a un’analisi più ampia.
Prendiamo, ad esempio, gli strumenti di comunicazione di massa. Credete davvero che tutte le notizie che veicolano i telegiornali, o più in
generale la televisione, non siano filtrati? Esiste
un meccanismo denominato “Agenda setting”
ben noto ai sociologi della comunicazione, che
consiste in una selezione dei temi da mettere
in agenda. Stabilire, cioè, un ordine del giorno
delle notizie; i media, in altre parole, orienterebbero l'attenzione del pubblico e, così facendo, modellerebbero la visione della realtà, sulla
base della gerarchia delle priorità (e urgenze)
percepite dagli utenti. Questo consentirebbe di
dare maggiore rilevanza a una notizia e non a
un’altra, manipolando l’opinione pubblica e rendendo oggetto di discussione solo determinati
argomenti.
132
Ergo, la rilevanza data dai cittadini ad alcuni
temi corrisponderebbe esattamente alla rilevanza espressa dai mezzi di comunicazione. Un
vero e proprio “inquinamento mediatico”, dun-
que. Una distorsione della realtà lontana anni
luce dalla verità.
Lo spauracchio della crisi economica italiana è un esempio di cattiva comunicazione, un
derivato da Agenda setting. Da un articolo su
Economia e Finanzia, si evince che circa il 40%
degli italiani convive con la paura della perdita del lavoro. Attenzione, la crisi economica di
per sé esiste, ma le conseguenze apocalittiche
sono amplificate dai media. Sono stati i media
a creare l’ansia della perdita del posto di lavoro
o della miseria imminente del popolo italiano.
Chiedetevi se le cose stanno esattamente così.
Se volete informarvi sui fatti del mondo, è
sempre preferibile leggere un quotidiano, e non
guardare un telegiornale. Se si vuole approfondire una notizia, che si scelga almeno la carta,
non uno schermo. Il motivo è semplice: c’è più
133
spazio per approfondire, non esistono interruzioni pubblicitarie, c’è più tempo per analizzare la
notizia ed elaborarla.
Parlando di cattiva comunicazione non si può
certo glissare su un altro aspetto che, in quanto
donna, non può lasciarmi indifferente: la rappresentazione del ruolo femminile secondo i media.
Mi viene in mente, a tale proposito, una pubblicità in affissione, uscita da poco per un’azienda
di abbigliamento. Uno dei tanti esempi di come
lo strumento comunicazione di massa sia usato
per fare notizia, tradendo il suo ruolo fondamentale: quello dell’informazione, o della riflessione.
Ebbene, tra le diverse affissioni in uscita, ce
n’è stata una che può essere, senza dubbio alcuno, elevata a baluardo del “non comunicare”, ovvero di come la comunicazione attuale cavalchi
l’onda del becerume: una donna discinta, decol-
talkWave v.II © anita zofia siuda
Letteratura
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ruppe
di Elisabetta bricca
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Serpentine © Moie Preisenberger
noscendo che sottintendono richiami subliminali
con effetto a lungo termine, a volte perversi,
come cattivi modelli di riferimento. Come quello, a cui mi riferivo prima, di una comunicazione
sbagliata che ha come utenza le bambine.
Pensiamo, per un attimo, al ruolo in cui vogliono collocarle i media. Osserviamo quali strumenti ludici propongono loro. Bambolotti da
vestire e accudire come delle piccole mamme.
Oppure Bratz o Monster High, bambole caricatura con occhi bistrati e una quarta di reggiseno,
griffatissime, come modelli a cui voler somigliare. Il rischio, allora, è quello di far credere che
si potrà essere accettate dalla società solo nel
ruolo di madre e moglie, o nella ricerca esasperata del successo e della bellezza a ogni costo
come lasciapassare per la felicità. Insomma,
l'accettazione sociale sulla base di quanto si sia
capaci di adattarsi un ruolo o a una certa immagine.
Eppure, non è così che va il mondo.
La figura reale della donna di oggi, della bambina di ieri, è ben lontana dall’immagine stereotipata delle fiction o delle pubblicità. Basta
sfogliare le ultime pagine di cronaca e rendersi conto che il femminicidio è un fenomeno in
ascesa; o leggere, a tale proposito, il saggio di
Riccardo Icona “Se questi sono uomini” edito da
Chiarelettere.
Tante, troppe donne sono ancora sotto il giogo di un ruolo che ha radici ataviche e che le
riduce al silenzio. A morire, in silenzio. Ruolo,
quello del maschio dominatore, che i media tendono ancora a veicolare con messaggi subliminali. Chi ricorda, ad esempio, la pubblicità della
“patatina” con testimonial Rocco Siffredi?
Di esempi se ne potrebbero fare a centinaia.
Esiste un baratro tra modelli reali e modelli fittizi. Le donne, oggi, non sono le Cenerentole in
cerca del principe azzurro, eppure continuano a
essere manipolate sulla base di stereotipi che
non le rappresentano più.
Un meccanismo perverso, quello dei media,
che può essere spezzato solo rifiutando determinati modelli per proporne di nuovi.
Troppo spesso dimentichiamo che possediamo due strumenti potenti per opporci al bombardamento mediatico, due filtri che possono
metterci sulla strada dei liberi pensatori: si chiamano cervello e cultura.
Letteratura
té denudato, che si offre di entrare in politica.
Ora, se è pur vero che siamo stati testimoni, e
non vittime, di personaggi simili, è anche vero,
a mio modesto parere, che questo tipo di comunicazione sminuisce il compito e la rappresentanza femminile in politica. Sminuisce il ruolo di
tutte quelle donne che ancora ci credono, che
lavorano in silenzio, che non mettono in mostra
il corpo ma la mente.
Insomma, presentare certi tipi di cliché non
è rivoluzione, ma, piuttosto, involuzione. Così
come è involuzione il veicolare, da parte dei media, determinati messaggi destinati alle bambine, che saranno le donne di domani. Basta dare
un’occhiata ai programmi tv dei ragazzi, o alle
pubblicità dei giocattoli: bambole dalle labbra e
dai seni siliconati, vestitini di marca, macchine
di lusso. Apparenza non essenza. Il gap è che
mancano messaggi educativi, che vadano oltre
la plastica patinata. Mancano contenitori di qualità. La cultura è ormai relegata ad appendice. È
quello che davvero vogliamo? Crescere le nostre
figlie, sacrificandole a un destino dove ciò che
fa la differenza è il vestito che s’indossa? Dov’è
la fantasia, la creatività, lo stimolo necessario
a fare di loro donne con una personalità propria
che non deve necessariamente uniformarsi alle
leggi di massa?
Cito le parole di Lorella Zanardo, autrice, tra
l’altro, del saggio “Senza chiedere il permesso”
(Giangiacomo Feltrinelli Editore): “Non aspettate, ragazzi. Non attendete istruzioni, ragazze, perché non arriveranno o forse arriveranno
troppo tardi, e il tempo è prezioso. Alcuni tra noi
adulti vi daranno una mano, il tempo necessario
per costruire ponti sulle macerie prodotte dai
crolli di questo mondo in disarmo. Voi percorreteli. Poi sarà ora. Non attendete oltre. Tocca a
voi. Senza chiedere il permesso.”
Ecco, questo dovremmo fare: riappropriarci di uno spirito critico, smuovere l’apatia delle
menti. Scavalcare la differenziazione tra i ruoli
maschio/femmina che non ha più motivo di esistere, ma che rimane ancora uno dei baluardi
di un certo tipo di comunicazione. Cambiando i
media, si può cambiare la società. Non tutte le
ragazze vogliono fare le veline, non tutti i ragazzi vogliono fare i calciatori o i tronisti.
Allo stato attuale delle cose, l’unica difesa è
cercare di filtrare e decodificare i messaggi dei
media attraverso una visione consapevole, rico-
135
Latitudini
di Viviana Filippini
femminili 137
I
Sara McCoy
Sarah, figlia di un ufficiale dell’Oklahoma e una maestra portoricana, nasce a Fort Knox in Kentucky.
All’età di due anni si trasferisce
con la famiglia in Germania in una
base militare. Per diversi anni vivrà spostandosi di base in base
per tutto il mondo. La Virginia, il
luogo in cui vivrà stabilmente dai
13 anni in poi, è il posto che Sarah ama chiamare casa. Ora vive
a El Paso, in Texas, con il marito,
dove insegna Letteratura Inglese
all’università e dove ha ambientato e scritto gran parte del suo
ultimo romanzo La figlia dei ricordi.
l passato non è un semplice contenitore di ricordi,
di ciò che è stato e che
ha determinato una esistenza. Il passato di ogni individuo
è un’ampolla colma di eventi,
di esseri viventi che hanno influenzato la vita e il suo sviluppo. Il tempo trascorso, o meglio
il passato, è il principio dinamico del romanzo La figlia dei
ricordi di Sarah McCoy, recentemente pubblicato dalla Nord.
La McCoy, autrice americana al suo esordio letterario, è
riuscita a creare una storia nella
quale il protagonista principale
è l’universo femminile narrato su
diversi piani paralleli. Da un parte c’è la Germania degli anni ’40.
Una terra sotto il controllo del
regime Nazista dove la giovane
Elsie, figlia di un umile fornaio di
Garmisch, ha appena ricevuto
una proposta di matrimonio da
Josef, un ufficiale del regime.
Dall’altra parte, c’è la cittadina
di confine di El Paso, in Texas,
nella quale la giovane Reba
Adams si divide tra il lavoro di
giornalista e la spinosa decisione che potrebbe cambiare per
sempre la sua vita: accettare la
proposta di matrimonio da parte
di Riki e indossare al dito l’anello
che lui le ha regalato. Reba ed
Elsie sono un’americana e una
tedesca, due donne lontane per
età e cultura, molto diverse –
oserei dire agli antipodi – ma
allo stesso tempo anche simili
tra loro. Il destino le avvicinerà,
perché Reba dovrà scrivere un
articolo sulle tradizioni natalizie
e troverà il terreno fertile nella
Bäckerei, una forneria, di Elsie
Schmidt Meriwether a El Paso,
però le conseguenze di questo
incontrano avranno dei risvolti
inaspettati per entrambe le protagoniste.
La figlia dei ricordi è un libro dal ritmo incalzante, cinematografico, che scorre rapido
facendo viaggiare il lettore attravero due continenti (Europa
e America) e in epoche lontane
e contemporanee. Una narrazione dove i punti di vista alternati
di Elsie e Reba ci permettono
di entrare in contatto con due
micro-cosmi femminili caratterizzati da dolorose verità.
Con il procedere della lettura l’intervista di Reba a Elsie si
trasforma in un vero e proprio
dialogo a due voci nel quale due
protagoniste si confessano le
reciproche pene, le verità traumatizzanti e fatti impensabili. Il
sostegno reciproco che si sviluppa tra le due è l’incarnazione
della necessità di fare i conti
con i fantasmi del proprio passato, per dare il via a un domani
di cambiamento, rinascita e armonia.
Ne La figlia dei ricordi, la
McCoy non parla solo del legame di amicizia che lega Reba ed
Elsie, in esso troviamo un altro
tema importante, relativo all’infanzia. Questo romanzo, così
acclamato in America, giunto al
grande successo di pubblico e
critica grazie al passaparola, ha
come altri protagonisti, anche
se non hanno il ruolo di attori
principali, i bambini. Ci sono i
bambini generati a Lebernsborn
in nome della pura razza ariana,
il bambino ebreo fuggito che
incrocerà la strada di Elsie, c’è
parte dell’infanzia delle protagoniste e ci sono i bambini dei
clandestini messicani nell’America contemporanea. Piccole
persone innocenti e senza colpe, protagoniste loro malgrado
di fatti che evidenziano quanto
facilmente gli errori inconsapevoli o coscienti dei genitori possano ricadere sui figli.
La figlia dei ricordi è un romanzo forte, dove i sentimenti dell’amore, dell’amicizia e
del rispetto diventano i perni
sui quali fondare la vita. E non
scordatevi di tenere questo libro sempre a portata di mano,
non solo per l’intensa storia di
rinascita e cambiamento che la
McCoy ci racconta, ma per le
gustose ricette che ci vengono
lasciate in dono dalla Bäckerei
di Elsie Schmidt Meriwether.
Letteratura
La figlia dei ricordi di Sara McCoy:
due donne diverse, due nazioni lontane, un difficile
e avvincente percorso di rinascita
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Com
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per il ci
di Luisa Gasbarri
L
38
’uomo si piega verso di me per riprendere il
resto e la ricevuta.
Leggo i suoi pensieri come se me li sciorinasse davanti senza pudore: “Se è così sexy
con addosso questo camice bianco, dottoressa… quanto dev’essere bella senza?”
E infatti la mano ha un fremito mentre ripiega le banconote nel portafoglio firmato.
Gli sorrido complice. «Può passare tra due
giorni, saranno pronte per le cinque» e sembra
che gli stia dicendo: “Esattamente quanto riesci
a immaginare, tesoro.”
La mia espressione compiaciuta lo stordisce.
Non sono ancora immune alla seduzione. Nessuno potrà più sedurmi dopo ciò che ho provato
quella notte, è vero, gli eccessi corrompono per
sempre, però posso ancora sedurre chi voglio.
Sono consapevole del mio potere sugli uomini,
su qualsiasi uomo, persino del turbamento che
riesco a provocare nelle donne, in qualsiasi donna, benché poche abbiano il coraggio di riconoscerlo davvero…
«Grazie» ripete l’uomo ipnotizzato. Un fisico
giovanile, la pancetta sotto controllo, tuttavia
le sue occhiaie sono segni lividi, rabbiose ditate
tendenti al giallo intorno alle palpebre: ha addosso un odore di pioggia, come chi covi un’influenza balzana. Dev’essere un uomo fatto di stress e
adrenalina compressa, colpe insabbiate e tradimenti superflui. Il male plagia l’anima e impara
a scorrerti dentro come sangue infetto. Perché
i comportamenti ci modellano, e alla lunga superficie ed essenza finiscono per coincidere.
è una legge animale.
Disegno un asterisco vicino al suo nome.
Ho quest’unica certezza: ognuno di noi diventa ciò che è.
Non ci sono trasformazioni. Le possibilità
sono apparenza.
Se il seme non muore, non porta frutto. Il
frutto è in ogni caso già stabilito dalla natura
del seme.
Non viviamo infatti per scegliere, ma per realizzare con coraggio chi siamo.
Un buon motivo per non pentirsi mai di se
stessi, e che giustifica perché a ogni risveglio
sia sempre uguale il mio primo ricordo: le labbra rosse che si schiudono con sensualità infinita, dando forma alle sillabe: “Oserai sfidare
te stessa?”
Sfidarsi è semplicemente diventare se stessi, ora lo so. E la risposta non serve.
Sono io la risposta.
Ecco perché devo sempre distrarmi con un secondo pensiero: rinnoverò il mio
guardaroba.
fortuna che tu possieda una simile bellezza!”
Dipende dal valore che si dà alla parola fortuna
direi, ma l’errore è in effetti un altro. Pensare
che la bellezza si possieda.
Le creature che ne beneficiano sanno perfettamente che è la bellezza in realtà a possederti.
La bellezza è un dono molto simile alla condanna. Non ti fa mai passare inosservata, godere dell’anonimato, ti pone sotto gli occhi di
tutti continuamente, quasi dei riflettori si spalancassero al tuo arrivo e ti sparassero addosso
fasci di luce, uguale a quella dei palcoscenici,
cruda. E se in un teatro non ti accorgi degli individui ma solo delle maschere, così davanti a
una donna bella ti accorgi sempre prima della
bellezza che della donna.
Ecco perché la bellezza è una maschera. Ma
ormai non la dissocio più dal mio volto. Non riesco mai a dimenticarmene, né sono ingrata al
punto da dirmene annoiata. A volte mi accarezzo la linea del collo, passo
le dita tra i capelli lucenti,
avverto la morbidezza di
seta della mia pelle pura.
Nonostante la convivenza
non facile, della mia bellezza sono ancora perdutamente innamorata. Sono
stata autodistruttiva per
anni pur di non riconoscerlo. Vestendomi senza
riguardo, quasi a defraudarmi, umiliarmi. Privandomi del piacere, del cibo, del benessere.
Lasciandomi andare con segreto autocompiacimento. Quasi a punirmi, cancellando, rendendo
invisibile il mio corpo.
Col tempo ciò che in noi resta irrisolto assume un peso scomodo, perché in realtà nessuno
accetta mai fino in fondo di essere privilegiato,
degno di una facilitazione immeritata e gratuita.
139
La moda è una gran tortura. Un tempo crinoline ingombranti, allucinanti bustini;
oggi spacchi vertiginosi o aderentissimi jeans.
In ogni caso, mai nessuna giustizia per una
donna che voglia godersi liberamente il proprio
corpo senza sentirsi troppo rotonda o perdutamente anoressica.
Per eliminare uno dei condizionamenti più
odiosi dell’Occidente, ho rimosso tutti gli specchi, o meglio li ho posizionati in modo che non
m’intercettino a tradimento, ma sia sempre io
ad avvicinarli consapevolmente. Gli specchi
sono pericolosi. Ci restituiscono un’immagine di
noi stessi verso cui non possiamo essere oggettivi abbastanza. Con quale presunzione ci scrutano, con quale diritto pretendono di svelarci la
nostra indole più segreta.
Perciò so benissimo cosa pensa chiunque
quando mi guarda. I pensieri della gente a volte
sono così ovvi e trasparenti che è quasi imbarazzante starci davanti. E di me tutti pensano: “Che
Il mio ricordo di quella notte è un marchio
a fuoco nel cuore. Non è la scena di violenza,
per quanto inattesa e terribile, non l’urlo grottesco dell’uomo che crollava ai miei piedi. Non
il suo sangue piovuto intorno come le isteriche
schegge di vetro di un bicchiere infranto.
No. Il ricordo si concentra rapito, è la linea
meravigliosa di quelle labbra perfette. Parevano
Letteratura
racconto
Oggi sono dunque diversa. Irreversibilmente.
Senza remissione. Senza sconti.
Ho interrotto la guerra insensata e perenne
contro il mio corpo. Lo accetto per ciò che è.
È buffo come le donne con i capelli mossi desiderino solo stirarseli e quelle che li hanno lisci
bramino la permanente. Che le brune si vogliano
bionde e le bionde anelino al rosso.
Che le basse camminino su trampoli e le alte
s’incurvino senza grazia.
Tra donne è un po’ come se l’erba della vicina
fosse sempre più verde…
Io ho i capelli scuri ma l’incarnato chiaro della
bionda naturale, gli occhi mi diventano celestissimi certi giorni. Prediligo il classico. Tailleur e
smalto rouge-noir.
Un accenno di fard, un ombretto leggero. Gli
occhiali dalla montatura nera e severa mi danno qualche anno in più e sono tornati in auge
dall’anno scorso. Reputo gli stivali imperativi d’inverno, ma adoro i sandali gioiosamente
aperti d’estate.
A causa del mio lavoro, sottopagato e irritante, non ho molto tempo da perdere.
Attualmente sono biologa presso un laboratorio di analisi privato. ‘Tuttofare’ forse rende
meglio l’idea. Il proprietario si gode i proventi
passando da un viaggio alle Maldive a un safari
africano.
Io mi alzo alle cinque e mezza per arrivare
in tempo a organizzare i prelievi che cominciano alle sette. Un’ingrata fatica: la gente perde
la pazienza facilmente facendo la fila a digiuno, con l’orologio sotto il naso nella speranza
Unique beauty © MuHammad Algalad
di raggiungere in orario il posto di lavoro.
Il pomeriggio lo trascorro in laboratorio
ad analizzare i campioni di sangue, urina e
quant’altro.
Poi ad aspettare l’addetto che passa ogni
sera verso le sette a recuperare gli scarti tossici
e organici. In pratica inizio che a volte neppure
albeggia e esco col buio, come un ratto, rimanendo al chiuso per ore perché conti e burocrazia son sempre io che li sbrigo.
Qualche vantaggio c’è: nessuno mi palpa il
sedere, nessuno mi sorveglia col fiato sul collo,
nessuno mi tormenta se fumo qualche sigaretta
in più in ufficio…
Tuttavia i ritmi sono stressanti e i vari collaboratori durano al massimo qualche mese, prima o poi scompaiono senza manco giustificarsi.
I medici si sentono frustrati a infilare aghi in
vena quasi fossero a una catena di montaggio, a
ricevere un “Non ho sentito niente!” quale unica gratificazione, se va bene. Ancor peggio i chimici disoccupati o i giovani biologi precari che
vengono il pomeriggio in nero per aiutare con
le analisi: fissano il liquido dorato come fosse
radioattivo e cambiano guanti su guanti sterili
manco i campioni di sangue appartenessero a
lupi mannari!
La gente non ha fantasia, non immagina
quanti lavori peggiori ci siano in giro: tempo fa,
per esempio, lavoravo come lift girl in un hotel
del centro, poi sono stata barista in un night.
In entrambi i casi gli uomini che mi stavano
attorno erano così prepotenti che a volte gli
avrei strappato la giugulare a morsi.
Spesso anche qui i neolaureati mi osservano con aria di sufficienza: in fondo sono giovane, pensano che presto andrò via come loro
da queste stanze nude che sanno di varechina
scadente.
A volte lo penso io stessa, e infatti mi dico:
“Ancora un mese…” E il mese dopo: “Ancora un
mese…” Poi resto. Impigrita nelle abitudini. Nella tranquilla apatia della consuetudine.
Come pensare a una vita più avventurosa
quando si è memori così bene di quanto sia stato difficile arrivare a fine mese in certi momenti?
Letteratura
141
disegnate da un chirurgo estetico di grande perizia, stonavano addirittura con le sfaccettature
fredde degli occhi intensi. Ma quando mi venne
vicino, fu la sua voce a colpirmi. Una miscela di
premura e algore, un tono basso e vellutato che
subito mi avvolse, e all’improvviso il parco intorno non sembrò più freddo e desolato, la notte
non più butterata di solitudine amara: fu come
se una mano femminile e materna afferrasse il
mio cuore per accarezzarlo con la dolcezza che
si riserva solo alla testa di un bambino.
La donna che mi rassetta l’appartamento
odia il colore carico e la consistenza delle mie
tende, la linea austera dei mobili; il mio tatami
le è inconcepibile e odioso.
«Come fa a dormire per terra!» bofonchia incredula monitorando senza pazienza le stanze
spoglie.
Una volta, mentre mi stirava il camice, mi ha
suggerito «Perché non fa un bambino?”
Sembrava mi stesse proponendo una gita in
barca.
«Lei è davvero bellissima» ha aggiunto poi
con sincero trasporto, quasi a giustificarsi, quasi
la bellezza non associata alla riproduzione fosse
uno spreco.
«Certo, oggi le donne cominciano a pensare ai figli quand’hanno l’acqua alla gola, prima
se la godono parecchio la vita!» ha continuato
imperterrita. «Lei però non fa manco questo, è
sempre così stanca…» e mi ha fissata intenzionalmente.
C’è in me qualcosa che sfugge alle classificazioni, la mia riservatezza sconfina ai suoi occhi
nel mistero. La gente non maneggia mai il rasoio di Ockham: quando cerca una spiegazione,
crede erroneamente migliore sempre quella più
inverosimile e complicata.
Vorrei dirle che il velo scuro sotto gli occhi
non dipende dalla stanchezza. Lo aveva sempre
anche mia madre, e dormiva dodici ore al giorno ai bei tempi. E le congiuntiviti di cui soffro
Luisa Ga sbarri
D
ocente di creative writing, Luisa
Gasbarri ha inaugurato il gene re noir shocking con il romanzo
L'istinto innaturale. Autrice di sagg
i (minimum fax, Loffredo ) e racconti
(con
Ora X ha vinto nel 2012 il Premio
Lette rario Caffé Goya ), ha curato volum
i antologici di narrativa (l'ultimo in ord
ine di
tempo Anime buie, Bel Ami, dedic
ato al
dark) e di recente pubblicato il ma
nuale
101 cose da fare in Abruzzo almen
o una
volta nella vita (Newton Compton
). Cura
attualmente la rubrica Scritto sul
Kuore
sul mensile La Dolce Vita.
142
sono colpa della polvere che lei non rimuove
con cura, che lascia entrare facendomi trovare
le vetrate spalancate certi giorni. Non mi piace
la luce. Mia madre idolatrava la sua pelle lunare. A volte sorrido pensando a quanti oggi inseguano abbronzature selvagge e dosi massicce
di melanina.
Soltanto mode dopo tutto.
L’Amore è sempre uguale a se stesso invece.
Ineluttabilmente omofilo, di sé s’alimenta,
di sé si sazia. Perciò pretende emozioni, ricordi. Sarà per questo che non smetto di ripensare
agli occhi scintillanti e alle labbra rosse.
“Oserai sfidare te stessa?”
Avvicinandosi, mi fissava alacre. Zigomi perfetti, da fare invidia alle statue alessandrine. E il
suo sguardo mi spogliava con una violenza forse
più atroce di quella che, venendomi in soccorso,
mi aveva risparmiato. Non riuscivo a distogliermi. Ma non perché mi avesse appena salvato la
vita. Non potevo distogliermi perché una forza
irradiante mi stava investendo con imperativa
indecenza. In nessun altro incontro avevo mai
percepito prima un vortice d’emozione simile.
L’uomo che mi aveva seguita nel parco, aggredita alle spalle, era intanto ai miei piedi.
Tossiva convulsamente. Soffocando nel suo
sangue viola.
Visto che col bambino non sortiva effetti vistosi, Martina (la donna delle pulizie si chiama
così) è tornata alla carica con un “Almeno potrebbe trovarsi un bel fidanzato!”
Il fidanzato è legato all’aggettivo ‘bello’, come
il sugo all’aggettivo ‘denso’ e il soufflé alla parola ‘soffice’. Uno stereotipo insomma.
