Brevi cenni sulla Repubblica
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Brevi cenni sulla Repubblica
Luca Tentoni Brevi cenni sulla Repubblica Nota introduttiva Questo e-book raccoglie alcuni testi che Mentepolitica ha pubblicato nei mesi fra le elezioni regionali del 2015 e l’avvio della campagna per le “comunali” del 2016. Sono preceduti da una sorta di prologo sul linguaggio della politica: un tema che ci sembra ancora attuale, anche se l’articolo risale a circa due anni fa. Come per il precedente quaderno di Mentepolitica, riproponiamo i testi (pur con un leggero editing) perché riteniamo che – letti nell’insieme – traccino alcune delle linee e dei temi che potrebbero rappresentare un contributo al dibattito sullo stato della nostra democrazia, dei partiti e del contesto nazionale e internazionale nel quale viviamo. Il passaggio dal secondo sistema dei partiti (1994-2013) al terzo è ricco di prove ancora da superare. Ci siamo lasciati alle spalle qualcosa che non tornerà più, ma non abbiamo ancora edificato il nuovo. Questa raccolta è insieme il diario di una lunga e incompiuta transizione e lo spunto per un dibattito sociale, politico e culturale che ci auguriamo ampio e ricco. Semantica della seconda repubblica 20.09.2014 "Mariano, la svolta: cambia il team di Palazzo Chigi": un titolo così su Rumor, nella Prima Repubblica, non lo avremmo mai trovato su un quotidiano nazionale. La differenza fra la rappresentazione della politica durante gli anni Settanta (e gran parte degli Ottanta) e in quelli della Seconda Repubblica non sta, ovviamente, soltanto nel mutamento dello stile giornalistico. I principali mezzi di comunicazione di allora hanno subito trasformazioni profonde (l'impaginazione, l'impostazione, il formato dei giornali; il colore, la ricerca dell'audience nei dibattiti politici, la spettacolarizzazione dell'attualità per quanto riguarda la TV) e lasciato spazio ad altri media (Internet: in particolare i "social network") ma è cambiato anche il messaggio, oltre al quadro politico-istituzionale (sistema dei partiti; Costituzione materiale; rapporto partito-leaderelettorato; ridislocazione del potere sia nei rapporti centro-periferia, sia in quelli fra governo e Parlamento; tendenziale coincidenza fra premiership e leadership). Come hanno spiegato autorevoli esperti (il nostro è solo uno spunto per sollecitare riflessioni ben più profonde, meditate e ampie di questa) è cambiato anche il modo di "vendere" un partito, con le mutazioni del marketing elettorale sperimentate all'estero (fra tutti: da Séguéla per il futuro presidente francese Mitterrand) e giunte in Italia verso la seconda metà degli anni Ottanta, sperimentazione in tempo per una che faceva da preludio ad un'applicazione più ampia negli anni Novanta, col passaggio dal proporzionale al maggioritario uninominale e dalla "democrazia dei partiti" alla "democrazia delle leadership". Il mutamento non poteva che passare attraverso una rivisitazione del linguaggio, ma anche per una sorta di desemantizzazione. La neo-lingua della Seconda Repubblica, insomma, non è solo frutto di un'evoluzione naturale della tecnologia e del linguaggio corrente, ma appare funzionale ad agevolare il mutamento istituzionale e politico, oltre ad un nuovo rapporto fra eletti ed elettori nel quale il ruolo del partito è (in certi casi progressivamente, in altri bruscamente) occupato dalla figura del leader carismatico. Nel momento in cui non "si entra" più in politica, ma "si scende in campo", quando "Forza Italia" non è più un incitamento rivolto agli atleti delle squadre nazionali, ma un soggetto politico, il partito diventa la "squadra" e il segretario lascia il posto ad un più trascinante capitano o "leader". La Presidenza del Consiglio dei ministri, dunque, cessa almeno sul piano della rappresentazione di essere il posto del "primo fra pari" (in una "stanza senza bottoni") per divenire la plancia di comando di un "team" nel quale il ruolo del Premier (definizione ben diversa da quella dell'età della proporzionale, e non a caso mutuata da quella britannica dove il Primo ministro ha poteri e ascendente sul proprio partito ben diversi da quelli tipici della Prima repubblica italiana) si eleva ben al di sopra dei ministri e, spesso, dei gruppi della maggioranza. La stessa definizione di "Seconda Repubblica" segna l'inizio di una fase nuova, giocata prevalentemente sul terreno della comunicazione e del significato delle parole della neo-lingua politica. Il mutamento costituzionale profondo che non si attua è però subito "dato per scontato" nella