Brevi cenni sulla Repubblica

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Brevi cenni sulla Repubblica
Luca Tentoni
Brevi cenni sulla Repubblica
Nota introduttiva
Questo e-book raccoglie alcuni testi che Mentepolitica
ha pubblicato nei mesi fra le elezioni regionali del 2015 e
l’avvio della campagna per le “comunali” del 2016.
Sono preceduti da una sorta di prologo sul linguaggio
della politica: un tema che ci sembra ancora attuale,
anche se l’articolo risale a circa due anni fa. Come per il
precedente quaderno di Mentepolitica, riproponiamo i
testi (pur con un leggero editing) perché riteniamo che –
letti nell’insieme – traccino alcune delle linee e dei temi
che potrebbero rappresentare un contributo al dibattito
sullo stato della nostra democrazia, dei partiti e del
contesto nazionale e internazionale nel quale viviamo. Il
passaggio dal secondo sistema dei partiti (1994-2013) al
terzo è ricco di prove ancora da superare. Ci siamo
lasciati alle spalle qualcosa che non tornerà più, ma non
abbiamo ancora edificato il nuovo. Questa raccolta è
insieme il diario di una lunga e incompiuta transizione
e lo spunto per un dibattito sociale, politico e culturale
che ci auguriamo ampio e ricco.
Semantica della seconda repubblica
20.09.2014
"Mariano, la svolta: cambia il team di Palazzo
Chigi": un titolo così su Rumor, nella Prima
Repubblica, non lo avremmo mai trovato su un
quotidiano
nazionale.
La
differenza
fra
la
rappresentazione della politica durante gli anni
Settanta (e gran parte degli Ottanta) e in quelli
della Seconda Repubblica non sta, ovviamente,
soltanto nel mutamento dello stile giornalistico. I
principali mezzi di comunicazione di allora hanno
subito trasformazioni profonde (l'impaginazione,
l'impostazione, il formato dei giornali; il colore, la
ricerca dell'audience nei dibattiti politici, la
spettacolarizzazione
dell'attualità
per
quanto
riguarda la TV) e lasciato spazio ad altri media
(Internet: in particolare i "social network") ma è
cambiato anche il messaggio, oltre al quadro
politico-istituzionale
(sistema
dei
partiti;
Costituzione materiale; rapporto partito-leaderelettorato; ridislocazione del potere sia nei rapporti
centro-periferia, sia in quelli fra governo e
Parlamento;
tendenziale
coincidenza
fra
premiership e leadership). Come hanno spiegato
autorevoli esperti (il nostro è solo uno spunto per
sollecitare riflessioni ben più profonde, meditate e
ampie di questa) è cambiato anche il modo di
"vendere" un partito, con le mutazioni del
marketing elettorale sperimentate all'estero (fra
tutti: da Séguéla per il futuro presidente francese
Mitterrand) e giunte in Italia verso la seconda metà
degli
anni
Ottanta,
sperimentazione
in
tempo
per
una
che faceva da preludio ad
un'applicazione più ampia negli anni Novanta, col
passaggio dal proporzionale al maggioritario
uninominale e dalla "democrazia dei partiti" alla
"democrazia delle leadership". Il mutamento non
poteva che passare attraverso una rivisitazione del
linguaggio,
ma
anche
per
una
sorta
di
desemantizzazione. La neo-lingua della Seconda
Repubblica, insomma, non è solo frutto di
un'evoluzione naturale della tecnologia e del
linguaggio corrente, ma appare funzionale ad
agevolare il mutamento istituzionale e politico,
oltre ad un nuovo rapporto fra eletti ed elettori nel
quale il ruolo del partito è (in certi casi
progressivamente, in altri bruscamente) occupato
dalla figura del leader carismatico. Nel momento
in cui non "si entra" più in politica, ma "si scende in
campo", quando "Forza Italia" non è più un
incitamento rivolto agli atleti delle squadre
nazionali, ma un soggetto politico, il partito
diventa la "squadra" e il segretario lascia il posto
ad un più trascinante capitano o "leader". La
Presidenza del Consiglio dei ministri, dunque,
cessa almeno sul piano della rappresentazione di
essere il posto del "primo fra pari" (in una "stanza
senza bottoni") per divenire la plancia di comando
di un "team" nel quale il ruolo del Premier
(definizione ben diversa da quella dell'età della
proporzionale, e non a caso mutuata da quella
britannica dove il Primo ministro ha poteri e
ascendente sul proprio partito ben diversi da quelli
tipici della Prima repubblica italiana) si eleva ben
al di sopra dei ministri e, spesso, dei gruppi della
maggioranza. La stessa definizione di "Seconda
Repubblica" segna l'inizio di una fase nuova,
giocata
prevalentemente
sul
terreno
della
comunicazione e del significato delle parole della
neo-lingua politica. Il mutamento costituzionale
profondo che non si attua è però subito "dato per
scontato" nella sottile ambiguità che scambia un
sistema dei partiti destrutturato e ristrutturato su
basi diverse per un sistema istituzionale rinnovato
che invece ha mantenuto la stessa base normativa
pur in presenza di una rimodulazione dei poteri,
da quelli del Capo dello Stato a quelli del
Presidente del Consiglio. In realtà, il mutamento
avviene soprattutto in ambito locale, dove però si
arriva a parlare di "governatori" regionali già
quando (1995) l'elezione diretta non è ancora
formalmente prevista dalla Costituzione (sarà
introdotta con la legge cost. 1/1999). Quella degli
ultimi venti anni, dunque, è stata una "rivoluzione
semantica" che ha accompagnato e in certo modo
incoraggiato un meno imponente mutamento
istituzionale e del sistema dei partiti. Il linguaggio
sportivo è usato non solo come metafora della lotta
politica, ma come rappresentazione del passaggio
da un approccio "cooperativo" (o consensuale) ad
uno schema competitivo (conflittuale). La necessità
di schierarsi da una parte o dall'altra elide i toni
intermedi e i gruppi che nella "Prima repubblica"
facevano da "cuscinetto" fra i partiti maggiori. In
questo paradigma gli arbitri (il Quirinale, la Corte
costituzionale) sono mal sopportati dai "giocatori"
(in caso di decisioni e persino dichiarazioni o
atteggiamenti non graditi). La campagna elettorale,
nonostante i collegi uninominali, lascia il posto ad
una "battaglia" fra i due leader "in lizza" per la
conquista del Potere: una competizione nella quale
la televisione è di gran lunga più importante delle
piazze.
L'elettore-spettatore
è
ancor
meno
protagonista quando ai collegi si sostituiscono le
liste bloccate dei candidati. Del resto, la "partita
vera" è altrove. Così, in quella che è diventata
un'arena gladiatoria, tutto cambia. Il "partito"
(simbolo di stabilità e di un'ideologia) lascia spazio
al "movimento", i nomi dei capi politici entrano
nelle denominazioni dei gruppi o almeno nei
simboli
elettorali.
Il
sondaggio
non
è
più
considerato come uno strumento, ma come una
sorta di responso elettorale continuo e assoluto.
Peraltro, alcuni aggettivi (comunista, fascista)
tornano in uso, dopo essersi scoloriti negli anni
Ottanta,
ma
assumono
un
connotato
quasi
esclusivamente spregiativo nei confronti degli
avversari, proprio quando ideologie e modelli
stranieri di riferimento svaniscono. Anche la
parola “golpe”, che negli anni Sessanta e Settanta
evocava un pericolo reale, è ormai utilizzata
frequentemente in luogo di “sopruso”. In questa
rivoluzione - forse l'unica vera - riesce ad inserirsi
felicemente almeno il recupero (da parte del
Presidente Ciampi) della parola "Patria", coinvolta
nella tragica esperienza del fascismo e diventata
un tabù negli anni ’50-‘80. Alcune espressioni
recenti ("stai sereno", che indica l'opposto) fanno
pensare che la "rivoluzione del significato" sia ben
lontana dall'esaurirsi, e che, invece, stia per vivere
una nuova, lunga, stagione di successi.
Il “doppio binario” della politica che serve
alla democrazia
25.7.2015
Il
dibattito
politico
nazionale
ruota
ormai
completamente intorno a due temi: l'economia
(tasse,
euro,
lavoro)
in
primo
piano
e
l'immigrazione in secondo. Il resto, riforme
istituzionali comprese, può essere importante sul
piano oggettivo ma - in una competizione che è
ormai quasi solo mediatica - assume un rilievo
marginale per molti. Il peso elettorale ed emotivo
dei
due
argomenti
maggiori
finisce
per
caratterizzare le forze politiche quasi soltanto in
base alle risposte che danno in materia. Risposte
che sono a loro volta influenzate da contingenze
(economiche, sociali, elettorali) molto "volatili".
Sintomo di una fluidità che tende ad esasperarsi,
per esempio, nel continuo mutamento di numero e
consistenza dei gruppi parlamentari di Camera e
Senato. Abbiamo un elettorato mobile, che - se non
supera "steccati" tradizionali - ha però imparato a
rifugiarsi (spesso e volentieri) nell'astensione;
attraversiamo (in parte subiamo) una congiuntura
economica che può essere agevolata o frenata da
dinamiche interne, ma che risente molto di fattori
esterni (non solo la crisi greca: si pensi al ruolo
determinante che ha avuto la politica di Draghi in
favore
della
diminuzione
dei
tassi
e
dell'alleggerimento del servizio del nostro debito
pubblico);
siamo
in
presenza
di
tensioni
internazionali di diverso genere (migrazioni,
conflitti, terrorismo). Sono tutti elementi di
incertezza,
quelli
appena
accennati,
che
dimostrano come sia difficile il compito di tenere
assieme il tessuto politico, sociale, economico del
Paese. Ancor più complesso, in questo quadro, è il
ruolo di una politica che non abbia solo la modesta
ambizione di recuperare un po' di affluenza alle
urne, ma voglia soprattutto ricreare le condizioni
per lo sviluppo di uno "spirito repubblicano"
condiviso e fondante. Se la "domanda politica" è
quasi solo immediata ed emotiva, legata al bisogno
o alla paura, la risposta non può che essere
altrettanto
di
breve
o
medio
respiro.
La
preoccupazione per le prossime elezioni è tipica di
ogni forza politica, ma non ha molto senso se non è
accompagnata da una visione di lungo periodo,
che sia non solo fattuale ma anche ideale. Non è
sufficiente scrivere "liste della spesa" per l'oggi e
per il futuro, ma occorre anche avere una visione
chiara (persino impopolare, se serve) dell'approdo,
una cultura politica profondamente delineata. Se
gli estensori del manifesto di Ventotene avessero
dovuto
badare
alle
elezioni
successive,
le
avrebbero certamente perdute: pensare di mettere
insieme, in un progetto futuro, popoli allora in
guerra fra loro, non sarebbe stato apprezzato dai
più. Gli stessi ideali del Partito d'azione, per
esempio - al di là delle vicende, pur importanti, di
quella formazione politica - condussero il Pd'A a
conseguire, alla Costituente, meno di un terzo dei
voti (1,45% contro 5,27%) rispetto all'Uomo
Qualunque,
il
movimento
antisistema
del
giornalista e commediografo Guglielmo Giannini.
In generale, però, le forze politiche dell'immediato
dopoguerra avevano una loro visione dell'Italia
(condivisibile o meno che fosse) anche se si
trovavano ad affrontare emergenze gravi come la
Ricostruzione prima e, due decenni dopo, il
terrorismo. Fino a quando lo sguardo verso le
generazioni future e la gestione delle necessità
presenti hanno trovato un equilibrio, anche le
istituzioni e le finanze pubbliche ne hanno risentito
positivamente. Quando invece si è preferito
cogliere l'uovo del consenso elettorale immediato
rinunciando alla gallina della stabilità dei conti, i
risultati
di
breve
periodo
hanno
premiato
l'investimento politico ma hanno preparato il
baratro per il futuro. Il pericolo che corre la nostra
fragile democrazia, esposta a venti non facili da
controllare e a spinte che - una volta avviate per
calcolo o leggerezza - potrebbe non essere agevole
frenare, è che l'affanno per i mesi venturi divenga
l'unico marchio distintivo delle diverse forze
politiche. Non è opportuno, inoltre, farsi ingannare
dalle dimensioni del "non voto", pensando che si
tratti soltanto di un grosso serbatoio elettorale
calmo e - in certo modo - "acquiescente". Le
tensioni che percorrono la società fanno ritenere
che buona parte di quel fenomeno sia, in realtà,
espressione di un rifiuto che può diventare anche
radicale e irreversibile, indebolendo il patto
basilare del nostro vivere civile, rappresentato
dalla
Carta
Fondamentale
votata
dai
Padri
costituenti nel 1947. Il compito della politica,
dunque, non è solo quello di soddisfare le esigenze
e le necessità dell'immediato, ma di ricostruire in
parallelo le ragioni dello stare insieme e la
credibilità delle istituzioni rappresentative e dei
corpi intermedi necessari per la vita e lo sviluppo
di una democrazia sana. Per assolverlo, tuttavia,
non è sufficiente la revisione di meccanismi e
istituti (preferibilmente effettuata col più ampio
consenso possibile) ma occorre una costante opera
di trasparenza, ai vari livelli della vita pubblica,
fino alla più remota periferia del Paese. Perchè
quella che conta non è solo la qualità della
democrazia reale, ma anche di quella percepita,
senza la quale la partecipazione e la condivisione
di esperienze e progetti per un futuro comune non
possono avere speranza di incidere realmente nel
tessuto sociale.
Riforme, i dettagli contano
19.9.2015
Nel dibattito politico corrente, se un leader non
vuole addentrarsi in dettagli che si potrebbero
rivelare insidiosi ricorre ad un'espressione ormai
di uso comune: "si tratta di tecnicalità". È un modo
per far credere che si parla di minuzie da non
spiegare al pubblico per non annoiarlo, mentre - si
fa capire - la sostanza è altrove. Peccato che
sovente proprio il particolare "tecnico" abbia un
grande valore politico. L'attribuzione del premio
dell'Italicum al partito o alla coalizione, per
esempio, non è affatto un dettaglio: cambia
completamente la natura e la struttura della
competizione elettorale. Così come la disputa sulla
preposizione contenuta nell'articolo 2 del ddl
costituzionale cambiata dalla Camera e ora oggetto
dello scontro in Senato, non è una banalità, anche
se certamente ha molta minor rilevanza rispetto al
nostro precedente esempio. Eppure, se basta un
piccolo particolare per stravolgere l'impianto di
una
normativa,
perché
sottovalutarne
l'importanza? In primo luogo, la risposta può
essere rinvenuta nell’impostazione "generalista" di
molti personaggi politici, che con alcuni temi non
riescono ad avere (o non vogliono avere) troppa
dimestichezza. In secondo luogo, perché si pensa
che - in fin dei conti - sia la politica ad avere il
primato sulla tecnica. In effetti, restando sul tema
della legge elettorale, l'aiuto che di solito si chiede
all’esperto consiste nel fargli cercare i meccanismi
giusti per assicurare un determinato risultato.
Quindi, la politica precede la tecnica e in certo
senso la orienta, affidandole una sorta di "delega"
entro un quadro ben limitato. Anche quando si
decide di accogliere modifiche ad un impianto
costruito minuziosamente, si tende a mascherare lo
scambio politico con alleati od oppositori dicendo
che si è solo apportata una variazione "tecnica".
Ovviamente, se una soglia d'accesso al Parlamento
passa, poniamo, dal 4,5% al 3%, la scelta non è
certo frutto degli esperti ma dei politici. Se poi
qualcuno dovesse sollevare obiezioni, si potrebbe
sempre dire che è colpa delle
"tecnicalità"
(espressione orrenda che serve da passepartout).
Del resto, negli ultimi anni i "tecnici" (e in generale,
i professori) non sembrano godere di grande
popolarità, poiché vengono associati ad una
stagione
di sacrifici. Così,
in
una
sapiente
comunicazione, il leader sembra quasi porsi dalla
parte dei propri elettori quando prende le distanze
dagli "arcana imperii" degli aspetti di dettaglio, in
uno scambio logico fra il committente e il
mandatario che serve a superare ostacoli di natura
politica e d’impopolarità. Spesso, come dimostra la
vicenda del disegno di legge costituzionale in
discussione al Senato, i “tecnicismi” finiscono sotto
i riflettori dei mezzi di comunicazione soltanto se
hanno un rilievo come quello riguardante l'articolo
2 (dirimente nella decisione di far votare anche gli
emendamenti o solo l'articolo nel suo complesso).