Ero indecisa se confessarle che non mi piacciono i fidanzamenti o che non mi piacciono
particolarmente gli uomini: nel primo caso avrei
dissolto la sua fiducia nell’ordine costituito, nel
secondo la sua fede nella biologia. Ho taciuto
accarezzando Artemisia, la mia gatta siriana.
Se Martina sapesse, quando nomina con
leggerezza fidanzati o figli, cosa ha fatto di me
un giorno l’Amore! Sì, se non avessi avuto così
care la vita e me stessa, se non avessi adorato
questo cielo smagliante e l’energia divorante
che dentro mi scorre all’impazzata ogni istante,
se non avessi imperdonabilmente amato la mia
bellezza, la mia giovinezza, il mio ardore, la mia
sete di vivere…
La mia sete, sì.
Sono stata sempre fedele. Perché su tutto io
ho amato sempre e solo me stessa.
Guardo l’orologio. Le sette meno un quarto.
I risultati delle analisi di oggi impilati ordinatamente alla mia destra sul bancone d’acciaio
del laboratorio lustro. Gli avanzi dei prelievi nel
contenitore apposito, alla mia sinistra.
Le provette di plastica in cui l’emoglobina del
sangue tolto dal frigo si va rapprendendo grumosa.
Ne dissigillo una. Inghiotto l’avanzo annoiata.
«Quando non vi serve più, il sangue lo buttate via?» mi ha chiesto stamani un bambino.
Con questa crisi? stavo per rispondergli.
“Oserai sfidare te stessa?”
“Sì.”
Sorrise. «Da domani saranno allora gli altri a
temere te.»
L’uomo l’aveva dilaniato a morsi, gli aveva
strappato brandelli di collo con noncuranza.
A me invece mi baciò. Un bacio caldo che
bruciò la mia piccola anima.
E quando mi riscossi, in quel parco rinascimentale avvolto dalla livida bruma di un autunno precoce, mi sentii rinnovata e diversa. Non
capivo ancora che lo sarei stata per sempre.
Che sarei rimasta eternamente giovane,
eternamente bella, eternamente estranea a
tutta l’umanità che di colpo in me avevo persa.
L’antica me stessa non c’era più.
Restava solo l’ingordigia di vivere. Il mio
egoismo sovrano.
Lei mi fissò ancora una volta col suo gelido
sguardo animale.
«Mi chiamo Carmilla» mormorò con dolcezza.
Poi si avvolse nel lungo mantello bianco e
scomparve nella nebbia lasciandomi in balia dei
secoli che si sarebbero susseguiti infiniti.
Letteratura
Peggio del lavoro c’è solo l’Amore. Perché
l’Amore ti frega sempre.
I Greci ne erano terrorizzati, temevano il potere di Eros sopra ogni cosa.
Non importa quanti anticorpi hai, quanto sei
cinica o scettica o indifferente.
L’Amore arriva quando non te l’aspetti e ti
legge dentro quello che sei, quello che vuoi, anche se per anni hai cercato d’ignorarlo. “Oserai
sfidare te stessa?” mormora languido e seduttivo come una gatta che ti fa le fusa sul cuore.
E a tanti suoni che sibilano, come un richiamo di
serpenti, puoi solo rispondere: “Sì.” Poi buttarti
a capofitto verso te stessa, come Narciso, perché ciò che ami è sempre e solo una replica di
ciò che sei.
143
THE
144
Daily planet

notizie fresche degli affari,
Q
uesta notte, prima
dell'alba del 10 gennaio
2034, è andato in stampa l'ultimo numero della
nostra testata giornalistica.
Il Daily Planet interrompe
ufficialmente le rotative,
congeda il suo staff e saluta
i lettori. In altre parole: chiude i battenti.
Una notizia annunciata
da tempo che dunque non
avrà quest'oggi molto spazio
all'interno dei notiziari televisivi, blog d'informazione o
podcast pseudo giornalistici. Magari qualche rubrica di
curiosità concederà qualche
riga per l'annuncio della nostra chiusura, ma la notizia
assumerà la consistenza di
semplice aneddoto, utile al
massimo per rispondere a
futuri eventuali quiz di cultura generale. Perché il progresso tecnologico avanza e
l'attaccamento per questa
carta puzzolente e sporca
d'inchiostro non è altro che
un feticismo insulso e un po'
retrò.
Ma la realtà è molto più
complessa, almeno secondo
noi, morenti dinosauri della
carta stampata.
Per cercare di farvi capire
il nostro punto di vista, pensiamo sia necessario ripercorrere brevemente i passi
storici della lenta agonia
che ha infine ucciso tutte
le testate giornalistiche tradizionali, compreso il Daily
Planet.
Il fattore scatenante di
questo cambiamento epocale è stato senza dubbio la
diffusione di internet e della banda larga. Nella prima
decade del terzo millennio il
web ha raggiunto e conquistato le nostre vite. Come
sicuramente i meno giovani
si ricorderanno, per connettersi con un modem 56k ci
voleva pazienza e tempo libero. Le immagini venivano
caricate una riga alla volta
e il download di un pdf poteva impiegare delle ore per
completarsi. Il diffondersi
dell'adsl a prezzi popolari,
tuttavia, cambiò lo scenario
che fu poi definitivamente
sconvolto dall'evoluzione
della tecnologia mobile.
In meno di dieci anni si
passò da un modem lento e
gracchiante alla possibilità
di connettersi a internet da
qualsiasi posto e a qualsiasi
della guerra e del mondo
edito r ia l e
a
lla fine il momento è arrivato. Quello
che avete nelle mani è l’ultimo numero del Daily Planet. Dopo oltre un
secolo (centoquindici anni per la precisione) di onoratissima storia il nostro
giornale chiude per sempre. Una cosa
ben triste, resa ancora più triste da
un’altra inesorabile certezza. Con noi
scompare l’ultima cellula del giornalismo moderno.
Eravamo l’ultimo quotidiano a resistere. Da molto tempo di noi dicevano
che eravamo zombie dell’era pre-puntozero. Una definizione in parte vera, ma
che, in fondo, cominciava a piacerci.
Del mondo marcescente, irrimediabilmente morto, dell’informazione
vecchia maniera noi eravamo la parte
vivente. Avevamo assistito a una serie
infinita di crisi e di ancor più devastanti
rimedi anti-crisi. Chiusura a raffica delle
redazioni fisse, uso ossessivo compulsivo delle agenzie stampa, sfruttamento
di stagisti alle prime armi per sopperire
al costo dell’esperienza e dell’approfondimento. Testate storiche alla disperata
ricerca di zavorre da gettare in pasto
ai pesci che rinunciavano ai loro tesori
(archivi inestimabili, edizioni on line capaci di creare nuovi spazi di visibilità e
raggiungere target più ampi) trattandoli
come scarti non riciclabili. Nuovi giornali mandati sul mercato allo sbaraglio,
senza uno straccio di pianificazione
economica, per poi non sopravvivere al
primo bilancio trimestrale.
Soluzioni miopi che avevamo scelto
di non seguire, insistendo pervicacemente sulla nostra strada. Fatta d’informazione chiara, ma non asettica, di
partecipazione, sia dei giornalisti che
dei lettori, alla gestione editoriale ed
economica del Daily, di integrazione con
nuovi canali di comunicazione.
Una strada che ci aveva permesso
persino di non rinunciare al piacere della stampa, sia pure in maniera diversa
rispetto all’era della rotativa.
Eppure siamo qui anche noi a un passo dallo Stige in cui galleggiano testate
di ogni sorta, dal glorioso New York Times al più infimo giornalino scolastico
di provincia. Non ci ha salvato il bilancio
in pareggio né l’amore e la stima del nostro pubblico.
La proprietà ha deciso che, con l’arrivo dell’ennesima crisi, è opportuno sfoltire, tagliare il vecchio.
Alla famiglia Luthor, che tanto lustro
(e guadagno) ha avuto dal lavoro di tutti
noi, lasciamo un ultimo messaggio. Speriamo che il 2034 sia davvero – come
da riveduta profezia Maya – la Fine del
mondo.
In caso contrario avrete ucciso il futuro senza ragione.
Il direttore, Perry White
di Robb Meddatter e Perry White
ora, attraverso un semplice telefonino. Nonostante
l'idea di usare un telefono cellulare per accedere al
web possa al momento sembrare preistorica, l'impatto che gli smartphone e il 3G ebbero sulla società fu
tanto rilevante da cambiare le abitudini e le necessità del 90% della popolazione mondiale. I giornali e il
giornalismo non furono risparmiati.
In un mondo sempre più web-centrico l'immutabilità della carta stampata assunse una connotazione
fossile, reperto di un’era che appariva ogni giorno più
lontana. I lettori furono colti da una febbrile frenesia
di aggiornamento che li spinse a preferire il tempo
reale al posto dell'approfondimento. Se un vulcano
145
31 gennaio 2013
eruttava in qualche sperduta isola del pacifico, o se
un tragico incidente d'auto
spezzava la vita di qualche
sfortunata persona, o se ancora il vip di turno dichiarava
di essersi fatto un lifting allo
scroto, la persona comune
pretendeva di saperlo subito
con pochi semplici click, non
aveva tempo di aspettare il
giorno successivo per leggere la medesima notizia sul
proprio quotidiano preferito.
Se a questo poi aggiungiamo la crisi economica che
colpì l'occidente a cavallo
del primo e secondo decennio, il brusco calo delle vendite della carta stampata e
l'ascesa dell'editoria digitale appaiono avvenimenti
chiari e inevitabili.
Il 2012 viene ricordato
per la recessione economica, per l'errata previsione
apocalittica Maya (poi corretta al 2034, come tutti
sappiamo) e per la nascita
della celebre testata Speechless Magazine; ma fu
soprattutto l'anno in cui
l'opinione pubblica, o almeno parte di essa, prese atto
della grave situazione in cui
versava l'editoria tradizionale. Gli Stati Uniti registrarono il passaggio in digitale
di Newsweek, la Germania
la chiusura del Financial
Times Deutschland e del
Frankfurter Rundschau (storica testata di sinistra) e la
Spagna dovete far fronte al
licenziamento di oltre seimila giornalisti in meno di
quattro anni (per un totale di
cinquantasette testate chiuse). Oltre a questo, poi, ci
furono gli annunci dei gravi
problemi finanziari del francese Libération, dello spagnolo El País, degli svizzeri
Les Temps e Il Giornale del
Popolo e dell'inglese Guardian. Una crisi globale che
non mancò di colpire anche
l'Italia, affetta da sempre
dal grave problema della
mancanza di lettori.
Mentre gruppi nazionali come il Corriere-Rcs, la
Repubblica-Espresso, Mondadori e Il Sole 24 Ore progettavano tagli al personale
e ristrutturazioni finanziarie,
last news last news last news
146
il Corriere della Sera, che vantava il primato
italiano, vendeva solo poco più di 440 mila
copie, seguito nella classifica dai quotidiani
La Repubblica (circa 358 mila), La Gazzetta dello Sport – Lunedì (circa 340), Il Sole
24Ore (circa 257 mila), La Stampa (circa 248
mila), fino a L'Unità, fanalino di coda con il
suo ventunesimo posto e le misere 35 mila
copie vendute.
Sempre nel 2012 poi, venne annunciato
che a partire dal marzo dell'anno successivo l'associazione Accertamenti diffusione
stampa (Ads) avrebbe rilevato non più solo
le vendite da edicola ma anche quelle avvenute attraverso download da tablet, cellulari
o computer fissi e portatili. Un passo molto
importante che permise per la prima volta
di avere un quadro reale delle potenzialità
dell'editoria digitale, quadro che piacque
molto a investitori e inserzionisti pubblicitari.
E così il giornalismo si traferì nel web e
iniziò a mutare. In nome dell'interattività, il
peso dei contenuti multimediali fu sempre
maggiore all'interno dei giornali, e lo spazio
per il testo sempre minore. I lettori scoprirono che era molto più interessante vedere
la registrazione di una rapina in banca, piuttosto che leggerne la notizia, o assistere
on-line all'arresto di un terrorista, piuttosto
che accontentarsi del successivo resoconto
scritto.
In meno di dieci anni, dal 2013 al 2023, il
giornalista è dapprima diventato un copista
di comunicati stampa o di flash news trasmesse via social network, per poi essere
addirittura sostituito dalle intelligenze artificiali, capaci di scrivere una notizia breve in
dodici lingue contemporaneamente. Le vendite dei giornali cartacei sono diventate irrisorie, le scuole di giornalismo hanno cambiato i programmi concentrandosi sull'aspetto
video (con particolare riguardo alla capacità
di saper stare in scena), e i lettori si sono
lentamente trasformati in spettatori.
Nel 2006, Philip Meyer, giornalista e professore emerito presso la scuola di Giornalismo dell'Università della Carolina del Nord,
aveva destato molto scalpore dichiarando:
«il primo trimestre del 2043 sarà il momento in cui l'ultimo, esausto lettore getterà via
l'ultimo, raggrinzito quotidiano». Venne tacciato di allarmismo e pessimismo, ma, col
senno di poi, appare evidente che era stato
fin troppo ottimista.
Come detto, la crisi e il declino di quotidiani e riviste cartacee sono state conseguenze
del progresso tecnologico, ma l'affermarsi dell'editoria digitale non ha determinato
soltanto un cambio di "mezzo". Molte delle
testate giornalistiche nate su carta si sono
adattate alle varie piattaforme create nel
corso degli anni e la trasformazione ha riguardato tanto il supporto quanto i contenuti.
Il giornalismo tradizionale (ancestrale?)
era basato su un newsmaking accurato,
composto da ricerche, approfondimenti,
verifica delle fonti e, non ultimo, un ragionamento complesso e articolato. Un procedimento lento, questo è ovvio, ma che garantiva articoli completi che riassumevano
i fatti e offrivano uno o più punti di vista.
Il giornalismo attuale, o web-giornalismo, è
schiavo dell'immediatezza della connettività.
Conoscere tutte le notizie in tempo reale è
una grande conquista per l'informazione e la
democrazia, ma l'assenza di un giornalismo
autentico, che contestualizzi e analizzi, trasforma le stesse notizie in rumore di fondo,
che il lettore percepisce ma non distingue.
È per questo che noi della redazione del
Daily Planet ci siamo cocciutamente rifiutati di passare all'editoria digitale, ed è per
questo che oggi siamo qui a comunicarvi il
147
grande rammarico conseguente alla nostra
capitolazione.
I giornali cartacei potevano sembrare
antiquati, scomodi e spesso anche sporchi
e puzzolenti, ma erano il simbolo di un giornalismo che dovrebbe essere indipendente
dal formato di diffusione. Oggi, 10 gennaio
2034, l'ultima traccia di questo simbolo muore insieme alla nostra testata.
Con tutto il rispetto per i professionisti
che ci hanno lavorato, penso che il Daily
Planet fosse solo un prodotto snob dal retrogusto nostalgico. La maggior parte dei suoi
lettori ha sottoscritto l'abbonamento per ricevere quotidianamente un reperto vintage
da mostrare in salotto a testimonianza di un
finto desiderio culturale pseudo-alternativo.
Il mondo non sentirà la mancanza della carta
stampata.
Edmund Troll, editore digitale.
Sono una vostra abbonata di terza generazione. I miei genitori leggevano il Daily
Planet e prima di loro i miei nonni. Ogni domenica della mia infanzia andavo a trovare
mio nonno, che mi faceva sedere sulle sue
gambe mentre leggeva il giornale. Mi ricordo
le pagine spalancate, così grandi da nascondermi del tutto, lo scricchiolio della carta, il
suo odore pungente, e le macchie d'inchiostro che rimanevano sulle dita di mio nonno.
Il digitale avrà i suoi pregi, ma manca di fascino. Conserverà l'ultimo numero del vostro
giornale con cura e affetto.
Lucy N. Ostalgic, lettrice fedele
La chiusura del Daily Planet? Un dramma. Come farò ora ad accendere il camino?
Ho provato con i tablet ma fanno solo un
gran fumo.
Jimmy Sarcasm, comico
Il giornalismo è morto oltre vent'anni fa.
Ora scomparirà anche il suo ultimo erede.
Luca Pulitzer, giornalista in pensione
149
148
di Nicola Baldoni
Prolegomeni a ogni futura metafisica morta vivente
che vorrà presentarsi come scienza
Parliamone. Chiunque di noi abbia letto
Dracula è dalla parte del vampiro. Alla signorina di buona famiglia non può capitare niente di meglio d’un principe delle tenebre. Pure
troppo a dirla tutta. Se amiamo, no, mannaggia, voi amate il film dove il morto assalta il
supermarket siete dalla parte del morto. Non
dei disperati che resistono. Discutiamone,
con mente aperta o spappolata che sia.
Sono certo che ci sia qualcosa che non
capisco, che anche io come lo zombie che
guarda in terra e saluta il pancreas, mi sto
perdendo qualcosa. Per onestà intellettuale
– l’onestà intellettuale è quella roba che ti
fa sentire che c’è un peso diverso tra Musil e
L’armata delle tenebre – confesso i miei pregiudizi. Mi sa che nell’adolescenza, in cui si
scoprono film e libri, voi eravate quelli fichi.
Quelli che mentre i vostri compagni facevano
i conti per la prima volta, spaventati e riconoscenti, con Rimbaud, il cinema francese, la
letteratura russa, voi ve ne stavate a casa di
Chicco, Billy o Fede, in combriccola, a vedere
sul divano di pelle dimenticati capolavori horror come La roba ributtante che usciva dalla
palude, oppure Oh te lo ricordi Silvio Pellico?
È alla porta e te se vole magnà, ma anche La
notte che ti vomitai sopra. Abitate a Roma
nord. E come hanno incastrato Fiorito ancora
vi brucia.
Oppure siete compagni che lottano e
rantolano insieme a noi. Il mondo si faceva
un’estensione di Villa Certosa e allora si cercò nell’altrove della cultura un’interpretazione dei tempi nostri non macchiata dal Potere.
(Perdonate le maiuscole, ma così c’intendiamo nell’indispensabile ridicolo). Nell’horror,
nel genere, magari era possibile trovare uno
sguardo diverso dall’ufficialità che ripeteva
che tutto era splendido, fortunatissimi noi.
Ora si tratta di dimostrare che il tempo speso
non sulla scuola di Francoforte o sullo strutturalismo, ma su katane, seghe elettriche, e
Urla 1, 2, 47, non era perso.
È corretto porre così il problema? Esiste
ancora una cultura ufficiale e una periferica,
magari più rozza e meno sofisticata d’una
pagina di Nabokov, ma anche meno compromessa? Un luogo atipico, come il contratto,
dove si coltivano sguardi altri sulla realtà
Letteratura
S
e sapete la differenza, la fondamentale differenza, tra lo zombie di Romero
e quello di Fulci vi odio. Focalizziamo
ciò di cui parliamo: voi amate dei tizi lordi di
sangue che camminano perdendo organi e
cercando di succhiare il cervello del prossimo. No, non sono una metafora della crisi del
contemporaneo, del neoliberismo che dissecca il mercato o del postmoderno. Sono morti.
Deal M for Murder © Cesarr ST
Il rimpianto Shane
T
di ALEXIA BIANCHINI
he Walking Dead: in un mondo post apocalittico gli zombie hanno invaso il pianeta. Un gruppo di sopravvissuti cerca un luogo sicuro dove stabilirsi. I superstiti
sono guidati dall'agente di polizia Rick Grimes e dal suo vice Shane Walsh.
Il traditore, fedifrago e infame Shane, figura di spicco nella serie di zombie WD, è in
poche parole la coscienza di Rick, il giusto e onesto poliziotto che, anche in una situazione tragica, è determinato a mantenere alto l’onore della stella a cinque punte che
porta sul petto. Shane è odioso, egoista, irrequieto, bastardo fino al punto di conquistare la stima degli spettatori per quanto risulti onesto con se stesso. Non si nasconde
dietro il buonismo, ma combatte per la sopravvivenza, combatte per ciò in cui crede.
Shane muore alla fine della seconda serie, quando nel fumetto omonimo invece ci aveva abbandonato già alla fine del primo volume. Un personaggio che, nella sua umanità
(nel senso più cattivo del termine), aveva conquistato gli spettatori. E allora perché
farlo fuori trasformandolo in zombie?
Ma torniamo indietro e analizziamo insieme alcuni aspetti del caro estinto: ha abbandonato Rick in ospedale, chiudendo la stanza con una lettiga invece di salvarlo,
trovando poi la scusa di averlo trovato già morto. Si è trovato un posto sicuro fuori città
e, prima dell'arrivo di Rick al campo dei sopravvissuti, è diventato il leader del gruppo,
prendendosi cura di Carl e Lori (moglie di Rick), instaurando una relazione con quest'ultima. Fare un passo indietro, e concedere lo scettro all’amico Rick, deve essere stata
dura e da qui la sua trasformazione ha cominciato a delinearsi, rimarcando la figura di
un frustrato. Eppure, sebbene sia arrivato a commettere un omicidio pur di salvarsi la
vita da un attacco zombie, non puoi fare a meno di appassionarti a lui, poiché rappresenta la cattiveria plausibile in cui l’uomo cascherebbe ritrovandosi in una apocalisse
zombie. Tutte le regole cadrebbero.
Osservando il cattivo Shane esternare la sua malignità e il suo sarcasmo ci accorgiamo che lentamente anche il buono Rick, che fino a pochi attimi prima aveva puntato
il dito contro l’amico, cade negli stessi errori: uccide altri esseri umani, uccide per sopravvivere. Insomma, davanti alla morte siamo tutti uguali: vogliamo vivere!
serissimamente di vampiri o navi spaziali non
è il tentativo di portare l’impensabile e il diverso là dove impera l’ovvio e lo stantio della
Vecchia Cultura. Era un’ansia adolescente,
ma che stabiliva un bisogno onesto di dialogo
tra universi che noi pretendevamo meno lontani di quanto volesse il segno rosso che la
professoressa metteva sul tema accanto alla
citazione dei Sex Pistols o di De André.
Ora questo non si dà. Lavoriamo in piccoli
laterali universi di generi e stili così catafratti e specializzati che per essere conosciuti a
dovere tra citazioni e autoriferimenti richiedono una competenza che pure i petrarchisti si
sognavano. Quanta roba ricorda The Walking
dead tra fumetti, film, videogiochi? Stiamo
là. E di quel mondo piccolissimo e sperduto
facciamo galassie. Sarà un caso ma poi non
viviamo in Piazza Duomo o dietro il Pantheon
ma in periferie che cadono a pezzi e ne vantiamo la ricchezza. Dal letame nascono fiori, ma
dimenticarne la puzza fa torto all’intelligenza.
La stanza in affitto pagata uno sproposito,
ma così prossima al migrante e al pensionato
con cui condividiamo gli 800 euro al mese e la
paura dello sfratto, non è poetica, è terribile.
Temo che questo nostro amore per il margine sia il tentativo di vivere una sconfitta
come scelta o gloria. Il fatto che non si stia
dietro una cattedra universitaria a commentare Dante non è la sanzione di altre realtà
beat, off, lost recuperate all’intelligenza, ma
di un’estromissione dalla produzione culturale
o almeno dallo stipendio fisso. Che la Commedia rispetto ai call center, ai lavoretti a
tempo determinatissimo, possa essere altrettanto impotente del telefilm sul serial killer,
depone male per tutti.
Viviamo in tempi terribili. E la disabitudine
alla speranza o a pretendersi indispensabile
finiamo per combatterla dimenticando i pesi
delle cose. Dando al piccolo, all’angoletto
solo nostro dove c’hanno chiuso, il tono d’un
sistema stellare. Del resto: “Invidio solo i
morti — già scriveva Leopardi — e solo con
loro mi cambierei”. Ma con i tempi che corrono quelli s’alzano e camminano, camminano,
camminano.
ldoni
Twitter @ nicola_ba
Letteratura
150
che viviamo? Dal vostro punto di vista, quello post apocalittico dove lo zombie pascola,
trionfante, no. Tra una cattedrale gotica, San
Vittore o le Vele di Scampia, l’unica legittima differenza è la difendibilità dell’edificio
dall’assalto. Una grata è preferibile a Giotto.
Appunto, direte voi, è proprio ciò che lo zombie denuncia. Ovvero il punto non è il morto
che cammina, ma l’uso che di quel morto viene fatto. Grazie al morto errante, ridotto alla
cecità del desiderio come il tamarro davanti
al Grande Fratello o la zitella davanti a Prada,
vediamo crisi e appiattimento di questi giorni
così… Non attacca. Ho visto troppi porno per
dimenticare che il problema deve essere – e
soprattutto deve restare – la bionda con le
tette grandi e non l’uso che della bionda viene
fatto. Respect.
I migliori di noi son cresciuti nella convinzione che non si dà differenza tra cultura alta
e cultura bassa. Non si dà ai nostri occhi che
hanno visto tanti di quei sogni morire da pretendere di mantenere lo sguardo vivo e curioso davanti a Guerra e pace, fumetti, poesia
trecentesca – sì, c’è una poesia trecentesca,
ragà’, pochissime mummie da quelle parti, ma
roba buona assai. Ma quest’apertura che un
tempo ci inorgogliva, da navi corsare contro
Accademia, temo sia il sintomo di una sconfitta. La galassia lontana lontana, non è la
stessa cosa di Kant. Ce lo ricordiamo? Una
vecchia battuta di Arbasino: “Tanto fumare,
tanto bucarsi per cosa? Se nel mondo del
rock, bisogna farsi tanto per arrivare a canzoni come quelle di Jimi Hendrix e Janis Joplin,
Wagner e Brahms cosa avrebbero dovuto
fare? Mettersi un DC-10 nel culo?”
