SALUS, VENUS E VIRTUS IN DOGLIA MI RECA NE LO CORE
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SALUS, VENUS E VIRTUS IN DOGLIA MI RECA NE LO CORE
SALUS, VENUS E VIRTUS IN DOGLIA MI RECA NE LO CORE ARDIRE ROSARIO SCRIMIERI Universidad Complutense de Madrid Asociación Complutense de Dantología 1. Le seguenti riflessioni intendono soffermarsi su diversi aspetti di poetica della canzone Doglia mi reca ne lo core ardire, valutandone – come ho cercato di fare anche nel contributo su Tre donne (Scrimieri 2007) – il ruolo e la funzione all’interno dello sviluppo della scrittura poetica di Dante. In questo senso, la scelta delle ultime canzoni dell’esilio come obiettivo di questi incontri, è stata una esperienza illuminante per spiegare la transizione dalla scrittura lirica della gioventù a quella della piena maturità, rappresentata dal poema sacro. Il punto di partenza di questa esposizione si basa su un fatto che mi sembra evidente: Dante in questa canzone dichiara l’impossibilità della continuità della poetica d’Amore. Difatti, il poeta stesso nel De vulgari eloquentia cita la canzone come modello della poetica della rettittudine, cioè come una composizione che ha per matera la virtù, cerca l’onesto ed il cui fine è la directio voluntatis. Nella canzone Dante implicitamente dichiara l’impossibilità della continuità della poetica d’Amore tale come era stata concepita dalla tradizione cortese e come fu dopo elaborata dallo stilnovismo, il suo legittimo erede, e ne segnala anche in un modo indiretto le ragioni: la fine definitiva dei presupposti sociali e politici che resero possibile il sorgere dell’ideologia dell’amore cortese, così come la crisi di quella che fu la matrice dello stilnovismo, la crisi politica della società comunale e la nascita dei primi segni della signoria. Il punto di partenza di queste riflessioni è dunque l’idea che una identità poetica presuppone un identità di base sociale, e in questo senso Dante nella canzone in esame 41 LA BIBLIOTECA DE TENZONE GRUPO TENZONE rende visibile in un modo indiretto la base sociale e politica che generò la poetica dell’amore cortese, così come quella del comune dal quale sorse lo stilnovismo. La canzone, da questo punto di vista, è una conferma, secondo me, della famosa tesi di Köhler, sostenuta nell’opera Sociologia della fin’amor. Bandito dal comune, dove una nuova classe intellettuale laica aveva elaborato la teoria del merito propria del codice d’amore cortese, la situazione di Dante nell’esilio ricorda, senza dimenticare le differenze, le condizione di precarietà della piccola nobiltà feudale francese del dodicesimo secolo in cerca di sostegno e di sicurezza materiale. Non è necessario ricordare le pagine di Köhler che iniziano dialogando con il pensiero di Spitzer il quale credeva di aver risolto l’ “enigma” dell’amore cortese nella concezione cristiana dell’amore. Senza negare questa influenza, a Köhler interessa spiegare perché l’influenza cristiana – e anche altre influenze, soprattutto quella del codice cavalleresco – furono addottate come mezzo di espressione di una «società nuova, laica» come quella cortese e l’autore trova «le cause nel rapporto tra sovrastruttura poetica e base sociale e nelle trasformazioni di quest’ultima» (Köhler 1976: 3). L’argomentazione di Köhler comincia con l’idea di liberalità (largueza) in cui il rapporto struttura-sovrastruttura appare nel modo più evidente. Essa è «vertut principal», al di sopra anche dell’ardimento cavalleresco /…/ e la corte di un grande signore è il luogo della liberalità per eccellenza (Köhler 1976: 4). Osserva l’autore che la lunga serie delle polemiche contro l’avarizia incomincia con Marcabru che è, insieme a Jaufre Rudel, il poeta più originale della seconda generazione trobadorica. Donar è per lui la virtù per eccellenza e si identifica quasi con proeza, mentre da altra parte avareza, la cupidigia, diventa la madre di tutti i vizi ed escarsedat, l’avarizia, viene messa sullo stesso piano di malvestat. Marcabru dà la colpa della decadenza del mondo – uno dei suoi temi centrali – ai baroni ricchi e potenti che adempiono soltanto controvoglia al loro dovere più importante, che è donare. Ricchezza e prestazioni, rango 42 Rosario SCRIMIERI Salus, Venus e Virtus in Doglia mi reca sociale e qualità morali non si corrispondono più. Le accuse contro i rics malvatz, da Marcabru in poi, risuoneranno senza interruzione in tutta la poesia provenzale. I trovatori non si stancano mai di ripetere ai baroni che la liberalità è la base del loro potere, che è l’essenza stessa della nobiltà e, addirittura, che è l’unica possibilità per i ricchi e i potenti de rendersi degni dell’amore cortese, altrimenti irraggiungibile (Id.: 4). Di conseguenza, ricchezza e potere hanno un valore morale se sono utili non solo a chi li detiene direttamente ma anche ad una cerchia più vasta: riemerge il legittimo ricordo delle leggi che la società feudale aveva al momento della sua costituzione (Id.: 4-5) 1. Mi sembra importante mettere in rapporto queste considerazioni con l’obiettivo della mia esposizione, perché le mie riflessioni di poetica si presentano intimamente legate a quelle storiche e alle vicissitudini della vita del nostro autore nell’esilio. Ho preso come punto di partenza la tesi di Natascia Tonelli secondo la quale le quindici canzoni distese hanno un ordine coerente e offrono fra di loro una connessione tematica. Le canzoni dell’esilio diventano così la sede di nuove realizzazioni poetiche, ma nello stesso tempo mostrano anche l’esaurimento di poetiche del passato, come quella dell’amore cortese e stilnovista, mettendo in crisi con questo esaurimento l’identità poetica che fino a quel momento aveva definito l’autore come poeta d’amore, identità con cui si presentava anche nei versi iniziali della canzone Tre donne. Per procedere prenderò come punto di partenza alcune ipotesi di poetica che ho esposte nell’articolo Scienza dell’anima e poetica nella Vita Nuova (Scrimieri 2005). L’intuizione di Dante alla fine del libello, dopo la «mirabile visione», riguarda la scrittura del futuro ed è possibile che il poeta avesse già in mente ciò che si potrebbe chiamare una poetica della