Si parla poco, invece, delle funzioni che Palazzo
Madama dovrebbe avere: eppure sono fra i punti
contestati.
Quando
si
troverà
un
accordo,
parleremo in generale del nuovo Senato (così come
del Titolo V) ma senza soffermarci su quel che sarà
stato cambiato rispetto alle varie versioni del testo.
In altre parole, guarderemo più al risultato politico
che alla riconfigurazione dei poteri senatoriali. La
riduzione di particolari importanti a semplici
"tecnicalità" è funzionale alla trattativa fra i partiti,
perché riduce e minimizza davanti all'opinione
pubblica il punto d'incontro (o compromesso) fra
più
opzioni.
Gli
effetti
di
questa
"forzata
miniaturizzazione" si avvertono, però, prima o poi.
L'intesa sull'Italicum, per esempio, sembrava aver
chiuso il discorso, eppure in queste settimane la
discussione si è riaperta proprio su un “dettaglio”:
il premio di maggioranza. Fra i "tecnicismi" più
letali della storia repubblicana, per esempio, c’era
proprio un “premio”: nel Porcellum, per Palazzo
Madama, era regionale e non nazionale come si era
deciso in un primo momento. Poichè il Senato si
elegge su base regionale, l'assegnazione del 55%
dei posti in sede locale anziché globale poteva
essere giustificata da ragioni di compatibilità col
dettato costituzionale. Ma, se ricordiamo bene,
nessuno dei promotori mise in luce prima del voto
che in quel modo il sistema elettorale per i senatori
avrebbe potuto svolgere una funzione interdittiva
nella “costruzione” di una maggioranza, come in
effetti sarebbe accaduto ben due volte su tre, cioè
nel 2006 e nel 2013. In sintesi, i dettagli contano e
hanno un valore tutto politico, anche se sono
meccanismi di difficile comprensione per i più e se,
nel
dibattito
corrente,
vengono
spesso
“derubricati” a bizzarrie formali. È bene ricordarlo,
ora che siamo di fronte ad una revisione
importante della Carta Repubblicana.
Il partito del non voto
26.9.2015
Anche in Grecia, domenica scorsa, ha vinto il
partito del "non voto": l'astensione è salita dal
36,1% di gennaio al 43,4%. Non si tratta di un
fenomeno isolato, in Europa, anche se ci sono
realtà (come la Catalogna, ad esempio) dove alcuni
prevedono
una
rimobilitazione
elettorale
in
occasione di un appuntamento con le urne che
potrebbe essere decisivo per il futuro della
Comunità autonoma e della Spagna. Il successo del
"partito del non voto", tuttavia, sembra scontato in
paesi come l'Italia. I sondaggi, da noi, riportano un
alto numero non solo di indecisi, ma anche di
intervistati che non sembrano intenzionati ad
andare ai seggi qualora ci fossero nuove elezioni
politiche a breve termine. La scarsa affluenza alle
europee e alle regionali, nel caso italiano, non può
farci credere che un eventuale turno elettorale per
il
Parlamento
faccia
registrare
un'affluenza
prossima al 50-60%, ma certo ci fa supporre che il
partito del "non voto" possa conquistare posizioni
rispetto all'ultimo dato disponibile. Alle politiche
del 2013 ha "disertato" le urne il 24,8% degli aventi
diritto. Una percentuale alla quale dobbiamo
sommare il 2,7% di schede bianche e nulle, per un
totale di 12,9 milioni di voti che (in diversi modi)
non
sono
stati
espressi.
Com'è
noto,
l'astensionismo ha una componente fisiologica (di
chi non va mai a votare oppure non può) e una
variabile: c'è, per esempio, chi vota alle politiche
ma non alle europee, considerando quest'ultima
consultazione poco importante per il futuro
proprio e del Paese. E c'è chi vota se esiste un
incentivo alla mobilitazione: quando si trattava di
decidere a chi assegnare il primato fra Dc e Pci
(1976) o nei momenti nei quali la lotta fra
centrosinistra e centrodestra era accesa (e fu decisa
da un pugno di voti: 2006) molti preferirono
partecipare alla contesa, anzichè restare a casa. Nel
1976 si raggiunse un'affluenza del 93,4% (persino
superiore al 93,2% del 1972) e ben superiore al
90,6% del 1979 (quando l'ipotesi del "sorpasso"
comunista era sfumata). Nel 2006, invece, andò alle
urne il 83,6% degli aventi diritto contro l'81,4% del
2001 e l'80,5% del 2008. C'è dunque una parte degli
italiani che considera l'astensione fra le scelte
possibili e che la preferisce in determinate
circostanze, senza tuttavia escludere di poter
tornare alle urne in una successiva occasione.
L'aumento del "non voto", tuttavia - per quantità e
frequenza, nei diversi appuntamenti elettorali
nazionali
e
locali
-
fa
pensare
che
l'area
dell'astensionismo "cronico" si stia ampliando,
come se anche questo strano genere di "partito"
stesse rafforzando la sua "base" di consensi. Gli
indicatori di fiducia nei confronti di partiti e
istituzioni, ma anche quelli economici (che hanno
un peso nelle scelte elettorali) rafforzano le
possibilità che il non voto diventi un'opzione
politica pari (se non addirittura, per taluni, più
accreditata) rispetto a quelle offerte dai soggetti in
competizione. La stessa articolazione in due turni
(con ballottaggio eventuale, è bene ricordarlo)
dell'Italicum potrebbe accentuare, nella seconda
tornata di votazioni, uno scarso afflusso ai seggi.
Prendendo come punti di partenza i risultati delle
politiche 2013 o delle europee 2014, osserviamo
che - se pure i partiti ricorressero a "listoni
omnibus" comprendenti più soggetti politici, in
particolar modo nel centrodestra - gli elettori dei
gruppi classificati dal terzo posto in giù potrebbero
agevolmente raggiungere il 30% dei votanti al
primo
turno.
L'incentivo
"mobilitante"
del
ballottaggio (una scelta secca per partito e
maggioranza di governo, fra due opzioni) potrebbe
non essere sufficiente per mantenere l'affluenza del
primo turno e convincere gli elettori "orfani" a
tornare ai seggi per contribuire a decidere l'esito
della contesa. C'è infatti, nel variegato "partito del
non voto", chi di solito va alle urne ma resta a casa
soltanto quando il proprio partito (o coalizione)
non è ammesso al ballottaggio (accade, con
regolarità, in occasione delle elezioni comunali).
Nella nostra sommaria analisi, fin qui, abbiamo
individuato due tendenze: il "non voto" come
scelta politica alternativa (e sovente, ma non
sempre,
"antisistema")
e
l'astensionismo
aggiuntivo che può scaturire da una mancanza di
offerta politica "accettabile". Abbiamo osservato
finora, però, solo il lato visibile della luna, cioè il
fenomeno numerico dell'aumento di chi non vota,
ma non abbiamo ancora considerato un dato
spesso
sottovalutato:
come
voterebbero,
se
"costretti" o indotti da una normativa specifica, gli
astenuti?
Alcune
indagini
demoscopiche
si
occupano anche di questa fetta di elettori. La loro
scelta è comunque figlia di un passato nel quale c'è
quasi sempre stata una vicinanza politica. La
scomposizione dei due poli maggiori avvenuta nel
2013 e gli avvenimenti sociali di questo decennio
hanno spinto fasce di elettori ad abbandonare le
loro antiche "famiglie" per scegliere quella del non
voto. Nell'"altra faccia della luna", insomma, si
trovano le motivazioni e le inclinazioni politiche
degli italiani che potrebbero - non votando favorire la vittoria di un soggetto politico sull'altro,
oppure - rimobilitandosi - mutare equilibri e
rapporti
di
forza.
Per
ora,
la
massa
dell’astensionismo sembra continuare ad attrarre
con forza elettori, anzichè cederne. Se così fosse
anche
alle
(anticipate
prossime
o
consultazioni
meno)
qualcuno
politiche
potrebbe
avvantaggiarsi e "vincere per defezione" più che
per capacità di catturare consenso. Il compito della
politica, tuttavia, è motivare i cittadini con
programmi, leader e comportamenti "mobilitanti",
perchè pur se è vero che basta avere un voto più
dell'avversario per vincere, è altrettanto vero che la
democrazia può trarre giovamento da una più
convinta
(anche
se
non
eccessivamente
numerosa) partecipazione popolare.
più
La campagna elettorale permanente
24.10.2015
Il 2016 sarà un anno ricco di "test" politici. Avremo
addirittura due grandi competizioni: quella in
primavera per il rinnovo dei consigli comunali e
l'elezione dei sindaci (in particolare di quelli di
Roma, Milano e Napoli) e il voto, in autunno, per il
referendum confermativo costituzionale. Il sistema
politico italiano è "abituato" a sopportare il peso
delle polemiche che una campagna elettorale
comporta: dal 2008 in poi abbiamo avuto politiche
(2008),
europee
amministrative
(2009),
e
regionali
referendum
(2010),
(2011),
amministrative (2012), politiche (2013), europee
(2014), regionali (2015). Normalmente il voto si
concentra fra aprile e giugno, così da dar luogo ad
una battaglia che inizia (teoricamente) a febbraio
per concludersi alle soglie dell'estate. Il prossimo
anno non sarà così. Avremo una campagna
elettorale pressochè permanente, una sorta di
partita da giocare in due tempi: le comunali in
primavera, il referendum in autunno. Ci sarà
spazio per eventuali rivincite. Probabilmente, i due
appuntamenti
non
saranno
vissuti
soltanto
guardando a ciò che l'elettore dovrà effettivamente
decidere (la scelta dei sindaci, il "sì" o il "no" alla
revisione costituzionale) ma anche - se non
soprattutto – concentrandosi sui rapporti di forza
fra
maggioranza
e
opposizioni,
fra
partiti
dell'opposizione (non solo all'interno della stessa
"famiglia politica" - Lega e FI - ma anche con altri
soggetti politici quali il M5S), forse persino fra
diverse concezioni del proprio partito (il Pd) o del
proprio
schieramento
Diverrà
palese
quella
(Berlusconi
"campagna
e
Salvini).
elettorale
permanente" che già nei fatti caratterizza il nostro
sistema e che ha un'influenza non marginale sulle
scelte politiche di governo e partiti. Anche se non
avessimo le due consultazioni previste per il 2016,
il "comportamento" delle forze politiche non
sarebbe
eccessivamente
diverso.
La
grande
importanza che si attribuisce ai dati dei sondaggi,
infatti, fa in modo che persino talune decisioni non
siano prese sulla base di una linea ben precisa ma
vengano "dettate" da una sorta di "sentire comune"
più o meno virtuale (considerando anche la
presenza di una vasta fascia di intervistati che "non
sa", non risponde o dichiara che forse - in quel
determinato momento, però, che non è quello nel
quale si è effettivamente chiamati alle urne - non
voterebbe).
L'esposizione
o
sovraesposizione
televisiva dei leader, la scelta dei temi da
enfatizzare o sopire, persino le modifiche a
provvedimenti legislativi in preparazione o già
all'esame delle Aule parlamentari, sono tutti
soggetti al "fascino" della campagna elettorale
permanente che, nel caso del Pd, appare anche
sostanzialmente come una sorta di continua
battaglia
precongressuale.
La
"forma"
contemporanea della democrazia incoraggia la
dipendenza delle forze politiche da fattori e
impulsi che fino a venti o trenta anni fa erano
marginali, se non inesistenti. Ciò, tuttavia, non è
sufficiente per considerare il mondo politico come
"vittima"
delle
caratteristiche
sociali
e
comunicative del nostro tempo. Inoltre è vero che i
riflessi delle elezioni nelle regioni francesi, nelle
“municipali” spagnole o austriache o in un Land
tedesco finiscono per avere un'eco che va oltre i
confini nazionali e può segnare l'avvio di una
stagione diversa per il Paese nel quale la
consultazione si svolge. Ognuno ha i suoi "test",
dunque. E molti, come noi, hanno anche una certa
attenzione ai sondaggi. Nel caso italiano, tuttavia
(che non è unico, ma riveste caratteristiche
peculiari) è ormai acquisito il fatto che la politica
viva di una mobilitazione permanente e che non
sia possibile impostare una linea d'azione di
medio-lungo
periodo
senza
trovarsi
continuamente ad affrontare esami reali o virtuali.
In questo ambito, si aggiunge un ulteriore
elemento
di
"fluidità"
del
quadro
politico.
Dall'inizio della legislatura, infatti, abbiamo avuto
due governi (uno dei quali in carica da circa 2
anni), ma la composizione della maggioranza di
governo ha subito trasformazioni e adattamenti
frequenti, forse non ancora definitivi. Ci si è
avviati con un'intesa Pd-centristi-FI, poi il partito
di Berlusconi è uscito dalla coalizione di Letta
(salvo gli alfianiani, che hanno costituito il Ncd),
quindi - con Renzi - si è assistito a nuovi arrivi
nella maggioranza di singoli parlamentari o di
piccole formazioni centriste. Nel frattempo, Scelta
civica ha vissuto un processo di sostanziale
diaspora dei propri eletti, cosa che in misura
minore ma consistente è avvenuta anche in Forza
Italia (senza contare che pure il M5S ha perso,
strada facendo, un certo numero di parlamentari). I
gruppi centristi si sono aggregati, disgregati e
riaggregati
sotto
diverse
denominazioni
e
composizione. In occasione del voto sulla riforma
costituzionale, infine, i parlamentari vicini a
Verdini si sono schierati a favore del ddl di
revisione del bicameralismo e del Titolo V,
prefigurando un eventuale futuro ingresso nella
coalizione che sostiene il governo Renzi. Frattanto,
nel Ncd emergono spinte diverse, verso il Pd da un
lato e verso l'opposizione dall'altro. Nel Pd la
battaglia fra minoranza e maggioranza prosegue
senza sosta. Tutte queste turbolenze rappresentano
l'altra faccia della medaglia della "campagna
elettorale permanente", quella che non si disputa
nelle piazze, in televisione o direttamente nelle
urne, ma nelle aule parlamentari. Il riflesso di
questo continuo movimento, in altri tempi, sarebbe
stato un rapido avvicendamento di governi. Ora,
invece, l'Esecutivo è stabile ma la maggioranza (di
riflesso,
anche
l'opposizione)
è
diventata
abbastanza "flessibile", soprattutto considerando i
numerosi cambi di gruppo. L'impressione è che,
anzichè scaricare la tensione di questo movimento
all'interno del sistema, il meccanismo che sembra
essersi autoalimentato nel corso di molti anni e che
ha caratterizzato la Seconda Repubblica (in
particolare, l'ultimo quinquennio) produca i suoi
effetti all'esterno, incoraggiando un calo della
partecipazione
elettorale
che
peraltro
è
già
fisiologico in tutti i regimi democratici. Nel 2016, la
competizione continua (prima le amministrative in
due turni, poi il referendum costituzionale)
metterà alla prova la tenuta della partecipazione
popolare. Campagne elettorali legate al merito
(anzichè ai risvolti politici del voto) possono
coinvolgere maggiormente e motivare gli italiani
ad andare alle urne. Un'eccessiva valenza pro o
anti governativa delle due competizioni, invece,
può
produrre
disinteresse
e
disaffezione,
rafforzando ulteriormente il già nutrito "partito del
non voto".