Avverto in noi (mi commuove Vampire Diaries) una nostalgia per una visione del mondo
vecchissima. Trent’anni fa ancora plausibile e
ora paiono millenni. C’era una volta un Palazzo d’Inverno, una Bastiglia. Qualcosa da prendere o da tirare giù e quindi libertà e giustizia
sociale per tutti. L’equivalente sul piano intellettuale era scardinare le porte dei musei e
una volta che al Louvre avremmo portato Andrea Pazienza quelli là avrebbero imparato…
Non funziona più così. Se quest’istinto continua a muoversi nel sottofondo dei pensieri,
nei momenti di lucidità sappiamo che discutere
151
di Federica Urso
N
ella sfaccettata contraddittorietà dell’animo umano, la felicità come il dolore trova
sfogo nei meandri più sensibili dell’arte: la
scrittura si colloca nei gradini più alti dell’espressione umana, eppure la difficoltà di riversare emozioni e sentimenti su un foglio bianco lascia spazio
a esperimenti dall’esito dubbio. Quando però tale
operazione viene compiuta da personalità geniali, come nel caso di David Grossman, possiamo
soltanto arrenderci alla bellezza di un testo che si
addentra nel polimorfismo letterario, incidendolo
di un lirismo mai scontato e mai eccessivo.
Grossman, che nel luglio 2006 ha perso il figlio Uri nella guerra israelo-libanese, proprio due
giorni prima che questa finisse, elabora con la
scrittura il lutto più terribile: a distanza di sei anni
il dolore, mai sopito, irrompe nel suo ultimo libro,
un capolavoro straziante e catartico ma equilibrato. Caduto fuori dal tempo è, infatti, un’opera
profonda, complessa e vibrante, ma che non si
esaurisce nell’isterismo smodato di una sofferenza senza controllo. Non pacata, ma dignitosa.
La vicenda, che ha la triplice forma stilistica
della poesia, della prosa e della piece teatrale,
prende avvio quando un uomo – un uomo qualsiasi, di cui non conosciamo il nome – lascia la moglie e la tavola presso cui sta cenando per andare
“laggiù”, da “lui”, per vederlo ancora un istante.
“Lui” è il figlio perduto, scomparso, “laggiù” è
il limes, il confine tra il mondo dei vivi e quello
dei morti. L’uomo e la donna assaporano gli ultimi
attimi della propria quotidianità, prima che lui inizi
a camminare, intraprendendo un viaggio che accoglie anche il dolore di altri personaggi mutilati
dalla morte dei propri figli. Accomunati da ricordi
brucianti, rimorsi e sensi di colpa, l’uomo, la levatrice, il ciabattino, la donna nella rete, il Duca, il
vecchio maestro di aritmetica cuciono un arazzo
di rimpianti e parole sospese.
Nonostante abbiano subito la medesima perdita, da questi si distanziano invece lo Scriba
delle cronache cittadine, che ha il compito corale di riportare al lettore i gesti e le reazioni dei
personaggi – dico corale perché il libro ricorda
molto da vicino anche la tragedia greca – e il
Centauro, uomo irascibile e scontroso, scrittore,
con la parte inferiore del corpo trasformatasi in
scrivania. È appunto il Centauro la figura più interessante dell’opera, colui nel quale è facile riconoscere un alter ego di Grossman: scosso dalla
rabbia e dall’impotenza, divorato dal bisogno di
esprimere la propria sofferenza, non riuscendoci,
ancorato a quella scrivania e circondato dagli
oggetti del figlio.
La storia si consuma quindi nel tentativo di
uscire dalla bolla morbosa dell’autocompatimen
to, avanzando verso laggiù con un movimento
quasi oscillatorio, che ingrossa le sue fila di nuovi viandanti. Dove prima non c’era appare allora
un muro, il luogo di destinazione: i protagonisti
scavano nella terra, vi si addentrano, felici di affondarvi, di essere finalmente utili a qualcosa (e
abbiamo anche sentito / quanto lei, la terra, desiderava / che ci imbrattassimo, esultassimo /
in essa, ridessimo dentro di lei – solo lacrime /e
sangue e sudore / vi abbiamo sempre riversato.
Quando, / dimmelo, quando mai un uomo/ha riso
/ dentro la terra?).
E il Centauro, nella prigione della sua stanza,
scrive finalmente la sua storia, tutta la sua vita
sulla punta di questa penna, sublimando il racconto della forza distruttiva,
eppure ingenua e stupita, della scrittura davanti all’irrimediabilità della
morte. Scrivere per non morire a sua
volta; scrivere per trovare un cantuccio di momentanea libertà; scrivere
per non sentirsi caduti fuori dal tempo,
un tempo che ha smesso di scorrere
dalla morte del figlio.
Grossman sprigiona in ogni riga – in
ogni verso – la straordinaria sensibilità di un uomo tagliuzzato e sconfitto,
quasi quella di un cervo agonizzante,
la trasforma in fiumi di parole che
scorrono senza trovare requie. Anche
nell’epilogo, quando l’energia strabordante del dolore sembra essersi
canalizzata e aver trovato uno sbocco, quando finalmente scema verso
la conclusione dopo lo sfogo amaro
dell’atto creativo, il rumore dell’onda
continua a riecheggiare sotto forma
di rimorso: È solo che il cuore / mi si
spezza, / tesoro mio, / al pensiero /
che io… / che abbia potuto… / trovare / per tutto questo / parole. Le parole
condannano l’autore a un nuovo sentimento e la liberazione agognata ha
un gusto amaro: quello della volontà
di andare avanti. Nonostante la morte
di un figlio.
153
Letteratura
152
Scrivere per
non cadere fuori
dal tempo
racconto
solo nei casi più gravi. Il primo pomeriggio, essendo i locali ancora chiusi, la vigilanza era minore.
Il giapponese non prestava minimamente attenzione a ciò che gli accadeva intorno. Continuava a
osservare assorto e con espressione nostalgica gli
alberi di fronte a lui. All’improvviso quelle piante
si erano trasformate in sakura, i ciliegi nipponici.
Una moltitudine di persone aveva steso le coperte
sui prati e dai lucidi cestelli laccati per le vivande
aveva cominciato a tirare fuori cibi e bevande per
il tradizionale rito dell’hanami in cui ci si fermava
ad ammirare la caduta dei petali di ciliegio, simbolo della fugacità della vita umana. Gli uomini
offrivano il sake agli amici versandolo da enormi
bottiglioni da due litri. La volta celeste aveva assunto colori che erano un misto tra quelli a olio
dei quadri dei pittori italiani rinascimentali e quelli
degli ukiyo-e giapponesi dei grandi maestri come
Utamaro e Hiroshige. Tre gigantesche Grazie della
Primavera di Botticelli, con riflessi di luce che saettavano tra i capelli dorati e i veli trasparenti che
coprivano appena le loro nudità avevano incluso
nella loro allegra e misteriosa danza senza fine un
altrettanto ciclopica bellezza in kimono dalla pelle eburnea e dai capelli corvini intrecciati in una
complessa pettinatura tenuta ferma da elaborati
spilloni intarsiati. Le gigantesse ballavano. L’aria
era satura di fiori di ciliegio bianco rosati.
«Signor Tanaka!»
Una voce acuta riuscì a strapparlo da quel miraggio dove Oriente e Occidente si erano fusi in
un bizzarro, ma ammaliante sogno. La sua visione
cessò senza neppure lasciargli il tempo di poter
pronunciare un’esclamazione di sorpresa.
«Ah, eccola signor Tanaka, la stavamo cercando ovunque!»
Paolo Piras, un allampanato ragazzo sportivo
di ventiquattro anni dai capelli rossicci, era l’autista personale di Keiichirô Tanaka dirigente della
Letteratura
di Massimo soumaré
154
L
a passeggiata in pietra grigia di Lungo Po Armando Diaz era inondata dai tiepidi raggi del
sole d’inizio aprile, gli stessi che si riflettevano sul fiume che attraversava la città di Torino.
Lontano, a est, sulla sommità di un’alta collina, la Basilica di Superga costruita dall’architetto
Filippo Juvarra agli inizi del XVIII secolo svettava
sotto un gruppo di placide nuvole candide, simile
a un dito ammonitore eternamente puntato verso
il cielo.
Un giapponese spaesato era fermo immobile
accanto al parapetto dove, a distanza regolare,
erano stati posti dei lampioni di foggia ottocentesca, lo sguardo vacuo rivolto alla chiesa dei frati
Cappuccini sull’altra sponda del fiume. Gli alberi
con le prime foglie primaverili di un debole verde
incorniciavano la costruzione di fronte a lui.
Un passante, preoccupato per le condizioni
dell’uomo, si era avvicinato.
«Ehi amico, tutto bene?»
Osservato da vicino, l’orientale dimostrava quasi una sessantina d’anni.
«Mi capisci? Parli italiano?» insistette gentilmente.
«Sì, sì.»
A queste parole fece eco uno starnuto poderoso.
Il passante osservò perplesso l’uomo ancora
per un attimo, poi concluse che non era il caso di
farsi ulteriormente coinvolgere in faccende altrui e
si allontanò rapidamente.
Subito lì vicino, proprio sul bordo del fiume,
c’erano i locali dei Murazzi.
Arrivavano fin da
Parigi per andare a divertirsi la notte in quei bar e
ristoranti pieni di vita. Come risultato, misti ai normali visitatori c’erano sempre numerosi esponenti
della piccola criminalità. Le risse non erano rare
ed era pure capitato che qualcuno fosse caduto
nelle torbide acque del Po finendo per annegare a
causa dei gorghi insidiosi. Così le ronde delle forze
dell’ordine erano abbastanza frequenti, anche se
avevano la tendenza a lasciar correre e intervenire
Illustrazione per Un'avventura di Mr. Samurai © Yuko rabbit
156
La ditta sorgeva in una zona periferica della
città, là dove il grigio del cemento incominciava
lentamente a cedere il passo alla vegetazione dei
campi e dei terreni incolti della campagna.
Tanaka sedeva in un ufficio dal lusso contenuto. Stava parlando al telefono. Sulla scrivania
erano sistemate due piccole bandierine, una tricolore e l’altra con un cerchio rosso su sfondo bianco,
infilate in un portapenne un po’ kitsch.
Alla parete, vicino al grande orologio a muro,
erano appesi due quadretti con un motto scritto
rispettivamente in italiano e in giapponese.
Al mondo nulla è più triste
del non avere un lavoro da fare
Poco distante dalla stanza due impiegati stavano parlando tra loro. Una era una giovane ragazza
neo assunta piuttosto carina, l’altro un signore cinquantenne con la pancia prominente, il volto sudaticcio e un’avanzata calvizie.
«Allora, com’è il nuovo capo?» domandò la giovane a bassa voce.
«Uhm, per ora difficile a dirsi. A quanto pare,
non doveva essere Tanaka ad avere questo posto.
Ha dovuto rimpiazzare il dirigente che era destinato alla nostra sede e che pare abbia avuto dei
problemi di salute improvvisi.»
«Ah, ecco! In effetti, quello non mi sembra uno
da mandare all’estero.»
«Puoi dirlo forte!»
Si misero a ridere malignamente insieme. L’uomo proseguì a parlare.
«Sai», abbassò ulteriormente il tono «stamattina dopo un pranzo d’affari in centro città è sparito
senza dire niente a nessuno!»
«Ma dai!!»
Tanaka nel suo ufficio con le pareti a vetro continuava a parlare al telefono. Sembrava una tigre
in gabbia. Certo molto meno elegante. E senza strisce.
«L’hanno ritrovato a un chilometro di distanza
in riva al Po che guardava inebetito il Monte dei
Cappuccini! Me l’ha raccontato Paolo, l’autista.
Secondo me quel nippo non ha tutte le rotelle a
posto.»
S’interruppe di colpo.
Francesca gli era passata silenziosamente accanto e aveva osservato lui e la sua collega con un
gelido sguardo di rimprovero. C’era qualcosa d’indefinito nel profondo dei suoi occhi, oltre le lenti
156
degli occhiali, in grado di far provare un brivido
nella schiena di chiunque. I due impiegati tacquero
allontanandosi il più in fretta possibile.
Il giapponese aveva messo giù la cornetta. Starnutì nuovamente. Gli lacrimavano gli occhi e il naso
gli era diventato tutto rosso. La sua faccia sembrava il volto cremisi di un enorme tengu dal grande naso, le creature sovrannaturali che secondo
il folklore nipponico risiedevano nei recessi delle
montagne.
La segretaria bussò prima di accomodarsi all’interno.
«Prego» la sollecitò Tanaka da oltre il vetro.
«Signore, ha preso qualche medicina?» chiese
subito dopo essere entrata.
«Sì, ma non funzionano. Ho sempre sofferto di
allergia nel periodo della fioritura dei sakura a causa di tutto quel polline nell’aria» rispose lui.
«…»
«Ah, già, qui non siamo in Giappone.»
Tanaka sospirò melanconicamente.
«Magari, molto più semplicemente, non si è ancora abituato al clima di Torino. Potrebbe essere un
semplice raffreddore» suggerì Francesca.
L’uomo non sembrava convito di quella spiegazione.
«Può essere… A proposito, ha trovato tutti i
rapporti che le ho chiesto?»
«Certamente.»
La donna posò sulla scrivania il fascicolo che
aveva tenuto in mano fino a quel momento.
«Ci sono degli alberi di ciliegio qui a Torino?»
domandò cambiando totalmente argomento.
Francesca era perplessa. «Non ne so molto di
piante, ma immagino di sì. Però sono sicuramente
pochi. Non c’è confronto con il numero di quelli a
Tôkyô. Posso informarmi meglio, se lo desidera.»
«Grazie.»
Francesca, percepito che la conversazione era
finita, si girò e uscì dall’ufficio per andare a proseguire il suo lavoro lasciando così Tanaka alle proprie riflessioni.
Il quadrilatero romano vicino a Porta Palazzo le
notti del fine settimana straripava di vita divenendo un infinto susseguirsi di schiamazzi, risa e canzoni. Un caleidoscopio di luci e di colori.
Anni addietro era stato un quartiere fatiscente
e malfamato che la maggior parte della popolazione perbene evitava. Il covo dei pusher. Uno spauracchio per i bambini alla stessa stregua di quanto
lo erano l’uomo nero e il babau. Poi era arrivata la
ristrutturazione.
Ora era il luogo più alla moda, e costoso, della
città. Nelle sue vie antiche dove ancora si rifletteva un pallido ricordo della gloria dell’antica Roma
imperiale (non per nulla le Porte Palatine, l’unico
dei quattro ingressi della Torino romana sopravvissuto fino ai nostri giorni, si trovavano a poche centinaia di metri di distanza) si riversava l’illuminazione allegra proveniente dall’interno di ristoranti,
vinerie e birrerie dagli stili architettonici più diversi.
Fusion, classico, ottocentesco, rustico, ipermoderno, gothic…
Tanaka si aggirava da solo per i vicoli in mezzo
alla folla. La sua mente era piena di pensieri.
Che ci faccio io qui?
Satô doveva proprio farsi investire da una macchina una settimana prima della partenza per assumere il suo nuovo incarico!!
Sul volto gli si dipinse un’espressione di rabbia.
Mi hanno mandato con la scusa che all’università ho studiato un po’ d’italiano. Ma è stato una
vita fa…
Quello stronzo dell’amministratore delegato
Honjô non aspettava altro che una scusa come
questa per liberarsi di me. Merda!
Si sentiva sempre più stanco, irritato e scontroso.
Due anni ci devo stare in questo posto, accidenti.
Dove diavolo sono i night club!? Avrei fatto meglio a chiederlo stamattina a Paolo…
Vagava senza metà.
Inconsapevolmente si era spostato verso Via
Po, ornata da ambo i lati di portici, dirigendosi verso i Murazzi. I negozi a quell’ora erano chiusi e le
serrande abbassate, ma i numerosi bar più qualche
libreria erano aperti e pieni di clienti. Sembrava che
pure lì la gente si fosse riversata da tutto l’abitato
e dai paesi limitrofi. Una piccola bolgia infernale
dantesca.
#
Immaginate ora di essere alla presenza del regista Fellini disceso dal paradiso per girare un nuovo film finanziato dall’Altissimo e al contempo di
essere gli occhi dell’attore principale Tanaka, la
nostra star!
La macchina da presa è sistemata al centro
dell’ampia strada su di un carrello le cui rotaie percorrono l’intera lunghezza di più di settecento metri della via. Le automobili, i pullman e i tram color
arancio non vi possono toccare.
157
Letteratura
succursale italiana di una nota ditta del Sol Levante. A volte era decisamente esuberante e un po’
troppo seccante per i gusti di Tanaka.
Si stava dirigendo verso di lui con passo deciso.
Attraversò la strada senza guardare rischiando di
farsi investire. Un’auto gli suonò dietro. L’autista
fece uno di qui gesti che non è bene insegnare ai
bambini.
Dietro di lui più prudentemente, tuttavia con
un’andatura non inferiore come velocità, veniva
una donna sulla trentina. Il gusto sobrio nel vestire,
l’austerità del viso e l’aspetto professionale la qualificavano subito a prima vista come una seria ed
efficiente segretaria di alto livello. Occhiali, capelli
crespi castani raccolti dietro la nuca, occhi di un
verde intenso. Allo stesso tempo l’abito non era in
grado di nascondere completamente un fisico mozzafiato che non aveva nulla da invidiare a quello di
una modella.
«Eravamo tutti preoccupati. Si sente meglio, signore?»
La sua voce aveva uno strano suono metallico.
In altre persone sarebbe parso un difetto, ma nel
suo caso si adattava perfettamente a lei.
Tanaka abbassò la testa in un cenno di saluto
dopodiché, imbarazzato, si portò la mano destra
dietro la testa.
«Ah, grazie signorina Francesca. Non era nulla.
Il senso di nausea mi è passato completamente.»
«Forse sarà ancora l’effetto del fuso orario»,
intervenne Paolo. «Però sono ormai più di due settimane che è in Italia. Dovrebbe esserle passato.»
«Dobbiamo tornare in sede. Se la sente?» chiese Francesca.
«Ma certo.»
Tanaka rispose senza esitazione alla domanda
che la donna aveva posto con tono premuroso. Era
nuovamente in sé ed era rientrato nel suo ruolo di
dirigente. Starnutì ancora con veemenza. Si diressero verso il parcheggio sotterraneo di Piazza Vittorio Veneto, mentre Tanaka si asciugava il naso
con il fazzoletto girandosi di lato per nascondere
quel gesto che in Giappone era considerato sconveniente. Avrebbe potuto dire a Paolo di andare da
solo e poi di venire a prenderli, però considerato il
traffico caotico era più pratico in questo modo.
Salirono su di una grossa automobile color grigio metallizzato e uscirono dal parcheggio. Dopo
pochi minuti, la vettura sfrecciava sulla strada che
conduceva verso la ditta.
159
in una fortezza inespugnabile. Il tempo e lo spazio
collidono tra loro.
Il Tanaka-samurai ora avanza un po’ goffamente per il peso dell’armatura facendosi largo a spallate. Pronuncia bizzarre urla marziali. O forse si
tratta di arcani incantesimi? Puff!, in uno sbuffo
di fumo rosa si materializza un kirin. Che cos’è un
kirin? Be’, avete presente lo strano animale raffigurato sulle birre che ordinate nei ristoranti giapponesi? Perfetto, è quello.
Puff! Compare un drago d’argento dal corpo
filiforme e gli arti corti che inizia a zigzagare tra
le colonne dei portici divorando qualche ignaro
passante per poi innalzarsi in un istante cinquanta
metri nell’aria e picchiare il secondo successivo
verso il basso infilando il suo corpo scaglioso dentro una gelateria e in seguito entrando in uno dei
tanti bar che costeggiano la via.
Puff, puff, puff! Ecco apparire il cane, il fagiano e la scimmia della fiaba di Momotarô, il
ragazzo nato dalla pesca.
Una timida principessa della luna
Kaguya osserva la baraonda seduta a un tavolino di un bar
mentre sorseggia languida
un martini con una turista
tedesca.
Lentamente l’aria
si riempie di piccole esplosioni rosa
che liberano uno
dopo l’altro i
mostri delle
fiabe e delle leggende
nipponiche.
Con i tengu
158
armati di bastoni in prima linea e gli orchi dalla pelle di tigre e le corna con in mano mazze di ferro
dietro di loro, un piccolo esercito sovrannaturale
circonda e protegge adesso il Tanaka-samurai.
Cameraman, riprendi tutto!!
È ora la folla a essere sospinta, gettata al suolo,
colpita dalle mazze, calpestata. È moribonda. Eppure nessuno sembra sorprendersi di quanto sta
accadendo. Anche negli occhi di coloro che sono
frantumati a terra non c’è il minimo accenno di stupore. Ridotti in uno stato pietoso, sulle loro facce
aleggia un’espressione tranquilla ben più impressionante dei volti delle streghe di montagna yamauba che li stanno divorando ancora vivi.
Gli esseri umani, ugualmente ai lemming della
leggenda popolare diretti verso l’olocausto, semplicemente continuano ad avanzare imperturbabili
verso il fronte della legione fatata con al centro
il loro bizzarro generale samurai. Le persone che
camminano invece nella stessa direzione dello
spietato manipolo di mostri si mischiano a esso
creando uno strano effetto di sovrapposizione.
Esattamente come se la realtà fosse piombata
nella fiaba o se la fiaba si fosse aperta un varco
nell’universo reale.
I demoni stanno per avere la meglio sterminando i loro oppositori…
Stop!
Quando ecco che, così come tutto è iniziato, in
una grande esplosione rosa i mostri e l’armatura
scompaiono lasciando il nostro disperato Tanaka in
balia della folla.
Era Zhuang Zi a sognare di essere una farfalla
o la farfalla a sognare di essere Zhuang Zi?
Poco importa a Tanaka ormai privo del senso
dell’orientamento e pressato dalla ben più urgente necessità di riuscire a districarsi da quella situazione...
#
Una mano vigorosa lo afferrò saldamente traendolo in salvo vicino al muro dove lo scorrere della
folla era meno intenso.
Vestita di nero con una giacca di pelle, cintura
di metallo e stivali con i tacchi alti in uno stile quasi fetish, ma privo di piercing o tatuaggi, tanto da
sembrare un’altra donna (una moderna Diana dea
della caccia? Sì, questa sarebbe stata la descrizione più appropriata!), Francesca era al suo fianco.
«Signor Tanaka che ci fa lei qui?»
«Io…». Notò che non portava gli occhiali.
«L’hanno lasciata da solo?»
Aveva immediatamente compreso ogni cosa.
«No, è che è tutta la settimana i nostri impiegati la sera mi accompagnano a mangiare fuori e non
volevo disturbarli pure il sabato sera… Perciò…
Quindi… Io…»
Francesca lo guardò con espressione dolce.
«Ho capito. Su, Venga con me. Non è ancora
mai stato ai Murazzi, vero?»
«Senta, ecco, non vorrei essere d’impiccio…
Avrà sicuramente degli amici da incontrare.»
Tanaka esitò. Irrompere nella vita privata dei
suoi dipendenti la considerava una mancanza
estrema di cortesia.
«Non si preoccupi. Ci divertiremo!»
«Allora se insiste…» si lasciò infine convincere
l’uomo. «Ho sentito dire che è un posto un po’ pericoloso.»
«Può essere… Ma ci penso io a proteggerla.»
La donna scoppiò a ridere.
Pareva decisamente un’altra persona.
Tanaka stava ballando allegro, come facevano
gli altri, in mezzo all’eterogenea folla multietnica
che occupava per intero l’area dei Murazzi. Le
luci dei locali si riflettevano sull’acqua nera del Po
dando l’impressione che sulla superficie del fiume
guizzassero inquietanti strali dorati provenienti dal
fondo, come se laggiù la perduta R’lyeh si fosse
all’improvviso destata.
La musica ad alto volume raggiungeva la riva
opposta e persino la vicina grande piazza facendo dolorosamente vibrare i timpani degli avventori
delle vinerie, dei ristoranti e degli stessi residenti.
Un suono ritmico e stordente come quello di tamburi antichi nella savana africana.
Sudato e con il volto arrossato, Tanaka andò a
sedersi al tavolino di una birreria posto all’aperto.
Vedere il liquido giallo intenso dalla spuma bianca
accentuò ulteriormente la sua sete. Da lì si poteva
osservare direttamente la gente transitare nelle
due direzioni. Oltre Francesca, con lui c’erano alcuni ragazzi e ragazze. Probabilmente studenti universitari, a giudicare dall’aspetto e dai loro discorsi.
Un uomo allampanato dai capelli rossi si avvicinò scrutando i dehors alla evidente ricerca di suoi
conoscenti.
«Oh, c’è anche Paolo!» esclamò Tanaka con un
bicchiere della fresca bevanda in mano. Gli fece
cenno con la mano di raggiungerli. L’autista indossava degli abiti casual invece che la solita giacca
e cravatta.
«Salve!»
Esordì Paolo sedendosi.
Letteratura
Le lampade sono accese e gli effetti speciali
pronti.
Ciak si gira!
Carrellata.
Gli archi dallo stile primo ottocento in una fredda tonalità color crema con i lampioni verdi dalle geometriche linee eleganti si susseguono uno
dopo l’altro, mentre Tanaka cerca di avanzare contro il flusso contrario della folla. Annaspa, viene
spinto, poco ci manca che il nostro eroe non cada
a terra. La sua vista si fa sfocata. La gente diventa
per lui una confusa macchia indistinta. Chiude gli
occhi mentre un senso di vertigine l’assale squassando le sue viscere. Di colpo non indossa più il
completo con la giacca e la cravatta, ma un’armatura come quella dei guerrieri delle pellicole in
costume di Kurosawa che racchiude il suo corpo
proteggere le spalle al loro compagno si avvicinarono di colpo alle spalle di Tanaka con l’intenzione
di coglierlo di sorpresa. Anche uno di loro stringeva
in mano un coltello.
In quel momento arrivò Francesca.