sottile ambiguità che scambia un sistema dei partiti destrutturato e ristrutturato su basi diverse per un sistema istituzionale rinnovato che invece ha mantenuto la stessa base normativa pur in presenza di una rimodulazione dei poteri, da quelli del Capo dello Stato a quelli del Presidente del Consiglio. In realtà, il mutamento avviene soprattutto in ambito locale, dove però si arriva a parlare di "governatori" regionali già quando (1995) l'elezione diretta non è ancora formalmente prevista dalla Costituzione (sarà introdotta con la legge cost. 1/1999). Quella degli ultimi venti anni, dunque, è stata una "rivoluzione semantica" che ha accompagnato e in certo modo incoraggiato un meno imponente mutamento istituzionale e del sistema dei partiti. Il linguaggio sportivo è usato non solo come metafora della lotta politica, ma come rappresentazione del passaggio da un approccio "cooperativo" (o consensuale) ad uno schema competitivo (conflittuale). La necessità di schierarsi da una parte o dall'altra elide i toni intermedi e i gruppi che nella "Prima repubblica" facevano da "cuscinetto" fra i partiti maggiori. In questo paradigma gli arbitri (il Quirinale, la Corte costituzionale) sono mal sopportati dai "giocatori" (in caso di decisioni e persino dichiarazioni o atteggiamenti non graditi). La campagna elettorale, nonostante i collegi uninominali, lascia il posto ad una "battaglia" fra i due leader "in lizza" per la conquista del Potere: una competizione nella quale la televisione è di gran lunga più importante delle piazze. L'elettore-spettatore è ancor meno protagonista quando ai collegi si sostituiscono le liste bloccate dei candidati. Del resto, la "partita vera" è altrove. Così, in quella che è diventata un'arena gladiatoria, tutto cambia. Il "partito" (simbolo di stabilità e di un'ideologia) lascia spazio al "movimento", i nomi dei capi politici entrano nelle denominazioni dei gruppi o almeno nei simboli elettorali. Il sondaggio non è più considerato come uno strumento, ma come una sorta di responso elettorale continuo e assoluto. Peraltro, alcuni aggettivi (comunista, fascista) tornano in uso, dopo essersi scoloriti negli anni Ottanta, ma assumono un connotato quasi esclusivamente spregiativo nei confronti degli avversari, proprio quando ideologie e modelli stranieri di riferimento svaniscono. Anche la parola “golpe”, che negli anni Sessanta e Settanta evocava un pericolo reale, è ormai utilizzata frequentemente in luogo di “sopruso”. In questa rivoluzione - forse l'unica vera - riesce ad inserirsi felicemente almeno il recupero (da parte del Presidente Ciampi) della parola "Patria", coinvolta nella tragica esperienza del fascismo e diventata un tabù negli anni ’50-‘80. Alcune espressioni recenti ("stai sereno", che indica l'opposto) fanno pensare che la "rivoluzione del significato" sia ben lontana dall'esaurirsi, e che, invece, stia per vivere una nuova, lunga, stagione di successi. Il “doppio binario” della politica che serve alla democrazia 25.7.2015 Il dibattito politico nazionale ruota ormai completamente intorno a due temi: l'economia (tasse, euro, lavoro) in primo piano e l'immigrazione in secondo. Il resto, riforme istituzionali comprese, può essere importante sul piano oggettivo ma - in una competizione che è ormai quasi solo mediatica - assume un rilievo marginale per molti. Il peso elettorale ed emotivo dei due argomenti maggiori finisce per caratterizzare le forze politiche quasi soltanto in base alle risposte che danno in materia. Risposte che sono a loro volta influenzate da contingenze (economiche, sociali, elettorali) molto "volatili". Sintomo di una fluidità che tende ad esasperarsi, per esempio, nel continuo mutamento di numero e consistenza dei gruppi parlamentari di Camera e Senato. Abbiamo un elettorato mobile, che - se non supera "steccati" tradizionali - ha però imparato a rifugiarsi (spesso e volentieri) nell'astensione; attraversiamo (in parte subiamo) una congiuntura economica che può essere agevolata o frenata da dinamiche interne, ma che risente molto di fattori esterni (non solo la crisi greca: si pensi al ruolo determinante che ha avuto la politica di Draghi in favore della diminuzione dei tassi e dell'alleggerimento del servizio del nostro debito pubblico); siamo in presenza di tensioni internazionali di diverso genere (migrazioni, conflitti, terrorismo). Sono tutti elementi di incertezza, quelli appena accennati, che dimostrano come sia difficile il compito di tenere assieme il tessuto politico, sociale, economico del Paese. Ancor più complesso, in questo