totalità, intesa a produrre una poesia tendente a rappresentare la totalità dell’anima umana. In rapporto con la poetica del passato la Vita Nuova ha significato la verifica del fallimento, una 43 LA BIBLIOTECA DE TENZONE GRUPO TENZONE dopo l’altra, di una serie di poetiche che sono state, per l’appunto, rappresentazioni incomplete dell’anima e non della sua totalità. In quest’ordine di idee, l’ultimo sonetto dell’opera rappresenterebbe un approssimazione a quest’ idea di totalità, nel senso che in esso si attuano le diverse “virtù” o potenzialità dell’anima umana: la vis vegetativa che cerca la salute-salvezza, tentando di liberarsi dalla vita invilita dal lutto; la vis sensitiva che nonostante l’imposizione del principio di realtà, attuato dalla morte di Beatrice, mantiene vivo il principio d’amore; la vis intellettuale, che innalza il pensiero e la facoltà intuitiva alla regione contemplativa dello spirito. Tutto ciò avviene grazie alla capacità imaginativa e visionaria dell’io poetico che fa che il sonetto diventi uno spazio simbolico dove coesistono in forte tensione le diverse esigenze dell’anima umana. Nella prospettiva di una poetica della totalità la Vita Nuova rappresenterebbe l’itinerario dell’anima verso la sua compiutezza, verso l’integrazione della vis vegetativa, sensitiva e razionale. Ma è anche certo che questa tensione dell’anima verso la sua compiutezza, rappresentata da una poetica della totalità, nella Vita Nuova si sviluppa nell’ambito chiuso della coscienza del singolo soggetto, al margine delle vicissitudini di una collettività inserita nella storia. In questo senso, ho tentato di dimostrare come in Tre donne si verifichi un allargamento della ricerca della salus che non solo contempla le esigenze di salvezza nell’ambito di una storia individuale ma anche collettiva, e non solo parla di autoconservazione nel senso singolare, come suggeriva Dante nel Convivio quando, immerso nel lutto per Beatrice, dice che la sua mente, «che si argomentava di sanare /…/ provide ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi» (II, xii, 2), mentre cominciava a leggere il De consolatione philosophiae di Boezio. Nella situazione dell’esilio l’esigenza di autoconservazione è anche materiale e coinvolge la difesa della propria persona in senso politico e morale. 2. I tratti che definiscono la natura poetica della canzone Doglia mi reca sarebbero i seguenti: 44 Rosario SCRIMIERI Salus, Venus e Virtus in Doglia mi reca a) Dal punto di vista metapoetico, Dante nelle tre prime stanze e nella settima, attraverso le parole indirizzate alle donne, dichiara l’impossibilità della continuità della poesia di Amore perché quest’ultimo si è separato dalla virtù: la vis sensitiva nella pratica amorosa del suo tempo si mostra scissa dall’anima razionale: «voi non dovreste amare, / ma coprir quanto di biltà v’è dato, / poi che non c’è vertù, ch’era suo segno» (vv.15-17); «Oh cotal donna pera /…/ e [che] crede amor fuor d’orto di ragione» (vv. 146-147). Si presenta invece come un io mosso da una forte volontà di dire (per tre volte la forma verbale «dico» si ripete nella prima stanza), «parole quasi contra tutta gente», e che ribadisce con intensa vis polemica nella sesta stanza: «I’vo’che ciascun m’oda» (v. 118). Con questo atteggiamento enunciativo si separa inizialmente dalla poesia d’amore e si inserisce nella modalità invettiva e satirico-morale del genere lirico-dottrinale, praticata dai poeti provenzali, e poi, da Guittone d’Arezzo. Nel De vulgari eloquentia Dante cita, come ho già specificato, questa canzone come esempio di poetica della rettitudine. Prima ha menzionato il serventese Per solatz revelhar di Giraut de Bornelh come esempio provenzale di questa poetica, una composizione dove l’avarizia della nobiltà, che non pratica più la generosità dei suoi antenati2, si considera nemica principale degli antichi valori. b) Nella terza strofa Dante rifiuta esplicitamente la figura dell’allegoria perché quando si tratta di rappresentare una poesia che insegue “l’utile”, cioè quando si tratta di una poetica della salvezza, la chiarezza è necessaria: Ma perché lo meo dire util vi sia, discenderò del tutto in parte ed in costrutto più lieve, sì che men grave s’intenda: ché rado sotto benda parola oscura giugne ad intelletto (vv. 53-58). Nella strofa sesta, a canzone compiuta, Dante ribadisce la sua scelta rispetto al rifiuto dell’uso dell’allegoria nella sua canzone: 45 LA BIBLIOTECA DE TENZONE GRUPO TENZONE «Disvelato v’ho, donne, in alcun membro / la viltà de la gente che vi mira» (vv. 127-128). I versi che seguono: «ma troppo è piú ancor quel che s’asconde / perché a dicerne è lado» non credo che si riferiscano alla presenza di un significato nascosto nella canzone ma semplicimente alla volontà del poeta di non trattare più una tematica “brutta”, contraria alla bellezza e – da una prospettiva della poetica della totalità – contraria, quindi, alla virtù. L’esigenza di parlare chiaramente quando si tratta di inseguire l’utilità e con questa la salus è confermata dal Convivio dove Dante afferma che il senso letterale della terza canzone non rimanda a nessun altro senso dal momento che essa «si intende a rimedio così necessario» – qual è la definizione corretta della nobiltà – che «non era buono sotto alcuna figura parlare, ma conviensi per via tostana questa medicina, acciò che fosse tostana la sanitade» (Conv. IV, i, 10). I versi 53-59: Ma perché lo meo dire util vi sia, discenderò del tutto in parte ed in costrutto più lieve, sì che men greve s’intenda, hanno un’altra implicazione rispetto a una poetica della salvezza. L’uso della parola lieve rimanda a quella occitanica “leu”3, al trobar leu della tradizione provenzale in opposizione al trobar clus, opposizione stilistica che nasconde, come afferma Köhler, un dibattito sociale: Il logico, necessario corrispondente stilistico dell’ideale cortesecavalleresco sarebbe il trobar leu. Col trobar leu ha inizio quel processo di generalizzazione dei valori cortesi che il trobar clus /…/ sarebbe stato in grado di evitare (Köhler 1976: 162) con le sue pretese di mantenere la situazione di egemonia dell’alta nobiltà; un processo di generalizzazione