Afferrato per il bavero della giacca quello armato, gli diede una testata rompendogli il setto nasale. Il sangue schizzò sull’antica pavimentazione di
pietra. L’uomo rotolò a terra coprendosi la faccia
con entrambe le mani. La donna non si fermò e gli
assestò un calcio in pieno stomaco mettendolo del
tutto fuori gioco. Fece per voltarsi verso il terzo
complice rimasto, però Tanaka lo aveva già steso
con un pugno al volto.
Il dirigente e la segretaria, ansimando, si osservarono con uno sguardo d’intesa.
«Glielo avevo detto che ci saremo divertiti, no?»
sorrise lei.
La folla li aveva circondati. Tra gli altri c’erano
anche i ragazzi di prima e Paolo che gridavano eccitati a gran voce: Mr. Samurai, Mr. Samurai, Mr.
Samurai!
La frase venne ripresa dalla gente in un coro che
rivaleggiava, o forse era in armonia, con la musica
fracassona proveniente dai locali.
Giunse la polizia cui spettò solamente il compito
di portare via i malconci malviventi.
Francesca avvicinò la testa al suo principale e
gli sussurrò all’orecchio.
«Domani possiamo incontrarci? Vorrei mostrarle
una cosa. Ci vediamo davanti alla Facoltà di Architettura del Parco del Valentino alle tre del pomeriggio.»
Il volto di Tanaka assunse un’espressione sorpresa.
Il cielo era nuvoloso e, quando il sole emergeva
a tratti tra le nubi, una calda luce dorata discendeva dall’alto in fasci che ricordavano i paesaggi dei
quadri dei maestri del Rinascimento.
Si erano diretti nel piccolo giardino roccioso al
margine del parco. Superato il pergolato avvolto
da piante rampicanti simile a un tunnel vegetale
di una ventina di metri, Francesca aveva guidato
l’uomo verso un magnifico acero il quale cresceva
un poco in disparte. Due piccole cascate sgorgavano da un gruppo di rocce per poi scorrere in minuti
rivoli tra i prati. Graziosi ponticelli con staccionate
di legno permettevano di oltrepassarli facilmente in più punti. Vicino, sullo sfondo, svettavano
le torri e le mura merlate del Borgo e della Rocca
medievali realizzati in occasione dell’Esposizione
161
Internazionale del 1884.
«Lo so che non è come vedere i sakura in fiore
ma è bello lo stesso, non crede?»
Tanaka osservò ammirato l’albero per alcuni
istanti. Poi tirò fuori da una busta una bottiglia di
sake e dei bicchierini. Ne offrì uno a Francesca. Si
sedettero sull’erba, lui a gambe incrociate.
«Signorina, dove ha imparato a lottare in quel
modo?»
«È una lunga storia.»
Il dirigente la osservò fisso. Un vento leggero le
scompigliava i capelli che ora portava sciolti.
«Quindi l’hanno assunta anche con il proposito
di farmi da guardia del corpo.»
Francesca annuì con espressione divertita. «Sì.
Però direi che lei non ne ha proprio bisogno!»
Risero entrambi.
Tanaka riempì la sua tazzina e quella della ragazza. In Giappone certo sarebbe stato normale
che fosse la donna a versarglielo, ma ora non importava.
Bevvero insieme.
Beh, dopo tutto credo che mi ci troverò bene in
questo posto, pensò Tanaka
Osservò il paesaggio intorno con la gente che
passeggiava allegra. All’improvviso, per alcuni
istanti, gli parve di fluttuare nell’aria e di vedere da
lontano il prato dove erano seduti. La donna aveva
un arco d’argento e una faretra sulla schiena, lui indossava un’armatura giapponese tipica del sedicesimo secolo con un sashimono, la piccola bandiera
fissata sulla schiena, dove spiccava nera su campo
bianco una scritta.
Mr. Samurai.
Tanaka chiuse gli occhi. Riaperti, ogni cosa era
tornata alla normalità. Francesca stava bevendo
soddisfatta dalla coppetta.
Mr. Samurai. Sì, dopo tutto non gli dispiaceva
come soprannome. Un sorriso divertito si dipinse
sulla sua bocca. Portò anche lui il bicchierino alle
labbra.
Il vento creò un piccolo turbine che disperse alcune foglie d’acero nell’aria. Gli ricordarono i fiori
di ciliegio dell’hanami.
Due anni dopo la città giapponese di Nagoya
avrebbe regalato trenta piante di sakura al comune
di Torino, ma a quel tempo Tanaka e Francesca non
potevano ancora saperlo.
Letteratura
Il giapponese prese a bere in maniera considerevole e l’autista non volle essere da meno. Tuttavia, era evidente che faticava non poco a reggere il
ritmo del suo superiore. Gli altri osservano divertiti
l’impari lotta tra i due.
«Wow!» esclamò una ragazza.
«Accidenti, è forte il vecchio!» aggiunse quello
che pareva essere il suo fidanzato.
«Mr. Samurai sei grande!!»
A parlare era stato un terzo giovane dai capelli
tagliati tanto corti da sembrare pelato e con un vistoso tatuaggio di un pesce sul polpaccio sinistro.
«Mr. Samurai?» ripeté sorpreso Tanaka con
espressione dubbiosa sul volto. Era un complimento o una presa in giro?
«È un bel soprannome, no?» intervenne Francesca con voce allegra.
«Lo pensi davvero?»
Complice forse una buona dose di alcol in corpo, Tanaka era meno formale. Sentiva di avere un
legame particolare con quella donna, anche se non
comprendeva di che tipo potesse essere.
Un grido più acuto di tutti gli altri squarciò l’aria
di colpo. Qualcuno proprio di fronte al locale dove
sedevano aveva colpito una signora rubandole la
borsa ed era corso via. Un passante aveva tentato
di fermarlo, ma si era preso una spallata finendo a
terra. Così tutti avevano preferito fargli largo. Il ladro si stava dirigendo dalla parte opposta a quella
maggiormente illuminata dove sostavano i gruppi
di poliziotti.
Tanaka, prima che altri potessero agire, si era
alzato con un’inconsueta velocità e aveva preso
a inseguire il tizio con una strana andatura comica, ma dai passi rapidissimi. Lo raggiunse nel
giro di una cinquantina di metri. Il ladro si fermò
estraendo dalla tasca dei pantaloni un coltello a
serramanico.
«Vuoi che ti ammazzi!»
«Bastardo!» imprecò l’orientale.
I due si affrontarono. Tanaka aveva praticato
l’aikidô per parecchi anni avendo occasione di utilizzarlo più di quanto il suo aspetto ordinario non
lasciasse intuire. Il ladro ci sapeva fare con la sua
arma e lo attaccò cercando di colpirlo allo stomaco
dopo aver fatto una finta, ma fu scaraventato con
violenza a terra e bloccato da una chiave articolare.
«Aaah!»
Craaakkk
Insieme all’urlo s’udì il rumore secco di un osso
che si rompeva.
Due complici che erano in attesa e pronti a
160
The man in black fled
across the desert,
and the gunslinger followed.
S
i fa presto a dire “eroe”. Dal dizionario: “s.m.
Nella mitologia, essere semidivino al quale si
attribuiscono gesta prodigiose e meriti eccezionali; nel linguaggio comune, chi dà prova di grande valore e coraggio affrontando gravi pericoli e compiendo
azioni straordinarie”.
Roland Deschain di Gilead, protagonista indiscusso della pantagruelica saga della Torre Nera di
Stephen King, è innegabilmente entrambe le cose.
Ultimo pistolero sopravvissuto nel Medio-Mondo,
forse il migliore di tutti coloro che lo hanno preceduto.
Ultimo erede del grande Arthur Eld, una stirpe che si
è estinta nella polvere e nell'onore. Ultimo uomo rimasto che possa salvare la Torre Nera e, con essa,
l'esistenza stessa di tutto l'universo.
Ultimo, quindi.
Tuttavia essere ultimo significa anche essere solo.
E la solitudine ha un prezzo molto alto per Roland Deschain. Ha visto morire i suoi genitori, i suoi amici,
l'unica donna che abbia mai amato. Tante morti, forse
troppe, e tutte inestricabilmente legate a una figura
oscura, la sua nemesi: l'uomo in nero, Randall Flagg.
Quando Stephen King alza il sipario sulla saga, Roland è un uomo in caccia. In quanto discendente di
Eld, sa che trovare la Torre Nera è il suo destino e
il suo dovere. Sa anche, tuttavia, che deve arrivarci
prima di Randall Flagg, perché altrimenti tutto sarebbe
perduto. Flagg è il vassallo del re Rosso, creatura da
incubo che rappresenta tutto il male che incancrenisce i mondi dall'inizio del tempo. Roland ha sulle spalle
la responsabilità della sopravvivenza dei mondi come
oggi li conosciamo. Ed è un peso assai pesante da portare. Flagg deve essere fermato e il Re Rosso con lui,
a qualsiasi costo.
Tutto questo significa che Roland è l'eroe senza
macchia e senza paura delle fiabe? Ahimè, no. Roland pare uscito da un film di Sergio Leone e il tributo che King paga agli spaghetti western è lampante.
Ogni volta che entra in scena, tendendo l'orecchio si
può quasi sentire la colonna sonora di C'era una volta
il west. Lassù, ritto in cima alla collina, lo sguardo perso all'orizzonte verso la sua nemesi che fugge, Roland
ha tutti i connotati dell'eroe romantico.
Eppure il nostro è tanto eroe quanto è antieroe.
Non ha più molti scrupoli, Roland di Gilead. La vita l'ha
reso un uomo tormentato, l'ha scavato così in profondità da aver inciso rughe sul suo volto e solchi nel suo
cuore. Di Roland di Gilead sono rimasti solo gli spigoli.
È egoista, perché non è solo la ricerca della Torre
Nera a spingerlo sempre un passo più avanti. È anche
la vendetta a spronarlo, nei confronti dell'uomo che
gli ha sottratto una casa, una famiglia, e gli affetti
più cari. Per ottenerla
è disposto a tutto.
E nemmeno messo di fronte alla
scelta più crudele – il sacrificio
162
di un amico contro la possibilità di raggiungere finalmente l'uomo in nero – Roland ha alcun dubbio.
La sua missione è una sola, quella per cui è nato:
uccidere.
Mentre King dipana l'ordito multicolore di una delle
saghe fantastiche più complesse di tutti i tempi, ci si
rende conto però che Roland non è solo ciò che appare.
Senza scrupoli? Sì. Crudele? Forse. Viene da chiedersi che cos'abbia Roland di Gilead di così speciale da
renderlo il personaggio intorno al quale ruota l'intera
opera di uno scrittore, quasi quarant'anni e sessanta
romanzi; da attraversare il tempo e lo spazio, e addirittura materializzarsi nella vita stessa del suo creatore.
La risposta è che Roland di Gilead non è altro che
un catalizzatore. È anch'egli una pedina, ma quell'unica
pedina così importante da mettere in moto gli eventi.
In primis, è tramite lui che la Torre Nera richiama a
sé coloro che possono fermare il re Rosso una volta
per tutte. In secundis, gli altri personaggi della saga
ruotano attorno a Roland come pianeti attorno a una
stella. È solo relazionandosi con lui che gli altri riescono a evolversi. Il ka-tet (letteralmente “uno di molti”)
di Roland, il gruppo di cui fanno parte coloro che sono
uniti dal ka, ovvero dalla forza simile al destino che
regola le nostre vite, si rivolge a lui non solo in qualità
di leader naturale, ma anche di guida spirituale.
È un gruppo bizzarro, formato da Jake Chambers, un
ragazzino originario di una New York degli anni settanta; Eddie Dean, tossicodipendente, trascinato dalla nostra New York nel medio-Mondo di Roland da un portale misterioso; Susannah, un tempo conosciuta come
Odetta Holmes, emersa dagli anni Trenta con ben due
personalità; e Oy, il bimbolo, grazioso animaletto parlante che segue Jake come un cagnolino e ancora non
sa quanto sarà centrale il suo ruolo nella vicenda.
L'ascendente di Roland il pistolero nella vita di queste persone si rivela così importante che non solo decidono di seguirlo nella sua missione contro il tempo,
ma finiscono ogni giorno di più per assomigliargli, fino
a diventare pistoleri anch'essi.
Grazie all'influenza equilibratrice di Roland, e al suo
ferreo codice d'onore, Jake giunge a consideralo alla
stregua del padre che avrebbe voluto avere. Eddie si
libera dalle sue dipendenze e da una vita che non era
tagliata per lui, Susannah dai suoi demoni. Oy diventa
giorno dopo giorno più umano. E, in cambio, ciascuno
di Giulia
Marengo
di loro lascia qualcosa di sé a Roland, che senza accorgersene – in modo così impercettibile che quasi sfugge anche al lettore – comincia a cambiare. Non è più
l'uomo che Jake ha conosciuto nelle prime pagine del
L'ultimo cavaliere. Stando accanto al ragazzino impara
di nuovo cosa significa poter contare su qualcuno. Da
Eddie apprende il sacrificio, e da Susannah la fiducia
nella capacità degli altri. Per il tramite di Oy verrà arricchito dalla consapevolezza che fedeltà significa seguire coloro che si amano fino alla fine del mondo e
ancora oltre.
Il ka-tet rende Roland un pistolero più abile perché
un uomo migliore. Lo rende più coraggioso, più compassionevole, e quindi più umano. Roland ha macchie
e ha paure, e ne è ben consapevole. È per questo che
comprende che la sua missione ha bisogno di qualcos'altro oltre alla sua testardaggine: ha bisogno della
forza dell'”uno di molti”.
L'ultimo pistolero è rimasto solo molto a lungo perché in passato ha perso tutto, e perciò ha giurato di
non rischiare mai più. Eppure, mentre i volumi della
saga si avvicendano, Roland si accorge che solo attraverso i suoi compagni può diventare l'uomo in grado di
fermare il Re Rosso. L'aver permesso ancora una volta
che coloro che ama siano in pericolo si scontra con la
consapevolezza che senza di essi non potrebbe farcela. E loro sono altrettanto consapevoli di essere disposti a donare se stessi e il proprio futuro per consentire
a Roland di proseguire. Perché la sua sola presenza
ha cambiato le loro vite, e le ha rese migliori. È per il
tramite del ka-tet che Roland di Gilead cessa di essere
l'ultimo pistolero per diventare l'ultimo eroe.
Stephen King è un uomo misericordioso e ci concede una scelta: chiudere il libro nel momento in cui
il ka-tet si scioglie. Oppure restare con Roland e seguirlo mentre entra nella Torre Nera – e pagarne per
sempre le conseguenze. È qui che avviene il miracolo.
Perché Roland non ha cambiato solo se stesso, e il
suo ka-tet. Ha cambiato anche il lettore, che è così
acutamente consapevole della grandezza d'animo del
pistolero da non poterlo abbandonare nemmeno per
un lieto fine.
E che è disposto a seguirlo persino mentre compie
il sacrificio più grande, dal principio fino alla fine di
tutti i tempi.
Letteratura
Roland di Gilead, L'ultimo eroe
163
Il Conte Ánghelos, al confine tra menzogna e verità
di Roberta De Tomi
Quando il Vampiro cominciò a sognare
Alessia Rocchi
Casa Editrice: Alpes
Pagine: 234
Prezzo: 16,00 euro
164
Torna a essere quello di prima, Nikefóros. Torna a essere
il mio amato Vampiro”. Con queste
parole Lilith l’Orrenda, divenuta la
Misericordiosa, si appella alla pietà del vampiro, protagonista di un
notevole cambiamento. Rispetto ai
libri precedenti, (Ánghelos e Il libro
oscuro di Dracula, editi rispettivamente da Rizzoli e da Castelvecchi),
il terzo della saga ideata da Alessia
Rocchi fa irrompere il lato oscuro dell’angelo caduto; non si tratta
però della manifestazione del Male
incarnato, piuttosto, di una crudeltà che nasce dall’ineluttabilità di un
destino da cui il Vampiro non può
sfuggire.
In questo lavoro troviamo nuovi
personaggi: cinque Risurgenti, ovvero umani trasformati cui Ánghelos ha conferito il Dominio Scarlatto, e la figlia, Eleonora, frutto di
un amore impossibile. Accanto a
questi, agiscono figure già note: gli
angeli Senoy e Sensenoy, Lilith, il
Pastore, l’enigmatica figura connessa alle visioni che colgono il Conte,
accentuandone la crisi personale
e, dunque, la crudeltà. Il Pastore è
il detentore di una verità occultata,
di cui il Libro Oscuro rappresenta
la mistificazione. In realtà il confine tra menzogna e verità è labile,
Alessia
Rocchi
Nata nel 1973 a Velletri (Roma),
dopo la laurea in Lettere si è
dedicata alla scrittura. I precedenti libri della trilogia dedicata al Vampiro sono Ánghelos
(Rizzoli, 2006) e Il libro oscuro
di Dracula (Castelvecchi, 2010).
come labile è la personalità di Ánghelos. Del vampiro delineato nel
precedente libro, paradossalmente più umano dello spietato Conte
Vlad, sembrano esserci poche tracce, tanto che la Lilith che gli implora
di tornare a essere quello che era è
costretta a capitolare di fronte all’inflessibile Fato.
Si arriva dunque a una battaglia,
cui prendono parte anche Eleonora e i Risurgenti, in un inatteso capovolgimento dei ruoli, culminante
nella caduta del padre-padrone, e
nel successivo svelamento in cui si
manifesta la duplicità delle nature
angeliche/vampiresche.
Il doppio è uno dei temi toccati da
Alessia Rocchi: non il doppio concepito alla maniera del Dottor Jekyll
e Mister Hyde, ma quello presente
nel mito di Narciso, che nel rispecchiamento del sé svela la propria
alterità oltre le apparenze. In questi
accadimenti, si esprime un ulteriore
paradosso, nel quale mentre alcuni trasformati riescono a ribellarsi
alla loro non-vita, il loro demiurgo
Ánghelos resta prigioniero del proprio potere.
Per Alessia Rocchi si tratta della
conferma di una penna che ha plasmato abilmente e con competenza una materia complessa, ricca di
contaminazioni classiche. Sul finale
restano aperte alcune situazioni, in
particolare quelle relative a Eleonora, e nel momento dello svelamento
la componente onirica raggiunge il
suo apice, risultando di non semplice comprensione ai lettori più “concreti”.
Quando il vampiro cominciò a sognare rappresenta un esempio di
letteratura vampiresca che ha fatto
propria la lezione di Stoker o della Rice, pur riuscendo a pervenire
originale. Alla base del romanzo vi
è un lavoro di ricerca approfondita
su fonti storiche e mitologiche, che
hanno contribuito alla costruzione di una vicenda in stile “vecchia
scuola”, caratterizzata dalla commistione di generi diversi, arricchiti da
idee vincenti calate in una suggestiva atmosfera goth.
Letteratura
Quando il vampiro
cominciò a sognare
165
Speciale
Bicentenario
Austen
& pregiudizio
Jane
Pride & Prejudice © C Nightingale
Orgoglio
1813 - 2013
di giuseppe ierolli
L'immenso universo ristretto di Jane Austen
nel Bicentenario di Orgoglio e Pregiudizio
I
l 27 gennaio 1813, Miss Mary Benn, sorella nubile del reverendo John Benn e vicina di casa delle Austen a Chawton, ebbe
un privilegio che nei due secoli successivi le
sarebbe stato invidiato da molti: fu la prima
ad ascoltare, direttamente dalla bocca dell'autrice, la frase "It is a truth universally acknowledged, that a single man in possession of a good fortune, must be in want
of a wife" che diventerà uno degli incipit più
famosi della letteratura mondiale. Ma questo
privilegio Miss Benn non lo godette appieno,
perché non sapeva che la Miss Jane impegnata, insieme alla madre, a fornirle quello svago
pomeridiano durante una delle visite tra vicini che animavano la vita sociale del tempo,
era proprio l'autrice di quei tre volumi freschi di stampa.
Ma di quel pomeriggio abbiamo una testimonianza diretta dalla penna che aveva scritto quella frase. Lasciamolo quindi raccontare
a lei, che due giorni dopo, in una lettera alla
sorella Cassandra, a Steventon dal fratello James, scrisse:
Voglio dirti che ho avuto il mio adorato
Bambino da Londra; [...] Miss Benn era a
pranzo da noi proprio il giorno dell'arrivo
del Libro, e nel pomeriggio ci siamo completamente dedicate a esso e le abbiamo
letto la metà del 1° volume – premettendo
che essendo state informate da Henry che
quest'opera sarebbe stata presto pubblicata gli avevamo chiesto di mandarcela non
appena uscita – e credo che ci abbia creduto senza sospettare nulla. – Si è divertita,
povera anima! che non potesse che essere
così lo sai bene, con due persone del genere a condurre il gioco; ma sembra davvero
ammirare Elizabeth. Devo confessare che
io la ritengo la creatura più deliziosa mai
apparsa a stampa, e come farò a tollerare
quelli a cui non piacerà almeno lei, non lo
so proprio.
Per seguire la vicenda che aveva portato
alla pubblicazione di Orgoglio e pregiudizio
dobbiamo riandare brevemente a sedici anni
prima, quando il reverendo George Austen,
abituato a una figlia che fin da bambina aveva divertito la famiglia con racconti, sketch
teatrali, abbozzi di romanzo ecc., giudicò che
l'ultimo lavoro uscito dalla sua penna, stavolta un romanzo corposo e compiuto dal titolo First Impressions, avrebbe potuto ambire
agli onori della pubblicazione.
Il rev. Austen, però, non era evidentemente molto esperto di trattative editoriali, visto
che il 1° novembre 1797 scrisse una lettera
abbastanza curiosa a un editore di Londra,
Thomas Cadell:
Sono in possesso di un Romanzo Manoscritto, composto di tre Voll. all'incirca
della lunghezza di Eveline di Miss Burney.
Dato che sono ben consapevole di quanto sia importante che un'opera del genere
faccia la sua prima Comparsa sotto l'egida
di un nome rispettabile mi rivolgo a voi.
Vi sarò molto obbligato quindi se vorrete
cortesemente farmi sapere se siete interessati a essere coinvolti in essa; a quanto ammonteranno le spese di pubblicazione a rischio dell'Autore; e quanto sareste disposti
ad anticipare per l'acquisto dei Diritti, se
a seguito di un'attenta lettura, fosse da voi
approvata. Se la vostra risposta sarà incoraggiante vi spedirò l'opera.
Una richiesta così formulata dovette sembrare piuttosto bizzarra a Cadell, e infatti sulla lettera si può leggere declined by Return
of Post ("rifiutato a giro di posta").
Dopo questo sfortunato tentativo, il manoscritto rimase in un cassetto fino al 1811,
quando, nella ritrovata tranquillità di Chawton, Jane Austen lo riprese in mano dopo la
pubblicazione di Ragione e sentimento. Di
questa revisione non sappiamo nulla, dato
che non ci è rimasto nessun manoscritto né
del lavoro precedente, né del romanzo pubblicato.
L'unica cosa di cui siamo certi è il cambio
del titolo. Nel 1801 era stato pubblicato un
romanzo di Margaret Holford con un titolo
identico, e questa coincidenza rese necessario
169
trovarne uno nuovo. La fonte fu probabilmente un romanzo di Fanny Burney, Cecilia,
pubblicato nel 1782 e che Jane Austen aveva sicuramente letto, visto che è citato in
Northanger Abbey e in una lettera del 1809.
Nel capitolo finale di Cecilia, infatti, uno dei
personaggi riassume la morale della vicenda
ripetendo tre volte i due termini, stampati
sempre in lettere maiuscole: "Tutta questa
sfortunata faccenda [...] è stata il risultato
dell'ORGOGLIO e del PREGIUDIZIO. [...] Ma,
comunque, rammentate questo: se all'ORGOGLIO e al PREGIUDIZIO dovete le vostre
disgrazie, il bene e il male sono così meravigliosamente bilanciati che all'ORGOGLIO e
al PREGIUDIZIO dovete anche la loro fine."
Dopo aver visto come è nato questo libro
che affascina da duecento anni lettrici e lettori di tutto il mondo, dovremmo cercare di
capire la natura di questo fascino: che cos'è
che lo ha reso così longevo, che suscita la voglia di leggerlo e rileggerlo, che ha provocato
una miriade di libri che lo hanno preso come
fonte di divagazioni più o meno sensate, oltre
alle tante trasposizioni cinematografiche più
o meno esplicite, un numero forse senza confronti rispetto a qualsiasi altro classico della
letteratura? Se state leggendo questo articolo
per saperlo vi dico subito che io non lo so.
O meglio, le ragioni possibili sono talmente tante che, nel tempo, mi sono convinto
di come sia inutile elencarle, anche perché,
Jane Austen si racconta
di Giuseppe Ierolli
Editore: UTE Libri
Anno: 11 Gennaio 2013
Pagine: 142 - Formato: 15x21
Prezzo: 13,00 euro
ISBN: 978-88-6736-015-4
Giuseppe Ierolli
Ha tradotto integralmente le poesie e
l’epistolario di Emily Dickinson. Grande
appassionato di Jane Austen, ne ha
tradotto lettere e opere ed è uno dei
massimi esperti della scrittrice in Italia.
Il suo sito su Jane Austen jausten.it
Letteratura
168
Portrait of Jane Austen
(Cassandra Austen, 1810 ca.)
La Austen è uno dei pochi romanzieri
che ha davvero creato un mondo; un mondo ristretto, certamente, che
non ha la vastità degli
universi di Balzac o di
Dostoevskij, ma che può,
come estensione, gareggiare
con il mondo di Marcel Proust.