quadro, è il ruolo di una politica che non abbia solo la modesta ambizione di recuperare un po' di affluenza alle urne, ma voglia soprattutto ricreare le condizioni per lo sviluppo di uno "spirito repubblicano" condiviso e fondante. Se la "domanda politica" è quasi solo immediata ed emotiva, legata al bisogno o alla paura, la risposta non può che essere altrettanto di breve o medio respiro. La preoccupazione per le prossime elezioni è tipica di ogni forza politica, ma non ha molto senso se non è accompagnata da una visione di lungo periodo, che sia non solo fattuale ma anche ideale. Non è sufficiente scrivere "liste della spesa" per l'oggi e per il futuro, ma occorre anche avere una visione chiara (persino impopolare, se serve) dell'approdo, una cultura politica profondamente delineata. Se gli estensori del manifesto di Ventotene avessero dovuto badare alle elezioni successive, le avrebbero certamente perdute: pensare di mettere insieme, in un progetto futuro, popoli allora in guerra fra loro, non sarebbe stato apprezzato dai più. Gli stessi ideali del Partito d'azione, per esempio - al di là delle vicende, pur importanti, di quella formazione politica - condussero il Pd'A a conseguire, alla Costituente, meno di un terzo dei voti (1,45% contro 5,27%) rispetto all'Uomo Qualunque, il movimento antisistema del giornalista e commediografo Guglielmo Giannini. In generale, però, le forze politiche dell'immediato dopoguerra avevano una loro visione dell'Italia (condivisibile o meno che fosse) anche se si trovavano ad affrontare emergenze gravi come la Ricostruzione prima e, due decenni dopo, il terrorismo. Fino a quando lo sguardo verso le generazioni future e la gestione delle necessità presenti hanno trovato un equilibrio, anche le istituzioni e le finanze pubbliche ne hanno risentito positivamente. Quando invece si è preferito cogliere l'uovo del consenso elettorale immediato rinunciando alla gallina della stabilità dei conti, i risultati di breve periodo hanno premiato l'investimento politico ma hanno preparato il baratro per il futuro. Il pericolo che corre la nostra fragile democrazia, esposta a venti non facili da controllare e a spinte che - una volta avviate per calcolo o leggerezza - potrebbe non essere agevole frenare, è che l'affanno per i mesi venturi divenga l'unico marchio distintivo delle diverse forze politiche. Non è opportuno, inoltre, farsi ingannare dalle dimensioni del "non voto", pensando che si tratti soltanto di un grosso serbatoio elettorale calmo e - in certo modo - "acquiescente". Le tensioni che percorrono la società fanno ritenere che buona parte di quel fenomeno sia, in realtà, espressione di un rifiuto che può diventare anche radicale e irreversibile, indebolendo il patto basilare del nostro vivere civile, rappresentato dalla Carta Fondamentale votata dai Padri costituenti nel 1947. Il compito della politica, dunque, non è solo quello di soddisfare le esigenze e le necessità dell'immediato, ma di ricostruire in parallelo le ragioni dello stare insieme e la credibilità delle istituzioni rappresentative e dei corpi intermedi necessari per la vita e lo sviluppo di una democrazia sana. Per assolverlo, tuttavia, non è sufficiente la revisione di meccanismi e istituti (preferibilmente effettuata col più ampio consenso possibile) ma occorre una costante opera di trasparenza, ai vari livelli della vita pubblica, fino alla più remota periferia del Paese. Perchè quella che conta non è solo la qualità della democrazia reale, ma anche di quella percepita, senza la quale la partecipazione e la condivisione di esperienze e progetti per un futuro comune non possono avere speranza di incidere realmente nel tessuto sociale. Riforme, i dettagli contano 19.9.2015 Nel dibattito politico corrente, se un leader non vuole addentrarsi in dettagli che si potrebbero rivelare insidiosi ricorre ad un'espressione ormai di uso comune: "si tratta di tecnicalità". È un modo per far credere che si parla di minuzie da non spiegare al pubblico per non annoiarlo, mentre - si fa capire - la sostanza è altrove. Peccato che sovente proprio il particolare "tecnico" abbia un grande valore politico. L'attribuzione del premio dell'Italicum al partito o alla coalizione, per esempio, non è affatto un dettaglio: cambia completamente la natura e la struttura della competizione elettorale. Così come la disputa sulla preposizione contenuta nell'articolo 2 del ddl costituzionale cambiata dalla Camera e ora oggetto dello scontro in Senato, non è una banalità, anche se certamente ha molta minor rilevanza rispetto al