che si traspone all’ambito della società comunale quando l’ideologia cortese viene rielaborata dagli stilnovisti. La leggerezza, la pianezza della costructio stilnovista sarebbe l’omologazione stilistica della volontà politica di 46 Rosario SCRIMIERI Salus, Venus e Virtus in Doglia mi reca universalizzazione delle virtù morali dell’antica nobiltà, diventate adesso strumento di ingentilimento e di ascesa sociale, paradossalmente quando quella classe d’origine non esiste più. Dante dichiara la volontà di eseguire la sua canzone in stile lieve, vale a dire, in un modo facile e chiaro, come veicolo appropriato per una poetica che insegue l’utile e ricerca la salus in un ampio contesto secolare e sociale, dove gli preme di essere capito e dove la “armorum probitas” dell’originaria poetica della salvezza del De vulgari eloquentia è allargata ad una militanza politica e morale necessaria alla salvaguardia della vita etica della società intera. L’esigenza dello stile lieve rimanda, d’altra parte, al trobar clus di Guittone, alla sua estrema concentrazione concettuale che rende il discorso difficile da capire e quindi oscuro. Non dobbiamo dimenticare che, dal punto di vista metapoetico, in questa canzone Guittone è l’interlocutore più importante di Dante; nonostante il silenzio del De vulgari eloquentia, è il vero poeta italiano della rettittudine, che Dante avrebbe dovuto menzionare, accanto a se stesso, nel trattato. Con lui deve confrontarsi adesso e da lui vuole anche esplicitamente distanziarsi. E in questo senso, in opposizione alla difesa della propria oscurità che Guittone fa nella canzone «Altra fiata aggio già, donne parlato», che Boyde mostra come modello di Doglia mi reca4, è possibile pensare che Dante abbia fatto questa dichiarazione di scelta di uno stile lieve, accessibile e non oscuro, come implicita volontà di distanziarsi e differenziarsi dal referente guittoniano (Cfr. Barolini 1993: 94-95), troppo immedesimato nei giochi concettuali, e meno nell’ aspetto dell’ utile, proprio di una poetica della salvezza. c) Siamo dunque di fronte ad una poetica della salus completamente legata a quella della virtus, come dicono gli ultimi versi della seconda strofa, riferiti alla virtù: «tu sola fai segnore, e quest’è prova / che tu se´ possession che sempre giova» (vv. 41-42). Dante si inserisce così nella tradizione del genere della lirica dottrinale sotto la modalità pragmatica dell’invettiva e della satira morale, nella linea dei trovatori, 47 LA BIBLIOTECA DE TENZONE GRUPO TENZONE ma soprattutto di Guittone5. È essenziale, rispetto a quest’ultima modalità poetica, la strofa sesta dove Dante, prima di avviarsi alla conclusione, fa emergere con intensa violenza la sua intenzione polemica: «I’vo’che ciascun m’oda». Il poeta fino al momento ha proceduto dalle considerazioni generali sulla virtù, nella seconda e terza strofa, a quelle più ristrette sulla avarizia, nella quarta e quinta, per giungere, nella risoluzione della sesta, a mostrare le conseguenze della condotta dell’avaro sugli altri uomini. In questi ultimi versi, però, il coinvolgimento pragmatico è così intenso che si intravede, sotto il poeta della rettittudine e dell’invettiva morale, l’io storico che patisce quelle conseguenze. In un certo paralellismo strutturale con Tre donne dove, dopo la sceneggiatura allegorica, emerge l’io storico, qui, dopo il sermone lirico, si intravede, attraverso il forte ethos polemico, la condizione umiliata del soggetto nell’esilio e anche la sua orgogliosa ribellione: chi con tardare e chi con vana vista, chi con sembianza trista, volge il donare in vender tanto caro quanto sa sol chi tal compera paga. Volete udir se piaga? Tanto chi prende smaga che ‘l negar poscia non li pare amaro (vv.119-125). Qui «il cantor rectitudinis e il vendicatore di sé abitano insieme» (Contini in Alighieri 1997: XXII), e Contini osserva come la «poetica del risentimento s’innesta singolarmente sulla poetica della vita morale, quando quel risentimento si fa sdegno per la viltà della generazione presente» (Id. 1997: XXII). In questo senso, è interessante osservare come nella Commedia (Inf. VII), i versi dedicati agli avari non adottino il registro dell’invettiva morale ma quello pacato della meditazione dottrinale, attraverso le parole di Virgilio (vv. 61-66), mentre invece ritroviamo questo registro nei canti nettamente politici, come nell’invettiva indirizzata all’ Italia e soprattutto a Firenze nel canto sesto del Purgatorio. Si dimostra così, secondo me, che il preminente registro polemico di Doglia mi reca stia al servizio della 48 Rosario SCRIMIERI Salus, Venus e Virtus in Doglia mi reca poetica della salus, non solo nel senso ristretto della autoconservazione e della difesa degli interessi materiali del proprio soggetto ma anche nel senso più ampio appena accenato, della militanza per la salvaguardia dei valori etici dell’intera società, fatto che permette di considerare questa canzone come preminentemente politica. Poetica della rettitudine, che insegue la virtus ed il cui fine è la directio voluntatis, e modalità invettiva e satirica al servizio della poetica della salus confluiscono, dunque, nella canzone nella linea della poesia di Guittone e anche della lirica realista toscana, dal momento che Dante si inserisce in un filone poetico che aveva fino allora criticato e respinto6. Da un lato, si allontana dal capitolo XXV della Vita Nuova dove si definiva esclusivamente come poeta d’amore, schierandosi contro i poeti che «rimano sopra altra matera che amorosa», dato che il rimare in volgare era stato «dal principio trovato per dire d’amore» (XXV, 6), e dall’altro, si avvicina a Guittone e ai suoi seguaci duramente trattati nel capitolo VII del libro secondo del De vulgari eloquentia («Cessino adunque i seguitatori dell’ignoranza, che levano alle stelle Guittone d’Arezzo e qualche altro, non usi ne’ vocaboli e nelle costruzioni a lasciare i modi della plebe»), e nel capitolo XIII del libro primo, dove invece di includere le citazioni dei poeti toscani che ha appena nominato (Guittone, «che mai al vulgar curiale non si mosse», Bonagiunta da Lucca, Mino Mocato da Siena, Brunetto da Firenze), offre ironicamente