L’elettorato “fluido”
14.11.2015
Se la caratteristica dell'elettorato della Prima
Repubblica era l'elevata fedeltà al partito, che di
fatto limitava gli spostamenti di voto entro
percentuali molto modeste (lo 0,5% in più era
considerato un'avanzata, mentre un progresso del
2% diventava quasi un trionfo) nella Seconda
Repubblica gli aventi diritto al voto si sono spostati
con più disinvoltura, ma in gran parte all'interno
dei rispettivi "poli". Alla fedeltà di partito si è
passati a quella di coalizione. Entrambe sono state
messe a dura prova dal rimescolamento delle carte
avvenuto con l'ingresso del M5S, in coincidenza
con la crisi delle "famiglie politiche" e con un
massiccio incremento dell'astensionismo: il tutto,
nel quadro di sconvolgimenti socio-economici che
hanno interessato il periodo dal 2011 ad oggi. Una
volta, la "dimensione" della competizione si poteva
rappresentare attribuendo ad ogni partito una
collocazione su una retta, un "continuum" da
sinistra a destra. C'era, è vero, anche la dimensione
confessionale/non
confessionale,
sempre
più
sfumata già nell'ultimo periodo della Prima
Repubblica. E c'era perciò, molto forte, l'"alterità"
delle forze più a sinistra rispetto a quelle più a
destra. Differenza che negli anni Settanta era stata
portata, per i gruppi extraparlamentari, sul piano
dello scontro e della violenza. Anche fra i soggetti
politici "parlamentari", persino fra quelli di
governo, le differenze ideologiche rendevano
immutabili le posizioni sull'ideale linea fra sinistra
e destra: il Pri a sinistra del Pli, il Psdi a destra
rispetto al Psi e così via. Nella Seconda Repubblica
i nuovi partiti non hanno sempre mantenuto le
stesse posizioni. Alcune incompatibilità sono
talvolta venute meno (durante il governo Dini, per
esempio, Lega e centrosinistra si trovarono a
sostenere l'Esecutivo; si è persino parlato del
Carroccio come "costola della sinistra") ma altre
(ad esempio fra sinistra radicale e centrodestra)
sono rimaste intatte per almeno 18 anni, dal 1993 al
2011. Nei ballottaggi delle comunali, ad esempio,
se restavano in gioco due candidati, uno di
centro/centrosinistra
e
uno
di
centrodestra,
l'elettore medio di sinistra votava per il primo (di
rado, si asteneva); se invece al secondo turno
approdavano un aspirante sindaco di sinistra e
uno di centrodestra, il leghista sceglieva se
astenersi o appoggiare il candidato della coalizione
(va detto, infatti, che l'elettorato della CDL è
sempre stato poco incline a tornare alle urne due
volte di seguito in 15 giorni e ancor più, nei collegi
uninominali, a premiare un esponente della
coalizione appartenente ad un partito troppo
lontano dal proprio). Inoltre, questa continuità di
voto e rigidità rendeva le "roccaforti" dei partiti o
dei
poli
pressochè
inespugnabili.
Oggi,
di
"inespugnate", sono rimaste al centrodestra solo
Lombardia e Veneto (non più la Sicilia, per
esempio) e al centrosinistra Emilia-Romagna,
Toscana, Umbria (quest'ultima ha rischiato di
capitolare alle ultime regionali, in occasione delle
quali la Liguria ha invece "ceduto") e in parte
Marche (la regione, però, è divisa fra zone di
diverso colore politico; inoltre, alla Camera, nel
2013, il M5S ha ottenuto il 32,1% contro il 31%
della coalizione Pd-Sel-Centro democratico). Con il
dissolvimento delle coalizioni onnicomprensive
del 2006 (Unione e CDL), la crisi economicosociale, la comparsa di una nuova opzione (il M5S)
e
lo "sdoganamento" di una "via
d'uscita"
(l'astensione, che permette di lasciare il proprio
partito senza "tradirlo" con un altro) il quadro è
cambiato completamente. L'elettorato è diventato
fluido e se è sbagliato asserire che le appartenenze
siano scomparse, è però più corretto affermare che
per molti italiani sono venute meno alcune
preclusioni nei confronti di partiti teoricamente
"lontani".
Il
"continuum"
sinistra-destra,
ad
esempio, spiega poco o nulla (ed è difficile
collocarvi alcuni soggetti politici) se ci si riferisce a
temi divisivi come l'euro: l'elettore leghista è più
vicino a quello dell'ex alleato centrista del Ncd o
alle posizioni più radicali del M5S? Di qui, un'altra
domanda, che si pone con sempre maggiore
insistenza dopo il primo vero caso di "osmosi"
inattesa, cioè l'elezione di un sindaco del M5S a
Parma nel 2012: è possibile che in un eventuale
ballottaggio dell'Italicum fra il Pd e i "grillini" una
quota rilevante di elettori di centrodestra scelga il
M5S e che, in una sfida fra il partito di Renzi e una
possibile coalizione di centrodestra guidata da
Salvini gli elettori grillini esclusi dal ballottaggio
votino per il leader leghista? I sondaggi ci dicono
che è probabile. In particolare, dalla rilevazione
EMG per il Tgla7 del 9 novembre si evince che
eventuali ballottaggi nazionali per il premio di
maggioranza alla Camera (con l'Italicum) fra Pd e alternativamente, un listone di centrodestra o il
M5S - si risolverebbero con risultati inferiori ai 5
punti di margine (52,5-47,5 per il partito di Renzi
contro la coalizione di Salvini e 51,7-48,3 per il
movimento di Grillo opposto ai Democratici). In
altre parole, l'esito non è prevedibile, ma il dato
che spicca è il possibile apporto agli sfidanti dei
ballottaggi dei voti (non pochi) del "terzo escluso".
Rispondendo ad una domanda sulla propria scelta
di voto in caso di secondo turno fra Pd e M5S, gli
elettori del centrodestra hanno indicato che in
maggioranza (ricalcolando i dati, a noi risulta il
58%) non andrebbero alle urne, mentre un 42%
andrebbe ai seggi per decidere la contesa. Qui sta
la sorpresa (che in realtà, da qualche anno, non è
più tale). Mentre gli "azzurri" si dividerebbero (il
15% di chi vota FI al primo turno sceglierebbe al
secondo il Pd, mentre il 22% preferirebbe il M5S), i
leghisti e i sostenitori di FdI che andrebbero a
votare sarebbero quasi tutti (44% contro 6% nella
Lega, 30% contro 2% in FdI) per il M5S e solo in
piccolissima parte per il Pd. In base a nostri
ricalcoli dei dati del sondaggio, del 29% dei voti di
Lega-FI-FdI il 2,5% andrebbe al Pd e il 9,7% al
M5S,
mentre
il
restante
16,8%
finirebbe
nell'astensione (comprendendo anche gli indecisi).
Mentre
l'elettorato
forzista,
insomma,
si
dimostrerebbe più equilibrato nella scelta, quello
leghista e di destra si schiererebbe decisamente con
il M5S. Ciò, verosimilmente, per contrapposizione
con Renzi (che è certo più molto attenuata fra gli
"azzurri") e per divergenze nette col Pd su euro,
Europa e immigrazione. Anche Berlusconi e
Salvini, a Bologna, l'8 novembre, hanno tenuto a
rimarcare le differenze col movimento di Grillo: il
primo, però, per segnare le diversità e additarlo
come un nemico, al pari dei "comunisti"; il
secondo, invece, più pragmaticamente, ha puntato
sull'argomento che il centrodestra "non è solo il
partito del no" ma è anche forza di governo. Del
resto, anche Grillo ha voluto, parlando delle
elezioni comunali a Roma, accreditare il proprio
movimento come un soggetto in grado di
affrontare senza problemi la prova di governare
realtà complesse. In teoria, l'elettorato di destra
(Lega-FdI) e quello del M5S dovrebbero essere
molto distanti (una parte non marginale degli
elettori "grillini" proviene da passate esperienze di
voto al centrosinistra, senza dimenticare che nel
Movimento c'è anche, tuttavia, una fetta di ex
sostenitori della CDL). Su alcuni temi, invece,
appaiono più vicini e pronti - se necessario e
opportuno - ad un'osmosi (non ad un'intesa fra
leader che è impossibile, ma a più praticabili
singole scelte personali degli elettori) fra loro. In
questo modo, il "continuum" sinistra-destra (che
rende arduo collocare il M5S) lascia il posto in
parte ad altre linee di divisione (economia ed
Europa fra tutte) ma anche ad una sorta di
dimensione "circolare" dove i soggetti politici sono
disposti come punti su una circonferenza e dove,
perciò, gli estremi possono avvicinarsi. Si potrebbe
spiegare, inoltre, anche la disponibilità manifestata
in ambienti della sinistra a sostenere nelle città - in
caso di ballottaggio comunale - candidati del M5S.
Il movimento di Grillo si presenta come speculare
al Pd (posto dall'altra parte del "cerchio") perchè è
in grado di dialogare con settori delle estreme
mentre il partito di Renzi è capace di entrare in
sintonia con l'elettorato più moderato (anche se
presente in partiti d'opposizione come Forza Italia,
come dimostra in parte anche il sondaggio EMG).
Abbiamo, così, una diversa polarizzazione. In un
terzo del cerchio abbiamo il Pd (secondo i dati
EMG del 9/11, SWG del 6/11 ed Euromedia per
“Ballarò” del 10/11) intorno al 31,5-34,3%; accanto,
il Ncd (2,3-2,9%) da una parte e l'area dell'ex Lista
Tsipras (3,4-4%) dall'altra. In un altro settore, il
M5S (25,5-27,7%). Infine, i partiti di centrodestra,
iniziando dal più vicino al centro (FI, 10,8-12,5%),
proseguendo con la Lega (14,4-15,6%) e finendo, a
destra, con FdI (4-4,8%). Nessuna di queste aree,
variamente aggregata, varca decisamente il 40%,
almeno da quel che sembra (al netto, dunque, di
una
campagna
elettorale
lontana
e
degli
immancabili difetti dei sondaggi), ma oggi non
sembra azzardo ipotizzare come probabile che per
assegnare il premio di maggioranza dell'Italicum si
debba
ricorrere
ad
un
secondo
turno
di
ballottaggio. Con quali protagonisti ed esiti è
troppo presto per dirlo.
Lo "spirito repubblicano"
28.11.2015
Dopo l'attentato di Parigi la Francia ha dato prova
di possedere ancora il suo "spirito repubblicano".
Si tratta di un comune sentire del quale in Italia si è
sempre lamentata la scarsità o l'assenza. Nel nostro
paese, del resto, alcune ricorrenze che dovrebbero
accomunare le parti politiche e i cittadini non sono
sempre state pacificamente riconosciute come tali,
prima fra tutti quella del 25 aprile. L'avvento della
Seconda Repubblica, nel 1994-'96, ha soltanto
accentuato divisioni che apparivano in precedenza
ricomposte e che invece erano pronte a riproporsi
in occasione della scelta fra un "polo" e l'altro.
Certamente, la creazione di un "nemico" interno da
additare ai propri sostenitori (il comunismo da una
parte, Berlusconi dall'altra) non ha favorito una
pacificazione nazionale che pure il presidente della
Repubblica Ciampi, fra il 1999 e il 2006, ha tentato
di promuovere. L’aggregazione in due “famiglie
politiche” ha polarizzato l'elettorato e ha svolto
una funzione divisiva che ha finito per colpire non
solo i simboli del nostro patrimonio comune (dalle
feste nazionali alla stessa Costituzione e alle
istituzioni). Ad una più attenta analisi, però,
appare riduttivo e sbagliato attribuire al sistema
elettorale maggioritario uninominale (1994-2005) e
alla
personalizzazione
della
politica
(con
l'emergere di leader e di "partiti del capo")
l'impossibilità di far nascere (o rinascere) in Italia
lo "spirito repubblicano". La divisione sulle ragioni
fondanti dello stare insieme, infatti, si protrae per
buona parte della storia politica dall'Unità in poi.
Prima con la questione meridionale e con la
disputa
fra
Chiesa
e
Stato
(caratterizzante
soprattutto il primo mezzo secolo del Regno
d'Italia), in seguito col fascismo, poi con la guerra
fredda, quindi con un'artificiosa ma efficace
distinzione fra poli elettorali e con l'ennesima,
finale, divisione in tre blocchi, accompagnata da
una disaffezione crescente verso i partiti e le
istituzioni, il popolo italiano si è trovato unito in
poche occasioni, quasi tutte cruciali. La stagione
della Costituente e la lotta al terrorismo sono stati
rari episodi nei quali gli italiani e le forze politiche
si sono trovati insieme dalla stessa parte. Non
intendendosi sui contenuti da dare al "comune
sentire", i partiti hanno spesso rinunciato a
lavorare per edificare un insieme di valori, diritti e
doveri sui quali convergere, al di là e al di sopra
delle rispettive divergenze ideologiche. Forse, non
avendo chiara la sostanza da attribuire allo "spirito
repubblicano", è prevalsa l'interpretazione più
prudente (per non dire diffidente) e si è commesso
lo stesso errore imputato a chi, durante i lavori
della Costituente, ebbe "il complesso del tiranno".
Per timore che il 25 aprile e la Resistenza
diventassero la festa della sinistra (in particolare di
quella comunista, anche se le forze del CLN
rappresentavano un
ben
più
ampio spettro
politico) per anni si è trascurato, nell'immediato
dopoguerra, il valore di quella ricorrenza. Questa è
diventata patrimonio comune (mai unanime,
peraltro) col passare del tempo, quando però è
stata celebrata in modo sempre più rituale e in
parte decontestualizzato. Lo stesso è avvenuto per
la celebrazione dell'unità nazionale (contestata, nel
2011, dalla Lega Nord) e, in parte, per quella del 2
giugno (caratterizzata più dalle polemiche sulla
parata militare a Roma che da una riflessione sullo
stato della nostra democrazia e della Repubblica).
Lo "spirito repubblicano" alla francese (al netto del
ruolo attuale del FN, diverso dal passato ma non
completamente in discontinuità con le posizioni
che nel 2002, in occasione del ballottaggio
presidenziale
Chirac-Le
Pen,
spinsero
alla
mobilitazione anche gli elettori di sinistra, pur di
impedire l’elezione all’Eliseo del capo dell’estrema
destra) è stato scambiato, nel tempo, per un
rigurgito di nazionalismo prima e poi, nella
Seconda Repubblica, per una riedizione del
"consociativismo" che il "nuovo ordine" creato
dopo il 1994 proclamava di voler abbattere. I
tentativi del Presidente Carlo Azeglio Ciampi sul
versante del recupero dell'idea di Patria si sono
scontrati con la diffidenza per l'abuso che il
fascismo ne aveva fatto. La stessa Costituzione, che
per circa 45 anni è stata l'unica piattaforma
comune delle forze politiche (o quasi: si parlava,
non a caso, di "arco costituzionale" al di fuori del
quale erano gli extraparlamentari e l'estrema
sinistra nonchè, fra i partiti, il Msi, fautore di un
assetto
dei
poteri
radicalmente
diverso)
è
diventata, con la Seconda Repubblica, ulteriore
motivo di contrapposizione. Mentre sul finire degli
anni Settanta e negli anni Ottanta la "Grande
Riforma" viene vista come un tentativo di
aggiornare la Carta Fondamentale senza svilirne il
valore, nella Seconda Repubblica la Costituzione
viene sovente attaccata e, quando si pone mano ad
un'operazione di riforma (com'è avvenuto in
numerose occasioni negli ultimi venti anni) si
trasforma in un campo di battaglia fra i partiti.
Così, persino il nostro "succedaneo" dello spirito
repubblicano, cioè l'unità intorno alla Costituzione,
viene posto in discussione. Subentra una dialettica
fra vecchio e nuovo, fra innovatore e conservatore
nella quale non è più facile ricondurre ad unità il
quadro, soprattutto perchè ogni parte in causa
rivendica la bontà della propria posizione in
confronto all'"eresia" di quella opposta. Nel
momento
in
cui
l'unico
strumento
davvero
unificatore, la Costituzione, è stato dichiarato
vecchio (molto prima che si procedesse al
"restauro" e alla parziale ricostruzione) il patto
repubblicano si è ulteriormente sfilacciato, proprio
mentre
un'ondata
di
particolarismi
stava
invadendo il terreno della politica. I richiami
autorevoli, fra i quali quelli dell'attuale Capo dello
Stato, a trovare terreni dove edificare un nuovo
complesso di valori comuni per la Repubblica e i
suoi cittadini sono seguiti spesso da ampi consensi
formali, ma da scarse realizzazioni concrete.
Sebbene ci si auguri di non dover mai avere a che
fare con la controprova, è molto difficile ipotizzare
che il Parlamento italiano abbia lo spirito unitario
(ancora vivo, a tratti, negli anni Settanta) per
tributare, sia pure in una circostanza eccezionale,
un omaggio corale come quello rivolto dai
deputati francesi in occasione del recente discorso
del Presidente François Hollande.