nostro precedente esempio. Eppure, se basta un piccolo particolare per stravolgere l'impianto di una normativa, perché sottovalutarne l'importanza? In primo luogo, la risposta può essere rinvenuta nell’impostazione "generalista" di molti personaggi politici, che con alcuni temi non riescono ad avere (o non vogliono avere) troppa dimestichezza. In secondo luogo, perché si pensa che - in fin dei conti - sia la politica ad avere il primato sulla tecnica. In effetti, restando sul tema della legge elettorale, l'aiuto che di solito si chiede all’esperto consiste nel fargli cercare i meccanismi giusti per assicurare un determinato risultato. Quindi, la politica precede la tecnica e in certo senso la orienta, affidandole una sorta di "delega" entro un quadro ben limitato. Anche quando si decide di accogliere modifiche ad un impianto costruito minuziosamente, si tende a mascherare lo scambio politico con alleati od oppositori dicendo che si è solo apportata una variazione "tecnica". Ovviamente, se una soglia d'accesso al Parlamento passa, poniamo, dal 4,5% al 3%, la scelta non è certo frutto degli esperti ma dei politici. Se poi qualcuno dovesse sollevare obiezioni, si potrebbe sempre dire che è colpa delle "tecnicalità" (espressione orrenda che serve da passepartout). Del resto, negli ultimi anni i "tecnici" (e in generale, i professori) non sembrano godere di grande popolarità, poiché vengono associati ad una stagione di sacrifici. Così, in una sapiente comunicazione, il leader sembra quasi porsi dalla parte dei propri elettori quando prende le distanze dagli "arcana imperii" degli aspetti di dettaglio, in uno scambio logico fra il committente e il mandatario che serve a superare ostacoli di natura politica e d’impopolarità. Spesso, come dimostra la vicenda del disegno di legge costituzionale in discussione al Senato, i “tecnicismi” finiscono sotto i riflettori dei mezzi di comunicazione soltanto se hanno un rilievo come quello riguardante l'articolo 2 (dirimente nella decisione di far votare anche gli emendamenti o solo l'articolo nel suo complesso). Si parla poco, invece, delle funzioni che Palazzo Madama dovrebbe avere: eppure sono fra i punti contestati. Quando si troverà un accordo, parleremo in generale del nuovo Senato (così come del Titolo V) ma senza soffermarci su quel che sarà stato cambiato rispetto alle varie versioni del testo. In altre parole, guarderemo più al risultato politico che alla riconfigurazione dei poteri senatoriali. La riduzione di particolari importanti a semplici "tecnicalità" è funzionale alla trattativa fra i partiti, perché riduce e minimizza davanti all'opinione pubblica il punto d'incontro (o compromesso) fra più opzioni. Gli effetti di questa "forzata miniaturizzazione" si avvertono, però, prima o poi. L'intesa sull'Italicum, per esempio, sembrava aver chiuso il discorso, eppure in queste settimane la discussione si è riaperta proprio su un “dettaglio”: il premio di maggioranza. Fra i "tecnicismi" più letali della storia repubblicana, per esempio, c’era proprio un “premio”: nel Porcellum, per Palazzo Madama, era regionale e non nazionale come si era deciso in un primo momento. Poichè il Senato si elegge su base regionale, l'assegnazione del 55% dei posti in sede locale anziché globale poteva essere giustificata da ragioni di compatibilità col dettato costituzionale. Ma, se ricordiamo bene, nessuno dei promotori mise in luce prima del voto che in quel modo il sistema elettorale per i senatori avrebbe potuto svolgere una funzione interdittiva nella “costruzione” di una maggioranza, come in effetti sarebbe accaduto ben due volte su tre, cioè nel 2006 e nel 2013. In sintesi, i dettagli contano e hanno un valore tutto politico, anche se sono meccanismi di difficile comprensione per i più e se, nel dibattito corrente, vengono spesso “derubricati” a bizzarrie formali. È bene ricordarlo, ora che siamo di fronte ad una revisione importante della Carta Repubblicana. Il partito del non voto 26.9.2015 Anche in Grecia, domenica scorsa, ha vinto il partito del "non voto": l'astensione è salita dal 36,1% di gennaio al 43,4%. Non si tratta di un fenomeno isolato, in Europa, anche se ci sono realtà (come la Catalogna, ad esempio) dove alcuni prevedono una rimobilitazione elettorale in occasione di un appuntamento con le urne che potrebbe essere decisivo per il futuro della Comunità autonoma e della Spagna. Il successo del "partito del non voto", tuttavia, sembra scontato in paesi come l'Italia. I sondaggi, da noi, riportano un alto numero non solo di indecisi, ma anche di intervistati