anonimi esempi burleschi tratti dai dialetti municipali di ognuna di queste città. Ma nel momento critico dell’esilio dove si impone al poeta il principio di realtà e con questo l’insufficienza della poetica dell’amore per rappresentarlo – nello stesso modo che nella Vita Nuova l’imposizione del reale con la morte di Beatrice interrompe bruscamente il canto stilnovista – Dante deve affrontare le poetiche connesse al realismo, la linea dei vecchi toscani, quella di Guittone e dei suoi seguaci7; deve, se mi si permette usare la famosa formula di Montale per spiegare la relazione D’Annunzio-Gozzano, “attraversare” Guittone per approdare ad un territorio tutto suo, un territorio dove si affretterà a cancellare le tracce 49 LA BIBLIOTECA DE TENZONE GRUPO TENZONE guittoniane. Nel Convivio, infatti, manifesta, in materia dello stile della satira e dell’invettiva morale, la sua ammirazione per un poeta classico come Giovenale8 di cui parafrasa i vv. 1-24, 30-34, 54-55 della satira VIII ((IV, xxix, 4ss.), e nel canto XXII del Purgatorio, dedicato agli avari e ai prodighi, è il poeta menzionato da Virgilio. 3. Diventare un poeta della rettittudine significherebbe una regressio dal punto di vista di una poetica della totalità. La canzone non tenderebbe più alla sintesi dei tre magnalia connessi alle tre vis dell’anima; un poeta della rettittudine ometerebbe le esigenze dell’anima sensitiva, e la sua poetica incompiuta rischierebbe l’aridità, la morte per mancanza di quanto simbolicamente si riferisce al eros e al femminile (cfr. López Cortezo 2005). In questo senso, credo che sia interessante analizzare nella canzone la relazione tra il poeta d’amore e il poeta della rettittudine e dell’invettiva morale. Prima di tutto, è vero che alla base di Doglia mi reca restano, come dice Contini, «pur sempre Amore come fonte di bene, e la beltà «a vertù solamente formata», e che quindi «il cantor rectitudinis esce dal cantore d’Amore» (Contini in Alighieri 1997: XIX). In effetti, la tematica morale sull’avarizia è inquadrata tra la terza e la sesta strofa, spazio dove appare il destinatario dell’invettiva di Dante: tutti gli uomini («I’vo’che ciascun m’oda»). Le tre prime strofe e la sesta sono invece dedicate esplicitamente alle donne. Loro sono le prime ricettrici della canzone perché sono le uniche che possono far convergere, attraverso l’amore, la bellezza, legata all’anima sensitiva e la virtù, inerente all’anima razionale9. In questo senso, si percepisce la calcolata ambiguità della scrittura di Dante in quanto, dal punto di vista dell’invettiva morale, le donne sono solo le apparenti ricettrici mentre, dal punto di vista della poetica d’amore, sono loro le vere destinatarie. Senza la loro cooperazione l’amore non potrà mai innalzarsi dal piano dell’anima sensitiva a quello della virtù dell’anima razionale, «l’appetito di fera» non potrà diventare mai amore (v. 143). Invoca quindi il poeta la funzione correttrice e educatrice che la donna svolse una volta nelle corti della tradizione cortese: «La domina della corte si trovava di fronte – soprattutto durante le frequenti assenze del signore 50 Rosario SCRIMIERI Salus, Venus e Virtus in Doglia mi reca – ad un compito nuovo e di estrema importanza» (Köhler 1976: 1415); «una sola donna, durante queste lunghe assenze, esercita il comando ed è contemporaneamente signora ed educatrice» (Id. 17). È così come la donna interpreta una funzione che risponde anche ad una importante necessità sociale e politica, come dimostra Köhler nelle sue pagine, innalzando il più potente degli istinti umani a strumento di ordine. Dante infatti sta implicitamente richiedendo alla donna questo compito del passato e in questo senso è interessante soffermarsi sulla figura del disdegno che nomina sotto la forma paradossale del «bel disdegno». Dopo il verso: «voi non dovreste amare» (v. 15), parole che segnalano la fine di una poetica d’amore e che gli fanno, due versi dopo, esclamare: «Lasso, a che dicer vengo?», enuncia la parodossale possibilità che ci sia un «bel disdegno», nel senso che la donna, allontanando da sé spontaneamente la propria bellezza, indirettamente allontani da sé gli uomini mossi solo dalla amoris accensio. Il «bel disdegno» delle donne verso la propria bellezza potrebbe interpretarsi così indirettamente come il disdegno delle donne verso gli uomini che «da sé vertù hanno fatto lontana». E in questo senso la strofa settima è più diretta ed esplicita: Disvelato v’ho, donne, in alcun membro la viltà de la gente che vi mira, perché l’aggiate in ira (vv. 127-129); che non dee creder quella cui par bene esser bella, esser amata da questi cotali (vv. 138.140); e così anche i versi finali della terza strofa: «ch’abbiate a vil ciascuno [che non sia uomo di virtù] e a dispetto». Dante parla dunque di un rifiuto di corrispondenza da parte della donna, che paradossalmente avrebbe positive conseguenze per l’uomo, per la sua salus e il suo ritorno alla virtù; solo così l’amore ritornerebbe a compiere la funzione del passato. Nel passato il disdegno era rimproverato alla donna che disprezzava immeritatamente l’amante. Era una figura che si muoveva sottilmente fra la dialettica del sì e del no dato che la donna 51 LA BIBLIOTECA DE TENZONE GRUPO TENZONE poteva, anzi doveva, rendere difficile il corteggiamento, doveva perfezionare il legame con l’amante, ma non doveva troncarlo. La fin’amor richiedeva alla dama una minimo di dedizione, perché il sottile processo di educazione non rischiasse di perdere ogni senso (Köhler 1976: 124). Il «bel disdegno» che propone Dante, come rifiuto delle donne agli uomini «che da sè vertù hanno fatto lontana», avrebbe quindi una funzione correttrice, “utile”, per la loro salvezza ed anche regolatrice della loro volontà verso la virtù ma significherebbe pure la fine di una poetica d’amore radicata esclusivamente nei movimenti dell’anima sensitiva, incapace di integrare l’amore e le esigenze dell’anima razionale. Il poeta d’amore nell’esilio si rende conto della via senza uscita, data l’imposizione della nuova realtà, per la poetica d’amore; non esiste più la corte della tradizione antica dove la donna era il punto di riferimento, la