NO. NON SARANNO I FILOSOFI A SALVARE L`UMANITÀ

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NO. NON SARANNO I FILOSOFI A SALVARE L`UMANITÀ
RISPONDE
Umberto
Galimberti
NO. NON SARANNO
I FILOSOFI A
SALVARE L'UMANITÀ
Scrive Gùnter Anders: «Oggi la domanda non è più: "Che cosa possiamo
fare noi con la tecnica", ma "Che cosa la tecnica può fare di noi '»
Il genetista Giuseppe
Remuzzi ha scritto
recentemente (su La
Lettura) che gli scienziati
oggi sono in grado di fare
"gene editing": hanno
imparato cioè a modificare
il genoma, si può
addirittura sostituire una
parte di Dna - quella
che contiene la variante
genetica che si vuole
eliminare - con una sana.
Lo faranno davvero?
E perché? Il professor
Remuzzi pensa di sì, senza
dubbio: con l'obiettivo
di correggere anomalie
genetiche. Chi è contro il
gene editing per principio
usa però come argomento
la domanda "dove poniamo
il confine?". In altre parole,
chi decide che cos'è
la malattia, la patologia da
"correggere"? E il Ubero
arbitrio: dove lo mettiamo?
E giusto interferire
con il corredo genetico di
qualcuno? Tutto questo
esula dalla competenza
della scienza, conclude
Remuzzi: è materia
per filosofi. E allora eccoci
a lei: che cosa ne pensa?
Riccarda Zezza
[email protected]
Q
uando un problema non offre
facili soluzioni si passa la palla ai filosofi, probabilmente in
quanto si presume che siano
competenti in materia di etica.
Anche se tutti sappiamo che, di fronte alla
tecnica, l'etica celebra la propria impotenza,
perché come può impedire alla tecnica che
può di fare ciò che può? Nella storia non si è
mai visto che una potenza rinunci all'esercizio della sua potenza.
Oggi l'etica si trova a promuovere o interdire, in nome di valori resi instabili dal crollo
delle ideologie e dalla rapida trasformazione
che il mondo ha subito in questi anni, ciò
che la tecnica comunque rende possibile.
L'"agire", come scelta dei fini a cui si rivolge l'etica, cede al "fare" come produzione di
risultati a cui si applica la tecnica. In questo
senso la tecnica celebra l'impotenza dell'etica, la definitiva subordinazione dei "fini" ai
"mezzi" che rendono possibili risultati fino
a quel momento inimmaginabili. Fuori da
questo stringente ragionamento, a cui la tecnica ci obbliga, restano solo le chiacchiere, le
implorazioni, le indignazioni e nient'altro.
L'unico limite che la tecnica ha oggi (un limite provvisorio che in futuro sarà superato)
è costituito dall'economia, a cui da tempo la
politica ha ceduto il suo potere decisionale.
Se dunque le novità rese possibili dalla tecnica sono molto richieste e quindi economicamente vantaggiose, esse verranno realizzate
a prescindere dalle rimostranze dei difensori
dei valori etici. I valori infatti, oggi non sono
più decisi dall'etica, ma dall'economia che
ha assunto il denaro come generatore simbolico di tutti i valori. E oggi, da mezzo per
soddisfare bisogni e produrre beni, il denaro
è diventato un fine, per realizzare il quale si
vedrà poi se soddisfare bisogni e in che misura produrre beni.
La tecnica, come universo di mezzi, è riuscita
più di qualsiasi altra espressione apparsa nella storia a trasformare i mezzi in fini. Perché
solo quando si dispone dei mezzi, i fini sono
a portata di mano, altrimenti restano sogni.
Eppure, nonostante questa evidenza, non
cessa di morire l'idea che, siccome la tecnica
è prodotta dall'uomo, l'uomo può decidere
se e come usarla. È questo presupposto umanistico, secondo cui resta nelle mani dell'uomo il controllo della tecnica, a essere messo a
dura prova dal livello raggiunto dalla tecnica,
che dopo aver oggettivato nella macchina le
prestazioni degli organi esecutivi dell'uomo
(mani e piedi), degli organi sensoriali (occhi
e orecchi), dell'organo di controllo (il cervello), oggi è in procinto di affidarle la modificazione del nostro Dna.
Per non spaventare nessuno si dice che questo serve a correggere patologie altrimenti
irreversibili. Ma naturalmente quel che serve
a correggere patologie può anche servire a
ridurre segmenti del comportamento umano al livello di parti di macchine regolate da
modifiche genetiche programmate, in grado
di garantire, meglio delle norme etiche interiorizzate o sanzionate dalla forza, i comportamenti attesi o funzionali alle esigenze della
razionalità tecnica che, più si diffondono, più
sono percepite come esigenze "naturali".
Quanto poi al "libero arbitrio", non esageriamone la portata e non usiamo troppa enfasi. Perché, anche senza interventi sul nostro
Dna, la genetica non lascia grande spazio al
nostro arbitrio, e dal canto suo l'ambiente,
citato di solito per attenuare il determinismo
genetico, non è meno vincolante, se è vero
che quando sono nato non ho scelto dove né
quando, non ho scelto i miei genitori né l'educazione che mi hanno impartito e che mi
ha condizionato, né ho scelto i casi della vita
che mi hanno fatto assumere una direzione
piuttosto che un'altra. E soprattutto non ho
scelto la mia identità, da cui dipendono i miei
comportamenti che, come quelli di tutti,
sono alla base della fiducia e affidabilità sociale proprio perché non cambiano secondo
l'estro della nostra presunta libertà.
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D 106
23 LUGLIO 2016
GIUSEPPE REMUZZI