che non sembrano intenzionati ad andare ai seggi qualora ci fossero nuove elezioni politiche a breve termine. La scarsa affluenza alle europee e alle regionali, nel caso italiano, non può farci credere che un eventuale turno elettorale per il Parlamento faccia registrare un'affluenza prossima al 50-60%, ma certo ci fa supporre che il partito del "non voto" possa conquistare posizioni rispetto all'ultimo dato disponibile. Alle politiche del 2013 ha "disertato" le urne il 24,8% degli aventi diritto. Una percentuale alla quale dobbiamo sommare il 2,7% di schede bianche e nulle, per un totale di 12,9 milioni di voti che (in diversi modi) non sono stati espressi. Com'è noto, l'astensionismo ha una componente fisiologica (di chi non va mai a votare oppure non può) e una variabile: c'è, per esempio, chi vota alle politiche ma non alle europee, considerando quest'ultima consultazione poco importante per il futuro proprio e del Paese. E c'è chi vota se esiste un incentivo alla mobilitazione: quando si trattava di decidere a chi assegnare il primato fra Dc e Pci (1976) o nei momenti nei quali la lotta fra centrosinistra e centrodestra era accesa (e fu decisa da un pugno di voti: 2006) molti preferirono partecipare alla contesa, anzichè restare a casa. Nel 1976 si raggiunse un'affluenza del 93,4% (persino superiore al 93,2% del 1972) e ben superiore al 90,6% del 1979 (quando l'ipotesi del "sorpasso" comunista era sfumata). Nel 2006, invece, andò alle urne il 83,6% degli aventi diritto contro l'81,4% del 2001 e l'80,5% del 2008. C'è dunque una parte degli italiani che considera l'astensione fra le scelte possibili e che la preferisce in determinate circostanze, senza tuttavia escludere di poter tornare alle urne in una successiva occasione. L'aumento del "non voto", tuttavia - per quantità e frequenza, nei diversi appuntamenti elettorali nazionali e locali - fa pensare che l'area dell'astensionismo "cronico" si stia ampliando, come se anche questo strano genere di "partito" stesse rafforzando la sua "base" di consensi. Gli indicatori di fiducia nei confronti di partiti e istituzioni, ma anche quelli economici (che hanno un peso nelle scelte elettorali) rafforzano le possibilità che il non voto diventi un'opzione politica pari (se non addirittura, per taluni, più accreditata) rispetto a quelle offerte dai soggetti in competizione. La stessa articolazione in due turni (con ballottaggio eventuale, è bene ricordarlo) dell'Italicum potrebbe accentuare, nella seconda tornata di votazioni, uno scarso afflusso ai seggi. Prendendo come punti di partenza i risultati delle politiche 2013 o delle europee 2014, osserviamo che - se pure i partiti ricorressero a "listoni omnibus" comprendenti più soggetti politici, in particolar modo nel centrodestra - gli elettori dei gruppi classificati dal terzo posto in giù potrebbero agevolmente raggiungere il 30% dei votanti al primo turno. L'incentivo "mobilitante" del ballottaggio (una scelta secca per partito e maggioranza di governo, fra due opzioni) potrebbe non essere sufficiente per mantenere l'affluenza del primo turno e convincere gli elettori "orfani" a tornare ai seggi per contribuire a decidere l'esito della contesa. C'è infatti, nel variegato "partito del non voto", chi di solito va alle urne ma resta a casa soltanto quando il proprio partito (o coalizione) non è ammesso al ballottaggio (accade, con regolarità, in occasione delle elezioni comunali). Nella nostra sommaria analisi, fin qui, abbiamo individuato due tendenze: il "non voto" come scelta politica alternativa (e sovente, ma non sempre, "antisistema") e l'astensionismo aggiuntivo che può scaturire da una mancanza di offerta politica "accettabile". Abbiamo osservato finora, però, solo il lato visibile della luna, cioè il fenomeno numerico dell'aumento di chi non vota, ma non abbiamo ancora considerato un dato spesso sottovalutato: come voterebbero, se "costretti" o indotti da una normativa specifica, gli astenuti? Alcune indagini demoscopiche si occupano anche di questa fetta di elettori. La loro scelta è comunque figlia di un passato nel quale c'è quasi sempre stata una vicinanza politica. La scomposizione dei due poli maggiori avvenuta nel 2013 e gli avvenimenti sociali di questo decennio hanno spinto fasce di elettori ad abbandonare le loro antiche "famiglie" per scegliere quella del non voto. Nell'"altra faccia della luna", insomma, si trovano le motivazioni e le inclinazioni politiche degli italiani che potrebbero - non votando favorire la vittoria di un soggetto politico sull'altro, oppure - rimobilitandosi - mutare equilibri e rapporti di forza. Per ora, la massa dell’astensionismo sembra continuare ad attrarre con forza elettori, anzichè cederne. Se così fosse anche alle (anticipate prossime o consultazioni meno) qualcuno politiche potrebbe avvantaggiarsi e "vincere per defezione" più che per capacità di catturare consenso. Il compito della politica, tuttavia, è motivare i cittadini con programmi, leader e comportamenti "mobilitanti", perchè pur se è vero che basta avere un voto più dell'avversario per vincere, è altrettanto vero che la democrazia può trarre giovamento da una più convinta (anche se non eccessivamente numerosa) partecipazione popolare. più La campagna elettorale permanente 24.10.2015 Il 2016 sarà un anno ricco di "test" politici. Avremo addirittura due grandi competizioni: quella in primavera per il rinnovo dei consigli comunali e l'elezione dei sindaci (in particolare di quelli di Roma, Milano e Napoli) e il voto, in autunno, per il referendum confermativo costituzionale. Il sistema politico italiano è "abituato" a sopportare il peso delle polemiche che una campagna elettorale comporta: dal 2008 in poi abbiamo avuto politiche (2008), europee amministrative (2009), e regionali referendum (2010), (2011), amministrative (2012), politiche (2013), europee (2014), regionali (2015). Normalmente il voto si concentra fra aprile e giugno, così da dar luogo ad una battaglia che inizia (teoricamente) a febbraio per concludersi alle soglie dell'estate. Il prossimo anno non sarà così. Avremo una campagna elettorale pressochè permanente, una sorta di partita da giocare in due tempi: le comunali in primavera, il referendum in autunno. Ci sarà spazio per eventuali rivincite. Probabilmente, i due appuntamenti non saranno vissuti soltanto guardando a ciò che l'elettore dovrà effettivamente decidere (la scelta dei sindaci, il "sì" o il "no" alla revisione costituzionale) ma anche - se non soprattutto – concentrandosi sui rapporti di forza fra maggioranza e opposizioni, fra partiti dell'opposizione (non solo all'interno della stessa "famiglia politica" - Lega e FI - ma anche con altri soggetti politici quali il M5S), forse persino fra diverse concezioni del proprio partito (il Pd) o del proprio schieramento Diverrà palese quella (Berlusconi "campagna e Salvini). elettorale permanente" che già nei fatti caratterizza il nostro sistema e che ha un'influenza non marginale sulle scelte politiche di governo e partiti. Anche se non avessimo le due consultazioni previste per il 2016, il "comportamento" delle forze politiche non sarebbe eccessivamente diverso. La grande importanza che si attribuisce ai dati dei sondaggi, infatti, fa in modo che persino talune decisioni non siano prese sulla base di una linea ben precisa ma vengano "dettate" da una sorta di "sentire comune" più o meno virtuale (considerando anche la presenza di una vasta fascia di intervistati che "non sa", non risponde o dichiara che forse - in quel determinato momento, però, che non è quello nel quale si è effettivamente chiamati alle urne - non voterebbe). L'esposizione o sovraesposizione televisiva dei leader, la scelta dei temi da enfatizzare o sopire, persino le modifiche a provvedimenti legislativi in preparazione o già all'esame delle Aule parlamentari, sono tutti soggetti al "fascino" della campagna elettorale permanente che, nel caso del Pd, appare anche sostanzialmente come una sorta di continua battaglia precongressuale. La "forma" contemporanea della democrazia incoraggia la dipendenza delle forze politiche da fattori e impulsi che fino a venti o trenta anni fa erano marginali, se non inesistenti. Ciò, tuttavia, non è sufficiente per considerare il mondo politico come "vittima" delle caratteristiche sociali e comunicative del nostro tempo. Inoltre è vero che i riflessi delle elezioni nelle regioni francesi, nelle “municipali” spagnole o austriache o in un Land tedesco finiscono per avere un'eco che va oltre i confini nazionali e può segnare l'avvio di una stagione diversa per il Paese nel quale la consultazione si svolge. Ognuno ha i suoi "test", dunque. E molti, come noi, hanno anche una certa attenzione ai sondaggi. Nel caso italiano, tuttavia (che non è unico, ma riveste caratteristiche peculiari) è ormai acquisito il fatto che la politica viva di una mobilitazione permanente e che non sia possibile impostare una linea d'azione di medio-lungo periodo senza trovarsi continuamente ad affrontare esami reali o virtuali. In questo ambito, si aggiunge un ulteriore elemento di "fluidità" del quadro politico. Dall'inizio