correttrice ed educatrice delle passioni; né il poeta si trova più nello spazio del comune, sede di emulazione e di crescita intellettuale e spirituale nel circolo seletto di donne e uomini amici di virtù, con cui parlare e confrontarsi. Queste cornici sono svanite e la ferinità degli uomini, senza un contesto ideologico che permetta la loro correzione e trasformazione, stravolge la vita e l’identità del poeta. E forse sotto questa ottica si possono interpretare i versi finali dell’ultima delle canzoni distese: Amor da che convien pur ch’io mi doglia, dove Dante si lamenta durante l’esilio appenninico: «Lasso, non donne qui, non genti accorte / veggio», e chiama «sbandeggiata» della corte d’Amore alla nuova donna, per indicare un’esperienza d’amore non più regolata, non più indirizzata da un contesto ideologico che favoriva la confluenza di venus e virtus. Il poeta dell’esilio non ha più uno spazio riconosciuto che lo accolga e questo fatto sarà la base per l’interpretazione metapoetica della canzone: il poeta ci sta dicendo che non esistono più le condizioni storiche che possono sostenere e contenere la poetica d’amore tale come veniva definita dalla tradizione cortese e stilnovista. 52 Rosario SCRIMIERI Salus, Venus e Virtus in Doglia mi reca In questo senso, però, la canzone è ambivalente dacchè da un lato lascia trasparire la nostalgia per la poetica d’Amore, quell’amore che permette la sintesi fra bellezza e virtù, fra l’anima sensitiva e razionale, ma dall’altro mostra con estrema chiarezza l’imposizione del principio di realtà, contrario alle norme del codice d’amore. La canzone ci mostra un crocevia nell’itinerario poetico di Dante come poeta d’amore. Vista ante rem lascia in sospeso come potrà progredire la sua scrittura: se la sua identità si consoliderà secondo la poetica della rettittudine o secondo quella dell’amore. Vista, invece, post rem, a cose compiute, l’ultima delle canzoni distese riprenderà la poesia d’amore, nel senso più violento dell’amore tragico cavalcantiano, un amore che mostra il poeta «d’ogni vertute spento», dove l’anima sensitiva si mostra scissa dall’anima razionale, e ci domandiamo se il “disdegno” attuato dalla dama montanina non potrebbe essere considerato, da un punto di vista metapoetico, come un «bel disdegno», in parallellismo, nel giro della spirale del tempo, con quello di Beatrice che nella gioventù mosse il poeta verso la nuova matera, «più nobile che la passata», della lode; si potrebbe, dunque, considerare il disdegno di questa ultima donna delle rime dantesche, metapoeticamente parlando, come la spinta correttrice dell’energia creatrice verso la poetica visionaria della totalità, attuata nella Commedia, dove il poeta d’amore, grazie alla potenza dell’alta fantasia, fa convergere la poetica della salus, dell’amore e della virtus. 4. È stato Nardi a dire che il più alto grado di asperità e di subtilitas dialettica è stato raggiunto da Dante nella canzone della liberalità. In essa conduce l’uditore in un vero dedalo di sillogismi raccorciati, le cui premesse sono talora sottintese e appena accennate in forma allusiva, sì che, se egli non è ben desto e non pondera bene il significato di ogni parola, corre ad ogni momento il rischio di perdere il filo logico del discorso (Nardi 1960: 15). E proprio, riguardo all’ alto grado di subtilitas, la nostra canzone è tutta impostata sulla figura retorica della dissimulatio10, nonostante la 53 LA BIBLIOTECA DE TENZONE GRUPO TENZONE confessata volontà di Dante di essere chiaro ed aperto in questa canzone. La dissimulatio è una figura implicita inerente alla poetica dello schermo, che Dante usò nella prima fase della Vita Nuova, quella guittoniana, e che farà poi strepitosamente fallire dato che sarà la causa della perdita del saluto di Beatrice 11. La dissimulatio non si esaurisce, secondo me, nella figura del destinatario della canzone, come analizza Boyde. Dante comincia e finisce la sua canzone, dice Boyde, rivolgendosi ostentatamente ad un uditorio femminile, e cerca per di più di catturare la benevolentia degli uomini (destinati eventualmente a «sorprendere per caso» i suoi vituperi), sferrando in apparenza alle donne il suo attacco (Boyde 1979: 393); la dissimulatio consistirebbe così nel mettere le donne come schermo di un’ altro destinatario12, come ricettrici apparenti di un vituperio il cui vero obiettivo sono gli uomini e non tanto gli uomini in generale, «ma anche, in particolare, la classe dei protettori dai quali Dante in quel momento dipendeva» (Boyde 1979: 393). La dissimulatio, la subtilitas di Dante però non finiscono qui, secondo me. Il procedere indiretto, sotto uno schermo, inizia, come è evidente, nel modo in cui Dante introduce il tema della avarizia nella quarta stanza, attraverso una similitudine chiamata apparentemente a mostrare soltanto un esempio particolare del tema principale, la virtù in generale, ma che una volta introdotta, attraverso questa porta secondaria, diventa subito il tema della canzone; e l’avaro così, apparentemente entrato nel discorso come un esempio tra tanti dell’uomo che è servo del vizio, diventa il protagonista della canzone. Ma soprattutto la dissimulatio in questa canzone, la cui scrittura dovette essere difficile per l’orgoglio di Dante, è da individuare nel livello figurativo del testo dove l’isotopia della dialettica servo-signore si presenta in modo altamente ripetitivo, dalla seconda alla quinta stanza, per rappresentare la dialettica fra l’uomo che «da sè vertù ha fatto lontana» vs l’uomo «di veritate amico»: Omo che da sè vertù fatto ha lontana /…/ 54 Rosario SCRIMIERI Salus, Venus e Virtus in Doglia mi reca O Deo, qual maraviglia voler cadere in servo di signore (vv. 25-27) In opposizione a questi versi Dante mostra i rapporti inerenti al «gran vassallaggio» della «beata corte» dove la virtù rende signore nella dimensione etico-morale: O cara ancella e pura, /…/ tu sola fai segnore, e quest’è prova che tu se’possessio che sempre giova. (vv. 40-42) Nella terza strofa: Servo non di signor, ma di vil servo si fa chi da cotal serva si scosta. /…/ (vv. 43-44) Questo servo signor tant’è protervo che gli occhi ch’a la mente lume fanno /…/ (vv. 48-49) Nella