C'è questo "mondo", ristretto e insieme
esteso, in Orgoglio e pregiudizio? Sicuramente sì. Il mondo "ristretto" è quello descritto dalla stessa Jane Austen in una lettera in cui dava dei consigli alla nipote Anne,
che le aveva mandato il manoscritto di un
romanzo:
un Saggio sulla Scrittura, un'analisi critica su Walter Scott, o
sulla storia di Bonaparte – o qualsiasi
altra cosa che possa
fare da contrasto e
riportare il lettore
con un piacere ancora maggiore al
brio e allo stile Epigrammatico che la
caratterizza. Dubito sul tuo pieno
accordo con me
su questo punto conosco le tue rigide Convinzioni.
Ora stai radunando i tuoi Personaggi in
modo delizioso, mettendoli esattamente in
un posto che è la delizia della mia vita; – 3
o 4 Famiglie in un Villaggio di Campagna
è la cosa migliore per lavorarci su – e spero
che scriverai ancora moltissimo, e li sfrutterai pienamente ora che sono sistemati in
modo così favorevole.
Il mondo "esteso" è invece quello dei
sentimenti, delle riflessioni interiori, delle
vicende che ci fanno sentire di volta in
volta vicini ai personaggi del romanzo, annullando lo spazio e il tempo
che ci separa da quelle "3 o 4 Famiglie in un Villaggio di Campagna". Jane Austen tiene le fila di
ogni personaggio, man mano che
si presenta e agisce, manovrando
l'intreccio senza mai una sbavatura, incastrando perfettamente il
ruolo di ciascuno nella ragnatela
che sta tessendo.
C'è qualcosa che manca in Orgoglio e pregiudizio? Sicuramente sì, ce lo dice la stessa Jane in
un altro romanzo, quando scrive,
all'inizio dell'ultimo capitolo di
Mansfield Park:
E poi... ma
devo fermarmi.
La
redazione
di Speechless si
è
raccomandata: "Non più di
10000 battute", e
ci sono quasi. Ho
appena cominciato a seminare,
ma devo lasciare
a voi il raccolto. D'altronde poco male, il
romanzo parla da sé, e dopo aver scorso
velocemente questo articolo, festeggiate il
bicentenario con una rilettura, magari seguendo un prezioso consiglio, sempre di
Tomasi di Lampedusa:
Che altre penne si soffermino
su colpe e miserie. Io abbandono questi odiosi argomenti non
appena posso, impaziente di riportare tutti quelli non troppo
colpevoli a un tollerabile grado
di benessere, e di farla finita
con tutto il resto.
170
E quando, con una vena parodica che
prende in giro le "digressioni" così usate nei
romanzi del tempo, scrive a Cassandra, in
una lettera di pochi giorni successiva a quella in cui annunciava l'arrivo del romanzo:
Tutto sommato comunque mi sento
discretamente fiera e discretamente soddisfatta. L'opera è un po' troppo leggera,
brillante, frizzante; le manca un po' d'ombra; avrebbe bisogno di essere allungata
qui e là con qualche lungo Capitolo – pieno di buonsenso se fosse possibile, o altrimenti di solenni e speciose sciocchezze
– su qualcosa di scollegato alla trama;
La Austen è uno di quegli scrittori che
richiedono di esser letti lentamente: un
attimo di distrazione può far trascurare
una frase che ha un'importanza primaria: arte di sfumature, arte ambigua sotto
l'apparente semplicità.
E se vi capitasse di innamorarvi di Darcy
o di Elizabeth, a seconda delle vostre inclinazioni sessuali, ricordatevi che Jane Austen, dopo che la sorella l'aveva informata
del giudizio sul romanzo della nipote Fanny, le scrisse:
La sua predilezione per Darcy ed Elizabeth mi basta. Può anche detestare tutti
gli altri, se vuole.
171
Letteratura
a ogni rilettura, sembrano emergerne di nuove. È un libro amato dalle adolescenti che
sognano il principe azzurro? Sì, anche. È un
libro studiato a fondo da occhiuti accademici che cercano di svelarne i segreti stilistici?
Sì, anche. È un romanzo di formazione? Sì,
anche. È ispirato a Cenerentola? Sì, anche. È
un romanzo che fa ridere? Sì, anche. È un romanzo che porta le lettrici e i lettori a identificarsi con uno o l'altro dei protagonisti? Sì,
anche.
Avrete capito che questo piccolo gioco
potrebbe continuare a lungo, ma soprattutto che chiunque legga il romanzo, chiunque
ne rimanga affascinato, di ragioni personali
ne può trovare tantissime, e magari ragioni
che possono variare e arricchirsi nel corso
del tempo.
Ma già vedo qualche lettrice o lettore che
scuote la testa: "Ma insomma, un articolo sul
bicentenario di un libro che racconta la storia di come è stato scritto ma non dice nulla
di quello che c'è scritto?" Hai ragione, cara
lettrice o caro lettore, ho cercato di svicolare, di non assumermi troppa responsabilità;
qualcosa bisognerà pur dirla, ma se poi ti troverai a dire: "Tutto qui? Ma io queste cose già
le sapevo!" sappi che la colpa non è mia.
Nel compito di individuare qualcuna di
queste ragioni, ho però intenzione di farmi
aiutare da qualcuno, per esempio da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che, oltre ad aver
scritto Il Gattopardo, ci ha lasciato un corposo saggio sulla letteratura inglese, nel quale un capitolo è dedicato a Jane Austen.
Scrive Tomasi di Lampedusa:
Pride and Prejudice
173
N
Mr Darcy And Miss Bennet © C Nightingale
essun romanzo vanta più tentativi di emulazione e di riscrittura di Orgoglio e Pregiudizio.
Esattamente duecento anni fa, il 28
gennaio 1813, Jane Austen pubblicava il
suo figlio adorato (my own darling child),
nascondendosi sotto allo pseudonimo de
l’Autrice di Sense and Sensibility, che a
sua volta era stato scritto by a Lady (da
una Signora).
Jane Austen vendette il manoscritto di
Pride and Prejudice all’editore Egerton
per 110 sterline. Cosa avrebbe fatto, se
avesse saputo del merchandising che ai
giorni nostri ruota attorno al suo nome
e alla sua creatura; avrebbe mai potuto
sospettare che una copia della prima edizione del romanzo sarebbe stata venduta
a 140.000 sterline?
Cosa ha decretato un tale successo?
Sicuramente l’adattamento televisivo della BBC del 1995 e le trasposizioni cinematografiche del 1940 e del 2005 hanno
contribuito a incrementare la fama e il
desiderio di trarre il massimo piacere da
questo romanzo. Ma, se alle spalle degli
adattamenti per lo schermo non ci fosse
stato un valido sostegno — un romanzo che moltissime persone continuano a
leggere e rileggere in tutto il mondo —,
un successo così duraturo sarebbe stato
impossibile.
Inoltre il fenomeno dei sequel e dei
romanzi ispirati al modello di Jane Austen era cominciato ben prima della trasposizione del 1940, che vedeva Laurence Oliver nei panni di Mr Darcy e Greer
Garson in quelli di Elizabeth Bennet.
Già nel 1913, esattamente in concomitanza con il primo centenario dalla pubblicazione, Mrs. Sybil G. Brinton scriveva un
sequel del romanzo dal titolo Old Friends
di Gabriella Parisi
and New Fancies, in cui andavano a
confluire anche alcuni personaggi degli
altri romanzi di Jane Austen, come Mary
Crawford e William Price da Mansfield
Park e James Morland da Northanger Abbey.
Fin dagli anni ’20 del XX secolo Georgette Heyer si ispirò a Jane Austen per
creare i suoi Regency Romance. Da quel
momento in poi tutto il genere romance deve tributare a Jane Austen l’ispirazione per numerosissime storie d’amore,
che però lasciano il tempo che trovano,
perché Pride and Prejudice non è un romance, sebbene la storia d’amore fra Elizabeth Bennet e Mr Darcy sia il modello
su cui sono intessute molte trame di questo genere letterario.
Negli ultimi anni l’editoria è stata invasa da Austen Inspired Novels, romanzi ispirati a Jane Austen di ogni genere,
senza tuttavia esserne ancora satura. In
Italia non viene tradotta nemmeno la minima parte di ciò che è pubblicato continuamente sul mercato anglofono; spesso vengono addirittura tradotti i secondi
libri di una serie, ignorando totalmente
l’esistenza dei volumi che li hanno preceduti. È il caso di Come Jane Austen
mi ha rubato il fidanzato, di Cora Harrison, pubblicato da Newton Compton
a maggio 2012, che seguiva I was Jane
Austen’s best friend, una divertente biografia romanzata dell’adolescenza della
scrittrice, di cui i lettori italiani hanno
dovuto perdere la prima parte. O ancora
Orgoglio e pregiudizio e zombie. Finché
morte non vi unisca di Steve Hockensmith, sequel di Orgoglio e pregiudizio
e zombie di Jane Austen e Seth Grahame-Smith, che conclude la trilogia, ma di
cui Nord — che ha pubblicato entrambi i volumi — ha tralasciato di tradurre
Letteratura
il più imitato e il più continuato
Sisters © Daria Azolina
non ancora tradotto in italiano, affronta un piccolo
mistero, mentre nel recente Death Comes to Pemberley (Morte a Pemberley,
Mondadori), un mostro sacro della letteratura gialla,
P. D. James, tributa Jane
Austen con una prova di
grande ammirazione e
affetto. La James arriva a
penalizzare l’aspetto investigativo del romanzo, aggiungendo pochi personaggi a
quelli originali — dunque meno sospetti
e moventi — per concentrarsi sulle figure di Darcy ed Elizabeth, fedelissime a
quelle austeniane.
Fra i sequel più interessanti, non ancora tradotti in italiano, quelli di Monica Fairview — The Other Mr Darcy
e The Darcy Cousins — vedono Darcy
ed Elizabeth, molto simili agli originali, far posto ad altri personaggi di Orgoglio e Pregiudizio. Uno dei sequel che
ha suscitato più polemiche da parte dei
174
Letters © Daria Azolina
fan è quello della scrittrice australiana
Colleen McCullough, L’indipendenza
della signorina Bennet (Rizzoli, 2008),
che narra la storia di Mary, la terza
sorella Bennet, stravolgendo completamente i caratteri di Darcy ed Elizabeth.
Interessantissimi i retelling, che raccontano la storia da una diversa angolazione. Naturalmente i più apprezzati sono
quelli dal punto di vista di Mr Darcy. In
Italia TEA ha già pubblicato la Trilogia di
Fitzwilliam Darcy gentiluomo di Pamela
Aidan: Per orgoglio o per amore (2009),
Tra dovere e desiderio (2010) e Quello che resta (2010), che narra Orgoglio e
Pregiudizio dal punto di vista maschile,
ma con narratore esterno. In Mr Darcy’s
Diary di Amanda Grange, invece, non
ancora tradotto, a raccontare la storia in
prima persona è proprio Darcy, tramite
le pagine del suo diario. Lydia Bennet’s
Story di Jane Odiwe si focalizza sulla più
giovane delle sorelle Bennet, così come
The Bad Miss Bennet di Jane Burnett, un
sequel che esplora i vizi dell’Europa dei
primi dell’Ottocento, che Jane Austen ci
fa intravedere soltanto, attraverso i suoi
cattivi: Wickham, Willoughby, Crawford,
ecc. A proposito di Wickham, la Grange, che ha dedicato un Diario a ciascuno
dei sei protagonisti maschili dei romanzi
di Jane Austen, gli riserva un romanzo
breve, Wickham’s Diary, che racconta la
gioventù del personaggio fino all’episodio che coinvolge Georgiana Darcy.
Il Diario di Bridget Jones di Helen Fielding (Rizzoli) è stato il primo retelling in
chiave moderna, che ha aperto le porte
alla chick-lit e a tutta la Austen-craze: il
romanzo è stato scritto a puntate sull’Indipendent proprio mentre sulla BBC andavano in onda le sei puntate dello sceneggiato con Colin Firth e Jennifer Ehle
che fecero impazzire l’Inghilterra. Bridget rappresentava dunque un’Elizabeth
Bennet in chiave moderna, mentre Daniel Cleaver era Wickham e Mark Darcy
era — ovviamente — Mr Darcy. Il sequel,
Che pasticcio, Bridget Jones! (Rizzoli) è
invece un retelling di un altro romanzo di
Jane Austen, Persuasione. Un retelling in
Letteratura
Pride and Prejudice and Zombies. Dawn
of the Dreadfuls (L’alba degli abominevoli), il prequel di Hockensmith del 2010.
Uno dei generi più sfruttati è il sequel:
i lettori vogliono infatti continuare a seguire gli amatissimi Elizabeth e Darcy,
scoprendo cosa accade loro dopo la parola fine. È difficile, però, riuscire a far rivivere i personaggi della Austen in modo
che siano fedeli agli originali. Spesso si
rischia di creare una vita idilliaca insipida, talvolta si è costretti a raccontare i segreti della camera da letto, oppure si inventa una serie di problemi che i coniugi
Darcy devono fronteggiare dopo il matrimonio. Si giunge così ai sequel gialli
di Orgoglio e Pregiudizio. Carrie Bebris,
con una fortunatissima serie, che consta finora di sei romanzi, pubblicati da
TEA, ha trasformato Darcy ed Elizabeth
in detective che indagano per l’Inghilterra incrociando i personaggi degli altri romanzi di Jane Austen. Anche Pemberley
Shades, di D. A. Bonavia Hunt, il secondo sequel della storia, risalente al 1949 e
175
GLI IMPERDIBILI
Tutte le informazioni sui derivati
di Jane Austen e altri classici su:
Old Friends & New Fancies
177
Letteratura
176
chiave moderna tradotto in italiano e molto
gradevole è Il bisbetico domato di Melissa
Nathan (Dalai Editore, 2009) in cui Mr
Darcy è Harry Noble, un regista teatrale,
e Elizabeth Bennet è Jasmine Field, una
giornalista che si presta a recitare nel remaking teatrale di Orgoglio e pregiudizio
per una serata di beneficienza.
Seth Graham-Smith ideò proprio con
Orgoglio e pregiudizio il mash-up, un genere letterario che, ricopiando una grande fetta del romanzo originale, inserisce
elementi horror — in questo caso gli
zombie — creando un effetto ironico e
divertente. Da quel momento ogni genere di mostri si è infilato fra le pagine dei
romanzi di Jane Austen e anche Mr Darcy si è trasformato in vampiro: Mr. Darcy,
Vampyre di Amanda Grange (TEA 2010),
Vampire Darcy’s Desire di Regina Jeffers
e Darcy’s Bite di Mary Lydon Simonsen,
solo per citarne alcuni.
Esistono anche alcune versioni pornografiche di Pride and Prejudice: Orgasmo
e pregiudizio di Arielle Eckstut (Newton
Compton 2007), Pride and Prejudice: the
Wild and the Wanton di Jane Austen e
Michelle Pillow, che utilizza la stessa tecnica di Grahame-Smith, solo che, al posto degli zombie vengono inserite scene
hard, mentre non poteva mancare Fifty
Shades of Mr. Darcy, di William Codpiece Thwackrey.
Ormai Austen, Darcy, Pride and Prejudice e Pemberley sono delle vere e proprie parole magiche: basta inserirle nel
titolo di un romanzo per essere sicuri di
attirare l’attenzione del pubblico. Pazienza se poi la storia in questione ha davvero
molto poco in comune con Jane Austen.
La situazione in Italia è ancora piuttosto
tranquilla: il mercato non è stato invaso
da Austen Inspired Novels di ogni genere,
sebbene non tutto ciò che è stato tradotto fosse davvero meritevole. Purtroppo,
invece, ci sono moltissimi prodotti di valore che restano sconosciuti a chi non è
in grado di leggerli in lingua originale.
Forse sarebbe il caso di affidare lo scouting a chi conosce bene Jane Austen e la
sensibilità dei suoi fan.
pride and prejudice © sonny liew & MArvel
179
chi non piacerebbe riPubblicato da Hop! Edizioni a
trovarsi in un romanzo
fine novembre 2012, a meno di
di Jane Austen? Chi non
due mesi dal bicentenario dalla
vorrebbe — almeno una volta
prima pubblicazione di Pride and
nella vita — essere nei panni di
Prejudice, Lost in Austen è il gioElizabeth Bennet?
ioni! co del momento. Il fenomeno della
ongratulaz
C
è, infatti, in continua
Grazie a Emma Campbell Web- minAustenmania
e
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crescita e numerosissimi sono i
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ster oggi è possibile
Hai poravventurarsi
sequel, gli spin-off e i retelling ispifra i personaggi dei romanzi,
sesotal-la tua
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rati ai romanzi della scrittrice inglec vita di Jane Auvolta della stessa
!
e
se, primo fra tutti proprio Orgoglio
sten, giocando con il libro-game
missiondal
e
pregiudizio. Lost in Austen, però,
simbolico titolo di Lost in Austen,
pur traendo ispirazione dal capolaproprio come l’omonima serie TV
voro della Austen e dagli altri suoi
del 2008 con Jemima Rooper.
scritti, si rivela estremamente originale, con il suo percorso di lettura che segue un ordine proprio e
non quello crescente delle pagine,
quasi come la plancia di un gioco
da tavolo in cui la pedina si muove
avanti e indietro, saltando caselle o
perdendo un turno.
Scopo del gioco è sposare uno
scapolo in possesso di un cospicuo patrimonio — è una verità
universalmente riconosciuta —,
magari proprio Mr Darcy, cercando di accumulare lungo il percorso una buona quantità di punti di
Autostima, Fortuna e Intelligenza.
Lost in Austen
Emma Campbell Webster
www.hopedizioni.com
Titolo: Lost in Austen
Autore: Emma Campbell Webster
Editore: Hop!
Illustrazioni: Pénélope Bagieu
Collana: ça va sans dire
Pagine: 384
Prezzo: 21,00 euro
Codice ISBN: 978-88-97698-04-3
Formato: 14x19 cm
Letteratura
Lost in Austen
di Gabriella Parisi
A
Ma attenzione! Perché non tutte
sono Elizabeth Bennet e alcune
scelte potrebbero allontanare dalla
meta. Si potrebbe essere abbindolate dal mascalzone di turno, scegliere il partito sbagliato o, addirittura, rischiare la vita. Ma niente paura!
Si può imparare dai propri errori e
ricominciare a giocare seguendo
un diverso percorso, in un infinito
ed esilarante labirinto di situazioni,
sempre immersi nell’atmosfera Regency dei personaggi austeniani.
Impreziosito dalle vignette della giovane disegnatrice francese
Pénélope Bagieu, che enfatizzano
l’ironia delle situazioni create da
Jane Austen, Lost in Austen garantisce grande divertimento, che lo si
E’ una
veritda
à soli o in compagnia.
giochi
universa
lmente
riconosc
iuta
che una
giovane
eroina d
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Jane A
usten
debba
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i
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ito, e tu
...
non fai
eccezio
ne
di Corrado PEperoni
Tra narrazione e gioco
M
ettiamola semplice, nella narrazione
transmediale (o transmedia storytelling) i vari segmenti della storia sono
diffusi attraverso canali mediali diversificati. Esiste solitamente una dorsale narrativa principale
(la serie tv nel caso dei franchise Lost e 24, i film
per il grande schermo nel caso di CloverField e
Avatar) alla quale vengono affiancati contenuti
ulteriori, distribuiti attraverso altre piattaforme
mediali, che contribuiscono a espandere nel tempo e nello spazio diegetico, ma anche in quello
reale in cui si muove lo spettatore, l’universo
“finzionale”. Queste narrazioni espanse su più
media sono sempre più numerose e non è un
caso che la stessa Producer Guild of America abbia inserito la figura del Transmedia Producer nel
suo code of credits.
In un contesto di questo tipo cambia in maniera fondamentale il ruolo del pubblico, che rispetto a quanto avviene in contesti narrativi più
tradizionali – in cui è fondamentalmente passivo,
e attivo solo in termini di rielaborazione immaginifica ed emotiva – è chiamato a una sorta di
rincorsa, di ricerca, di esplorazione anche fisica
dell’universo “finzionale”.
L’elemento ludico assume quindi un rilievo sostanziale da molteplici punti di vista. Se l’engagement del fruitore – l’engagement per usare uno
di quei termini must che periodicamente colonizzano questa, e non solo questa, area di studio – è
già un elemento di contatto con il mondo del gioco, che per definizione assegna un ruolo attivo a
chi vi partecipa in prima persona, gli elementi di
ibridazione sono ancora più diretti e sostanziali, e
183
l’Alternate
Reality Game
(Arg) è forse il prodotto che, solitamente inserito in ben più ampie saghe transmediali,
meglio riesce a sintetizzare questa tendenza.
Come lascia intuire il nome, l’Arg è un intrattenimento ludico che usa i diversi livelli di realtà che
attraversiamo nella nostra quotidianità – spot o
cartelloni pubblicitari, fiction televisive, film per
il grande schermo, siti web, social network, blog,
mail, attori e attrici con cui interagire al telefono, online o nel mondo reale – per veicolare
l’esperienza di gioco. Caratteristica distintiva di
un Arg è quindi quella di alternare fasi del gioco
su diversi piani di esistenza: virtuale, mediata o
immediata. Gli Arg si sostanziano spesso in misteri, cospirazioni ed enigmi che i giocatori devono risolvere muovendosi tra una molteplicità di
siti, profili Twitter, Facebook, ma anche offline,
in una meccanica ludica solitamente ispirata a
la
serie anche negli
intervalli temporali tra una stagione e
la successiva. Ad esempio nel
caso di TLE, che si è svolto tra la fine della seconda e l’inizio della terza stagione della serie televisiva, la ricompensa per chi vi ha partecipato
direttamente è stata lo svelamento del significato della famosa sequenza numerica 4 8 15 16 23
42 (l’equazione di Valenzetti), rimasta invece avvolta nel mistero per chi ha seguito solo la serie
televisiva.
Per Cloverfield, come prologo narrativo-promozionale in vista del più o meno imminente
lancio del film, vennero creati una serie di profili
myspace (eravamo nel 2008!) relativi a personaggi che poi sarebbero confluiti nel film, come
pure siti web di aziende e istituzioni in qualche
modo legate alle vicende future della pellicola.
Chi avesse partecipato a questa sorta di caccia
tra tutti questi indizi dispersi in rete avrebbe scoperto la successione di eventi alla base del risveglio del mostro che poi si sarebbe visto seminare
distruzione sul grande schermo.
Quelli citati sono solo alcuni dei molti esempi
possibili, ma la tendenza all’inserimento di elementi ludici all’interno di prodotti fondamentalmente narrativi è sempre più diffusa. E se è vero
che c’è molta letteratura, o comunque molto dibattito, intorno al ruolo dello storytelling all’interno del videogame, ce n’è molta meno dedicata al
crescente ruolo del gaming in contesti fin qui più
classicamente narrativi, come quelli appunto dei
prodotti librari, cinematografici e televisivi.
Piaget individuava nella fase del gioco simbolico un periodo nel quale il bambino impara a
rappresentarsi situazioni immaginarie che, unitamente all’esercizio del linguaggio verbale, si concretizzano talvolta in un’attività creativa autonoma, legata al racconto e al piacere di narrare.
La tipica premessa metacomunicativa di questo
tipo di giochi, ‘Facciamo che ero/eri…’, colloca
l’azione in uno spazio e in un tempo altri; immerge il bambino in un mondo possibile diverso da
quello reale, allo stesso modo del classico incipit
delle fiabe tradizionali: C’era una volta. In altri
termini il gioco è sin dall’origine legato a doppio
filo al racconto, al raccontare, al raccontarsi, e
quella tra narrazione e gioco è quindi una relazione profondissima, che non deve essere, come
a volte avviene, dimenticata. Come sintetizza efficacemente Peppino Ortoleva, ordinario all’Università di Torino e tra i massimi storici dei media
italiani*: «la distinzione tra narrazione e gioco è
radicata nella nostra cultura […]ma non c'è una
reciproca esclusione sul piano concettuale […]
C'è un magnifico e famosissimo brano in cui Vico
afferma – in estrema sintesi - che il mito nasce
dal fatto che i bambini parlano ai loro giocattoli.
[…] Barbie non è un gioco con racconto incorporato? Sappiamo chi è il fidanzato, chi è la sorella,
conosciamo la sua casa, quindi ha una storia (la
bambola tradizionale non ha un passato perché è
più bambina del bambino che ci gioca). Da allora
il business del giocattolo è un business narrativo. D'altra parte il racconto va in direzione ludica non solo nel videogame. Da anni mi interrogo
sul perché il giallo sia passato dalla soluzione di
un enigma (già il più ludico dei modelli narrativi)
alla descrizione di una partita, quella giocata tra
cinema & serie tv
182
Il transmedia
storytelling
quella delle cacce al tesoro. Se non possono più
essere considerati entertainment per un pubblico
geek, gli Arg rimangono ancora, essenzialmente,
un prodotto di nicchia. Il crescente utilizzo che se
ne fa in blockbuster hollywoodiani (per inciso il
primo Arg di grande successo era legato ad A.I. –
Intelligenza Artificiale, del 2001) e in serie televisive di culto sta però svolgendo un ruolo decisivo
nell’avvicinare agli Arg un pubblico mainstream.
Così, alla serie televisiva Lost sono stati affiancati tre diversi Arg: The Lost Experience (TLE),
Flight 813 e Dharma, il cui scopo fondamentale è stato quello di
tenere desta l’attenzione e il
coinvolgimento
sul-
184
185
Italiana), nel corso del Fiction Day 2011 ha proposto di denominarle Ludic Transmedia Storytelling, evidenziando, ma con accenti critici, il grande rilievo ricopertovi dall’aspetto ludico. In una
sua recente intervista, tornando sull’argomento,
la Buonanno ha dichiarato che: «[…] la narrazione, l’atto del narrare, ha delle caratteristiche
ben precise. […] Ci dobbiamo chiedere quale sia
il reale posto che la narrazione deve occupare in
prodotti transmediali […]. Io ritengo che queste
nuove forme siano più spostate verso la dimensione ludica, che è anche quella che richiede
una maggiore attività proprio nel senso del fare.