Appunti sul voto in Europa
12.12.2015
Nell'analisi politica c'è spesso il rischio di
incappare in alcuni indizi che "spiegano troppo".
Ci sono circostanze, sia pure molto rilevanti, che
però sono concause di un determinato fenomeno e
che non bastano, da sole, a spiegarne la vera
natura. Taluni hanno affermato, subito dopo il
voto regionale francese del 6 dicembre, che
l'avanzata del Fronte nazionale di Marine Le Pen
era frutto della paura per gli attentati terroristici di
Parigi. Forse sarebbe stato sufficiente riprendere
alcuni sondaggi precedenti al 13 novembre e
persino dati elettorali recenti significativi, per
rendersi conto che c'era anche dell'altro. L'istituto
Ifop, poi, ha diffuso un interessantissimo studio
sul voto regionale dal quale si evince che solo il
16% degli elettori del FN ha cambiato intenzione di
voto a seguito degli attentati. In altre parole, nel
28,4%
ottenuto
dai
lepenisti
c'è
un
4,5%
conquistato in seguito ai fatti di Parigi: ciò
dimostra che il restante 23,9% era già acquisito o
acquisibile anche senza il verificarsi di eccezionali
eventi esterni al dibattito politico corrente. Alle
elezioni europee del 2014, peraltro, il FN aveva
ottenuto il 24,86% dei voti (prima ancora persino
dell'attentato
a
Charlie
Hebdo
dello
scorso
gennaio, quindi). Nella vittoria dell'estrema destra
francese non c’è solo la contingenza del terrore e
neppure soltanto la linea "securitaria" di Marine Le
Pen. Così come, nei risultati di Syriza in Grecia, di
Podemos in Spagna, del M5S e della Lega nel
nostro
paese,
tanto
diversi
fra
loro
per
"collocazione" politica quanto per i contesti
nazionali (senza contare che anche in Germania si
sta "muovendo" qualcosa) ci sono ragioni profonde
che spiegano uno spostamento elettorale così
potente da scardinare il bipolarismo (in alcuni casi
bipartitismo) che caratterizzava fino a pochi anni
fa Spagna, Francia, Grecia, Italia. Un elemento di
quel sondaggio Ifop sulle regionali francesi ci può
fornire una via per proseguire nell'indagine.
Mentre solo il 24-26% degli elettori di sinistra
(FDG, Verdi, PS) e il 37% di centristi e LR di
Sarkozy ha orientato il proprio voto più in
funzione del valore nazionale che della scelta
locale o regionale, gli unici ad aver messo la
scheda nell'urna guardando più ai problemi
generali (quelli che gli enti locali non possono
risolvere) che agli altri sono proprio i lepenisti
(55% contro 45%). E se è vero che, fra i temi che
hanno supportato il voto ai partiti, l'accoglienza
dei migranti e la lotta al terrorismo sono stati
importanti per circa il 90% degli elettori del FN
contro il 52% di quelli di sinistra, il 61-67% dei
socialisti e il 71-77% di centristi e "repubblicani", è
però vero che tutti sono concordi nel dare il
primato nelle proprie preoccupazioni al problema
del lavoro: il 93% medio, con differenze minime fra
i partiti (92-95%). L'economia, dunque, sembra
oggi il motore delle scelte politiche, più che nel
passato. La sicurezza è - per così dire - un "tema di
rinforzo" per partiti come il FN, ma il vero pericolo
è la propria condizione occupazionale. Il partito
della Le Pen ha ottenuto il 38% del voto dei
disoccupati, contro il 24 dei socialisti e il 18 di LRUDI-MoDem. C'è inoltre un fattore generazionale
(osservato, peraltro, anche in Italia, dove il M5S ha
più voti fra le fasce giovanili che nelle altre,
sopravanzando il Pd), cioè fra le coorti più
interessate dalla disoccupazione: ha votato FN il
33% dei francesi sotto i 35 anni (27% dai 35 in su)
contro il 19% dei socialisti (25% over 35) e il 22%
del raggruppamento di Sarkozy (contro il 29%).
Infine, l'Ifop ci informa che chi ha deciso di votare
nel
corso
delle
settimane
immediatamente
precedenti le elezioni (il periodo concide all'incirca
con la distanza fra i fatti di Parigi e il primo turno
amministrativo) rappresenta il 40% dell'elettorato
in generale, ma solo il 25% di quello lepenista.
Quindi,
l'effetto
degli
attentati
si
conferma
importante ma non determinante. Non è la
reazione alle bombe ad aver "creato" il consenso al
FN.
Che
la
linea
politica
in
materia
di
immigrazione e lotta al terrorismo sia fra le
motivazioni più forti del voto al FN (ma anche ad
altri partiti europei come la Lega di Salvini) è
dunque vero, ma non rappresenta il "nucleo" che
porta un partito "antisistema" a competere per il
primato nazionale. Torniamo, dunque, su un altro
terreno, quello dell'economia, che accomuna i
successi (molti dei quali in chiave anti-euro) di
parecchi partiti di Francia, Spagna, Italia e Grecia.
Il CISE-Luiss ci informa che fra i disoccupati il 38%
voterebbe M5S, contro il 22% del PD. Fra gli
operai, il M5S avrebbe, secondo lo stesso studio, il
46% dei voti, doppiando il partito di Renzi. Resta
però
difficile
stabilire
chi,
in
Italia,
possa
raccogliere un'affermazione simile a quella del FN
francese. Lo scarso radicamento nelle grandi città
(a Parigi i lepenisti sono ancora sotto il 10%) è
simile alla difficoltà della Lega, la quale, come
abbiamo visto alle regionali 2015, ha nei comuni
non capoluogo percentuali di gran lunga superiori
rispetto a quelle ottenute nei capoluoghi. Come
dimensioni complessive nazionali, invece, FN e
M5S si avvicinano. Lepenisti e "grillini" hanno in
comune il fatto di non aver mai amministrato in
passato neanche una regione, ma solo poche città,
mentre la Lega è stata al governo del Paese per
anni (e alleata con altre forze, cosa che FN e M5S
sembrano escludere) ma anche alla guida di
importanti regioni, province e comuni. Il motore
del successo di tutti questi soggetti politici, però,
come si accennava, è l'economia e, più in generale,
il rifiuto degli attuali assetti europei (euro, Unione
europea) e dello status quo nazionale (i sostenitori
del M5S chiamano gli avversari "Pd meno L e Pd
con L", mentre i lepenisti fanno altrettanto,
accomunando nella sigla UMPS i socialisti di
Hollande e i "repubblicani" di Sarkozy). Gli
scardinatori dei bipolarismi, insomma, hanno una
forte
spinta
di
consenso
dovuta
alla
crisi
economica (che è la vera causa che li ha generati o
ne
ha
accresciuto
notevolmente
i
consensi
elettorali), alle difficoltà dell'Unione europea, oltre
che all'incertezza circa il futuro e al rifiuto della
politica (declinati in modo diverso a seconda
dell'offerta elettorale: FN e Lega puntano più su
immigrazione e terrorismo, M5S e gli altri
sull'opposizione ai partiti tradizionali e alla
"Casta"). Fra questi nuovi soggetti politici, molti
sono pronti ad assumersi responsabilità di governo
(Syriza lo fa già; Podemos potrebbe; la Lega ha una
certa esperienza, mentre FN e M5S non ne hanno).
In comune hanno alcune caratteristiche, quasi tutte
quelli vincenti che abbiamo solo tratteggiato.
Hanno anche un nemico pericoloso che può
frenarne le ambizioni: non i partiti tradizionali, ma
l'astensionismo, molto più seduttivo. Questo è il
loro limite: se - con gradazioni e accenti diversi hanno in comune un messaggio semplice e diretto
rispetto a quello più articolato e complesso delle
forze politiche preesistenti, sono però in difficoltà
rispetto all'argomentazione ancor più semplice e di
forte presa nell'elettorato di chi pensa che andare
alle
urne
(anche
per
scegliere
loro)
non
cambierebbe la situazione. Il “nemico” di costoro,
insomma, è quello che non si vede.
Francia-Italia: riflessioni sul ballottaggio
19.12.2015
Fra i numerosi spunti interessanti che l'analisi del
voto francese offre al dibattito italiano ce ne sono
alcuni
che
soprattutto
meriterebbero
nella
maggior
prospettiva
di
rilievo,
un
non
improbabile ballottaggio, con l'"Italicum", alle
future (forse non molto prossime) elezioni per il
rinnovo
dell'Assemblea
di
Montecitorio.
Al
secondo turno delle "regionali" francesi sono
andati ai seggi 26.455.071 elettori (il 58,41% del
totale degli aventi diritto): fra essi, 25.167.273
hanno espresso un voto valido (55,56% sugli aventi
diritto, 95,13% sui votanti). Al primo turno, invece,
i votanti erano stati 22.609.335 (49,91%) e i voti
validi 21.708.280 (47,92% sugli aventi diritto,
96,01% sui votanti). Nel giro di una settimana,
insomma, i francesi che sono andati alle urne sono
aumentati di circa 3 milioni e 850 mila unità,
mentre i voti validi hanno avuto un incremento di
3 milioni e 460 mila unità. Un progresso notevole,
pari all'8,5% degli aventi diritto. Com'è noto, i
ballottaggi hanno visto prevalere in sette occasioni
il candidato del centrodestra e in cinque quello di
sinistra (più un autonomista, in Corsica) ma
nessun esponente del FN ha ottenuto la vittoria.
Anche senza addentrarci nell'analisi delle matrici
di flusso elettorale (che pure ci darebbe indicazioni
interessanti, come per esempio il dato Ipsos-France
in base al quale l'indice di fedeltà degli elettori nei
ballottaggi triangolari, fra primo e secondo turno, è
stato del 95% per i socialisti, del 92% per il
centrodestra e solo dell'88% fra chi aveva votato
FN, con un 10% di lepenisti che ha scelto al
ballottaggio
il
candidato
della
"droite"
repubblicana, mentre il 16% dei votanti per
l'estrema sinistra al primo turno ha preferito
astenersi al secondo) sono sufficienti dati "grezzi"
per comprendere cosa può essere accaduto. Dei 3
milioni e 460 mila voti in più "pescati" fra gli
astenuti rimobilitati del primo turno regionale,
solo 800 mila (il 23% circa) ha premiato il FN,
mentre il restante 77% è andato ai candidati
socialisti o di centrodestra. Con questo progresso, i
lepenisti sono giunti alla quota record di 6 milioni
e 820 mila voti (il 27,1%) contro i 6 milioni e 18
mila
del
primo
turno
(27,73%).
È
quindi
ampiamente comprovato quel che Michele Marchi
ha scritto su "Mentepolitica" del 15 dicembre circa
l'esito del secondo turno: "È stato l'effetto della
chiamata alle armi in funzione anti frontista? La lettura
in questa direzione può essere corretta, ma il dato può
anche essere interpretato in altro modo: ancora una
volta una parte consistente di elettori dei partiti di
governo (PS e LR) hanno voluto mandare un segnale di
insoddisfazione
alle
rispettive
classi
dirigenti
astenendosi massicciamente al primo turno, un po'
meno al secondo. Al contrario, il voto FN sembra ormai
essersi strutturato come voto di adesione, che non tende
a diminuire quando aumenta la partecipazione". Lette
in chiave italiana, queste parole non ci evocano
forse qualcosa? L'aumento dell'astensione, che alle
politiche del 2008 colpì la sinistra radicale e nel
2013 pesantemente il centrodestra (ma anche, in
buona
misura,
il
centrosinistra)
e
che
alle
amministrative 2014-2015 pare essersi ampliato
ancora, non è forse il segnale che solo una parte dei
"delusi" dai poli della Seconda Repubblica ha
trovato collocazione in altri soggetti politici (in
primo luogo nel M5S)? Se nessun partito o cartello
elettorale ottenesse il 40% dei voti validi alle
prossime elezioni legislative italiane si andrebbe al
ballottaggio fra i primi due: in quella occasione, è
presumibile
prevedere
un
aumento
o
una
diminuzione dell'affluenza alle urne? La domanda
non solo non è oziosa ma è fondamentale, perchè il
"voto di chi non vota" e il voto di chi avrà scelto in
precedenza partiti esclusi dal ballottaggio saranno
decisivi per l'esito della competizione. In primo
luogo, a tal proposito, bisogna considerare che non
tutti i ballottaggi sono suscettibili di veder
registrare la stessa affluenza alle urne. Se lo
scontro finale fosse fra Pd e un partitone di
centrodestra, verosimilmente molti degli elettori
del
M5S
(teoricamente
tutti,
visto
che
il
MoVimento rivendica la sua "alterità", o almeno
quelli che non si sentono vicini per trascorsi o per
simpatia ai contendenti) potrebbero decidere di
restare a casa, anche se è altrettanto verosimile che
i “pentastellati” interpretino la contesa come
un'occasione per affossare Renzi. Nel caso - il più
improbabile, ad oggi - di un ballottaggio listone di
centrodestra-M5S,
parecchi
elettori
del
Pd
potrebbero considerare l'esito comunque sgradito e
non prendere parte al secondo turno. Ma,
nell'ipotesi di un ballottaggio Pd-M5S, ci sarebbe
molto da interrogarsi non tanto sul "sentimento"
degli elettori di centrodestra (che tutti i sondaggi
danno prevalentemente ostile al partito di Renzi),
ma sulla scarsa propensione del votante medio
dell'ex CDL a recarsi ai seggi per due volte di
seguito a breve scadenza. Se dunque il primo
elemento
da
valutare
per
fare
ipotesi
sul
comportamento elettorale è la struttura della
competizione (con le tre varianti esaminate), il
secondo è l'astensionismo aggiuntivo “cronico”
che caratterizza i ballottaggi in tutte le tornate
amministrative
della
Seconda
Repubblica.
Astensionismo che ha sovente avvantaggiato (o
penalizzato meno) il centrosinistra. In Francia,
come si è visto, al secondo turno può votare un
numero di elettori anche molto maggiore rispetto
al primo, ma da noi è possibile che si verifichi
un'eventualità del genere? E, se sì, a quali
condizioni? Il terzo elemento della nostra analisi,
dunque, non può che essere l'esistenza o meno di
quello che per l'occasione non chiameremo "spirito
repubblicano" (vista l'accezione che ne abbiamo
dato in un precedente intervento su "Mentepolitica")
ma "coalizione di necessità". In Francia solo i
socialisti hanno ritirato i loro candidati giunti terzi
in favore dei neogollisti, mentre questi ultimi
hanno preferito rischiare di far vincere un
esponente del FN anzichè ritirarsi dove erano
meno forti degli altri due maggiori partiti (di qui, i
ballottaggi triangolari, che hanno però ugualmente
"bloccato" i lepenisti, sia pure per poco, come in
Borgogna). In Italia il doppio turno eventuale
dell'Italicum è chiuso ai primi due classificati,
quindi il problema di "desistere" non si pone. Ma,
nelle varie combinazioni possibili del ballottaggio,
siamo certi che in Italia assisteremmo al comporsi
di un'alleanza fra gli elettori - per esempio - di Pd e
centrodestra (una sorta di "unione per la Seconda
Repubblica") da contrapporre al M5S? Oppure
avremmo
un'altrettanto
ampia
o
comunque
competitiva "coalizione antirenziana" che farebbe
del Pd l'avversario da battere uniti (anche se
diversi)? O, infine (eventualità a nostro giudizio
più probabile), non si risolverà tutto nello scontro
fra queste due alleanze trasversali che abbiamo
delineato? Qui, inoltre, c'è da chiedersi se e in
quale misura il secondo turno possa attrarre
elettorato rispetto al primo, visto che entrambe le
opzioni (il voto contro il M5S, quello contro il
partito di Renzi) non sembrano tali da mobilitare
grandi folle di astensionisti. Così giungiamo
all'ultimo punto di quella che è un'analisi la quale
non può che lasciare molte questioni irrisolte: la
grande massa di italiani che non è andata alle urne
per le politiche 2013 (25%) e che è aumentata alle
europee 2014 e alle regionali 2014-2015, ha ancora
un sentimento vago di simpatia (se non di
appartenenza) politica? È mobilitabile dai due poli
di un tempo? Oppure può "risvegliarsi" per andare
a premiare il M5S? In Francia il quadro è più
chiaro: il 27-28% di chi è andato alle urne al primo
turno o al ballottaggio ha votato FN; il restante 7273% per quella che la Le Pen definisce in modo
poco affettuoso l'"UMPS" (socialisti e repubblicani
gollisti; in realtà, in quel 72% va calcolata anche
una fetta di elettorato ecologista e di sinistra non
socialista). Secondo i sondaggi, un esponente del
centrodestra potrebbe battere la Le Pen alle
presidenziali grazie ai voti dei socialisti, mentre un
rappresentante del PS ce la potrebbe fare, ma con
più difficoltà. In altre parole, c'è un fronte
repubblicano da una parte e c'è il FN dall'altra. In
Italia cosa abbiamo?
