l`azzurro profondo di georg trakl

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l`azzurro profondo di georg trakl
 ® F RONTIERA DI P AGINE
LETTERATURA CONTEMPORANEA
L’AZZURRO
PROFONDO DI GEORG TRAKL
di Andrea Galgano
http://polopsicodinamiche.forumattivo.com
Prato, 17 aprile 2012
I IL
colore dell’ombra tragica che si dipana sui rovelli malinconici e piovosi di un’immagine breve, netta, senza riposo: ecco Georg Trakl (1887‐
1914), poeta austriaco di inizio Novecento morto a Cracovia. Assieme ad Hofmannstahl e Rilke, egli rappresenta il bocciolo di un fiore nero, che di rado, poggia le sue armonie su vertigini d’altezza e precipizi inenarrabili. L’alcool e gli stupefacenti e le ossessioni per la decadenza di un’immagine sociale sono la compattezza gelida del suo mondo, dove la sua chiusura è penombra insolubile, incerta. Era nato a Salisburgo il 3 febbraio 1887, figlio di un commerciante luterano e di madre cattolica di origini slave, amante e collezionista d’antiquariato. ®
© articolo stampato da Polo Psicodinamiche S.r.l. P. IVA 05226740487 Tutti i diritti sono riservati. Editing MusaMuta www.polopsicodinamiche.com http://polopsicodinamiche.forumattivo.com Andrea Galgano. L’AZZURRO PROFONDO DI GEORG TRAKL ‐ 17.04.2012
Presto quell’animo, solitario come il gelo delle ombre, mal riusciva a vivere il suo principio negli studi regolari (riuscì solo dopo a diplomarsi in farmacia), aveva bisogno di una radura vicina che lo sostenesse. Si legò a sua sorella Margarete (detta Grete che si ucciderà dopo la morte del poeta), in un rapporto incestuoso, finendo per segnare l’oggetto di una colpa innominabile, di un’angoscia di richiami e fumi. In questo sigillo percosso da vento gelido e disperata bellezza, l’angustia, spesso psicotica, lo porterà al suicidio, prima tentato dopo la battaglia di Grodek dopo il ricovero nell’ospedale psichiatrico di Cracovia, dopo un’overdose di cocaina e un’unica silloge poetica pubblicata nel 1913 (Gedichte), prima dell’ultima, postuma, Sebastiano in sogno nel 1915. Ma anche nell’ottenebramento sperduto, nella colpa, nello sbigottimento tra decadenza e lacerazione, egli avverte un palpito, brevissimo, una tenerezza dolce e triste, che si affaccia in un balcone di arcobaleni, in cui l’azzurro, è il segno di un tentativo vitale, di una delicatezza d’ispirazione. Nei processi di sradicamento da sé, dalla civiltà, dal mondo, l’agonia di un mancato rapporto con una totalità conclusiva di compimento nella dinamica umana (che sfocerà poi nell’annichilimento della prima guerra mondiale) decreta l’antitesi tra situazione e individuo, società e particolare. II È nella nostalgia per un’unità perduta che si rinviene il lampo di una poesia autentica, di un ramo naufragato che trasogna e si riscatta. Le sue composizioni percorrono le feritoie delle soglie, dei margini, quando la disperazione si riempie di abissi, quando le ferite sono risonanze di lacrime. L’indicibile del suo campo semantico, l’originalità dei suoi schemi metrici sono un’ampia zolla di verità e di grido unanime: «Umile si piega al dolore il sofferente/ che d’armonie risuona e di morbida follia./ Guarda! Fa scuro ormai. Torna ancora la notte e geme un mortale/ E un altro divide la sua pena. / Rabbrividendo sotto stelle autunnali/ Ogni anno di più si china il capo». Dentro quel grido di margine si respira il dramma dello spirito europeo dei primi del Novecento, senza certezze, ma ricolmi di un mistero stringente, di un attimo spaurito, in cui anche l’amore conosce la cifra dell’impossibile, il ritmo delicato e tragico di un tentativo di emersione dalla crisi: «Sorella di tempestosa tristezza/ guarda: un impaurito battello affonda/ dinnanzi a stelle,/al muto volto della notte.». Il naufragio del coro purpureo vive la sua stagione all’inferno, sotto una volta celeste di silenzio e di stelle, contemplando lo smarrimento di muta presenza, di sperdutezza implacabile. ®