Trovo tuttavia che la normale esperienza, quella tradizionalmente legata alla fruizione di una
narrazione richieda da sempre una grandissima
attività, che è quella intellettuale ed emotiva,
che sono due cose straordinarie […] io stento a
credere che questa agency, questa chiamata al
fare sia più importante, significativa, innovativa
e rivoluzionaria della profonda attività intellettuale e dei profondi sommovimenti emotivi che
l’abbandonarsi alla letteratura e ad altre forme
di narrazione tradizionale, seriali o meno, hanno
saputo suscitare fin qui […].*»
Ma al di là dello sguardo più o meno critico nei
confronti del Tst, ciò che sembra essere condiviso
è quindi proprio il fatto che l’elemento ludico vi
assuma un ruolo fondamentale, seppur non inedito in sé perché nel Tst non c’è una sostanziale
discontinuità con il passato. Tuttavia alcuni elementi ludici che nelle narrazioni tradizionali erano
in potenza, ora si concretizzano, e quelle che erano le passeggiate inferenziali descritte da Eco nel
suo Lector in Fabula, diventano ora esplorazioni,
cacce al tesoro reali.
L’analisi, la classificazione, la produzione del
transmedia storytelling possono quindi trovare
un valido ausilio nell’utilizzo di un frame interpretativo che tenga debito conto della commistione
tra elementi narrativi ed elementi ludici, la cui
giusta alchimia è fondamentale affinché lo spostamento e la distribuzione diegetica su media
diversi non diventi pura maniera, ma anche per
*Le dichiarazioni di Milly Buonanno, Peppino Ortoleva allargare gli orizzonti di ricerca, sottolineare gli
e Guglielmo Pescatore sono tratte da interviste per elementi di continuità con il passato ed evitare
il rischio, sempre in agguato, del determinismo
il cui testo integrale si rimanda al sito:
crossmediapeppers.wordpress.com
tecnologico.
cinema & serie tv
il detective e il serial killer…»
Il Tst diventa quindi una declinazione, ai tempi
della pervasività digitale, di questo legame ancestrale tra gioco e racconto. Se poniamo questi
due concetti, distinti ma non disgiunti, all’estremità di un asse, possiamo quindi immaginare che
il Tst, pur decentrato verso il polo narrazione, si
ponga in un’area intermedia.
All’interno del Tst, per come lo si è osservato sin qui, esistono poi diversi pesi reciproci tra
componente ludica e componente narrativa. Così,
ad esempio, nel caso di Buffy la transmedialità
sembra essere un mero cambiamento di canale
distributivo (le prime sette stagioni sono serie
televisive, l’ottava è una serie a fumetti) dovuto
a considerazioni di carattere economico-produttivo. In Lost l’elemento ludico, per la presenza degli
Arg citati ma anche per la struttura a enigmi della
serie televisiva in se stessa, assume invece un
rilievo crescente. La componente ludica si fa poi
pervasiva in prodotti come Pandemic 1.0 – del
transmedia guru Lance Weiler – in cui la storia
diventa agente attivatore di un evento ludico collettivo.
Secondo Guglielmo Pescatore, ordinario di
Semiotica dei media e Teoria e tecnica dei nuovi
media presso l’Università di Bologna «la questione del gaming, della gamification, mette in luce
esattamente questo: non si tratta più di fare riferimento a modelli di narrazione tradizionali, ma
a modelli di interazione in cui ci sono elementi
narrativi forti. In altri termini il contesto è sempre
più spesso quello di una fruizione ludica piuttosto
che quello di una fruizione narrativa in senso letterario, della tradizione romanzesca, ad esempio.
Che storia racconta Lost? . Non racconta nessuna storia: se noi lo prendiamo come un romanzo,
molto semplicemente non funziona, non è quello,
non possiamo adottare quel tipo di frame interpretativo*»
Il Tst dovrebbe quindi essere strutturato, e
analizzato, come un’esperienza modulare, in cui il
pubblico debba poter scegliere un diverso livello
di coinvolgimento, da quello di semplice spettatore a quello di attore/giocatore.
Non mancano comunque le voci critiche, che
non condividono, né auspicano, la diffusione
di queste narrazioni espanse. Milly Buonanno, responsabile dell’OFI (Osservatorio Fiction
RUBIK GIRL NEW COLOR 2 © Javier González Pacheco
L’Amore
di Andrea Veglia
secondo Michael Haneke
C
he la società occidentale abbia rimosso
la vecchiaia, la malattia e la morte dal
proprio orizzonte concettuale è un dato
consolidato, sul piano sia sociologico sia culturale.
L’amore poi viene rappresentato come sentimento
realizzabile esclusivamente in gioventù, nel momento di fioritura della vita, all’incontro tra giovinezza e bellezza. Prova ne è che il vecchio innamorato – innamorato qui è da leggersi in accezione
sessuale – è sempre oggetto di riso, su una linea
di continuità che unisce Plauto a Moravia.
Si pensi perciò un istante al meno frequentato dei nessi: l’amore durante la vecchiaia, quando
all’orizzonte si affacciano malattia e morte. Viene
in mente una storia che unisca questi due elementi, e soprattutto che non faccia ricorso all’ambigua
arma dell’ironia? Secondo me si farebbe una certa
fatica, perché i casi in cui due personaggi brutti (brutti qui e ora, forse belli in passato, ma ora
ridotti a memoria sbiadita di se stessi) si amano
(e con questa frase intendo “amore” in
senso vero, non filtrato dalla parodia, dal
comico o dal pietismo) sono pressoché
inesistenti. Ancora più indicativo di questa tendenza all’ironia sull’amore in età
avanzata è il finale delle fiabe: “E vissero
felici e contenti”. Personalmente mi sono
sempre posto il problema del dopo: terminate le avventure con draghi e pirati,
sarebbe sopraggiunta la routine, o come
per Ulisse dopo il ritorno a Itaca sarebbero seguite altre avventure, data l’eterna
abitudine di continuare l’esistenza come
se la fine non esistesse? Il sentimento
di tutti è racchiuso negli splendidi versi
finali dell’Ulysses di Tennyson: “Made
weak by time and fate, but strong in
will | To strive, to seek, to find, and not
to yield”. Certo, la volontà è infinita, ma
il corpo, si sa, decade inevitabilmente.
Eppure qualcuno che narri la dolcezza di
una raggiunta vecchiaia – pur devastata dalla malattia – esiste ancora.
A scoperchiare il vaso di Pandora, offrendoci
un film che non esiterei a definire sconvolgente,
ha pensato Michael Haneke, regista austriaco
già apprezzato per Funny Games (1997, e remake
nel 2007), Niente da nascondere (2005) e il Nastro bianco (2009). Trionfatore a Cannes 2012 con
l’assegnazione della Palma d’Oro, e candidato al
premio come migliore film straniero, Amour non
dà una facile lettura degli sconvolgimenti che una
malattia improvvisa – un vero e proprio piombare
dell’inferno all’interno di una serena vita borghese
– provoca, ma rappresenta il decadere fisico del
corpo in un modo crudo e senza spiegazione.
Un ictus lascia Anna paralizzata in metà del
corpo, ma presto la malattia si aggrava, spegnendo la sua lucidità. L’impossibilità di capire e accettare la malattia e la sola possibilità di viverla
con accettazione sono al centro di un’estetica che
rifiuta ogni spettacolarizzazione o patetismo. George e Anne (interpretati dagli straordinari JeanLouis Trintignant ed Emmanuelle Riva) continuano
una dolorosa forma di sopravvivenza, pur in un rapporto di crescente dipendenza di Anne da Georges.
L’accettazione di quest’ultimo è commovente: a
tratti rasenta a sua volta una straniata lontananza.
Movimenti di camera minimi e musiche quasi
assenti – Anne era una pianista, e il gesto di Georges di spegnere la musica sullo stereo rappresenta
la fine di tutto. Claustrofobicamente girato in interno, Amour rende l’appartamento unico spazio:
la camera da letto, il bagno, il salotto con il piano.
Rarissime le visite. La vita si ripiega su se stessa,
sugli unici ambienti quotidiani ancora gestibili, su
quelle azioni che, ripetute, danno ancora il senso
di essere vivi.
“Brutalità” potrebbe essere la parola adatta a
descrivere un film che letteralmente esplode davanti agli occhi dello spettatore: forse Amour è
iscrivibile davvero nel topos della catabasi, nella discesa al regno dei morti, perché nessuno è
in grado di capire davvero il malato, e quando la
lucidità viene meno è il malato stesso a cadere
nell’incapacità comunicativa. Questa impossibilità
conoscitiva – o, in termini più sofisticati, lo scacco
gnoseologico – davanti alla sofferenza di una persona amata è esplicitato già nel trailer di Amour
dal personaggio della figlia (Isabelle Huppert), che
per due volte ripete “Ma che succede qui?”, e nel
film stesso quando, davanti a una madre ormai assente, parla di questioni di eredità, della banalità
più sconfortante. E l’incomprensione tocca il suo
apice davanti ai maltrattamenti di un’infermiera
187
incapace di empatia, cacciata da Georges con l’augurio di essere trattata in vecchiaia proprio come
lei ha trattato Anne.
Un atteggiamento verso malattia e morte così
lucido e spietato non può e non deve garantire la
consolazione di una morte serena, perché lo stoicismo di Georges non può andare oltre la sua condizione di essere umano. La domanda filosofica
“quanto dolore può sopportare un uomo?” trova
risposta, ma non nella propria sofferenza, quanto
nel vedere scomporsi e alienarsi di ciò che si amato
tutta la vita. La morte data ad Anne e a se stesso è
come un dono. La vita irromperà nell’appartamento solo con l’irruzione della polizia, quando il rito
di isolamento dal mondo – nastro adesivo a porte
e finestre, liberazione dei colombi (unico elemento
esterno) – è ormai completato.
Amour, se girato con meno destrezza, avrebbe
potuto sfociare in un morboso autocompiacimento
davanti al disfarsi della vita e dei rapporti umani,
ma così non è; e il risultato è drammaticamente
più sconvolgente.
cinema & serie tv
186
H
ollywood vende sogni.
Quella fabbrica delle meraviglie che è il cinema
ci regala emozioni, di cui ormai
non possiamo fare a meno. Storie originali che ci appassionano
ma anche film che prendono vita
grazie a romanzi entusiasmanti.
Da quando esiste la settima
arte, si è sviluppato infatti anche
il binomio cinema-letteratura.
Molti sono i lungometraggi tratti dai libri, tant'è che persino gli
Oscar distinguono le sceneggiature originali, ovvero ideate e
scritte dallo sceneggiatore e/o
regista, da quelle non originali,
ossia tratte da romanzi. Mentre
fino a un decennio fa, c'era un
certo equilibrio fra film originali
e non, ultimamente la bilancia
pende verso i film ispirati alla
carta stampata. Come mai questa disparità? Forse la fabbrica
dei sogni sta esaurendo le idee?
Forse la fantasia degli sceneggiatori si è impigrita? Oppure c'è
dietro una semplice ragione di
marketing?
Qualunque sia la motivazione,
per uno sceneggiatore è un compito non indifferente: una sceneggiatura non ha gli stessi ritmi
di un romanzo. In uno script cinematografico si devono trasformare emozioni e sentimenti in
immagini e, talvolta, in dialoghi.
Dare maggiore enfasi al confronto tra protagonista e antagonista
e, molte volte, dare maggior risalto e carattere proprio al cattivo,
per meglio motivare le reazioni e
le ragioni dell'eroe.
Sicuramente ogni libro è un
caso a parte. Alcuni nascono già
cinematografici, perché raccontano una storia forte e hanno un
senso delle immagini molto spiccato. È molto facile immaginare
un Steven Spielberg che ha fra
le mani Jurassic Park oppure E.T.
L'extra terrestre e, intanto, pensa
che sarebbe dannatamente semplice trasformare quelle storie
in funzione del grande schermo.
Viene da sé. È naturale.
Discorso differente per l'ambito marketing. Spesso capita
che libri di successo, best sellers,
vengano scelti non tanto per la
storia, quanto per un investimento dato vincente. Tanti sono
i produttori che gareggiano per
accaparrarsi l'ultimo libro in vetta alle classifiche di vendita. E,
negli ultimi anni, si nota una vera
e propria corsa verso il primo posto. Si pensi a tre fenomeni letterari degli ultimi anni: Harry Potter,
Twilight e 50 sfumature di grigio.
Nel primo caso, seppur si fosse
subodorato il potenziale filmico
del maghetto, i produttori hanno aspettato che la fama della
9
8
1
188
Rowling si consolidasse negli
anni. Già con Twilight si nota la
differenza: la distanza fra la pubblicazione del libro e l'uscita del
film è minore. Infine col romanzo
della James, mentre il libro era
ancora fra le prime settimane
di vendita, già si parlava del papabile cast, che avrebbe potuto
prestare il volto ai protagonisti
della trilogia. Insomma sta diventando una corsa al denaro,
più che alla voglia di raccontare
una storia affascinante.
Di certo, tutto è già stato
scritto: la lotta fra bene e male,
amori impossibili a volte finiti in
gloria, altri nella tragedia. Basti
pensare al teatro dell'antica Grecia: racconti di vendetta e morte,
di rivendicazione e rivalsa. I film
e i romanzi di oggi non parlano
anch'essi sempre e solo di questo?
Quello di cui, ultimamente,
scarseggia il cinema sono le
diverse modalità di racconto. I
personaggi, le ambientazioni o
il ritmo della storia: questi sono
gli elementi da modificare. Tuttavia, mentre guardiamo i trailer,
ci accorgiamo di soffrire di déjà
vu continui: è tutto già stato visto troppe volte. Sembra quasi
che gli sceneggiatori si siano
impigriti. È fuor di dubbio che sia
più facile prendere un'idea già
pronta e confezionata e adattarla per il grande schermo,
piuttosto che partire da nuove
idee. Così facendo, però, questa
indolenza sta crescendo; come
i muscoli, anche la fantasia ha
continuo bisogno di allenamento
e, senza di esso, l'immaginazione si arena. Invece di andare in
palestra e faticare, gli sceneggiatori ricorrono ai macchinari
rassodanti, che fanno il lavoro
per loro, alias gli scrittori. Forse
la vecchia guardia dovrebbe lasciare il posto a menti più giovani, più fresche, più creative, che
diano nuovo lustro al cinema.
I film rispecchiano l'era nella
quale vivono i suoi fruitori e le
loro speranze o paure: il neorealismo raccontava la crisi del
dopoguerra, la fantascienza degli anni '70-'80 di futuri lontani
e macchine incredibili. Forse i
remake nascono da qui, dal nostro desiderio di certezze. Nella
nostra epoca, in cui crisi e incertezza sono sulla bocca di tutti,
abbiamo bisogno di sicurezze
date da storie che già conosciamo. Persino le fiabe, seppur
raccontate sotto una nuova luce
dark (Cappuccetto Rosso Sangue, Beastly, Hansel e Gretel),
cinema & serie tv
La crisi
delle idee
nel cinema
di Elena Mandolini
rientrano in quel filone. Quelle
fiabe spaventavano ma rassicuravano, perché finivano sempre
con un lieto evento. I mostri venivano uccisi, i nemici sbaragliati e gli eroi tornavano a casa. I
film di oggi sono le nostre favole
della buonanotte?
Vi è infine un caso particolare, un sottogenere che vede
una profonda unione fra cinema
e letteratura: quando l'opera filmica nasce in contemporanea
al romanzo. Ciò è accaduto sia
con 2001 Odissea nello spazio
di Stanley Kubrick, il cui romanzo omonimo di Arthur C. Clarke
uscì assieme al film, oppure al
più recente Cappuccetto Rosso
Sangue, dove il romanzo è nato
proprio sul set del film.
Svariati sono i motivi di questa crisi delle idee e, qualunque
sia la ragione, la conclusione è
sempre la medesima: la letteratura è la linfa vitale del cinema.
190
un mito tra finzione e realtà
“F
umo, sudore: alle tre del mattino
l’odore di un casinò dove si gioca
forte è nauseante. Sarà l’odore, o il
fumo, o il sudore. Di fatto, il logorio interiore
tipico dell’azzardo – un misto di avidità, paura
e tensione – diventa intollerabile. I sensi si risvegliano e si torcono per il disgusto”. Con queste parole Ian Fleming introdusse per la prima
volta il personaggio di James Bond, agente segreto – nome in codice 007 – al servizio della
Gran Bretagna nel romanzo Casinò Royale.
Per capire 007 bisogna considerare con attenzione l’ambientazione di Casinò Royale:
siamo in Francia, nel lussuoso casinò di Royale-les-Eaux, un’immaginaria località di mare
frequentata da milionari e viveur. Siamo nel
1953, in piena guerra fredda, Bond dopo un
paio di omicidi per conto dell’MI6, i servizi segreti britannici, è diventato un agente “doppio
zero”, il che significa che ha licenza di uccidere.
Si trova a Royale perché è un abile giocatore di
Baccarat e la sua prima missione importante è
di sbancare il sindacalista corrotto Le Chiffre
il quale fa la bella vita con i soldi dell’Unione
Sovietica.
Per aiutarlo l’MI6 gli affianca un agente di
supporto, una donna di nome Vesper Lynd. Il
Deuxième Bureau, i servizi segreti francesi, collaborano mettendo al servizio di Bond l’esperto
agente René Mathis. La Cia manda sul posto
l’agente Felix Leiter con fondi aggiuntivi per finanziare le giocate di Bond. Le cose però non
vanno come previsto e 007 sopravvive per miracolo alla tortura e alla castrazione.
Questi elementi e questi personaggi costituiranno il canone noto a tutti del personaggio
di James Bond. In Casinò Royale però 007 è
diverso da come lo conosciamo: è un giovane
Bond… James Bond © Megan Chandler
di Andrea cattaneo
agente che tenta di soffocare i dilemmi morali
per gli omicidi appena commessi con il lusso
e il cinismo, è ancora, per così dire, umano.
Alla fine del romanzo diventerà una “splendida
macchina” amorale ed efficiente.
La causa di tutto è Vesper Lynd, la donna
a cui 007 chiede di sposarlo, che muore dopo
averlo tradito e lo condanna a rimanere bloccato per sempre in un loop fatto di missioni
omicide, bellissime amanti dal destino segnato
(le famose bond girl), soldi, macchine di lusso,
alberghi costosissimi e tantissima solitudine. A
molti potrà sembrare una piacevole “condanna”, e in effetti Bond si sforza di farla apparire
così, ma una gabbia dorata rimane pur sempre
una gabbia. In Casinò Royale assistiamo alla
genesi di un eroe che ha compiti da psicopompo, poiché la sua missione consiste nel dare la
morte ai nemici della Patria. Ci sono, nel personaggio 007, caratteristiche che ricordano i miti
classici: ha il diritto di togliere la vita, ma la
vita gli è preclusa perché tutto ciò che tocca si
consuma, a cominciare dalle sue amanti.
Circondarsi con avidità degli elementi più
effimeri della vita fa parte della sua “messa in
scena”, è il fascino di Thanatos che da sempre
si accompagna a Eros.
Il papà di 007, Ian Fleming, non è meno enigmatico della sua creatura letteraria. Sulla copia
di bozze di Casinò Royale Fleming aveva annotato: «Scritto per distrarmi da altre faccende».
Quali fossero queste “altre faccende” è difficile da dirsi. Di sicuro sappiamo che la storia editoriale di 007 è cominciata anche grazie a 1984
e a Jonathan Cape, titolare dell’omonima casa
editrice ora parte del gruppo Random House.
Cape, scottato per aver rifiutato il successo
cinema & serie tv
191
192
193
La ricetta del perfetto Vesper Martini
Il cocktail preferito da 007 è un Martini piuttosto impegnativo, adatto a un uomo tutto d’un pezzo come lui e preparato con l’ossessiva
cura per i dettagli che contraddistingue il personaggio. Bond spiega
per la prima volta come prepararlo correttamente a un cameriere del
Casinò di Royale: si tratta di un Martini dry, composto da tre parti di
Gordon’s, una di vodka, e mezza di Kina Lillet, va agitato bene il tutto
nello shaker, finché non è ben ghiacciato, servito in una coppa profonda da champagne con l’aggiunta di una fetta grossa ma sottile di
scorza di limone. Il nome del cocktail “Vesper Martini”, che seguirà
007 in tutte le sue avventure, è un omaggio che Bond ha voluto fare
alla signorina Lynd.
Subito dopo la firma del contratto con Cape,
Fleming fondò la Glidrose Productions (oggi Ian
Fleming Publications), una società editoriale
nata con il compito di amministrare gli oneri derivati da Casinò Royale e degli altri libri
di 007. Il passo successivo fu la ricerca di un
editore americano perché, come Fleming stesso dichiarò al suo amico Ivar Bryce, intendeva
«spremere da questo libro ogni stramaledetto
centesimo che mi può dare».
La leggenda un po’ kitsch di Fleming – lo
scrittore che si ritirava ogni anno, sei settimane all’anno, in Giamaica, in una villa ribattezzata “Goldeneye” per scrivere i romanzi di
007 – è nota a tutti. Pochi però sanno che nel
passato di Fleming c’era stato anche un vero
tentativo fallito di organizzare una sfida a Baccarat, a Lisbona, per sbancare dei ricchi nazisti.
In tempo di guerra Fleming era uno degli uomini più potenti dell’Ammiragliato, e concepì
piani di controspionaggio diventati leggenda. Il
più famoso prevedeva di catturare un bombardiere Heinkel, farlo ammarare con dei commandos travestiti da ufficiali Luftwaffe che avrebbero dovuto catturare il battello di soccorso
tedesco e impadronirsi della machina Enigma
di cui era fornito. Episodi di questo genere
sono piuttosto frequenti nella biografia dell’autore inglese, tanto frequenti da domandarsi se
sia l’ombra di Bond a proiettarsi su Fleming, o
forse se sia vero il contrario. Una cosa è certa: né Bond, né Fleming sono fatti per rimanere
confinati in un unico mondo, non importa se sia
quello della realtà o quello della fantasia.
La storia letteraria di 007 è continuata anche dopo la morte di Fleming, avvenuta nel
1964, sotto l’egida della Ian Fleming Publications che si è occupata della selezione degli
autori a cui affidare le sue avventure. L’ultimo
prescelto è William Boyd (noto in Italia per il
romanzo Brazzaville Beach, edito da Frassinelli), ma tra i ghost writer di 007 figura anche
Jeffrey Deaver (Carta bianca, Rizzoli 2011).
Alla “linea principale” delle avventure di Bond
si sono affiancate due collane: la prima, nata
sull’onda del successo di Harry Potter, è dedicata al giovane James Bond (Young Bond, pubblicata in Italia da Mondadori), la seconda è
cinema & serie tv
letterario di Orwell, concede al manoscritto di
Fleming molta attenzione. I due si accordano
per una prima edizione di 4.789 copie contro le
10.000 suggerite da Fleming che però impone
la famosa copertina con i cuori e l’iscrizione “A
whisper of love – A whisper of hate” ripresa
anche nell’ultima, edizione italiana curata da
Matteo Codignola (la traduzione è di Massimo
Bocchiola) per Adelphi.
Già ai tempi di Casinò Royale, Fleming
sapeva di avere per le mani un personaggio
molto vicino ai grandi personaggi seriali della
letteratura britannica, in parole povere una
miniera d’oro.
194
dedicata alle lettrici e racconta le peripezie del
personaggio di Moneypenny (The Moneypenny
Diaries, al momento inedita in Italia).
È con il cinema però che 007 ha dato i migliori
risultati dal punto di vista commerciale. Le pellicole “ufficiali” sull’agente segreto britannico
sono 23, si parte nel 1962 con Licenza di uccidere in cui 007 ha il volto di Sean Connery e si
arriva al 2012 con Skyfall, pellicola nella quale
Bond è interpretato da Daniel Craig. Il successo di 007 va di pari passo con il successo delle
aziende che hanno fatto a gara per comparire in una storia di Bond. Augusta Westland,
Aston Martin, Bollinger, Coca-Cola, Heineken,
Omega, Sony electronics e mobile, Swarovski,
Tom Ford, Activision, Metro Goldwyn Mayer,
tutte queste aziende sono partner ufficiali del
media franchise 007 James Bond.
All’inizio della saga era Fleming a saccheggiare la realtà per caratterizzare il suo eroe,
ora è il contrario: la realtà impone a Bond di indossare un certo orologio, di guidare una certa
macchina o di bere una certa bevanda. Questo
“scambio” è cominciato già nel 1952 e questo
fa di 007 uno dei pionieri della moderna crossmedialità.
Un esempio di questo tragitto, dalla fantasia alla realtà e ritorno tipico di 007, ci viene
fornito dall’auto di Bond. Nel romanzo Casinò Royale guida «una delle ultime Bentley
da quattro litri e mezzo, equipaggiata con un
compressore Amherst Villiers». Dalla Bentley che si è comprato seminuova è passato
all’Aston Martin, prima alla DB5 poi alla Vanquish, e questa partnership commerciale ha
contribuito nel 2002 grazie al film 007 La morte
può attendere a risollevare le disastrose vendite della casa automobilistica.
Nel 1957 in un’intervista John Fitzgerald
Kennedy aveva dichiarato di considerare il
quinto romanzo della serie 007, Dalla Russia
con amore uno dei due libri che andrebbero
salvati da un disastro nucleare (l’altro era Il
rosso e il nero di Stendhal). L’importanza politica di 007 è sempre stata chiara fin dal principio: Bond, oltre che una gallina dalle uova
d’oro, è un simbolo nazionale inglese al pari di
195
Sherlock Holmes o di Peter Pan. Di recente anche un osservatore pungente della società inglese come Alan Moore ha voluto inserire 007
nella graphic novel La Lega degli Straordinari
Gentlemen nel pantheon dei personaggi simbolo, nel bene e nel male, dell’Inghilterra.