Il legame sistemico fra monocameralismo e
Italicum
16.1.2016
L'approvazione,
da
parte
della
Camera
dei
deputati, del disegno di legge costituzionale che
riforma, fra l'altro, il bicameralismo e il Titolo V
della
Carta
repubblicana,
sollecita
un
approfondimento di riflessione sul rapporto fra il
rinnovato (o rinnovabile, a seconda dell'esito del
referendum confermativo di ottobre-novembre)
quadro istituzionale e la nuova legge elettorale
(l'Italicum, che entrerà in vigore a luglio). In
precedenti occasioni abbiamo avuto modo di
sottolineare su Mentepolitica che
l'Italicum può
rafforzare gli effetti della revisione costituzionale:
è in grado di assicurare un po' più della
maggioranza assoluta dei seggi di Montecitorio al
partito che vincerà (con almeno il 40% dei voti) al
primo turno o (con la metà più uno dei voti validi)
al ballottaggio fra le prime due liste classificate.
Eliminando la differenza non marginale che esiste
oggi fra gli elettorati di Camera (comprendente
tutti i maggiorenni) e Senato (limitato a chi ha
compiuto 25 anni) e la stessa articolazione
terroriale della legge per Palazzo Madama (la
quale
ha
dovuto
pur
sempre
tener
conto
dell'elezione "su base regionale", mentre per
Montecitorio il premio - quando c'è stato - è
sempre stato nazionale, anche con la legge 148 del
1953, definita dagli oppositori “legge truffa”) e
togliendo ai senatori il potere di concedere e
negare la fiducia al Governo (senza contare che la
gran parte della legislazione sarà affidata ai
deputati e passerà per eventuali "richiami" non
decisivi in Senato), la revisione della Carta delinea
un sistema decisionale più rapido ma anche,
praticamente, "senza appello" (o quasi). In altre
parole, chi vincerà le elezioni per la Camera avrà i
voti per governare e fare approvare le leggi del suo
programma senza sottoporsi (se non in casi
eccezionali
e
con
modalità
particolari)
alla
"navetta" attuale. Con la possibile (quando non
scontata) coincidenza fra leadership e premiership,
avremo un sistema parlamentare nel quale il
governo (e il partito di governo, nella persona del
suo più alto esponente) rivestirà un ruolo molto
più incisivo. Se, da un lato, il bicameralismo
differenziato eviterà negoziati lunghi e complessi
causati dalla diversa composizione delle Camere o
dai contrasti fra deputati e senatori della stessa
maggioranza, dall'altro mancherà quell'"azione di
raffreddamento" che spesso ha permesso di
emendare nel secondo ramo del Parlamento gli
errori
commessi
nel
concepimento
e
nell'approvazione di un progetto di legge (fra i
quali
le
modifiche
apportate
in
seguito
a
"imboscate", a scrutinio segreto, dei "franchi
tiratori" di maggioranza). La trattativa per arrivare
all'approvazione
di
un
testo
da
parte
dell'Assemblea di Montecitorio dovrà dunque
essere "blindata" al momento della trasmissione in
Aula del testo della Commissione parlamentare
competente, altrimenti ci troveremo talvolta di
fronte alla necessità di far "arenare" disegni e
proposte di legge prima del voto finale, pur di
evitare guasti legislativi. Sono inconvenienti che
potrebbero rivelarsi marginali ed episodici, dei
quali tuttavia andrebbe tenuto conto. In questo
quadro, com'è evidente, il "combinato disposto" fra
poteri esclusivi della Camera dei deputati e legge
elettorale ha un ruolo determinante per l'intero
sistema. Da un lato, la fiducia concessa da un solo
ramo
del
Parlamento
monocamerale
e
creano
la
un
legislazione
quadro
di
semplificazione e di rafforzamento dell'Assemblea
di Montecitorio, che resta la sola a decidere, senza
il
"contrappeso"
(chiamiamolo
così,
impropriamente) del Senato. Dall'altro, però, la
configurazione del meccanismo di trasformazione
di voti in seggi può decidere da quale parte far
oscillare il pendolo del potere: più verso il governo
e la leadership del partito di maggioranza (nel caso
dell'Italicum) oppure verso la Camera dei deputati
(se un giorno si adottasse un sistema elettorale
proporzionale).
Il
meccanismo
di
voto
per
Montecitorio può assumere così un'importanza
maggiore nel sistema persino rispetto al periodo
della
Seconda
all'ipotesi
che
Repubblica.
Torniamo,
formulammo
tempo
infatti,
fa
su
Mentepolitica: se il partito al governo fosse certo di
non poter vincere le elezioni successive, la
tentazione di cambiare il sistema elettorale e, di
conseguenza, di riportare il "pendolo" verso il
Parlamento, allontanandolo da Palazzo Chigi,
potrebbe portare all'approvazione di una legge più
o meno puramente proporzionale (per esempio
con correttivi e soglie, come fecero in Francia i
socialisti nel 1985 per impedire il trionfo del
centrodestra). Oppure
potrebbe constatare
il partito di
governo
di dover costituire
una
coalizione con altri gruppi per essere competitivo
alle
elezioni successive,
e
potrebbe
trovarsi
costretto dai nuovi potenziali alleati a varare una
modifica dell'Italicum tale da prevedere il premio
di
coalizione.
Avremmo,
circostanze,
diverse
istituzionali.
Col
a
dialettiche
binomio
seconda
delle
politiche
e
monocameralismo-
Italicum il confronto sarebbe verosimilmente quasi
soltanto interno al partito di maggioranza, al suo
gruppo dirigente, al gruppo parlamentare della
Camera, al rapporto fra il premier/leader e il
partito. Nel caso di una modifica che comportasse
la formazione di coalizioni pre-elettorali, si
avrebbe uno spostamento della negoziazione verso
i partiti della maggioranza, il che comporterebbe
possibili
divergenze
su
singoli
punti
programmatici e renderebbe il governo del Paese
più simile a quello "collegiale" del Pentapartito (o
di parecchi governi della Seconda Repubblica) che
a quello monocolore che si prospetta con l'Italicum
nella sua versione attuale. Se poi si adottasse un
sistema elettorale proporzionale o simile a quello
tedesco, per esempio, avremmo verosimilmente
governi di coalizione un po' più ampi dei "recinti"
attuali. L’impossibilità di poter correggere il testo
di una legge (se non approvando in fretta nuove
norme “riparatrici”) renderebbe necessario un
negoziato che si svolgerebbe non solo fra i partiti
ma tra i gruppi parlamentari e le componenti di
questi
ultimi.
In
altre
parole,
la
modifica
costituzionale può produrre alcuni effetti sul
quadro complessivo, fra i quali lo snellimento del
processo legislativo e il rafforzamento del governo
nel sistema, però questi effetti possono essere
amplificati o attenuati a seconda del meccanismo
elettorale in uso. Poichè la Costituzione è fatta per
resistere al tempo (ed è difficile cambiarla, come si
è visto nella storia repubblicana) ma le leggi
elettorali durano in media circa dieci anni (19942005 Mattarellum; 2005-2015 Porcellum), non è
escluso
che
già
al
termine
della
prossima
legislatura o nella successiva si ponga il tema di
rivedere le norme che "trasformano voti in seggi".
Col risultato possibile di produrre ripercussioni
sull'intero quadro istituzionale e dei rapporti fra e
nei partiti, fra partiti e governo, fra governo e
Camera dei deputati; sempre che, ovviamente, il
Senato non sia fortemente "presidiato" dalle
opposizioni, il che introdurrebbe ulteriori variabili.
La "finestra elettorale" del 2017
30.1.2016
Il referendum confermativo costituzionale previsto
per il prossimo ottobre potrebbe accelerare la
conclusione della legislatura. Allora, infatti, le
Camere avranno appena quindici mesi di "vita"
residua, perchè nel 2013 si è votato a febbraio.
L'eventualità che gli italiani siano chiamati alle
urne per le elezioni politiche già nella tarda
primavera del 2017 (maggio-giugno) diventa la più
probabile, anche perchè, in fondo, si tratterebbe di
un anticipo di 8 mesi sulla scadenza naturale.
Inoltre,
votando
nel
2018,
la
necessità
di
sovrapporre parte della campagna elettorale con il
dibattito sulla Legge di stabilità (per di più, con un
Senato che - se passasse la revisione costituzionale
- potrebbe diventare ingovernabile, a poche
settimane dal "liberi tutti") renderebbe complessa
la gestione degli ultimi mesi di legislatura. Così,
molti indizi sembrano condurci verso il possibile
anticipo del voto al 2017. Il più importante è il
referendum confermativo, vero snodo politico
della legislatura. Qui abbiamo due possibili
conseguenze: una politica, l'altra in parte anche
tecnica. La prima è data dal fatto che - per
ammissione dello stesso Renzi - la consultazione
finirà per diventare anche un giudizio sul
presidente del Consiglio. In modo simile a
D'Alema nel 2000 (elezioni regionali) e Craxi nel
1985 (referendum sulla "scala mobile"), anzi con
maggior forza, il leader del Pd ha affermato che in
caso di sconfitta abbandonerà il campo. In altre
parole, se dalle urne uscisse un "no" alla riforma
costituzionale, il governo si dimetterebbe. In tal
caso la parola passerebbe al Presidente della
Repubblica che dovrebbe verificare prima la
possibilità di dar vita ad un nuovo Esecutivo
presieduto da un diverso esponente del Pd e poi
scegliere se dare un incarico per formare un
governo tecnico-balneare volto all’approvazione
delle leggi di bilancio e gestire l'anno restante della
legislatura, o se - eventualità più probabile sciogliere le Camere e chiamare gli italiani alle
urne a gennaio 2017. La possibilità di un governoponte in caso di vittoria dei "no" al referendum
potrebbe essere più forte se i partiti sentissero la
necessità di estendere al Senato (che resterebbe
eletto direttamente dal popolo) l'Italicum valevole
per la sola Camera dei deputati. La permanenza
dell'attuale sistema bicamerale, infatti, renderebbe
perfettamente inutile (come nel 2013) l'attribuzione
di un premio di maggioranza a Montecitorio, non
essendovene
uno
per
Palazzo
Madama.
Riflettendoci, legge elettorale e provvedimenti
economici sono i classici "ingredienti" di un
governo di transizione, tecnico o politico che sia. Il
referendum confermativo non influirebbe sul
destino della legislatura solo in caso di vittoria del
"no". Se vincesse il sì, Renzi potrebbe essere tentato
di sfruttare l'onda del successo per andare subito
ad elezioni anticipate. Le esperienze delle europee
2014 e delle regionali 2015 insegnano che il
“momento di grazia” potrebbe non durare per un
anno e che la "cresta dell'onda" sarebbe in grado di
riportare l’attuale premier a Palazzo Chigi soltanto
se presa subito. Se si votasse nel 2018, invece, il
leader del Pd dovrebbe ricominciare la sua
campagna elettorale da capo, senza contare sugli
effetti - a quel punto lontani - della consultazione
referendaria. C'è poi un secondo motivo, insieme
tecnico e politico, che fa pensare ad elezioni
anticipate nel 2017. Se vinceranno i sì, il Senato
continuerà a sopravvivere nella sua forma e
funzione attuale solo "in proroga". Di fatto, sarà un
ramo del Parlamento che difficilmente potrà
esprimere pareri diversi rispetto a Montecitorio
senza incorrere nell'accusa di essere un'assemblea
obsoleta in via di scioglimento e praticamente
"delegittimata" dal voto popolare. Poichè già oggi
Palazzo Madama ha una composizione politica
frammentata e non rappresenta un punto di forza
della maggioranza di governo, è facile pensare che
nell'ultimo anno di "convivenza" fra Camera,
Senato e governo si possano sviluppare tensioni
dall'esito imprevedibile. Andando al voto già nel
2017, invece, il problema sarebbe risolto. Inoltre,
non si vede perchè la realizzazione di un obiettivo
(la differenziazione del bicameralismo) che ha
costituito una delle principali ragioni d'essere
dell'attuale dirigenza del partito di maggioranza
relativa debba essere lasciata in sospeso per un
anno, fino alla scadenza naturale della legislatura.
Poichè Palazzo Madama si rinnoverà quando sarà
sciolta
l'Assemblea
di
Montecitorio,
la
"rottamazione" del vecchio Senato non potrà
facilmente essere rinviata a lungo: è anche una
questione d'immagine, oltre che politica. Molti
degli scenari fin qui tracciati ci portano alle
elezioni anticipate del 2017. A meno che, nel
frattempo, le circostanze e gli eventi politici non
conducano alla creazione di maggioranze più
ampie, necessitate da eccezionali problemi interni
o internazionali oggi non prevedibili: in tal caso,
l'approdo naturale del 2018 sarebbe l'esito più
scontato. Ma, allo stato attuale dei fatti, è molto
probabile che pochi mesi dopo il referendum
confermativo
costituzionale
avremo
-
indipendentemente dalla vittoria del "sì" o del "no"
- nuove elezioni politiche in Italia.
La società caleidoscopica
13.2.2016
Il confronto molto aspro sulle unioni civili ci
ricorda che nel nostro paese non solo non è
possibile,
ma
ricondurre
è
le
addirittura
anacronistico
contrapposizioni
politiche
al continuum sinistra-destra. Non era molto facile
neppure al tempo della Prima Repubblica, quando
le differenze ideologiche si sommavano a quelle
riguardanti le scelte religiose. Non lo è stato
durante la Seconda, quando allo schierarsi per un
polo o l'altro si è sovrapposta la forte motivazione
del berlusconismo-antiberlusconismo, che però è
stata
accompagnata
nell'elettorato,
ad
da
esempio
altre
da
divisioni
quella
sul
federalismo. Oggi, soprattutto dopo il voto del
2013 e ancor più dopo questo triennio di
legislatura, appare sempre più difficile tracciare
confini tradizionali fra destra e sinistra e collocare i
partiti seguendo vecchie distinzioni. La posizione
anti-euro, ad esempio, è condivisa dalla Lega come
dal M5S. Ora, inoltre, persino sull'Unione europea
sembra talvolta allargarsi il fronte di chi vorrebbe
assetti diversi, sia pure senza rivoluzionare il
sistema dell'UE. Le critiche rivolte dal premier
italiano al presidente della Commissione europea
appaiono inedite nella forma e nella sostanza, tali
da prefigurare quasi una terza posizione rispetto ai
tenaci antieuropeisti e ai difensori "senza se e
senza ma" dell'Europa e dell'euro. Una posizione
non
intermedia
fra
le
due
"estreme",
ma
semplicemente diversa, che può (o vuole) avere
consensi
trasversali
nell'opinione
pubblica.