della legislatura, infatti, abbiamo avuto due governi (uno dei quali in carica da circa 2 anni), ma la composizione della maggioranza di governo ha subito trasformazioni e adattamenti frequenti, forse non ancora definitivi. Ci si è avviati con un'intesa Pd-centristi-FI, poi il partito di Berlusconi è uscito dalla coalizione di Letta (salvo gli alfianiani, che hanno costituito il Ncd), quindi - con Renzi - si è assistito a nuovi arrivi nella maggioranza di singoli parlamentari o di piccole formazioni centriste. Nel frattempo, Scelta civica ha vissuto un processo di sostanziale diaspora dei propri eletti, cosa che in misura minore ma consistente è avvenuta anche in Forza Italia (senza contare che pure il M5S ha perso, strada facendo, un certo numero di parlamentari). I gruppi centristi si sono aggregati, disgregati e riaggregati sotto diverse denominazioni e composizione. In occasione del voto sulla riforma costituzionale, infine, i parlamentari vicini a Verdini si sono schierati a favore del ddl di revisione del bicameralismo e del Titolo V, prefigurando un eventuale futuro ingresso nella coalizione che sostiene il governo Renzi. Frattanto, nel Ncd emergono spinte diverse, verso il Pd da un lato e verso l'opposizione dall'altro. Nel Pd la battaglia fra minoranza e maggioranza prosegue senza sosta. Tutte queste turbolenze rappresentano l'altra faccia della medaglia della "campagna elettorale permanente", quella che non si disputa nelle piazze, in televisione o direttamente nelle urne, ma nelle aule parlamentari. Il riflesso di questo continuo movimento, in altri tempi, sarebbe stato un rapido avvicendamento di governi. Ora, invece, l'Esecutivo è stabile ma la maggioranza (di riflesso, anche l'opposizione) è diventata abbastanza "flessibile", soprattutto considerando i numerosi cambi di gruppo. L'impressione è che, anzichè scaricare la tensione di questo movimento all'interno del sistema, il meccanismo che sembra essersi autoalimentato nel corso di molti anni e che ha caratterizzato la Seconda Repubblica (in particolare, l'ultimo quinquennio) produca i suoi effetti all'esterno, incoraggiando un calo della partecipazione elettorale che peraltro è già fisiologico in tutti i regimi democratici. Nel 2016, la competizione continua (prima le amministrative in due turni, poi il referendum costituzionale) metterà alla prova la tenuta della partecipazione popolare. Campagne elettorali legate al merito (anzichè ai risvolti politici del voto) possono coinvolgere maggiormente e motivare gli italiani ad andare alle urne. Un'eccessiva valenza pro o anti governativa delle due competizioni, invece, può produrre disinteresse e disaffezione, rafforzando ulteriormente il già nutrito "partito del non voto". L’elettorato “fluido” 14.11.2015 Se la caratteristica dell'elettorato della Prima Repubblica era l'elevata fedeltà al partito, che di fatto limitava gli spostamenti di voto entro percentuali molto modeste (lo 0,5% in più era considerato un'avanzata, mentre un progresso del 2% diventava quasi un trionfo) nella Seconda Repubblica gli aventi diritto al voto si sono spostati con più disinvoltura, ma in gran parte all'interno dei rispettivi "poli". Alla fedeltà di partito si è passati a quella di coalizione. Entrambe sono state messe a dura prova dal rimescolamento delle carte avvenuto con l'ingresso del M5S, in coincidenza con la crisi delle "famiglie politiche" e con un massiccio incremento dell'astensionismo: il tutto, nel quadro di sconvolgimenti socio-economici che hanno interessato il periodo dal 2011 ad oggi. Una volta, la "dimensione" della competizione si poteva rappresentare attribuendo ad ogni partito una collocazione su una retta, un "continuum" da sinistra a destra. C'era, è vero, anche la dimensione confessionale/non confessionale, sempre più sfumata già nell'ultimo periodo della Prima Repubblica. E c'era perciò, molto forte, l'"alterità" delle forze più a sinistra rispetto a quelle più a destra. Differenza che negli anni Settanta era stata portata, per i gruppi extraparlamentari, sul piano dello scontro e della violenza. Anche fra i soggetti politici "parlamentari", persino fra quelli di governo, le differenze ideologiche rendevano immutabili le posizioni sull'ideale linea fra sinistra e destra: il Pri a sinistra del Pli, il Psdi a destra rispetto al Psi e così via. Nella Seconda Repubblica i nuovi partiti non hanno sempre mantenuto le stesse posizioni. Alcune incompatibilità sono talvolta venute meno (durante il governo Dini, per esempio, Lega e centrosinistra si trovarono a sostenere l'Esecutivo; si è