quarta: Chi è servo è come quello ch’è seguace ratto a signore, e no sa dove vada, per dolorosa strada: /…/ (vv. 64-66) Nella quinta: Questo è quello che pinge [l’avarizia] molti in servaggio; /…/ (vv. 86-87) Colpa è de la ragion che nol gastiga. Se vol dire: «I’son presa», ah com poca difesa mostra segnore a cui servo sormonta (vv. 90-95) Dante omologa la dialettica del servo-signore con quella del viziovirtù, dialettica in cui innesta anche quella della ricchezza-povertà; dialettica perversa nell’ambito della realtà giacché il servo, nel senso morale, l’uomo che si allontana dalla virtù – nella canzone, l’avaro – è il signore di fatto, colui che sottomette col suo potere economico il vero signore, nel senso morale, l’uomo amico della verità, quello che a causa della sua povertà non possiede nemmeno vestiti per coprirsi (vv. 55 LA BIBLIOTECA DE TENZONE GRUPO TENZONE 100-105). In questo senso è interessante rilevare che il primo contesto della canzone dove appare la dialettica servo-signore è quello associato all’imagine della corte idealizzata della tradizione cortese, contesto dove appare il termine «gran vassallaggio» (v. 35), unico nelle rime; lì la virtù – cioè la liberalità se togliamo la dissimulazione dantesca – si muoveva liberamente, mostrandosi così in modo implicito la relazione ideale che definiva i rapporti tra il cavaliere e il suo signore. La trasposizione che il poeta della rettittudine fa di questa corte alla «beata corte» della dimensione etica, non cancella il valore archetipico che per Dante assume la corte originaria come indice per contrastare il valore dei rapporti tra i potenti del suo tempo e i loro sudditi. In modo indiretto, dissimulato, emerge dunque a sensu contrario la dialettica servo-signore dell’antica tradizione, connotata dall’alto senso morale che aveva nella corte originaria, dialettica che rinfaccia ai contemporanei il paradossale e perverso rapporto fra chi detiene il potere materiale e chi ne è escluso. Paradossale e perverso rapporto poiché il vero signore, nel senso morale, colui che è amico della verità e della virtù – l’unica «possession che sempre giova» (v. 42) – vive sotto la soggezzione del falso, il signore di fatto; il vero signore nel senso morale soffre paradossalmente nella realtà la sorte che Dante descrive per l’uomo servo del vizio: «quello ch’è seguace / ratto a segnore, e non sa dove vada, / per dolorosa strada»; e ci domandiamo fino a che punto il senso letterale di questa similitudine non corrisponda in realtà all’avvilita sorte dei fuoriusciti come Dante. Attraverso la dissimulatio Dante ci descrive la realtà materiale dell’esule, una realtà contraria a tutta ragione poiché anche lei è diventata serva («I’ son presa», del verso 96), umiliata dal potere del signore di fatto: «Ah com poca difesa / mostra segnore a cui servo sormonta» (vv. 90-95). 5. In quest’ ordine di idee, credo che sia interessante mettere in rapporto questa canzone con l’epistola di Dante a Oberto e a Guido, conti di Romena, probabilmente scritta intorno al 1304, «per dolersi con essi della morte del loro zio Alessandro conte di Romena»; qui si può intravedere la base materiale da cui può nascere una canzone come 56 Rosario SCRIMIERI Salus, Venus e Virtus in Doglia mi reca Doglia mi reca. Nella parte finale di questa epistola Dante mostra apertamente la sua situazione di povertà quando si scusa di non aver assitito ai funerali: scuso l’assenza mia dalle esequie dolorose, perché non ignavia o ingratitudine mi trattenne, sí la improvisa povertà nella quale mi ha tratto l’esilio. Essa, come feroce perseguitatrice, me, privo ormai di cavalli e di armi, ha gettato nel baratro della sua prigionia, e per quanto io mi ingegni, con tutte le forze, di liberarmi, l’empia fino ad ora prevale, e ogni sua arte pone in tenermi avvinto (Epistola II). Nella prima parte della lettera si intravedono i punti di contatto con la canzone riguardo alla relazione servo-signore. In opposizione all’ implicita condizione di soggiogata servitù che nella canzone il potere del ricco finisce per imporre sul povero, Dante nell’epistola – dove non appare la parola servo ma quella di subiectum, suddito – lascia intravedere un tipo di rapporto diverso, che ricorda l’antico vassallaggio verso il signore, amico della virtù e che pratica la generosità: Lo zio vostro Alessandro /…/ fu signor mio (dominus meus erat) /…/ e sarà mia signora la sua memoria fino a ch’io starò in vita: dacchè la magnificenza di lui /…/ fino da’lontani anni mi fece esser, per suo volere suo suddito (magnificentiam suam me sibi ab annosis temporibus sponte sua me fecit esse subiectum) (Epistola II). La magnificenza nel Convivio (IV, xvii, 5) è una delle undici virtù morali che Dante cita seguendo Aristotele: virtù «moderatrice de le grandi spese, quelle facendo e sostenendo a certo termine», cioè compiendole secondo un ben determinato limite; si tratta dunque di una virtù che presuppone la liberalità, la virtù della quale, a sensu contrario, parla nella canzone. Alessandro è «d’ogni virtù amico e banditore di tutti i vizi», e «sponte sua», ha stabilito un rapporto con Dante di “dominus-subiectum”, una relazione dunque dall’alto al basso. L’epistola adotta il tono del planctu di tanti trovatori per la morte di un grande signore e prottettore: 57 LA BIBLIOTECA DE TENZONE GRUPO TENZONE La lode della liberalità assurge nei “lamenti” (planhs) /…/ perché la morte del prottettore appare ogni volta come l’avvenimento che chiude un’epoca della civiltà cavalleresca. L’interruzione dei rapporti di dipendenza personale del trovatore prende le dimensioni di una catastrofe (Köhler 1976: 63). E così sono le parole di Dante: /…/ e piangano gli amici tutti e i sudditi suoi, le cui speranze percosse Morte acerbamente. E tra questi ultimi, misero me, anch’io mi dolga, che gettato fuor della patria, esule immeritevole, col pensiero sempre fisso alle mie disavventure, di dolce speranza andava tuttavia in lui consolandomi (Epistola II.). Apertamente mostra Dante le speranze materiali deposte nel conte in un periodo non lontano a quello di Doglia mi reca, e il rapporto con un signore la cui scomparsa – catastrofica, direbbe Köhler – apre lo spazio ferino, il «vil fango» – la mancanza di nobiltà –, se ricordiamo l’imagine della canzone di Guinizzelli, inerente alla natura dei potenti rappresentati nella canzone. Si innalza così nell’epistola la nostalgia delle origini ideali della relazione signore-vassallo, radicata nella virtù. Oltrepassando i confini temporali che riguardano questa canzone ma rimanendo nel problema che ci occupa, cioè la situazione di precarietà di Dante nell’esilio e la mancanza di una cornice istituzionale che gli conceda una base materiale che lo accolga e gli permetta anche di sviluppare una identità politica e sociale, mi permetto di considerare l’epistola a Cangrande della Scala, datata fra il 1316 e 1317, dove si profila lo sviluppo della relazione fra il signore e il sudditto, in un modo che già non è più quello che si dava tra il conte Alessandro di Romena e Dante. Il cambiamento del rapporto si concentra nella transizione dal concetto di suddito a quello d’amico: «così al primo conoscervi devotissimo e amico vi divenni» (Epistola X). Parla Dante qui del «sacro vincolo dell’amicizia» che non soltanto gli eguali può tra loro legare, ma i minori a’ maggiori; da che, chi bene esamini le dolci e giovative amicizie, osserverà che i grandi non rade volte si stringono agli umili. E se guardi alla amicizia 58 Rosario SCRIMIERI Salus, Venus e Virtus in Doglia mi reca per sé stessa fida e verace, non si trova forse che Principi di fama e potenza grande non disdegnarono la consuetudine di uomini di piccolo stato ma di chiara virtù? (Epistola X). Un rapporto che non solo si stabilisce dall’alto verso il basso dove solo il signore è chiamato a dare e il suddito a ricevere ma che, anche riguardo all’ azione del donare, scorre in doppio senso: Stimando adunque soprattutto l’amicizia /…/ a questa feci promessa di mantenermi fedele nel ricambiare i ricevuti benefizi; e molto accuratamente cercai fra le mie piccole cose; e alcuna ne elessi; e, tra le elette, quella ancòra mi studiai di trovarvi che fosse di voi la più degna e a voi la più cara. Ne altra mi parve di poterne scegliere più confacevole coll’Altezza vostra, di quella eccelsa Cantica della Comedia, che si adorna col titolo Paradiso: e questa /…/ a Voi la intitolo, la offerisco, la raccommando. Né ancòra l’amor mio grande vieta ch’io dica, come da tal donativo possa sembrar laudato e onorato più colui che il riceve di colui che lo fa; ché anzi con quel titolo è parso a´più attenti avere io espresso l’augurio della maggior gloria vostra (Id.). Indipendentemente dai dubbi sulla attribuzione di questa epistola, il documento in sè è sufficientemente importante per attestare, in primo luogo, il delineamento di un nuovo rapporto tra signore e subalterno, fondato, anzitutto sulla reciproca amicizia, tematica fra l’altro toccata anche nei versi 132-136 di Doglia mi reca13; e secondo, su una relazione di scambio d’interessi che, da un tratto, cancella i vecchi rapporti signore-suddito basati sulla virtù della liberalità del primo. Un rapporto che preludia in un modo evidente le relazioni che Petrarca, già con nitida chiarezza su quanto fosse il valore con cui il poeta-suddito può riscambiare l’aiuto materiale che riceve dal signore, stabilisce nella famosa dedica del De vita solitaria a Philippe de Cabassoles. 59 LA BIBLIOTECA DE TENZONE GRUPO TENZONE NOTE 1 Storicamente, prima di arrivare al tempo di Dante, si è verificato il travasamento degli ideali cavallereschi, fondati sulla lealtà e l’onore fra il vassallo e il suo signore, dalla società originaria feudale alle corti dei grande nobili, soprattutto del sud di Francia, ideali adottati dalla piccola nobiltà da un punto di vista moralizzante come tratto distintivo di prestigio e d’innalzamento sociale e trasposti nella poesia d’amore come culto alla donna; trasferimento che si ripete dopo dalla corte dei nobili signori alla società civile dei comuni italiani allo scopo di ingentilire un nuovo stratto sociale, borghese e intellettuale, che per i suoi meriti morali diventa così atto a detenere il potere politico e dal punto di vista poetico genera la poesia dello stilnovismo. 2 M. Picone in Vox Romanica, XXXIX (1980) fa una analisi comparativa di queste due composizioni e «dimostra come Dante abbia esteso i temi di Giraut dal mondo socialmente circoscritto dell’etica trobadorica a un’atto di accusa morale di validità universale» (Barolini 1993: 94). 3 Barolini su questo proposito fa le seguenti interessanti osservazioni: «/…/ e supporre che l’insistenza di Dante sulla chiarezza sia anche un implicito tentativo di individuare in Giraut, piuttosto che in Guittone, l’antenato poetico del proprio testo [Doglia mi reca]; una parte consistente della leggenda attorno a questo trovatore si incentra, infatti, sulla formulazione di un trobar leu, o stile piano, quale veicolo appropriato a una versificazione morale» (1993: 95); e ancora: «la tendenza di Giraut al verso gnomico ha profondamente influenzato lo stile di Guittone, così come quello di Dante in composizioni quali Doglia mi reca; il tutto è reso più interessante dal fatto che la parola-chiave di Giraut, “leu”, compaia in Doglia mi reca, dove Dante dice di voler usare un “costrutto / più lieve” (55-56)» (1993: 95). 4 In questo senso Boyde dice «per molti aspetti Doglia mi reca sembra guardare indietro piuttosto che avanti» (Boyde 1979: 187) e fa uno studio comparativo fra la canzone di Dante e Altra fiata aggio già, donne, parlato di 60 Rosario SCRIMIERI Salus, Venus e Virtus in Doglia mi reca Guittone (Rime, XLIX): «la struttura di questa canzone non è diversa da quella di Doglia mi reca, in quanto è indirizzata alle donne e passa dal biasimo di un vizio e dalla lode di una virtù in generale, alla lode di una virtù particolare e alla denuncia di un particolare vizio. Ma qui finiscono le affinità, giacchè nella poesia di Dante questo preciso disegno è solo il progetto di un edificio di considerevole complessita» (Id.: 393). Boyde sottolinea poi «la struttura unitaria, così come la sintasi e l’uso della metafora che furono determinati dalla finalità della poesia» (Id.: 393), cioè «attacare e convertire i suoi ascoltatori –quegli ascoltatori che erano, sì, gli uomini in generale, ma anche, in particolare, la classe dei protettori dai quali egli in quel momento dipendeva» (Id.: 393). 