Viviamo, dunque, in una società sempre più
plurale,
nella
quale
-
per
esempio
-
il
comportamento elettorale dei giovani non varia di
pochi punti percentuali rispetto alle scelte dei più
anziani, ma spesso è addirittura completamente
diverso. Non è la solita distinzione generazionale,
ma l'affermarsi di una società multistratificata
nella quale le aggregazioni e le sfumature
prevalgono
sugli
steccati
che
la
Seconda
Repubblica aveva cercato di costruire intorno a
due
poli
elettorali
rivelatisi
incapaci
di
comprendere, di orientare e talvolta di interpretare
l'agire sociale, al punto di finire per essere
affiancati da altri soggetti politici ma soprattutto di
essere sovrastati, sul piano numerico, da un "fronte
dell'astensione" tanto vasto quanto eterogeneo. La
difficoltà del pensiero e ancor più dell'azione
politica stanno dunque nell'individuare e nel
comprendere tutte le manifestazioni e le differenze
di una società caleidoscopica. Paradossalmente,
durante la Prima Repubblica alcune di queste
caratteristiche erano in gran parte sfumate o
inesistenti (ne sussistevano, però, altre): tuttavia,
c'erano partiti anche di estrema minoranza capaci
di offrire un'esaustiva rappresentanza a settori
precisi del Paese. Oggi, la necessità di favorire la
creazione
di
una
maggioranza
parlamentare
numerica (con l'Italicum) e teoricamente forte e
stabile sul piano istituzionale (con la riforma
costituzionale in fieri) portano il quadro politico a
privilegiare una "rappresentanza omnibus" (molti
sono catch
all
definizione
parties,
ormai
per
riprendere
cinquantenaria
di
una
Otto
Kirchheimer). Così facendo, portano al loro interno
alcune
delle
differenze,
che
prima
o
poi
riemergono, per esempio sul caso attuale delle
unioni civili e delle adozioni (si potrebbero, però,
fare molti altri esempi, in tema di maggiore o
minore intervento dello Stato nell'economia o in
materia di politica estera). La rappresentanza
parlamentare della Prima Repubblica finiva quasi
per esaltare le differenze, moltiplicandole anche
quando (nel caso di "partiti fratelli") erano
superabili con un po' di buona volontà. La
"democrazia
maggioritaria",
invece,
deve
semplificare e riunire: il che non ha e non può
avere un connotato oggettivamente positivo o
negativo, ma è un modo d'essere, che però
comporta una particolare capacità d'ascolto da
parte delle classi dirigenti. La politica, infatti, ha di
fronte due strade possibili: una, più semplice, di
seguire
l'orientamento
che
trova
maggior
consenso, a costo di trascurare temi urgenti che
però sono “divisivi”; l'altra, impervia, che richiede
di
affrontare
ogni
tipo
di
problema
e
di
coinvolgere sui temi più delicati tutte le forze
diverse dalla propria, impegnandosi in una grande
capacità di ascolto e di tessitura paziente. Nella
società dell'informazione rapida, della polemica
facile e spesso dirompente quanto effimera, la
seconda via è sempre più ricca d'intralci. Se ogni
ricerca di soluzione è intesa come un compromesso
deteriore e un tradimento, far coesistere i pezzi del
mosaico diventa impossibile. La nostra è una
società nella quale si discute molto, ma si dialoga
poco.
Appunti sulla "Terza Repubblica"
20.2.2016
La transizione avviata con le elezioni del 2013 non
si concluderà, probabilmente, neppure se al
referendum
sulla
revisione
della
Carta
Repubblicana dovessero prevalere i sì al progetto
di riforma. Un quadro politico-istituzionale, infatti,
non si caratterizza solo per l'impianto "formale"
che lo sorregge (la Costituzione, le leggi come
quella elettorale) ma anche per una serie di fattori,
fra i quali spicca la struttura del sistema partitico.
Quest'ultimo
è
tanto
importante
che
-
ristrutturandosi profondamente, fra il 1992 e il
1996 - ha "imposto" un passaggio alla "Seconda
Repubblica" avvenuto in realtà a Costituzione
immutata. Stavolta, data la vastità della revisione
della Carta Fondamentale introdotta col voto delle
Camere (il testo sarà sottoposto a ottobrenovembre al giudizio del popolo) potremmo
osservare un fenomeno opposto rispetto a quello
di venti anni fa. Passando alla "Terza Repubblica",
il sistema dei partiti resterà verosimilmente
strutturato sui tre soggetti (due costituiti da singoli
gruppi - Pd e M5S - e uno "plurale", un
centrodestra dai contorni ancora non ben definiti)
che
hanno
dominato
le
scorse
elezioni
parlamentari. In realtà, il quadro istituzionale non
sarà affatto modificato soltanto nei suoi risvolti
costituzionali, ma vedrà le forze politiche adattarsi
ad un nuovo sistema elettorale (l'Italicum). Un
cambiamento - persino se a vincere fossero i no alla
riforma - avverrà comunque nel breve-medio
periodo, perchè l'attuale sistema dei partiti è come si accennava all'inizio - in piena transizione:
non siamo più nella Seconda Repubblica, ma non
si è ancora approdati alla Terza. Finora il dibattito
sul futuro del sistema politico-istituzionale si è
incentrato
sul
bicameralismo
ruolo
che
e
la
riforma
del
l'introduzione
dell'Italicum dovrebbero giocare, ma non si è
tenuto conto di variabili non facilmente “gestibili”.
Una fra le più rilevanti è rappresentata da un
fenomeno assente durante la Prima Repubblica ma
molto diffuso durante la Seconda: quello che certa
pubblicistica ha definito, in modo poco elegante
ma efficace, come "transumanza parlamentare". Il
venir meno delle ideologie, dei partiti rigidamente
strutturati e coesi ha, insieme all'affermarsi di
nuove fedeltà basate su leader carismatici (nel vago
ricordo della tarda età liberale a cavallo fra i secoli
XIX e XX), reso molto "fluida" l'appartenenza ai
gruppi parlamentari. Si può dire, nel momento in
cui si discute di "libertà di coscienza" sulle unioni
civili, che la Seconda Repubblica è stata il luogo
dove si è affermata (di volta in volta, fra il biasimo
di
chi
ha
dovuto
subire
delle
perdite
e
l'apprezzamento di chi, invece, ne ha beneficiato)
la massima libertà di mutare orientamento e
partito. Questo elemento non è stato toccato dalla
riforma costituzionale, perchè riguarda il divieto di
vincolo di mandato, cioè un caposaldo del nostro
regime democratico. Tuttavia, l'esistenza di una
sola Camera politica (nell'ipotesi che faremo da qui
in
poi,
di
costituzionale)
dell’Assemblea
vittoria
dei sì al
referendum
ogni
componente
Montecitorio
doppiamente
renderà
di
decisivo rispetto al passato. Il potere di quelli che
potremmo chiamare "deputati di confine" fra
governo e opposizione può inoltre aumentare
proprio in ragione del sistema elettorale: l'Italicum,
infatti, attribuisce 340 seggi su 630 al partito che
vince, cioè appena ventiquattro oltre la metà più
uno dei componenti della Camera. Non è difficile
pensare che la possibilità, per ventisei deputati di
maggioranza, di far cadere il governo o, per
altrettanti di opposizione, di sostiture i dissidenti
del partito vincitore delle elezioni, generi ulteriori
tensioni. Chi avrà un "pacchetto" di poco meno di
una trentina di seggi di maggioranza potrà
orientare la politica del governo o quantomeno
condizionarla
in
determinati
passaggi,
depotenziando così tutti gli argini che proprio la
riforma costituzionale e l'Italicum hanno cercato di
innalzare a difesa della governabilità e del potere
dell'Esecutivo in un sistema che nelle intenzioni
dovrebbe avere alcuni tratti in comune con
quello Westminster descritto da Arend Lijphart. La
tenuta dei gruppi parlamentari e dei soggetti
politici (tutta da verificare, in un periodo di
instabilità non solo politica, ma sociale ed
economica) va inoltre valutata, nel prefigurare il
passaggio ad una possibile Terza Repubblica, alla
luce di altri due elementi: i "partiti parlamentari" e
la
forza
delle leadership.
Durante
la
Prima
Repubblica i primi erano rari, frutto di divisioni
spesso drammatiche dei partiti (fra tutti, la
scissione socialdemocratica nel 1947, poi quella
monarchica nel ‘54, il Psiup nel '64, la scissione del
Psu nel '69, l'espulsione dal Pci - nel ’69 - del
gruppo del "Manifesto", la nascita – dal Msi - di
Democrazia Nazionale nel ‘76). In tutti i casi,
avevamo nuovi soggetti politici che si sarebbero
misurati col giudizio degli elettori. Il gruppo Misto
non era folto. Per contro, le leadership (soprattutto
quelle del partito di maggioranza relativa, la Dc)
erano - dopo il periodo degasperiano - deboli e
comunque destinate a incontrare resistenze tali da
abbatterle, prima o poi (Fanfani, De Mita) o
fiaccarle. Nella Seconda Repubblica, invece, il
panorama è stato completamente diverso: abbiamo
avuto leader forti e partiti parlamentari destinati
talvolta a durare pochi mesi. La forza dei governi
della Terza Repubblica dipenderà molto da
quanto, sulla scorta del discorso già fatto sui
cambiamenti di gruppo, resterà vivo e forte il
fenomeno dei "partiti parlamentari" sorti per
sostenere un Esecutivo o per opporvisi. Inoltre, la
tenuta e la continuità alla guida del governo
dipenderà dalla forza delle leadership. Così com'è
disegnato, infatti, il sistema istituzionale che
scaturirà dalla riforma non prevede la sfiducia
costruttiva o la fine automatica della legislatura in
caso di dimissioni del Presidente del Consiglio, il
che lascia spazio alla nascita di maggioranze non
pienamente
corrispondenti
a
quella
uscita
vittoriosa dalle elezioni per la Camera dei
deputati. Nessuna garanzia, inoltre, permette
al leader del partito che ha conquistato i 340 seggi
del "premio" di restare a Palazzo Chigi per l'intera
durata della legislatura. Un cambio al vertice del
partito maggioritario può comportare - come ad
esempio è avvenuto nel 2014 - un avvicendamento
alla guida del governo. In sintesi, non possiamo
sapere fin da adesso se e quanto il modello
istituzionale della Terza Repubblica influenzerà il
sistema dei partiti e il comportamento degli eletti o
viceversa. È probabile che i primi anni siano
caratterizzati
da
spinte
e
controspinte
di
assestamento. I precedenti sono chiari: la Prima
Repubblica ha avuto, con la proporzionale quasi
pura e il bicameralismo, formule politiche di lunga
durata ma governi brevi, mentre nella Seconda il
centrosinistra e il centrodestra non hanno mai
vinto due elezioni consecutive e le rispettive
formule non hanno avuto cicli complessivamente
più lunghi di otto o nove anni. Inoltre, nella Prima
Repubblica abbiamo avuto un Presidente del
Consiglio ininterrottamente in carica per circa otto
anni
(De
Gasperi)
sia
pure
con
differenti
maggioranze e combinazioni politiche, ma anche
molti premier rimasti al governo per pochi mesi
nell'ambito di "formule" longeve: tutto è dipeso dal
sistema dei partiti. Nella Seconda Repubblica la
concidenza fra leadership e premiership è stata forte e
totale solo per il centrodestra (Berlusconi) ma
molto più labile e discontinua per il centrosinistra.
Se il partito che vincerà le prime elezioni della
Terza Repubblica sarà forte e coeso, la nostra
democrazia raggiungerà "l'obiettivo Westminster",
ma non necessariamente questa condizione sarà
duratura. Sia perchè, come ricordavamo, un ceto
politico abituato alla trasmigrazione non ha motivo
nè ostacoli tali da essere portato a mutare avviso,
sia perchè non è escluso che dissidi interni al
partito vincitore delle elezioni non scompaginino
gli assetti. Non è improbabile, infine, come si
accennava in un precedente capitolo, che in una
legislatura il partito di governo si trovi a constatare
di non essere in grado di competere con successo
per riconquistare il "premio" alle elezioni seguenti
e decida, perciò, di introdurre un sistema elettorale
"alla tedesca", accentuando la natura parlamentare
del quadro istituzionale. In tal caso, con la
proporzionale, avremmo una Camera politica in
meno rispetto ad oggi (il Senato) ma non
necessariamente
un
sistema
sull'Esecutivo e sul governo
legislatura.
più
centrato
monocolore di
Terza Repubblica e ricambio delle leadership
27.2.2016
I soggetti politici maggiori della nascente Terza
Repubblica hanno in comune una caratteristica:
sono tutti “partiti del leader”. Si è giunti a questo
punto per le vie più svariate. Il Pd, partendo dalla
lunga tradizione “classica” della “Ditta”, ci è
arrivato dopo una serie di avvenimenti: lo strano
risultato elettorale del 2013; le primarie che hanno
condotto Renzi alla guida del partito; il repentino
“cambio della guardia” a Palazzo Chigi fra Letta e
lo stesso ex sindaco di Firenze, che ha così
unificato premiership e leadership. Il M5S è nato
come “partito di Grillo”: il rapporto fra il vertice (il
portavoce) e la base di simpatizzanti ed elettori è
stato mediato attraverso la “Rete” di Internet e
dei social network. Quello fra il “padre padrone” di
Forza Italia Silvio Berlusconi e i sostenitori
“azzurri” è invece stato caratterizzato da un abile
uso delle tecniche di comunicazione di massa quali
la televisione. Infine, il quarto “partito del leader”,
la Lega, ha avuto sempre un legame quasi fisico fra
il Capo (Bossi) e il territorio. A questo proposito,
l’avvento di Salvini ha mutato in parte le forme
comunicative
(aggiungendo
i social
network e
soprattutto la televisione) ma ha conservato la
natura leaderistica del Carroccio. Oggi, dunque, il
sistema politico italiano è nelle mani di poche
persone, ma che indicazioni abbiamo circa il
futuro? I partiti personali come Forza Italia
sembrano quasi tutti destinati a seguire la sorte dei
loro fondatori: nei momenti migliori giungono a
percentuali anche molto elevate (quasi sempre
inferiori, però, al 30% dei voti) mentre nelle fasi di
crisi del leader resistono attestandosi su "nuclei
duri" del 4-5%. E’ quanto accaduto alla Lega nel
2012-2013 che, fino a poco prima, era stata "di
Bossi" e che – non a caso – si è poi risollevata
proprio perché, pur essendo un “partito del Capo”,
è stata in grado di darsene un altro (Salvini), a
differenza da tutti gli altri. C’è infine chi (le liste di
Segni, Dini, Di Pietro, Fini) ha invece conosciuto
l’esclusione dal Parlamento e sostanzialmente
l’estinzione. Le capacità espansive dei soggetti
politici “personali” o “personalizzati” (cioè di
quelli che sono nati così o lo sono diventati, come il
Pd) risultano legate alla possibilità di andare oltre
il
semplice
tradizionale
del
mantenimento
partito
e
alla
dell'elettorato
necessità
di
strutturare l'offerta politica non su un "marchio"
(che resta uguale) ma sul "gestore". A ben vedere,
molti grandi partiti italiani sembrano diventati
ristoranti dove si va fidandosi delle capacità
dello chef. Non è detto che, finita la stagione del
cuoco rinomato, ci siano successori all'altezza della
situazione. Ma, finchè il problema resta confinato
ad un soggetto, all’uscita di scena o alla sconfitta di
una personalità che guida il partito (com’è
avvenuto alla Lega nel 2012, al Pd nel 2009, all'Idv
nel 2012, a Scelta Civica nel 2013, a Forza Italia dal
2011) il sistema ne risente solo parzialmente. Il
guaio è che se la Terza Repubblica sarà strutturata
- come e più della Seconda - sulla "democrazia del
leader" (riprendendo il titolo di un recente saggio
di Mauro Calise) rischieremo di trovarci ad
avvertire la necessità di un governo e di partiti
basati su personalità carismatiche, senza che i
soggetti politici siano in grado di assicurare la
crescita di nuovi “capi”. La difficoltà di "allevare"
nuove generazioni e di aumentare gli spazi per
le leadership potenzialmente alternative già presenti
all'interno del partito può rivelarsi esiziale per il
sistema. L'esito (voluto o meno dagli attuali
protagonisti della scena politica) può essere quello
della frase di Luigi XV: Après moi, le déluge. Ma un
sistema dei partiti già fiaccato dall'astensionismo,
dalla disillusione, dal venir meno di alcuni
"motori" (la spinta berlusconiana, ad esempio, non
è più sufficiente per tenere in quota il centrodestra
e quella salviniana non lo è ancora) può,
soprattutto in presenza di una nuova legge
elettorale che premia un solo partito (in particolare
il leader e i suoi fedelissimi che possono candidarsi
nei listini bloccati) e di una riforma costituzionale
che - almeno nelle intenzioni e nella prima
applicazione - potrebbe e vorrebbe dare più poteri
al Premier/Leader, “riconvertirsi” in caso di
bisogno (ed eventualmente in fretta) in una
democrazia parlamentare come quella della Prima
Repubblica nella quale il potere era plurale e i
partiti tutt'altro che personalistici o personalizzati?