La prova ulteriore dell’importanza di Bond
nell’immaginario occidentale l’abbiamo avuta
alle Olimpiadi di Londra quando Daniel Craig
ha scortato nei panni di James Bond la regina
Elisabetta alla cerimonia inaugurale in un corto circuito tra realtà e finzione che ha lasciato
molti senza parole. Anzi, per la precisione ha
lasciato solo tre parole:
Bond, James Bond.
cinema & serie tv
James Bond Montage © Old Red Jalopy
di Roberto gerilli
I
197
l legame tra cinema e letteratura è sempre stato
molto stretto. Numerosi romanzi sono stati adattati per il grande schermo, anche se non sempre
con ottimi risultati. Una delle trasposizioni più attese era sicuramente quella di On The Road, romanzo
scritto da Jack Kerouac nel 1951 (ma pubblicato solo
nel 1957) e considerato il manifesto di un'intera generazione, quella beat ovviamente.
Di un possibile adattamento per il cinema se ne
parlava fin dai tempi dell'esordio letterario, quando
Kerouac stesso propose a Marlon Brando di lavorare
assieme per un adattamento. Questo fu solo il primo
di una lunga serie di tentativi che nel corso dei decenni registi, produttori e attori vollero fare per confrontarsi con l'Impresa. Già proprio così, scritto con
la maiuscola. Perché trasformare On The Road in un
film significava imbrigliare la forza immaginifica scatenata dalla prosa di Kerouac in una pellicola che, per
la natura stessa del cinema, doveva essere molto più
reale e realistica.
On The Road non è un romanzo che ha bisogno
di grandi effetti speciali, ma ha un'anima viva, scatenata, difficile da imbrigliare, un'anima composta da
giochi di parole, frasi evocative e ritmo jazz, un'anima irrequieta e ambiziosa come la generazione che
rappresenta. È possibile trasportare tutto questo sul
grande schermo?
In molti hanno rinunciato nel corso dei decenni,
fino ad arrivare al 2004 quando durante il Sundance
Film Festival Roman Coppola (figlio del celeberrimo
Francis Ford Coppola) propose il progetto a Walter
Salles, che aveva appena presentato il suo film, I
diari della motocicletta. Dopo otto anni di sviluppo
e oltre centomila chilometri percorsi, lo scorso anno
è finalmente giunto in tutti i cinema del mondo, On
The Road.
L'impegno di Salles è stato encomiabile, tanto
che lo stesso regista ha dichiarato di essere stato
ossessionato dal progetto. Vista la portata dell'Impresa, Salles ha deciso di affrontare la sfida con
animo documentaristico. Ha girovagato per gli Stati
Uniti seguendo il percorso tracciato dai protagonisti
del romanzo, cercando le giuste location ma soprattutto incontrando e intervistando alcuni eredi di quel
mondo descritto da Kerouac. Terminato il viaggio ha
poi creato a Montreal un "campus beat" dove tutti gli
attori del cast hanno potuto prepararsi al meglio. La
mole del lavoro di pre-produzione è stata così elevata
da giustificare la realizzazione di un documentario dedicato a essa e intitolato Searching for On The Road.
Tuttavia, nonostante l'immane sforzo compiuto, il
film non si avvicina nemmeno lontanamente alla bellezza del romanzo. Da un punto di vista tecnico la pel-
licola è indubbiamente di ottima qualità. L'atmosfera
degli anni '50 è ben ricreata, e i magnifici panorami
offerti dagli Stati Uniti sono sfruttati a dovere per
trasmettere allo spettatore quel desiderio di viaggio
che stimola e quasi attanaglia i protagonisti del romanzo. Il ritmo del film è molto lento e alcune scene
sembrano poco corali con il resto della pellicola, ma
entrambi questi aspetti sono caratteristici anche del
libro, e più in generale della prosa di Kerouac che predilige dar spazio alla poetica del suo stile piuttosto
che alla scorrevolezza o alla cronologica esposizione
dei fatti.
Il film è però colpevole di un gravissimo errore (che
alcuni definirebbero crimine): vuole dare una morale
a On The Road. Salles e lo sceneggiatore Jose Rivera
hanno incentrato tutta la storia sul confronto tra i due
personaggi e sul loro modo di affrontare la vita. Da
una parte Sal Paradise/Jack Kerouac, giovane figlio
di una famiglia benestante di New York che vuole
conoscere la vita, "Ero un giovane scrittore e volevo
andare lontano. Sapevo che a un certo punto di quel
viaggio ci sarebbero state ragazze, visioni, tutto; sapevo che a un certo punto di quel viaggio avrei ricevuto
la perla". Dall'altra Dean Moriarty/Neal Cassidy uno
di quei "pazzi" che Kerouac stesso definisce "i pazzi di
voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto
e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono
mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come
favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a
ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la
luce azzurra e tutti fanno Oooooh!".
Tale confronto, assente nel romanzo, porta all'immancabile morale buonista secondo cui da giovane
puoi fare esperienze e cercare la tua strada ma poi
devi maturare e comportarti come la società reputa
opportuno. Salles e Rivera hanno snaturato il romanzo e trasformato Dean Moriarty in un cattivo esempio, uno che sembra cool, ma poi finisce male. Un
errore madornale. Perché l'alter ego di Neal Cassidy
può essere amato o odiato dal lettore, ma in nessuna
pagina del romanzo viene giudicato dall'autore. Nel
libro non ci sono buoni o cattivi, non ci sono esempi
da seguire e altri da evitare. Ci sono solo personaggi veri che Kerouac ha incontrato nel corso della sua
vita sulla strada.
Trasformare On The Road in una storia con una
morale socialmente corretta è come vendere un portafoglio con stampato il volto di Che Guevara: uno
scempio che doveva essere evitato. Si diceva che la
trasposizione cinematografica di On The Road fosse
maledetta e che nessuno sarebbe mai riuscito a farci
un film. La maledizione è stata sconfitta, ma forse
esisteva solo per proteggere il romanzo.
cinema & serie tv
Mock-cover for On the Road by Jack Kerouac © Ashley Mackenzie
di barbara maio
V
198
quando un flop cinematografico
diventa fenomeno crossmediale
i è un fraintendimento ricorrente quando si
parla di prodotto crossmediale: spesso, infatti, si pensa che un prodotto crossmediale
sia quello che si espande su più media, proponendo
lo stesso contenuto su diversi supporti riproduttivi.
Fortunatamente questo errore sta man mano svanendo grazie agli studi sull’argomento che stanno
facendo sempre più chiarezza. Un vero prodotto
crossmediale propone un testo unico che si sviluppa su più media ma in direzioni diverse, integrandosi e sostenendosi l’un l’altro.
L’esplosione dei prodotti crossmediali è recente
e si tratta soprattutto di uno sviluppo “commerciale”: molti dei prodotti mediali indirizzati a un pubblico giovane vengono, infatti, pensati appositamente
per produrre più linee narrative sfruttabili in diversi
momenti. Lost (2004-2010) è stata una delle prime
serie a essere pensata in una tale ottica e film come
The Hunger Games (2012) mostrano bene come si
possa espandere un prodotto a livelli differenti (e
tutti redditizi).
Non poteva sfuggire a questo trend uno dei prodotti cult di maggior successo, Buffy The Vampire
Slayer (1996-2003), serie tv creata da Joss Whedon e gioiello narrativo di livello altissimo.
Il franchise di Buffy nasce nel 1992 quando
Whedon scrive la sceneggiatura per un film su una
bionda cheerleader cacciatrice di vampiri, film che
non ottiene nessun successo, né commerciale, né
di critica, né di fandom. Eppure Whedon crede fortemente nella sua creatura e la ripropone in forma
serializzata qualche anno dopo. In questa prima
fase la storia narrata nella serie è contemporaneamente un proseguimento e un remake della storia
originale: la protagonista arriva in una nuova scuola
e deve adattarsi in un ambiente ostile già di per
sé, senza contare che è la prescelta, la cacciatrice di vampiri che deve proteggere il mondo dalle
tenebre. Il film aveva raccontato una storia autoconclusa con Buffy che distrugge la palestra della
scuola per uccidere i vampiri. Nel pilot della serie
Buffy si è trasferita in una nuova città e riprende
la sua missione, tra tentennamenti e accettazione
del suo ruolo. La serie non dimentica il film anche
se è totalmente autonoma rispetto a esso. E prosegue per sette stagioni sviluppando la storia della
cacciatrice e del suo gruppo di amici, alleati e nemici. Nel frattempo – alla fine della terza stagione
– Whedon aveva creato Angel (1999-2004), spinoff centrato sulla figura del vampiro con l’anima e
primo amore della cacciatrice (secondo se contiamo
Pike nel film). Lo spin-off prosegue in maniera autonoma nonostante le linee narrative delle due serie
tendono a intrecciarsi e in cui i protagonisti sono
consapevoli degli accadimenti nei due mondi narrativi, con personaggi che transitano da una serie
all’altra e ne determinano una narrazione parallela.
Buffy termina nel 2003 con il “botto” (letteralmente) e Whedon – grande appassionato di fumetti
– decide di proseguire la storia in forma di comics,
scrivendo la sceneggiatura dei fumetti che narrano l’ottava stagione della serie. Whedon dichiara
più volte che i fumetti gli offrono possibilità impensabili sul piccolo schermo: e infatti nei fumetti
assistiamo a tutta una gamma di “effetti speciali”
che difficilmente possono essere realizzati in televisione senza comunque un investimento economico
ben oltre i limiti di un prodotto televisivo. Personaggi che diventano giganti, locations esotiche, mostri
di ogni fattezza e ferocia, scontri spettacolari con
esplosioni e armi futuristiche, viaggi ultraterreni e
mondi paralleli. Insomma, ciò che Buffy sul piccolo
schermo aveva potuto realizzare solo in piccolissima parte grazie alla CGI (vedi lo scontro finale che
chiude la settima stagione) esplode in maniera
esponenziale sulla carta, consentendo a Whedon di
non porre limiti alla sua fantasia. Senza problemi
di cast, vincoli produttivi o censura, Whedon può
proseguire la sua linea narrativa in forma autonoma
e perfettamente integrata con la prima parte. Dal
film, alla serie, ai fumetti, Buffy offre una narrativa
unica, compatta e, comunque, perfettamente frui-
199
Buffy © Sopheap You
partendo dalla narrativa di base proposta dalla serie per poi svilupparsi in narrazioni autonome –
decise dal giocatore di turno – a metà strada tra il
gioco di avventura e quello di “picchiaduro”.
Anche le novellizzazioni assumono un valore non
indifferente sia dal punto di vista commerciale che
artistico. Infatti, tra le tante storie scritte nel Buffyverse, molte sono affidate ad autori come Nancy
Holder e Christopher Golden, affermati scrittori
fantasy già con un loro seguito di fandom e critica.
In queste storie si parte dalle ambientazioni e
dai personaggi della storia di origine per poi sviluppare un racconto autonomo, una sorta di realtà
alternativa alla serie. La regola delle novellizzazioni
è quella della congruità del carattere dei personaggi che non devono distaccarsi dall’originale. Regola che non vale per le fanfictions, racconti scritti
dai fans e che, invece, possono proporre versioni
alternative dei personaggi, spesso andando a soddisfare storie d’amore solo accennate o coppie improbabili nella narrazione ordinaria.
E a margine – ma non economicamente – di
questo universo crossmediale, troviamo tutta una
serie di merchandising come il gioco da tavolo che
si sviluppa come un gioco di ruolo (in due versioni,
UK e USA), la scacchiera, le colonne sonore, non
solo in versione raccolta delle canzoni utilizzate
negli episodi ma, soprattutto, la versione di Once
More With Feeling, episodio musicale con canzoni
originali cantate dagli attori stessi, da completare
con lo scriptbook ricco di immagini e degli spartiti
delle canzoni. Ancora abbiamo una pletora di action figures degne dei geek più incalliti, t-shirt per
ogni gusto e occasione, la dead board (tavoletta
per parlare con i morti) vista in uno degli episodi, il
portapranzo in metallo, le tazze per la colazione…
Insomma, se la crossmedialità in senso stretto
investe soprattutto la parte narrativa di un prodotto, l’espansione a più livelli contiene soprattutto un
valore commerciale che può diventare una forma
di mercificazione non necessariamente negativa,
anche perché per avere la forza di sostenere un
universo così espanso, il prodotto originale deve
avere una forza intrinseca a priori. E Buffy lo dimostra anche con gli innumerevoli studi e pubblicazioni accademiche che ancora vengono create intorno
alla serie, non ultima la Slayage Conference che si
svolge ogni due anni negli Stati Uniti e che raduna
studiosi di tutto il mondo pronti a discutere dei tanti mondi di Joss Whedon.
cinema & serie tv
La rivincita della bionda
bile anche in forma isolata ma, come accade sempre in questi casi, che acquista maggiore valore (e
soddisfazione per chi ne fruisce) se “letta” senza
soluzione di continuità.
Ma oltre che svilupparsi su una linea narrativa
orizzontale e crossmediale, il franchise di Buffy si
sviluppa anche per vie traverse. Dal 2000 vengono
realizzati diversi videogame per piattaforme come
Xbox, Playstation, Nintendo etc., che propongono
avventure verticali ambientate in diverse stagioni,
di Stefania Auci
Birdsong & The Paradise
200
C’
era una volta lo sceneggiato televisivo.
Era un prodotto di grande qualità nel
quale le reti televisive investivano denaro e risorse e che aveva una finalità stabilita: far conoscere agli spettatori i grandi capolavori letterari
e teatrali. In Italia, lo sceneggiato così inteso è in
via di estinzione: tra un progressivo imbarbarimento
dei gusti e la diminuzione delle risorse economiche
– spesso impiegate in prodotti televisivi che è davvero difficile definire culturali – esso è divenuto un
genere obsoleto, soppiantato da fiction su sacerdoti, santi, poliziotti e medici.
Lamenti e obiezioni di chi non sa stare al passo
con i tempi? Forse, però c’è ancora chi scommette
sugli sceneggiati, e li produce avendo un grandissimo ritorno economico. Dove? Gran Bretagna. Autore? BBC, editore televisivo britannico sinonimo di
qualità. Il che significa un bacino di utenza enorme.
Significa poter raggiungere tutte le popolazioni anglofone del mondo.
Ultimo drama a esser stato prodotto e trasmesso in ordine di tempo è The Paradise, tratto dal
romanzo Al paradiso delle signore di Emile Zolà.
Figura centrale è Denise (Joanna Vanderham), una
giovane donna che si trasferisce dalla campagna
immaginando di trovare lavoro nel negozio di un
congiunto. Ma il negozio – e con esso, decine di
piccoli esercizi commerciali – sono schiacciati dalla
concorrenza del Paradise, il primo grande magazzino
di lusso della città. Denise è così costretta a mettere da parte le illusioni trovando lavoro proprio come
commessa nel negozio rivale. In breve tempo diventa una delle venditrici di maggior successo, tanto
da attirare l’attenzione di John Moray (interpretato
da Emun Elliott), proprietario del negozio, e le invidie delle colleghe. Attraverso gli occhi di Denise, lo
spettatore vive i cambiamenti sociali e il progressivo cambiamento di ruolo della donna che si affaccia
al mondo del lavoro con maggiore consapevolezza.
Denise è una figura archetipica, che cerca con
difficoltà la propria strada, che lotta per salvaguardare la sua identità in una realtà spersonalizzante
qual è quella del grande magazzino. A differenza del
romanzo di Zolà, la serie si focalizza sulla relazione
personale tra i due protagonisti, Denise e John Moray, ambientando la vicenda nel sud dell'Inghilterra
anziché a Parigi. La vicenda, pur avendo una coloritura sentimentale, lascia spazio alla rete di relazioni
che si intrecciano nel microcosmo del Paradise. La
critica sociale, che era stata l’elemento fondante de
Al paradiso delle signore del grande autore francese, cede il passo a una visione più intima, focalizzata sui rapporti tra i personaggi.
The Paradise è soprattutto una storia sull’ambizione, sul cambiamento sociale e sull’amore:
Denise è giovane, per
certi versi sprovveduta,
ma fin da subito mostra
quella forza d’animo che
le permette di assumere
un ruolo di primo piano
all’interno del grande magazzino e nei confronti di
John Moray, che nel romanzo di Zolà si chiama
Octave Mouret.
La serie televisiva
si segnala per la grande cura dei costumi e
per l’adattamento della
sceneggiatura, piena di
dialoghi appassionanti e
situazioni nelle quali si alternano scene di pathos
emotivo e momenti di
leggerezza affidati ai personaggi minori. Con grande senso della narrazione, viene introdotto anche
l’elemento del mistero, dato dalle insinuazioni sul
passato di Moray. La suspense data dalla nascente relazione tra i due protagonisti si intreccia con
queste rivelazioni, insieme alle tensioni e le gelosie
crescenti che agitano gli animi delle commesse e
delle clienti del Paradise. Il successo ottenuto è stato tale che la BBC ha deciso di girarne una seconda
serie.
Ben diversa è la storia di Birdsong, altro drama
della BBC trasmesso lo scorso anno. Tratto dal toccante romanzo di Sebastian Faulks, Il canto del cielo, edito da Beat, Birdsong narra una storia d’amore
straziante e disperata, ed è forse uno dei drama più
commoventi che la BBC abbia prodotto, assieme
allo splendido Parade’s end.
Nel romanzo la vicenda è articolata su tre piani
temporali che si intersecano in un gioco raffinato di
rimandi tra passato e presente. La protagonista del
periodo che va dal 1978 al 1979 è Elizabeth, nipote
di Stephen, il giovane inglese che nel 1910 incontra
Isabelle Azaire ad Amiens; proprio su questa coppia
si incentra la narrazione delle due altre tranches
temporali, ossia il 1910 e il biennio 1916/1918.
Isabelle è la seconda moglie di Renè, proprietario della fabbrica presso cui il giovane inglese
svolge un periodo di apprendistato. È una donna
infelice, sposata a un uomo molto più grande di lei,
che fa da madre ai due figliastri. La passione che
prova per Stephen, diventato suo amante, esplode
con esiti devastanti, distruggendo il suo matrimonio. Scoperti da Renè, infatti, i due fuggono; ma la
loro felicità è di breve durata…
Nel terzo blocco temporale, quello della Grande Guerra, ritroviamo Stephen da solo durante la
Battaglia della Somme nel luglio del 1916. Uno dei
carnai più sanguinosi che la storia umana ricordi.
Il protagonista è diverso dall’uomo incontrato nel
1910 e assai più vicino alla figura solitaria che sua
nipote Elizabeth ha conosciuto attraverso i racconti
dei suoi familiari. È un uomo corroso dal dolore e
dalla rabbia che cerca, più o meno consapevolmente, la morte sul campo di battaglia.
La serie televisiva ha tagliato la vicenda che
si svolge negli anni Settanta per focalizzare l’attenzione sulla relazione tra Isabelle e Stephen da
una parte, e sul vissuto di Stephen sulla Somme
dall’altra.
La BBC ha profuso un impegno notevole nella
realizzazione di questo drama. Oltre alla cura maniacale per costumi e fotografia, sono da segnalare
le scenografie belliche: potenti, capaci di dimostrare come nella guerra non vi sia nulla di eroico. Le
scene di guerra sono crude. Hanno forte impatto
emotivo per lo spettatore, specie se giustapposte
con le parti dell’idillio tra l’incantevole Isabelle e
l’ingenuo Stephen, ben diverso dal militare incattivito che ritroviamo pochi anni dopo; un uomo che
ha perso l’amore della sua vita senza sapere perché. Questo dolore, insieme con le sofferenze inflitte dalla guerra, lo renderà incapace di perdonare.
Sarà proprio l’amicizia con Firebrace, un minatore
addetto alla costruzione dei tunnel sotto le trincee
a restituirgli l’umanità.
Come già mostrato in Parade’s end, la prima
guerra mondiale ebbe un fortissimo impatto sulla
mentalità inglese. Attraverso la convivenza tra ufficiali provenienti dagli strati più alti della società
con i propri soldati di bassa estrazione e proletari
all’interno delle trincee, in coacervo di morte e abbrutimento, si è creata una coscienza comune che
ha contribuito in maniera essenziale alla mobilità
tra classi sociali e alla nascita della Gran Bretagna
moderna.
cinema & serie tv
Dal Paradiso all'Inferno:
Nuvole, anime
e crossmedia
C
loud Atlas, il libro di David Mitchell, non è
per quelli che lasciano cadere un volume se
non è riuscito a colpirli entro le prime dieci
pagine. E Cloud Atlas, il film dei fratelli Wachowsky, non è per coloro che vogliono un'azione scenica
semplice da seguire senza sforzo o una narrazione
intimistica o non sopportano “lezioni”.
Cloud Atlas, come fenomeno cross-mediale, non
vuole rendere la vita facile a nessuno, semmai complicarla piacevolmente. Ed è il motivo per il quale
questo film della cinematografia indipendente, che
ha conquistato il record di costi nella sua categoria,
divide gli spettatori in due parti: quelli che lo odiano
e quelli che lo adorano, e tertium non datur.
Partiamo però dal libro, premettendo che non
vogliamo cadere nell'ovvio trabocchetto di giudicare la resa cinematografica in base a un confronto
con il romanzo, quanto piuttosto illustrare e analizzare le scelte compiute dagli artisti che hanno convogliato le loro energie in questo progetto.
Il romanzo Cloud Atlas all'inizio scoraggia: la vicenda di Adam Ewing, notaio che giunge alle isole
Chatam con la Prophetess, nave che nel 1849 solca
i mari del Sud incontrando le forme più bieche e
spiacevoli di colonialismo e razzismo, sfida la pazienza del lettore perché il linguaggio e il tono sono
adeguati all'ambientazione e all'epoca. I dati debordanti, lo spirito d'osservazione con intento didascalico, scientifico e antropologico, nel racconto della
storia dei Moriori della Nuova Zelanda all'inizio camuffano la vicenda narrata. Scoprire il segreto di
questo romanzo è una questione di perseveranza:
Mitchell l'ha concepito come una struttura a matrioska. Infatti, la storia di Ewing si interrompe a metà,
praticamente sul più bello per introdurci in tutt'altra
storia: quella di Robert Frobisher, giovane musicista bisessuale e scavezzacollo, ribelle diseredato
nell'Europa del 1936. Il tono è differente e la struttura è epistolare. Il linguaggio e il punto di vista individuale sono arroganti, intimistici, sfrontati, eleganti.
Editore: Frassinelli, 2012
Pagine: 616
Prezzo 14,90 euro
ISBN: 978882005348
202
T r a i t
d'union è
il fatto che
Frobisher
trova nella biblioteca
della residenza
dove è ospitato
il diario di viaggio di
Ewing e ne viene attratto.
E si va avanti così; il destino del
musicista viene lasciato in sospeso e si procede
con la vicenda di una centrale nucleare al centro
di oscure manovre e dell'attenzione della giornalista Luisa Rey nel 1973 che, a sua volta, trova le
lettere di Frobisher e ne ascolta rapita la musica:
il sestetto dell'Atlante delle nuvole. Il reportage di
Luisa viene poi letto dall'editore Timothy Cavendish, ai nostri tempi. La vicenda di questi, rinchiuso
per sbaglio in una clinica per anziani e privato della
sua libertà, diventa un film che, visto nel 2144 nel
contesto di un impero a sfondo capitalistico e consumistico dal clone Sonmi 451 ispira dichiarazioni
di libertà e solidarietà che diverranno poi vangelo in
un villaggio di un futuro post apocalittico nel Ventiquattresimo secolo, in cui Zachry, valligero segnato
dal male compiuto, incontra la presciente Meronima. Quest'ultimo futuro remoto è il nocciolo del romanzo: la matrioska più piccola. E poi si ricomincia
daccapo: Sonmi, Cavendish, Luisa Rey, Frobisher e
Ewing.
I sei racconti di cui è composto L'atlante delle
nuvole, insomma, sono divisi a metà con, al centro, il futuro più lontano e all'esterno il passato che
chiude la storia chiarendo meglio le origini di tutto
il percorso. La struttura è coraggiosa, innovativa
e interessante. Più che alla matrioska, si potrebbe
pensare però a una struttura a “ipersfera” in cui la
parte più esterna – la storia del 1849 – è anche contemporaneamente centro, mentre il futuro, racchiuso dalle storie, è anche superficie più esterna come
esito di un
inizio che si
espande nella
linea del tempo.
La struttura però
non sarebbe sufficiente
come innovazione se non ci
fosse anche un percepibile cambiamento di stile da una storia all'altra. Bagaglio lessicale, vezzi linguistici, tono, cambiano sensibilmente
legando il lettore di volta in volta ai personaggi proprio attraverso la cifra stilistica distintiva di ognuno. Anche la forma narrativa si modifica: Ewing
scrive un diario di viaggio, rivolgendosi virtualmente alla sua famiglia; Frobisher scrive lettere al suo
amico e amante Sixsmith; Luisa Rey è la protagonista di quello che diventerà un giallo strutturato
come un'inchiesta giornalistica; Cavendish scrive
una sorta di autobiografia; la storia di Sonmi è raccontata attraverso il resoconto dell'interrogatorio a
cui viene sottoposta e il linguaggio racconta la parabola consumistica, dove le marche sono divenute
sostantivi e tutto è ridotto a una visione del mondo
schiavizzata dall'imperialismo economico; un Zachry ormai anziano narra la sua avventura stile antico
aedo ad astanti invisibili ma con cui stabilisce un
rapporto caldo e intimo, usando per di più una lingua modificata e semplificata. Persino la resa grafica sottolinea queste differenze, nei titoli, nello stile
dei paragrafi, nei font dei caratteri. Tutto è usato
per separare, diversificare, eppure anche per porre
in risalto i collegamenti.