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Ma la solitudine fiera ed estrema, vissuta nel traliccio con sua sorella è uno sperduto ponte di innocenza, in un naufragio che non reca compimento e sollievo a un dolore di sponde, dentro al quale la traccia di ammutolimento è il prodromo di una sconfitta di esistenze, annientate anche dal tumulto di sangue della guerra, di un’ «umanità schierata davanti a gole fiammeggianti», di una «lunare frescura»: «La sera risuonano i boschi autunnali/ di armi mortali, le dorate pianure/ e gli azzurri laghi e in alto il sole/ più cupo precipita il corso; avvolge la notte/ guerrieri morenti, il selvaggio lamento / delle loro bocche infrante. / Ma silenziosa raccogliesti nel saliceto/ rossa nuvola, dove un dio furente dimora, /Il sangue versato, lunare frescura». È uno scenario di angoscia, in cui l’ossimoro di una natura festosa smalta trasfigurazioni di guerrieri che risposano nel buio, in una contemplazione d’orrore, in una confusione di rugiade e silenzi. Come se la promessa di felicità della realtà conoscesse una trasfigurazione di moti convulsi, di segni incerti e dimore infernali: «Nubi di primavera incombono sulla città buia/ Che tace più nobile èra di chiostri./ Quando presi le tue mani scarne/ levasti piano gli occhi tondi, /Molto tempo fa. // Ma quando oscura armonia visita l’anima/ Appari tu, bianca, nel paesaggio autunnale dell’amico». Sono illuminazioni frante di rivelazioni e rovine che mettono a nudo un io lacerato, disperante, occluso in rifrazioni scure, in prismi solo accennati di azzurro, nel volto della notte. Scrive Georg Trakl: «Singolari sono i sentieri notturni dell’uomo. Quando nel mio notturno vagare passai attraverso stanze di pietra, e ardeva in ciascuna un piccolo, tacito lume, un candelabro di bronzo, e quando rabbrividendo mi accasciai sul giaciglio, al capezzale stava di nuovo la nera ombra della straniera e muto il mio volto celai nelle mani lente. Alla finestra era anche fiorito azzurro il giacinto e al purpureo labbro del respirante affiorò l’antica preghiera, dalle ciglia caddero lacrime cristalline, piante sull’amarezza del mondo. In quell’ora fui il bianco figliuolo alla morte di mio padre. A brividi azzurri giungeva dal colle il vento notturno, l’oscuro lamento della madre, che di nuovo moriva, e io vidi l’inferno nero nel mio cuore: attimi di lucente silenzio. Lieve affiorò dal muro di calce un volto indicibile – un giovinetto morente – la bellezza di una stirpe che tornava in patria. Bianca di luna la pietra fresca accolse la vigile tempia, si dileguarono i passi delle ombre sui gradini corrosi, nel piccolo giardino un girotondo di danza.» Ecco la sua simbologia dispiegata in un’ode di quadri e vedute isolate, come segnalazione di bordi, come presenze intime. Attraverso queste linee oscure, inspiegabili, la scena si intreccia a ripugnanza e serenità, laddove Heidegger comprese il suo tracciato unico, nel leggere il suo testo come “un’unica poesia”. Di una perduta armonia percorsa da brividi ®
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III sensuali e paesaggi di rive che stringono, fermano, conoscono ambiguità senza rinascita. Nel suo intimo disvelamento la trama di un impulso verso l’assoluto risulta irraggiungibile e soggiace alla sua poesia, che, come scrive Eugenio Borgna, è “percorsa da una straziante percezione della realtà vissuta come dolore, e come negazione, e sigillata da un naufragio di senso di un linguaggio disfatto nella sua struttura, testimonia dell’ambivalenza e della complessità di un universo interiore: nel quale rinascono schegge di luce anche dal viaggio nelle tenebre e dal volto taciturno delle notti della disperazione”. Come un volto di confine e uno sperduto sussurro. IN UNA STANZA ABBANDONATA Finestre, variopinte aiuole, un organo vi alterna il suono. Ombre danzano sui parati, una bizzarra folle ridda. Fiammeggianti i cespugli alitano e vibra di moscerini uno sciame, lontano mietono sul campo le falci IV e un'acqua antica canta. Di chi è il respiro che m'accarezza? Rondini tracciano confusi segni. Lieve verso lo sconfinato scorre laggiù la dorata regione dei boschi. Fiamme vacillano nelle aiuole. Confusa ed estatica la folle ridda su pei giallastri parati. Qualcuno guarda entro la porta. Incenso dolce profuma ed il pero e imbruniscono cassapanca e bicchiere. Lentamente si china l'ardente fronte verso le bianche stelle. ®
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