Allo stato attuale,
le leadership non
sembrano
assicurare una continuità o una successione nel
medio-lungo periodo: mentre Grillo si sta già
discostando – sia pur lievemente, ma in modo
sempre più deciso - dal suo Movimento, Renzi
annuncia che resterà a Palazzo Chigi al massimo
altri sette anni e Berlusconi sta per compiere
ottanta anni. Siamo proprio sicuri che il diluvio
non si avvicini e che i leader attuali stiano
prendendo le contromisure necessarie per evitare
che esso si abbatta su una democrazia fragile e in
piena, lunga e sofferta transizione? Dove sono le
seconde linee? È vero o no, ad esempio, che in
Forza Italia oggi si vive una situazione non
dissimile da quella dei primi anni Duemila nel
centrosinistra quando Nanni Moretti poteva salire
sul palco e dire agli astanti che con quei dirigenti
non si sarebbe vinto nulla per parecchio tempo?
Nello stesso partito più tradizionale per vocazione
e struttura, il Pd, è ancora certo che dopo Renzi il
posto al vertice del partito o di Palazzo Chigi sia
pronto per Maria Elena Boschi, oppure il logorio
recente di certe battaglie politiche e mediatiche ha
reso
meno
scontata
una
“successione
nella
continuità” da attuare qualora il premier dovesse
lasciare
il
campo?
I
singoli
problemi
che
riguardano i rispettivi partiti sono affare dei loro
elettori, certo. Ma, se a livello sistemico le crepe
negli scenari futuri si moltiplicano, è l'intero
sistema democratico ad avere un grosso problema
da risolvere, perchè se durante la Seconda
Repubblica è stato “in campo” almeno un
competitore forte (Berlusconi per un ventennio,
Prodi per due elezioni vinte dal centrosinistra), la
Terza potrebbe finire per non averne alcuno.
L’offerta elettorale non può limitarsi al leader,
tralasciando il bagaglio politico-programmatico (e
ideologico: ma di questo non si è più certi)
obbligatorio per un partito destinato a durare. E’
pur vero che il presente e il futuro sono dei “partiti
pigliatutto”, spinti dalla necessità ad assumere
posizioni sfumate pur di “catturare” un elettorato
più vasto del proprio campo tradizionale, ma è
altrettanto vero che – così facendo – l’unico punto
unificante e qualificante diventa il leader. Una
personalità carismatica senza programma o un
partito senza una base ideologica possono vincere
le elezioni; un partito con leader deboli (mai
cresciuti dai tempi nei quali erano fra le “seconde
linee”) e con un programma senz’anima non può
che durare l’espace d’un matin. Nel giro di cinque o
dieci anni – o forse molto prima – il sistema
politico
nato
per
essere
personalista
e
maggioritario può ritrovarsi all’improvviso – in
una temperie socioeconomica non agevole - senza
protagonisti in grado di recitare parti impegnative.
Una “Repubblica dei leader” senza capi carismatici
sarebbe come la Fortezza Bastiani del Deserto dei
Tartari di Buzzati.
L’ampliamento della “base democratica”
5.3.2016
A pochi mesi dalle elezioni amministrative e forse
a un anno (o poco più) dalle politiche, è opportuno
interrogarsi sulle cause e sulla natura di un
astensionismo che sicuramente sarà vasto e forse
addirittura maggioritario (almeno alle "comunali").
Va premesso che l'astensione non è da considerarsi
automaticamente come un rifiuto della democrazia
e degli istituti rappresentativi. Come si è spesso
spiegato, l'area del non voto è estremamente
composita: oltre a comprendere chi non va mai alle
urne per impossibilità di vario genere o per
indifferenza, c'è anche chi non ci va perchè non
crede nella democrazia, ma anche chi vuole
esprimere così la sua protesta e, infine, chi non
trova nell'offerta politica e partitica ciò che più gli
somiglia
o
gli
aggrada.
Un
40-50%
di
astensionismo (che può peraltro ridursi a un 3035% alle politiche) non equivale assolutamente alla
"secessione" del corpo elettorale e allo strappo del
tessuto democratico del Paese. Però qualche
riflessione su come recuperare la partecipazione
(fermo restando che una buona metà del "partito
del non voto" non sarà mai riportata alle urne,
proprio
perchè
la
quota
di
astensionismo
fisiologico e di protesta irreversibile è praticamente
impossibile da riassorbire) bisognerebbe farla. Si
tratta, in altre parole, di riscoprire e riadattare ciò
che un tempo si definiva “allargamento della base
democratica”, intendendo non solo lo specifico
tema della partecipazione elettorale, ma – più in
generale – considerando anche la necessità di una
“recupero” del rapporto fra cittadini e istituzioni.
Un rapporto che negli anni Sessanta e Settanta
dello scorso secolo era mediato dai partiti. Allora il
problema non stava nella partecipazione ai
processi elettorali, perché ancora nel 1976 votava il
93,4% degli aventi diritto: l'astensionismo era
appunto circoscritto a casi personali molto limitati,
marginali.
L’"allargamento
della
base
democratica", perciò, avveniva coinvolgendo i
partiti e le masse nel processo decisionale e
facendo entrare più soggetti politici nell'area di
accettazione del sistema. Oggi, a questa necessità
(l’integrazione parlamentare) si aggiunge quella di
agire su un secondo versante (quello dell’aumento
della partecipazione politica ed elettorale) che è
appunto la “riconquista” delle "correnti più fluide"
del multiforme ed eterogeneo partito di chi non
vota. Nell’attuale fase di transizione verso una non
meglio definita Terza Repubblica non si può
allargare la base democratica tramite il sistema dei
partiti, che non è quasi più – a differenza da quello
di quaranta o cinquanta anni fa – in grado di
mediare il rapporto con grandi masse popolari. Le
differenze fra gli anni ’60-’70 e il panorama politico
attuale sono enormi, però qualche spunto di
riflessione
può
essere
colto
–
a
mo’
di
provocazione culturale - riprendendo suggestioni
di allora. Il pensiero di Aldo Moro, per esempio,
potrebbe, se riscoperto, contribuire al dibattito
sulle nuove sfide della democrazia italiana. In
particolare, l’”eretica” rilettura che nel 1979 ne fece
George
intervista
Mosse
in
sullo
un'importante
statista
e
discussa
democristiano,
recentemente ripubblicata da Rubbettino. In quella
occasione lo storico afferma, fra l'altro, che secondo
lo statista democristiano "la politica, in ultima
istanza, è determinata dagli individui, la storia è
fatta dagli individui e quelli che ne sono alienati
devono essere integrati nel processo politico".
Come spiega Mosse, "Moro voleva mantenere le
strutture sociali e politiche esistenti, ma voleva
anche renderle più sensibili, più flessibili e
rispondenti ai mutamenti dei tempi, ai mutamenti
delle esigenze e dei modi di pensare della gente".
La mobilità economica e sociale è dunque "sempre
nel quadro di una democrazia parlamentare, che
sappia allargare le sue basi popolari tramite
l'integrazione
delle
masse".
Molti
di
questi
elementi sono attuali e ancora presenti nel dibattito
politico-culturale. Anche ai tempi di Moro si
parlava di crisi di partiti: il Corriere della Sera, nel
1969, con articoli di Giovanni Russo e un dibattito
pubblicato
nel
numero
dell'11
marzo
(con
interventi di Norberto Bobbio, Vezio Crisafulli,
Francesco
Compagna,
Leopoldo
Elia,
Aldo
Garosci, Panfilo Gentile e Leo Valiani) apre al
grande pubblico una finestra su un tema discusso,
in realtà, già dai tempi delle osservazioni critiche
di Don Sturzo e degli intellettuali del "Mondo" di
Pannunzio, negli anni Cinquanta. Se dunque la
partecipazione politica ed elettorale era ai tempi di
Moro molto maggiore rispetto ai nostri giorni,
restava tuttavia il problema di adattare il regime
democratico al mutamento dei tempi, provando a
coinvolgere il più ampio numero possibile di
persone. Lo scopo dello statista democristiano era
di condurre il Paese verso una “democrazia
compiuta” come in altri paesi europei, quali ad
esempio la Germania. L’ampliamento dell’area di
accettazione del sistema avrebbe reso possibile
un’evoluzione del quadro politico-istituzionale che
invece la scomparsa di Moro ha bruscamente
interrotta, bloccando il processo riformatore che
avrebbe potuto evitare alla Prima Repubblica la
fine ingloriosa del 1992. Allora c’erano ostacoli di
vario
tipo,
nazionale
e
internazionale,
che
rendevano l’operazione più complessa. Oggi,
invece, i fattori frenanti sono altri: i partiti, per
esempio, vivono una delle fasi storiche di
maggiore impopolarità, perchè non rappresentano
più ampie masse e, anche quando ottengono buoni
risultati elettorali, non sono confortati da un reale
consenso. Gli indicatori di fiducia nei partiti sono a
livelli infimi; solo la personalizzazione della
politica permette ad alcuni leader di ottenere
percentuali di consenso poco più che dignitose.
Siamo, però, in una situazione nella quale domina
una sorta di "fiducia a tempo parziale" e
circoscritto nei confronti di soggetti politici e delle
istituzioni: il contesto (soprattutto in ragione del
fatto che il 40% o più degli italiani non si riconosce
neppure in un partito al momento del voto) è
verosimilmente più grave e pericoloso per la
democrazia rispetto a quella degli anni Settanta.
L'insidia dei nostri giorni non è quella violenta e
drammatica del terrorismo politico, ma quella più
"innocente" ma inesorabile della disaffezione,
dell'uscita delle masse dalla condivisione della
centralità dei valori, delle prassi e degli istituti
democratici. Come dice Mosse, “il problema
principale della nostra epoca è che in una società
enorme, informe e piena di sperequazioni, come
quella in cui viviamo, la gente sente l'esigenza di
una qualche forma di aggregazione e questa
esigenza è soddisfatta solo al di fuori del sistema
parlamentare e anzi è stata soddisfatta finora
addirittura in opposizione ad esso". E aggiunge:
"credo che, per alcuni aspetti, Aldo Moro abbia
avvertito questo problema (...) e compreso che ciò
che si frapponeva tra la gente e la partecipazione
politica non era solo la struttura fossilizzata dei
partiti, ma anche quella sensazione che fu espressa
da Jean-Jacques Rousseau, il quale diceva che si è
liberi soltanto al momento del voto, ma tra
un'elezione e l'altra non c'è alcuna libertà. Moro
tentò di superare queste difficoltà coinvolgendo
nel governo quanti più gruppi possibile". Ora alla
struttura fossilizzata dei partiti si è sostituita, come
in un'oscillazione completa del pendolo, una forma
"liquida" o addirittura "gassosa" delle formazioni
politiche. Gli stessi partiti che hanno ancora un
qualche tipo di organizzazione hanno comunque
strutture
e
seguito
di
attivisti
(tesserati)
infinitamente minore rispetto a quello dei soggetti
politici degli anni Settanta. Sclerotizzati ieri, poco
strutturati o "virtuali" oggi, i partiti non sembrano
avere la forza e le capacità di assolvere al compito
di ampliare l'area di partecipazione democratica e
di consenso alle istituzioni repubblicane se non
tramite messaggi leaderistici, i quali tuttavia
restano legati alle alterne fortune dei capi
carismatici. Così, resta aperto il problema: se il
processo democratico che Moro voleva favorire
non riuscì – in parte anche per i limiti di partiti
allora ancora rappresentativi e "potenti" - e se oggi
la via del coinvolgimento delle masse grazie al
ricorso
a convergenze
politiche
non
è
più
praticabile (perchè inefficace: l'ampliamento della
maggioranza parlamentare non corrisponde più ad
un aumento del consenso popolare) non resta che
cercare risposte altrove. Moro puntava dal vertice
ad allargare
"la
base
popolare
del
potere"
attraverso il coinvolgimento dei partiti, ma faceva
lo stesso dalla base consigliando la politica a non
rovinare quel che il sociale va di per sé costruendo:
tra realtà e potenzialità, spiegava, esiste quello
spazio che deve essere occupato da una fattiva
iniziativa politica. Tuttavia la democrazia dei
leader, dei partiti "leggeri", della Rete non sembra
assicurare
quella
mobilitazione
generale
e
quell’attenzione al fermento sociale che sarebbe
opportuna per permettere a milioni di persone di
"sentirsi di nuovo a casa" nel sistema democratico
rappresentativo. Così, da un lato, l’eventuale
sperimentazione
sul
piano
parlamentare
di
“equilibri più avanzati” appare oggi improduttiva
– se non controproducente - ai fini dell’aumento
del
consenso
popolare
nei
confronti
delle
istituzioni rappresentative. Dall’altro, invece, la
mancanza di una base comune sulla quale
costruire per coinvolgere non solo soggetti politici
ma corpi sociali alla ricostruzione di un “idem
sentire” repubblicano, rende difficile il dialogo fra i
partiti e un elettorato sempre più distante (se non
ormai assente). La via che Moro tentò di aprire
negli anni Sessanta e Settanta è ormai chiusa,
mentre quella della "politica 2.0" non ottiene
ancora
-
in
termini
di
partecipazione
e
coinvolgimento - i risultati sperati. La stessa
transizione fra Seconda e Terza Repubblica è
caratterizzata più da strappi e contrapposizioni che
da comportamenti “inclusivi”. Così, senza che
all’orizzonte sia ancora apparsa una terza via per
uscire dall’impasse, le suggestioni antisistema si
fanno sempre più forti e agguerrite.
Le elezioni primarie
12.3.2016
È tempo di primarie. Negli USA, repubblicani e
democratici stanno scegliendo i loro candidati alla
Casa Bianca. In Italia, più modestamente, sono
stati recentemente selezionati - in un modo
tecnicamente
diverso
–
coloro
i
quali
rappresenteranno il centrosinistra alle “comunali”
nelle maggiori città italiane. A Milano, Roma e
Napoli l'ultima parola sugli aspiranti sindaci è
stata
detta
dai
partecipanti
a
consultazioni
popolari aperte, cioè non riservate ai soli iscritti ai
partiti della coalizione ma allargate alla platea dei
simpatizzanti. Come sempre, torna il dibattito
sull'utilità delle "primarie", sulla maggiore o
minore affluenza, sulla qualità delle candidature,
persino sull'opportunità politica di svolgerle (si
veda il caso delle "regionali" in Liguria nel 2015).
Uno degli ostacoli - a nostro avviso - nell'analisi di
questa modalità di scelta delle candidature a
cariche pubbliche elettive sta nell'attribuire allo
strumento una connotazione positiva o negativa.