Nella storia, infatti, i vari personaggi principali
sono segnati da una voglia a forma di cometa, che
segnala insieme a classici dejà vu il tema sotteso
della reincarnazione. È opportuno ricordare il particolare della voglia poiché sarà usato differentemente nell'ambito del film.
203
Nelle varie storie non si indulge eccessivamente sulle vicende sentimentali, nel senso che non
sono l'amore e il legame fra un uomo e una donna
a rincorrersi attraverso i secoli; piuttosto è il tema
della natura del rapporto fra gli esseri umani che
viene svolto e ripreso, come in una argomentazione
confutativa, lungo tutto il percorso. Non è casuale che la vicenda inizi proprio nel 1849: Malthus,
Lamarck e Darwin, nel contesto dell'imperialismo
europeo che aveva travolto e distrutto le culture residenti primitive, influenzano il leit motiv che fa da
sfondo all'operato degli occidentali: il forte divora il
debole. Gli occidentali divorano i Maori che divorano i Moriori. Questa popolazione sostanzialmente
estinta che popolava le Isole Chatam è descritta
come pacifica e tranquilla. Presso di loro la guerra
non esiste: chi si macchia di un delitto viene isolato
e nessuno gli rivolge la parola, tanto che spesso si
suicida. Qui c'è il mito illuminista del buon selvaggio e quello dell'eden distrutto dalla civiltà/società
maligna. Queste caratteristiche edeniche le ritroveremo nel Ventiquattresimo secolo, nell'estremo
futuro dopo la Caduta, nel Popolo della Valle. C'è
una concatenazione ad anello fra il passato e il presente.
Il dottor Goose e gli altri personaggi occidentali
del primo segmento condividono l'ideologia della
prevalenza dell'uomo bianco condita con il dovere
di “civilizzare” i nativi. In questo contesto, come in
tutto il libro, la religione è intesa come strumento di
predominio, mascherato da carità cristiana, senza
fare le dovute eccezioni. Le stesse cadenze in stile
catechistico vengono evocate nel segmento di Sonmi, quando il potere si fonda su lealtà al leader e
alla società di stile nipponico e teocratico. In questo
senso L'atlante delle nuvole, o meglio il suo autore,
nel suo intento didascalico, necessariamente generalizza: minimizza ed enfatizza laddove gli conviene.
cinema & serie tv
di Antonella Albano
Cloud Atlas
L'atlante delle nuvole
David Mitchell
vengono riconosciute come convenzioni, appunto.
“La nostra vita non ci appartiene. Dal grembo
materno alla tomba, siamo legati agli altri, passati
e presenti” recitano i catechismi di Sonmi, divenuta
da clone che ha sviluppato una coscienza a martire,
a dea, nel tempo di Zachry. A questo viene ridotta
l'essenza della religione: i valori, la testimonianza, il
martirio di qualcuno – qui il bellissimo personaggio
di Sonmi 451 – (senza alcuna Resurrezione) vengono conservati attraverso i secoli e diventano semplicemente mito.
La natura New Age della visione di Mitchell è
innegabile ed è anche stata criticata e osannata a
seconda degli schieramenti. Eppure la parola “fede”
è importante: una fede tutta umana nella possibilità
di voler fare il bene. “Il potere, il tempo, la forza di
gravità e l'amore. Tutte le forze che fanno girare il
mondo sono invisibili”. Sono gli individui a evolversi attraverso le proprie scelte, o a dannarsi, ma la
cinema & serie tv
204
L'assunto del potere del bianco sul nero, del forte
sul debole è contraddetto al cuore del primo nucleo
della storia nel rapporto umano che nasce fra Adam
Ewing e l'indigeno moriori Autua: qui comincia quella catena di scelte, implicanti il libero arbitrio, che
decidono dell'evolversi di un'anima nel corso delle
generazioni.
Quando Meronima e i Prescienti, sopravvissuti
civilizzati ma in estinzione, entrano in rapporto con
questa gente hanno davanti a sé una scelta: ma è
come se una miriade di scelte, compiute nel corso
delle varie vite, avesse prodotto Meronima, Zachry e la possibilità che si fidassero uno dell'altro. Le
premesse vengono ribaltate e “I confini sono solo
convenzioni”. Attraverso le storie, la crescita e le
cadute dei vari personaggi, il forte non mangia più
il debole e le differenze – fra Europei e nativi, fra
diversi emarginati e potenti inseriti in società, fra
cloni e purosangue – non hanno più importanza,
Un discorso a parte è opportuno a proposito di
La tremenda ordalia di Timothy Cavendish, che non a
caso è inserito nell'epoca contemporanea. Il protagonista, abbiamo detto, è un editore che per quanto
scalcagnato ha potere di vita o di morte su un suo
piccolo impero, cioè sui libri che vuole o non vuole
pubblicare. A sua volta un altro potere potenzialmente vessatorio si confronta con quello dell'editore: quello
del recensore. Abbiamo, insomma, al
centro del nostro tempo, guarda un
po', lo scrittore. Il personaggio in questione, per ribellarsi a una recensione
orribile che è stata fatta al suo libro,
scaraventa il recensore in oggetto giù
dalla finestra. L'editore, dopo il primo
shock, esulta perché l'omicidio scaraventerà a sua volta il volume in cima
alla classifica delle vendite. Segue
altro, ma quello che preme sottolineare è che l'editore, con il suo piccolo
potere di segregare o liberare i libri,
esercitato con cinismo e leggerezza,
finisce nelle mani della direttrice di
una clinica per anziani che in pratica
lo imprigiona contro la sua volontà.
Non nasce forse il dubbio che questo
segmento, grottesco ma claustrofobico e angosciante – ben diverso
dal tono leggero da commedia che
gli è stato attribuito nel film –, stia
facendo metaletteratura raccontando di come il potere che ognuno ha
può essere o meno esercitato con
protervia proprio anche nel mondo dell'editoria?
Una vendetta poetica, insomma, che strizza l'occhio a chi sa intendere. L'editore ritroverà la sua
funzione proprio proponendosi di pubblicare l'inchiesta di Luisa Rey. E poi, la lezione che Cavendish
ricava: “Io non sarò mai soggetto a maltrattamenti
criminosi”, frase pronunciata in un contesto ironico,
diventerà invece l'inizio del riscatto per le serventi
della mangeria, cloni usati come bestie da macello,
che ne traggono ispirazione per difendere la propria
dignità. La catena continua.
Il film Cloud Atlas. Quando i fratelli Lana e Andy
Wachowski e Tom Tykwer hanno deciso di trarre dal
libro di Mitchell un film, hanno realizzato un sogno
e compiuto un'impresa epica. Questo non perché si
vogliano echeggiare i toni trionfalistici dei testi promozionali, ma perché l'operazione compiuta è stata
obiettivamente molto complessa e ambiziosa. Questo si può dire per la regia divisa in due parti con i
Wachowski e Tykwer che si sono divisi i sei episodi: i Wachowski hanno diretto il viaggio oceanico
di Adam Ewing nel 1849, la ribellione di Sonmi nel
2144 e gli eventi della vita di Zachry nel XXIV secolo; Tom Tykwer ha invece realizzato l’avventura
206
del musicista Robert Frobisher nel 1936, della giornalista Luisa Rey accusata di cospirazione aziendale
nel 1973, e la singolare, spesso comica, situazione
dell’editore londinese Cavendish nel 2012. Il tutto
fra Maiorca, la Scozia e la Germania, con gli attori
che hanno viaggiato da un luogo all'altro a seconda
delle esigenze. Ma si può anche parlare di impresa
epica perché hanno deciso di accrescere il senso
di continuità fra le varie storie facendo interpretare
i molti personaggi principali agli stessi attori, sottolineando le evoluzioni da un'epoca all'altra grazie
al riconoscimento visivo, reso spesso difficile dal
trucco. Questa componente del trucco, capace di
trasformare uomini in donne e viceversa, occidentali in orientali e viceversa, fra l'altro, è stata sia
molto apprezzata sia molto criticata dal pubblico.
Inoltre anche alcuni luoghi, come la dimora in cui
era ospitato Robert Frobisher e la clinica in cui viene costretto Timothy Cavendish, nel film vengono
fatti corrispondere.
Le novità di struttura e modalità narrativa del
romanzo di Mitchell sono state trasformate in novità sintattiche nella struttura filmica. Infatti, se
nel libro il linguaggio (lessico, stile, tono) di Adam
Ewing e di Robert Frobisher o di Timothy Cavendish
mutano radicalmente da una storia all'altra, nel
film è l'immaginario filmico a cambiare stereotipi e
a mutare genere a seconda del segmento narrativo. Insomma, se la vicenda della nave Prophetess
ricorda L'ammutinamento del Bounty o Master &
Commander, quella di Frobisher gli estenuati drammi in costume ambientati negli anni trenta, la tremenda ordalia di Timothy Cavendish ricorda tante
commedie con anziani come protagonisti, Cocoon
ad esempio. Luisa Rey e il suo scontro con i potenti della centrale nucleare di Swannekke ricorda
Sindrome cinese, ma anche i film d'azione anni '70
di Shaft il detective; Sonmi e il suo sfondo fantascientifico ricordano e citano gli scenari di Matrix
e di Blade Runner; la storia di Zachry e della Valle
ricorda Waterworld o il ciclo di Mad Max. Qualcuno
ha negato originalità, considerando giustapposizioni queste citazioni, eppure ogni storia risulta coerente e visivamente convincente non nonostante,
ma attraverso questa scelta registica.
Ovviamente, per una questione di impatto e di
fruizione diversa, i contenuti tematici sono offerti
in maniera più diretta nel film rispetto al libro dove
la necessaria riflessione del lettore viene stimolata più autonomamente, le storie d'amore sono più
esplicite, come si vede nel cambiamento della trama rispetto alla
storia fra Sonmi e il suo mentore
e anche riguardo alla conclusione
fra Meronima e Zachry: una semplificazione era necessaria, ma non
va contro le intenzioni dell'autore.
Per esempio, la scelta di rendere
un personaggio il Vecchio Georgie
non è solo funzionale a una facilitazione del racconto, bensì aggiunge
elementi al quadro: nell'incontro
fra Meronima e Zachry, lei, appartenente a una civiltà che ha mantenuto la superiorità scientifica,
svolge la funzione “illuministica”
di disilludere l'uomo della valle rispetto all'identità di Sonmi. Non è
una dea ma una donna, una martire e una testimone che ha lasciato
un'eredità di profondo valore. Qualcuno, a ragione, ha visto in questa
figura quella del Cristo, razionalisticamente spogliato della sua natura
divina, mentre Georgie, il diavolo, è
visto solo da Zachry come visualizzazione superstiziosa della eterna
tentazione verso il male. Come dire,
il fatto che la visione “ingenua”
207
cinema & serie tv
scelta di uno determina la vita dell'altro e il destino
si compie attraverso le generazioni e le ere. “Le anime solcano i cieli del tempo come le nuvole solcano
i cieli del mondo”.
La promessa che tutto non termini con la morte
è parte del tema. Al concetto cristiano dell'unicità
e immortalità dell'anima individuale, che intrattiene un rapporto “personale” col Dio buono, si
sostituisce una catena di destini in cui uno porta
avanti le premesse dell'altro: fra i lettori può esserci chi non si accontenta e chi ne resta consolato. L'assunto New Age viene confermato nel tono
buddhista e vagamente leopardiano della frase
pronunciata da Sonmi quando per la prima volta
vede l'oceano: “Laggiù, sullo sfondo, il sedimento
del cielo era scivolato in un luogo dove tutta la
sofferenza contenuta nelle parole «Io sono» si dissolveva nella pace blu”.
Nel passaggio dal libro al film, la struttura narrativa a matrioska è stata abbandonata a favore di
un rincorrersi di scene dei sei segmenti in cui un
particolare rimandava all'altro, con un ritmo veloce
e un cambiamento continuo di scenario che sono
stati decisamente un fattore di rischio. Sembra miracoloso che si possa seguire la storia attraverso
sei vicende differenti, il lavoro di decostruzione e
ricostruzione, da libro a sceneggiatura, è stato certosino. Si rischia sempre l’overload di informazioni,
ma l’unitarietà convince e commuove.
Rispetto al libro, inoltre, si è scelto il metodo del
flashback: si vedono all’inizio i destini imminenti di
tutti i protagonisti e si raccontano gli antefatti; la
cornice diventa il racconto del vecchio Zachry, al
contrario che nel libro, accrescendo il concetto di
208
“ipersfera”: quello che era il nucleo diventa il contenitore. E il trucco di Tom Hanks, in questo caso,
pare il migliore di tutto il film.
Di fatto il pubblico ha reagito diversamente a
questa valanga di sollecitazioni, perché la complessità dei rimandi visivi, scenici, tematici non sono
tutti percepibili la prima volta. Alcuni commenti
critici, ripescati online su blog e siti dedicati al cinema, hanno parlato di mosaico che scoppia in faccia
allo spettatore, di giustapposizione scollegata o di
semplice collage di generi; altri hanno lamentato
che il cinema è ormai in mano ai nerd. Il punto è
che, con Cloud Atlas e con la regia di Tykwer e dei
Wachowski, siamo davanti a un concetto di cinema che non vuole essere facile e comodo, che vuole riprodurre la fidelizzazione che spesso avviene
nella serialità lunga delle serie tv, oppure nei cicli
più noti. I Wachowski, infatti, hanno affermato:
"Essendo cresciuti con i fumetti e la trilogia di Tolkien, una delle cose che ci interessano è portare
la narrativa seriale al cinema". La sfida è quella di
adattarsi o no a questa concezione; nel frattempo
non si può negare a questa operazione visionarietà
e coraggio.
Il film infatti dissemina indizi
subliminali da un episodio all'altro, impossibili da distinguere
all'inizio coscientemente, come
le stesse forme triangolari che
si riproducono sui tessuti, o la
forma ovoidale che ritorna, o le scene girate negli
stessi ambienti, per ottenere una sorta di riconoscimento inconscio. È un po' il sistema degli “easter
eggs”, riferimenti più o meno nascosti a volte così
impercettibili da non essere notati, se non a una
seconda o terza visione, che presuppongono una
precisa idea di cinema. Gli “easter eggs” sono nati
nei programmi, poi sono migrati nei DVD, sono presenti, ad esempio, nella serie televisiva Fringe, ma
sostanzialmente in questo caso
riprendono
l'escamotage
della voglia a forma di
cometa, che qui
– con un cambiamento voluto rispetto
al libro – sta
a indicare un
anello della
catena che
compie una
scelta
che
permette una
svolta.
Anche la musica del film, composta appositamente da Tom Tykwer, è un trait d’union importante: il Sestetto dell’Atlante delle nuvole, torna
costantemente e viene ripreso, riconosciuto attraverso il tempo, come in un dejà vu. L’espressione
artistica in generale, l’espressione del singolo,
come testimonianza, come dovere, risuona nel libro
come nel film, dove sempre il soggetto parla a un
tu come simbolo di reciprocità – perché non si vive
per se stessi – e di possibilità di vincere
la solitudine e l’insensatezza.
L'idea di film di Tykwer e dei Wachowski, per ciò che concerne la forma, non è quella di esperienza lineare,
a onde emozionali, che dura due ore o
più, ma quella di un mondo di stimoli, di
riferimenti, di incroci e citazioni, costruito a strati in cui lo spettatore interagisce attivamente, attraverso riflessioni,
ricerche, confronti, che presuppongono
una visione ripetuta e condivisa anche e
soprattutto per mezzo di social network.
Un film così presuppone uno spettatore
attivo e, forse sì, un po' nerd.
“All’inizio è stato questo che mi ha
attratto del lavoro di Andy e Lana: la
convinzione che si possano coinvolgere
al tempo stesso il cuore e la mente”, afferma Tykwer. “Si può avere questa magnifica fusione di tematiche interessantissime e al tempo stesso di immagini e
storie che ti travolgono”.
In conclusione, perché il fenomeno
crossmediale Cloud Atlas possa piacere
bisogna essere buddhisti? Credere nella
trasmigrazione delle anime? Non essere
cinici? Non essere cattolici? Non essere
di quelli che, leggendo o andando al cinema, semplicemente non vogliono pensare? Essere nerd?
Ai lettori/spettatori la risposta, ma
di certo c'è che rimboccarsi le maniche
per capire i contenuti, nella loro origine
e nella “centrifugazione” a cui sono stati
sottoposti, e la forma, col gusto eclettico di stratificazione patchwork, aiuta a
godersi un libro e un film decisamente
non banali.
209
cinema & serie tv
e naif del popolo della Valle dia un nome al male
non vuol dire che questo non esista. È superabile
però con l'uso saggio del libero arbitrio. Così come
la conoscenza della trasmigrazione delle anime, cui i
Prescienti non credono, è conservata dall'Abbadessa e dai Valligeri che hanno recuperato la naïveté
edenica. Alla fine è la solidarietà umana che vince,
la stessa conclusione un po' desolata della Ginestra
di Leopardi: insieme possiamo cambiare le cose.
“Ogni nostro gesto è una goccia nel mare. Ma
il mare non è forse composto da milioni di gocce?”
Così, con le parole finali, pronunciate da Ewing, anche madre Teresa di Calcutta diventa fonte per la
visione umanitaria di questo film. Il concetto è sbagliato? No. Lei sarebbe stata d'accordo se il male e
il bene fossero stati privati del loro nome?
Anche altre fonti autorevoli vengono citate e
reimmesse in circolo: la saggezza di Solgenitsin,
per la rivoluzione pacifica di Sonmi e George Berkeley, filosofo del Settecento, per la massima “essere
è essere percepiti”, che informa tutta l'esperienza
di Cloud Atlas, poiché nemmeno la trasmigrazione
delle anime sarebbe stata sufficiente senza i supporti della comunicazione: diario di viaggio, lettere, musica, reportage, film, trascrizione degli atti,
comunicati stampa. Cloud Atlas, in qualche modo
testimonia anche della necessità dell'arte, come
possibilità di sopravvivenza all'oblio, coltre che farebbe svanire anche le nuvole. E qui Ugo Foscolo
annuirebbe compiaciuto.
I
210
di Claudio Cordella
Nausicaa
e la settima arte
Manga di successo dalla carta al grande schermo
n Italia, il boom iniziale degli anime made in
Japan risale agli anni '70-'80, con le prime
apparizioni di queste produzioni orientali nei
network nostrani, dapprima grazie alla RAI e in
seguito con numerose emittenti private. Inoltre,
sin dagli anni '90, nelle edicole e nelle fumetterie italiane arrivarono anche i manga, spesso e
volentieri legati ad anime televisivi di successo.
Effettivamente i cartoni animati nipponici, tranne
in alcuni casi sporadici, nella nostra penisola non
hanno mai preso le vie delle sale cinematografiche. Non dovremmo, dunque, sorprenderci se
molti ritengono che gli anime non abbiano nulla
a che spartire con la settima arte, ritenendoli
piuttosto come esclusivamente legati al piccolo
schermo.
In realtà, esistono degli autentici capolavori
dell'animazione nipponica realizzati per il cinema
e non per la TV. Noi qui ne prenderemo in esame
alcuni esempi. Esamineremo dei kolossal tratti da
celebri manga, delle pietre miliari della «letteratura disegnata», tutti quanti molto noti anche al
di fuori dei confini dell'arcipelago nipponico, esattamente come le loro controparti di celluloide.
Ogni caso di studio, rappresenta un modo diverso
in cui un prototipo cartaceo può essere tradotto
dal linguaggio fumettistico a quello caratteristico
del cinema.
Iniziamo con Kaze no tani no Nausicaä (Nausicaä della Valle del Vento) di Hayao Miyazaki, un manga epico e toccante, edito in Giappone
sulla rivista Animage dal febbraio 1982 al marzo
'94.
Nausicaä della Valle del Vento, geniale opera
di «letteratura disegnata» tratta temi come l'ecologismo e il pacifismo all'interno di uno scenario
post-apocalittico. Le strutture economico-sociali,
così come la flora e la fauna, di un mondo futuro
lontano svariati secoli dal nostro presente sono
resi con grande accuratezza. Il film, uscito nelle
sale giapponesi nel 1984, attinge solo ai primi
episodi del fumetto con una semplificazione di
personaggi e situazioni. In entrambi i casi, emerge con prepotenza la figura messianica della giovane Nausicaä, la fiera principessa del minuscolo
regno di Kaze no tani (Valle del Vento).
Rimanendo negli anni '80, ci imbattiamo in
un altro sensei del fumetto e dell'animazione del
cinema & serie tv
211
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Sol Levante: Katsuhiro Ōtomo, autore del manga di culto Akira; quest'ultimo, come Miyazaki,
ne dirige anche la controparte animata. Ōtomo,
attingendo a quelle paure da Guerra Fredda presenti anche in Nausicaä della Valle del Vento, ci
offre una storia cyberpunk che miscela tra loro
violenza urbana, poteri mentali, misticismo e catastrofismo.
Akira dapprima viene serializzato sulla rivista
Young Magazine dal 1982 al 1990, poi dopo un
travagliato periodo di lavorazione, l'anime esce
nelle sale giapponesi nel 1988. La trama è incentrata su di un gruppo di giovani moto-teppisti,
simili alle gang di A Clockwork Orange (Arancia
meccanica) del romanzo di Anthony Burgess e del
film di Stanley Kubrick, coinvolti in un intreccio da
fanta-thriller con esiti apocalittici. Eppure le pecche a livello di sceneggiatura, alquanto dispersiva, appaiono gigantesche tanto quanto i meriti di
questo kolossal. Difetti che riscontriamo sia nella
versione cartacea sia in quella filmica.
Rimanendo nell'ambito del cyberpunk, incontriamo uno dei più noti esponenti di questo
sottogenere: Masamune Shirow (pseudonimo di Masanori Ota), creatore del sofisticato
manga Kōkaku kidōtai (Ghost in the shell); apparso dapprima su Young Magazine, poi pubblicato in volume il 5 ottobre 1991. L'approdo nelle sale
cinematografiche, grazie al talentuoso Mamuro
Oshii, risale al '95. Il lavoro di Oshii è impeccabile,
adattando un manga ricolmo di scene d'azione ma
anche di pedanti note esplicative e di lungaggini,
alla settima arte. La scena finale di Ghost in the
shell, in cui la poliziotta cyborg Motoko Kusanagi
(il “Maggiore”) decide di unirsi al suo avversario,
un'Intelligenza Artificiale che afferma di essere
una creatura vivente (il Progetto 2501, vera identità di un hacker noto come Signore dei pupazzi),
è più ricca e coinvolgente nella versione del regista che in quella di Shirow.
L'ultimo esempio che sottoponiamo alla vostra
attenzione riguarda un fantasy assai originale:
Berserk di Kentaro Miura, manga che viene serializzato sin dal dicembre 1990 sulle pagine della
rivista Young Animals e a tutt'oggi ancora privo di
una conclusione. Miura incentra la narrazione su
di un vendicativo guerriero vestito di nero, Gatsu,
segnato da un misterioso marchio e perseguitato
ogni notte da creature demoniache. Ambientato
in una versione fantastica dell'Europa tardo-medievale, Berserk è crudo, violento e morboso. Qui
è labile il confine tra bene e male, l'affascinante
condottiero di mercenari Grifis, bellissimo e invincibile, una volta caduto in disgrazia si affida al
potere di un oggetto magico, il Bejelit, sacrificando l'intera Squadra dei Falchi a lui fedele ad alcuni esseri infernali: gli Apostoli. Lo stesso Grifis
perde la sua umanità, entrando a far parte della
soprannaturale Mano di Dio durante l'osceno rito
dell'Eclissi: un banchetto antropofago a cui solo
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2013. Nel momento in cui scriviamo solo Berserk
– L'epoca d'oro – Capitolo I: L'uovo del Re è stato
doppiato in italiano e reso disponibile per il mercato dell'home video, pur essendo prevista anche
la distribuzione degli altri titoli in futuro.
All'interno di questa trilogia le sanguinose vicende di Gatsu, Grifis, Caska e di tutta la Squadra
dei Falchi iniziano sui campi di battaglia per poi
proseguire sino al tragico epilogo dell'Eclissi; in
particolare il primo capitolo, diretto da Toshiyuki
Kubooka, offre agli spettatori scene mozzafiato di
sanguinosi combattimenti e di assedio a castelli
turriti, conservando l'attenzione del primo Miura
per la psicologia dei suoi personaggi.
Manga e anime cinematografici, quindi, vivono
in simbiosi, in un rapporto che a volte sottolinea
i rispettivi difetti, come nel caso di Akira, mentre
in altri casi una versione sul grande schermo può
riuscire a far risaltare le qualità del proprio prototipo cartaceo.
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cinema & serie tv
Gatsu e l'amata Caska riescono a sopravvivere.
Nel corso degli anni Miura ha seguito passo dopo
passo le lotte di quest'ultimo contro gli Apostoli,
in bilico tra la sua sete di sangue e il bisogno di
proteggere l'inerme Caska. La poveretta, infatti,
ha perso il senno, non è più un'abile guerriera ma
è solo l'ombra della donna che era un tempo.
È senz'altro di grande interesse il progetto della trilogia cinematografica Berserk Ōgon JidaiHen (Berserk - L'epoca d'oro), che vede coinvolta
nella distribuzione la Warner Bros. Berserk Ōgon
Jidai-Hen I: Haō no Tamago (Berserk – L'epoca
d'oro – Capitolo I: L'uovo del Re) ha fatto la sua
comparsa in Giappone il 4 febbraio 2012, mentre
il successivo Berserk Ōgon Jidai-Hen II: Doldrey
Kōryaku (Berserk – L'epoca d'oro – Capitolo II:
Battaglia per Doldrey) il 23 giugno dello stesso
anno. Invece il terzo film, Berserk Ōgon Jidai-Hen
III: Kōrin (Berserk – L'epoca d'oro – Capitolo III:
L'avvento), è stato annunciato per l’1 febbraio
DOn't talk.
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