5 Mediatrici fra la poesia provenzale e in concreto fra il serventese di Giraut e Doglia mi reca, osserva Barolini «sono le canzoni morali di Guittone d’Arezzo, un poeta italiano che aveva già assimilato la lezione di Giraut de Bornelh e adattato la moralità occitanica alla Toscana, e il sirventés provenzale all’italiano, diventando così l’iniziatore della tradizione italiana della “directio voluntatis”. Se Doglia mi reca ritorna al moralista e trovatore Giraut de Bornelh, e al suo sirventes morale, torna ugualmente alla poesia morale di Guittone d’Arezzo» (Barolini 1993: 94). 6 I poeti realisti toscani accolgono nelle loro liriche una vastità di motivi (la riprovazione dell’amore sensuale, fomentato dalla natura avida e peccaminosa della donna, i triboli della miseria economica, il vituperium contro i ricchi e il mondo eclesiastico) che da spunti occasionali polemici ad un certo momento si trasformano in una vera tradizione letteraria (Petrocchi 1965). 7 Umberto Carpi scrive importanti pagine che spiegano la relazione fra la «regressio» di Dante a Guittone e la fase dell’ esilio sull’Appenino; in quel periodo «il profundo rinnovamento della poetica dantesca passa (debbe passare) attraverso la sua fase di più intenso e maturo dialogo con Guittone» (Carpi 2004: 608). «Il “guittonismo” nei modi dell’antiguittoniano Dante interagiva con la cultura, coi problema politici delle corti “montanine”» (Id.: 612), e in questo senso «Doglia mi reca riprende in modo impressionante e 61 LA BIBLIOTECA DE TENZONE GRUPO TENZONE scoperto l’andamento argomentativo della canzone Abadesse e donne religiose, omo che servo è voi? di Guittone». 8 Dante nella Commedia cancella le tracce dei poeti italiani a cui in realtà è più debitore: Cavalcanti come fornitore del nuovo stile della poetica d’amore e Guittone, della materia della rettittudine e della directio voluntatis. Vid. in questo senso T. Barolini 1993. In quest´ordine de idee, è coerente, seguendo la tesi di Gorni, che il primo Guido, a cui il secondo «ha tolto la gloria della lingua» (Purg. XI, 98), invece di Guido Guinizzelli, come normalmente ha sostenuto la critica, sia Guittone d’Arezzo (Gorni 2001). 9 In questo senso, ricordiamo il sonetto 33 delle Rime (Contini in Alighieri 1997:112): «Due donne in cima della mente mia», che tratta ugualmente della necessaria convergenza di bellezza e virtù attraverso l’amore. 10 Sulla figura della dissimulatio Dante dice nel Convivio: «questa figura è bellissima e utilissima /…/ ed è simigliante a l’opera di quello savio guerrero che combatte lo castello da un lato per levare la difesa da l’altro, che non vanno ad una parte l’intenzione de l’aiutorio e la battaglia» (Convivio III, x, 78). 11 Il sommo della dissimulazione sarà presente nel sonetto dedicato alla partenza della donna schermo dove siamo di fronte alla dissimulazione della simulazione poichè «Dante dissimula un dolore simulato sotto l’apparenza di una gioia che è in realtà vera» (Colombo 1993: 55). In questo senso, nella successione dialettica di poetiche che si rappresenta nella Vita Nuova la poetica di Guittone e dei suoi seguaci saranno le prime a cadere, e con loro molte convenzioni della poetica cortese; prima di tutte quella dello schermo che si innalza a simbolo dell’artifiziosità dei poeti toscani e guittoniani e dell’opacità in confronto con quella trasparenza e veracità inerente alla poetica della lode, riassunta nella la famosa formula di Purgatorio XXIV, 5254. Il sonetto doppio dedicato alla donna schermo –forma metrica, come pare dimostrato, inventata da Guittone- è artifizioso non solo nella forma ma soprattutto nel suo contenuto: è ben nota l’intensificazione che Dante compie qui rispetto della figura della dissimulazione; oppure, i due sonetti alla morte 62 Rosario SCRIMIERI Salus, Venus e Virtus in Doglia mi reca della giovane donna fiorentina che sono in realtà sonetti-schermo di Beatrice; nel secondo soprattutto, rinterzato, di suntuoso ornamento retorico e preziosità del lessico Dante «sembra dimostrarsi più guittoniano che Guittone» Colombo 1993: 59), attraverso una intensificazione dei ricorsi della poetica guittoniana che in realtà intende abbandonare poichè la perdita del saluto di Beatrice, metapoeticamente la perdita della poesia, è direttamente connessa alla pratica dello schermo. In questo senso è interessante, secondo me, mettere in rapporto la prosa e la poesia della Vita Nuova di questo primo periodo perché, da un lato, la prosa neutralizza la pratica dello schermo svelando il segreto che la poesia nasconde e perché, dall’altro, Dante parla in modo distaccato delle rime dedicate alla donna schermo; le definisce come «certe cosette per rima» e ne trascrive sola una, lasciandone intendere il suo allontanamento nel momento della scrittura della prosa. 12 In questo senso, si possono anche interpretare como strategia della dissimulatio i versi «che rado sotto benda / parola oscura giugne ad intelletto; per che parlar con voi si vole aperto» (vv. 57-59). L’imagine «sotto benda» sarebbe un caso di voluta ambiguità, nel senso di rimandare apparentemente solo alle esplicite destinatarie della canzone, le donne, a cui è necessario parlare scoperto, ma la deriva dell’invettiva nelle stanze centrali della canzone dove Dante apertamente dice «I’vo’che ciascun m’oda», mostra che la volontà della chiarezza va intesa anche e soprattutto verso gli uomini. 13 Nella strofa settima della nostra canzone, prima di passare all’ammonimento alle donne, Dante parla della amicizia che fa che i simili si radunino fra sè, che implica fra loro l’armonia della somiglianza al di là delle differenze economiche che possano darsi tra loro: «In ciascun è di ciascun vizio assembro, / per che amistà nel mondo si confonde: / ché l’amorose fronde / di radice di ben altro ben tira, /poi sol simile è in grado» (vv.132136). E nel Convivio III, i, 5, Dante dice che «…intra dissimili amistà essere non possa, dovunque amistà si vede similitudine s’intende; e dovunque similitudine s’intende corre comune la loda e lo vituperio». 63