Ci sono, certo, meccanismi che vanno messi a
punto a seconda dei tipi di elezione ai quali si
riferiscono. Anche il contesto politico-sociale è
importante. Inoltre, quando c'è un eletto uscente
che si ricandida, si può e forse si deve evitare
(com'è successo a Torino per Fassino) di attivare il
meccanismo delle "primarie". In sintesi, le primarie
sono come i sistemi elettorali: uno strumento, non
un fine. Non risolvono problemi se il contesto è
difficile. Come scrive molto bene Luciano Fasano
sull'ultimo numero del "Mulino" (1/2016) "le
primarie funzionano secondo una logica garbage
in/garbage out: se entra spazzatura non può che
uscirne nuovamente quella". Sarebbe opportuno,
quindi, concentrare l'analisi su questo fenomeno
adottando un approccio più "laico", soffermandosi
sugli effetti sistemici. Un giudizio sull'efficacia
delle "primarie" non può che tenere conto, dunque,
dello scopo che di volta in volta si vuole
raggiungere. Come dicevamo, non è diverso il
discorso per i sistemi elettorali: ad esempio, se si
vuole assicurare la maggioranza dei seggi ad un
partito, difficilmente si sceglie un meccanismo
puramente proporzionale, ma si preferiscono
quelli che attribuiscono premi impliciti o espliciti,
sovrarappresentando soggetti politici a scapito di
altri. Nel caso italiano, abbiamo avuto diverse
finalità - talvolta concorrenti - delle "primarie": di
selezione del candidato (evitando, così, scelte che il
vertice del partito o della coalizione non intendeva
compiere o che voleva rimettere all'orientamento
della
"base"),
di
mobilitazione
dell'elettorato
potenziale (aprendo la partecipazione ben oltre il
recinto degli iscritti e sfruttando l'effetto mediatico
che una competizione del genere assicura di
solito), di "compensazione" fra una politica sempre
più fatta di leader e la facoltà per il popolo di
sceglierli. Se ne potrebbero citare altre, ma
limitiamoci a queste. Nel 2005, quando milioni di
persone andarono a votare per le primarie
dell'Unione, il vincitore atteso (e plebiscitato) era
Romano Prodi. In quel caso, lo scopo non era di
fare una scelta, ma di rafforzare col voto popolare
una leadership che aveva bisogno di dimostrarsi
quasi più forte dei singoli partiti e di trainarli verso
il successo alle seguenti elezioni politiche. Quel
momento
di
grande
partecipazione
è
stato
sicuramente un fattore decisivo - per l'impatto
mediatico e i risvolti politici che ha comportato a
breve termine – nella vittoria del centrosinistra alle
"politiche" del 2006 (nonostante il "sabotaggio"
senatoriale attuato con scientifica precisione dal
"Porcellum"). In quel voto c'è stata una forte
componente comunitaria e identitaria, una sorta di
uscita allo scoperto di un "popolo" che aveva
subìto negli anni precedenti una lunga traversata
nel "deserto" dell'era berlusconiana. Ma c'era
anche, simbolicamente, il risarcimento all'uomo
(Prodi, appunto) inopinatamente estromesso da
Palazzo Chigi nel 1998 proprio ad opera di una
parte (più o meno trasversale, dopo Gargonza,
anche se a compiere lo strappo decisivo era stata
Rifondazione comunista) dell'apparato di vertice
della sua coalizione. Quelle del 2005 (il discorso
vale anche per quelle del 2007 che hanno
“incoronato” Veltroni leader del Pd) dunque, non
sono state primarie selettive, mentre altre – come
nel 2009 fra Franceschini e Bersani, nel 2012 fra
Bersani e Renzi e nel 2013 fra Renzi, Cuperlo e
Civati - hanno avuto un compito per così dire
"intermedio": in tutti i casi c'era un favorito dai
pronostici
ma
la
gara
è
stata
autentica
e
combattuta. Ancora diverso, inoltre, il discorso
relativo ad altre primarie, dove il risultato non era
scontato, ma soprattutto nelle quali i promotori
non avevano alcuna intenzione di compiere una
scelta delicata e forse rischiosa che preferivano far
passare per le mani del "popolo di centrosinistra".
In queste circostanze, le primarie hanno assolto al
loro compito: quello di fornire un nome. Il fatto
che talvolta siano state annullate perché qualcosa
di poco chiaro era accaduto non deve meravigliare
(e non è colpa del metodo elettivo) se si torna al
principio semplice enunciato da Fasano: quel che
entra, esce. Nel dibattito sulle "primarie", perciò,
dovremmo preliminarmente discutere non tanto
circa la "confezione" (gli aspetti tecnici, pur
importanti) ma sul contenuto (gli scopi politici, i
candidati, la volontà dei vertici di legittimare scelte
già prese o di demandarle ai simpatizzanti, il
contesto generale). Se osserviamo le recenti
competizioni a Milano, Roma e Napoli, troviamo
diversità
di
contesto
(una
città
dove
il
centrosinistra governa; una dove governava prima
del commissariamento; una, infine, nella quale alle
scorse comunali il Pd non è neanche arrivato al
ballottaggio e dove le precedenti primarie per le
comunali sono state annullate per irregolarità) e di
candidature (competitive, s'intende: di partiti
diversi a Milano, dello stesso partito; maggioranza
contro minoranza, semplificando, a Roma; dello
stesso partito ma in una contrapposizione fra un
politico di lungo corso presentatosi quasi "contro"
il Pd e una candidata più giovane dello stesso
partito, a Napoli). In queste consultazioni, le
primarie dovevano servire fra l'altro a: 1) scegliere
il candidato; 2) attirare la maggiore attenzione
mediatica possibile
sulla
competizione, nella
speranza di "dare una spinta" al vincitore in una
campagna
elettorale
comunale
non
facile
(soprattutto a Roma e a Napoli) e neppure
scontata; 3) spostare dal vertice del partito (a
Milano: della coalizione) alla base l'onore e l'onere
della candidatura da presentare. Che alcune siano
state più combattute e competitive di altre (di più
quelle di Napoli e Milano, meno quella di Roma)
dipende
da
molti
fattori
non
inerenti
al
meccanismo di selezione. Ci sono cose, inoltre, che
alle "primarie" non si possono chiedere: per
esempio
l'affluenza,
che
varia
a
seconda
dell'interesse per la competizione, del clima socio-
politico che si crea (compresi scandali o pregresse
esperienze amministrative non soddisfacenti), del
profilo dei candidati, del tipo di elezione che
seguirà (nazionale, locale o di partito: un conto è
scegliere il segretario del Pd, un altro conto il
candidato sindaco e un altro ancora l'aspirante
Premier). Le "primarie" per Prodi nel 2005 a Roma,
ad esempio, hanno portato ai seggi molte più
persone che per Giachetti nel 2016, ma si tratta di
consultazioni differenti (e si potrebbe aggiungere:
di momenti storici diversi, di partiti - Pd compreso
- cambiati, eccetera). Quando parliamo di questo
genere di consultazione popolare, dunque, e
vogliamo dare giudizi di valore, dovremmo
concentrarci sull'offerta politica e non sulla
struttura della competizione, perché se è vero che i
meccanismi tecnici e la platea degli aventi diritto
possono cambiare qualcosa nel risultato, è però
ancor più vero che sono sempre la politica e
soprattutto la percezione (se non la convinzione)
dell'opinione pubblica a fare la differenza e a
decretare il successo, il conseguimento o meno
dello scopo che ci si prefigge di raggiungere
tramite il semplice strumento delle "primarie". La
stessa
possibilità
consultazione
e
di
del
“inquinamento”
risultato
della
dipende
in
grandissima parte dal contesto e ben poco dal
meccanismo di voto: sono possibili brogli anche
alle elezioni politiche e amministrative, ma non per
questo si smette di andare alle urne per il rinnovo
delle Camere o degli organismi rappresentativi
locali.
Una
regolamentazione
giuridica
delle
primarie comprendente sanzioni penali, semmai,
potrebbe limitare episodi e “togliere qualche
sovrastruttura” indesiderata a competizioni che si
svolgono in climi particolari. In Italia, come scrive
Fasano, “la natura di consultazioni aperte” delle
primarie
“ha
contribuito
ad
accrescerne
la
partecipazione, favorendo la selezione di candidati
rappresentativi di un mondo ben più ampio degli
iscritti al Pd o ai partiti della coalizione di
centrosinistra che se ne erano fatti promotori”
anche se non sempre “ha scongiurato il rischio di
scegliere candidati che alla prova dei fatti non
fossero in grado di vincere”, ma “ha certamente
impedito
l’individuazione
di
candidati
esclusivamente subordinati a logiche partitiche, il
che non significa necessariamente riuscire ad
escludere candidature poco attrattive (…)” nei
confronti di alcuni settori dell’elettorato, anche se
non è di questo di cui “possono farsi carico le
primarie, riguardando l’orientamento politico di
chi vota e non le caratteristiche del meccanismo
adottato per la selezione delle candidature”. E’
corretto affermare, come fa Fasano, che si tende a
sottovalutare
primarie
“la
valenza
costitutiva
hanno assunto” per
che
le
l’elettorato di
centrosinistra, quale “elemento fondamentale per
la vita democratica di partiti e coalizioni” e che il
Pd
“nasce
considerate
come
partito
“elemento
delle
primarie”,
imprenscindibile
della
identificazione” degli elettori “e del proprio
orientamento
politico
verso
il
partito
e
la
coalizione”. Non è giusto sminuirne il ruolo di
aggregazione e la funzione, che è quella di ovviare
al calo della partecipazione politica “classica”
(quella che passava per le sezioni e l’attivismo di
milioni di persone) con strumenti nuovi, più aperti
ai simpatizzanti e alla “società civile”, in un tempo
nel quale i partiti sembrano avere vertici e leader
forti ma basi fragili, sbriciolate. Tuttavia, ci sembra
opportuno rimarcare, come sempre, che sono le
persone - non i mezzi tecnici o le leggi - che fanno i
partiti, le istituzioni e, in questo caso, i leader forti
e i candidati migliori.
Le elezioni comunali e il “voto degli esclusi”
19.3.2016
Mentre i partiti definiscono, fra mille difficoltà, le
candidature alle elezioni comunali, c'è già chi si
prepara a dare al voto nei grandi centri urbani un
valore politico nazionale. Ovviamente si tratta di
comparazioni
rischiose,
fra
consultazioni
di
diverso genere. In primo luogo, l'affluenza alle
comunali è solitamente più bassa di circa il 15-20%
rispetto a quella delle politiche. Se ci riferiamo ai
soli dati aggregati relativi alle sette maggiori città
dove si voterà fra un paio di mesi (Torino, Milano,
Bologna, Trieste, Roma, Napoli, Cagliari) abbiamo
un'affluenza oscillante fra il 54,1% delle europee e
il 62% delle regionali (59,6% comunali) che sale
però al 74,6% alle politiche (il periodo considerato
va dal 2011 al 2015). La "platea" di riferimento,
insomma, sarà stavolta meno ampia che nel 2013.
Inoltre, ci sono appuntamenti nei quali i partiti e le
coalizioni ottengono rendimenti diversi: più il voto
è politico, ad esempio, più il M5S ha possibilità di
conseguire
una percentuale elevata. Non si
spiegherebbe diversamente il 24,3% avuto alle
politiche 2013 dai Cinquestelle contro il 21,7% delle
europee e il 16,4% delle regionali 2013-2015. Senza
contare, inoltre, che a Roma si votò lo stesso
giorno, nel 2013, per comunali e politiche, con
questi risultati: M5S 12,8% comunali, 27,3%
politiche. In quella occasione il centrodestra
ottenne invece il 31,7% per le amministrative ma
solo il 23,7% per la Camera. Anche il centrosinistra
ebbe un maggior risultato alle comunali romane
rispetto alle politiche. Inoltre, bisogna considerare
che alle amministrative una percentuale media di
voti variabile fra il 7,3% e il 7,7% degli aventi
diritto è costituita da schede dove il votante non ha
optato per un partito ma ha scelto solo il candidato
sindaco o "governatore". Quindi, i
raffronti
andranno fatti con molto giudizio. Ad ogni buon
conto, però, queste comunali possono dirci molto
più di quanto crediamo: basta cercare altrove i
segnali più significativi. Per ottenere qualche
indicazione potremmo prendere in considerazione
due fattori: la "filosofia di fondo" del sistema di
voto e il comportamento degli elettori. Per quanto
riguarda il primo, è ben noto che fra il meccanismo
per l'elezione dei sindaci e l'Italicum per la Camera
esistono alcune affinità: il doppio turno se nessuno
supera una certa percentuale (il 50% nei comuni, il
40% per Montecitorio) e il ballottaggio "chiuso" (a
due). Restano, ovviamente, molte differenze, fra le
quali la possibilità di apparentamenti fra il primo e
il secondo turno (possibili nei comuni ma non - o
non ancora - per l'Italicum) e il premio di
maggioranza che in un caso è riservato alla
persona (comunali: contano i voti dei candidati
sindaci, non quelli delle liste) e nell'altro al partito
(Camera
dei
deputati).
Questo
"patrimonio
comune" ai due sistemi (il premio e il ballottaggio
chiuso) ci permette di fare un passo ulteriore:
cercare di comprendere come si comportano gli
elettori dei partiti e dei candidati esclusi dal
ballottaggio. Si tratta, com'è evidente, di dati che
anche in tal caso vanno presi con molta cautela,
perchè conta anche la personalità dell’aspirante
sindaco “bocciato” al primo turno. Quello più
vicino ideologicamente - in teoria - ad uno dei
promossi al ballottaggio potrebbe – per esempio essere un suo acerrimo avversario politico, quindi
non necessariamente gli elettori rimasti "orfani"
sarebbero disposti a tornare alle urne per sostenere
il candidato "meno distante" (alcuni, piuttosto,
potrebbero preferirgli lo sfidante). Fatte perciò le
dovute distinzioni, resta però l'interesse che il
comportamento di voto degli esclusi riveste in
funzione di una possibile futura scelta analoga che
potrebbe
presentarsi
loro
in
occasione
del
ballottaggio con l'Italicum. Poichè, secondo tutte le
rilevazioni e i sondaggi, nella battaglia per la
conquista del premio di maggioranza alla Camera i
competitori in lizza sarebbero il Pd e il M5S, resta
da vedere come si comporterebbe l'elettorato di
centrodestra (sia nel caso che l’area di Berlusconi e
Salvini tornasse unita e competitiva con gli altri
due soggetti politici, sia nell’ipotesi di “corsa
separata”). Sarà dunque importante confrontare i
dati delle ultime elezioni politiche, europee e
regionali con quelli delle comunali per capire se il
centrodestra ottiene più voti andando diviso o
unito e se - arrivato eventualmente al ballottaggio è in grado di attrarre voti e da quale direzione. A
Bologna sarà interessante assistere alla lotta fra
M5S e Lega. Altrove, invece (per esempio in
qualche città non capoluogo di regione) potrebbero
trovarsi
a
lottare
per
il
secondo
posto
i
Cinquestelle e il centrodestra: chi avrebbe la
meglio (con nuovi o confermati rapporti di forza)?
In situazioni del genere, come si comporterebbe
l'elettorato escluso? I votanti di centrodestra
appoggerebbero
darebbero
un
il
M5S,
(poco
si
asterrebbero
probabile)
sostegno
o
al
candidato di centrosinistra? Inoltre: in realtà come
Torino, invece, la sinistra radicale accorrerebbe in
massa per sostenere Fassino (nello specifico, ma si
potrebbe fare anche il caso di Roma) in un
possibile secondo turno? A Milano e Trieste, dove i
favoriti appaiono i candidati di centrosinistra e
centrodestra, a chi finirebbero i voti “grillini”? E
nella Capitale, con la Raggi (M5S) favorita, come si
comporterebbero gli elettori di un centrodestra che
potremmo eufemisticamente definire "plurale"? C'è
poi il caso di Napoli, dove ogni combinazione è
possibile e dove i concorrenti competitivi sono
almeno quattro (quindi due o più verranno
"eliminati" al primo turno, lasciando elettorati più
o meno cospicui a fare da arbitri). Insomma,
mentre i ballottaggi con l'Italicum che i sondaggi
presentati da Mentana il lunedì al Tgla7 sono
"esercitazioni", nelle
città italiane
potrebbero
andare in scena davvero tutte le combinazioni
possibili: Pd contro M5S; Pd contro centrodestra;
centrodestra
contro
M5S.
Senza
contare
gli
outsider e De Magistris a Napoli. Si tratta, nelle
città come a livello nazionale, di sfide fra partiti o
“cartelli
elettorali”
che
possono
portare
al
ballottaggio soggetti politici con un consenso
complessivo (come sembra verosimile) di circa il
50-60% dei votanti del primo turno. La questione
del “voto degli esclusi”, dunque, diventa cruciale.
Inoltre, sarà importante leggere con attenzione i
dati delle elezioni nei capoluoghi di regione
tenendo presente che in questa classe di comuni (in
particolare, nelle sette città al voto) la Lega è
fortemente sottorappresentata (abbassando così il
dato complessivo del centrodestra) mentre il Pd è
sovrarappresentato. Andranno infine valutati i
rapporti di forza fra Pd e sinistra radicale (di solito,
Democratici e altri di area hanno fra il 70 e l'85%
dei voti dell'intero centrosinistra allargato) e quelli
fra Forza Italia e Lega (nei sette comuni considerati
il Carroccio ha ottenuto, nel periodo 2011-2015, fra
il 2 e il 4% dei voti mentre gli azzurri hanno
oscillato fra il 14 e il 21%). Una volta depurati i dati
dalle tendenze locali e isolati i casi più significativi,
anche questo turno amministrativo potrà insomma
darci qualche indicazione tendenziale. Il che, lo
ripetiamo, non sarà un pronostico sulle "politiche"
ma aiuterà partiti e analisti ad orientarsi circa
l'andamento
dell'offerta
elettorale
e
del
comportamento dei (pochi, si suppone) votanti.
Quaderno di
@Mentepolitica14
Edito nel mese di marzo 2016