persino parlato del Carroccio come "costola della sinistra") ma altre (ad esempio fra sinistra radicale e centrodestra) sono rimaste intatte per almeno 18 anni, dal 1993 al 2011. Nei ballottaggi delle comunali, ad esempio, se restavano in gioco due candidati, uno di centro/centrosinistra e uno di centrodestra, l'elettore medio di sinistra votava per il primo (di rado, si asteneva); se invece al secondo turno approdavano un aspirante sindaco di sinistra e uno di centrodestra, il leghista sceglieva se astenersi o appoggiare il candidato della coalizione (va detto, infatti, che l'elettorato della CDL è sempre stato poco incline a tornare alle urne due volte di seguito in 15 giorni e ancor più, nei collegi uninominali, a premiare un esponente della coalizione appartenente ad un partito troppo lontano dal proprio). Inoltre, questa continuità di voto e rigidità rendeva le "roccaforti" dei partiti o dei poli pressochè inespugnabili. Oggi, di "inespugnate", sono rimaste al centrodestra solo Lombardia e Veneto (non più la Sicilia, per esempio) e al centrosinistra Emilia-Romagna, Toscana, Umbria (quest'ultima ha rischiato di capitolare alle ultime regionali, in occasione delle quali la Liguria ha invece "ceduto") e in parte Marche (la regione, però, è divisa fra zone di diverso colore politico; inoltre, alla Camera, nel 2013, il M5S ha ottenuto il 32,1% contro il 31% della coalizione Pd-Sel-Centro democratico). Con il dissolvimento delle coalizioni onnicomprensive del 2006 (Unione e CDL), la crisi economicosociale, la comparsa di una nuova opzione (il M5S) e lo "sdoganamento" di una "via d'uscita" (l'astensione, che permette di lasciare il proprio partito senza "tradirlo" con un altro) il quadro è cambiato completamente. L'elettorato è diventato fluido e se è sbagliato asserire che le appartenenze siano scomparse, è però più corretto affermare che per molti italiani sono venute meno alcune preclusioni nei confronti di partiti teoricamente "lontani". Il "continuum" sinistra-destra, ad esempio, spiega poco o nulla (ed è difficile collocarvi alcuni soggetti politici) se ci si riferisce a temi divisivi come l'euro: l'elettore leghista è più vicino a quello dell'ex alleato centrista del Ncd o alle posizioni più radicali del M5S? Di qui, un'altra domanda, che si pone con sempre maggiore insistenza dopo il primo vero caso di "osmosi" inattesa, cioè l'elezione di un sindaco del M5S a Parma nel 2012: è possibile che in un eventuale ballottaggio dell'Italicum fra il Pd e i "grillini" una quota rilevante di elettori di centrodestra scelga il M5S e che, in una sfida fra il partito di Renzi e una possibile coalizione di centrodestra guidata da Salvini gli elettori grillini esclusi dal ballottaggio votino per il leader leghista? I sondaggi ci dicono che è probabile. In particolare, dalla rilevazione EMG per il Tgla7 del 9 novembre si evince che eventuali ballottaggi nazionali per il premio di maggioranza alla Camera (con l'Italicum) fra Pd e alternativamente, un listone di centrodestra o il M5S - si risolverebbero con risultati inferiori ai 5 punti di margine (52,5-47,5 per il partito di Renzi contro la coalizione di Salvini e 51,7-48,3 per il movimento di Grillo opposto ai Democratici). In altre parole, l'esito non è prevedibile, ma il dato che spicca è il possibile apporto agli sfidanti dei ballottaggi dei voti (non pochi) del "terzo escluso". Rispondendo ad una domanda sulla propria scelta di voto in caso di secondo turno fra Pd e M5S, gli elettori del centrodestra hanno indicato che in maggioranza (ricalcolando i dati, a noi risulta il 58%) non andrebbero alle urne, mentre un 42% andrebbe ai seggi per decidere la contesa. Qui sta la sorpresa (che in realtà, da qualche anno, non è più tale). Mentre gli "azzurri" si dividerebbero (il 15% di chi vota FI al primo turno sceglierebbe al secondo il Pd, mentre il 22% preferirebbe il M5S), i leghisti e i sostenitori di FdI che andrebbero a votare sarebbero quasi tutti (44% contro 6% nella Lega, 30% contro 2% in FdI) per il M5S e solo in piccolissima parte per il Pd. In base a nostri ricalcoli dei dati del sondaggio, del 29% dei voti di Lega-FI-FdI il 2,5% andrebbe al Pd e il 9,7% al M5S, mentre il restante 16,8% finirebbe nell'astensione (comprendendo anche gli indecisi). Mentre l'elettorato forzista, insomma, si dimostrerebbe più equilibrato nella scelta, quello leghista e di destra si schiererebbe decisamente con il M5S. Ciò, verosimilmente, per contrapposizione con Renzi (che è certo più molto attenuata fra gli "azzurri") e per divergenze nette col Pd su euro, Europa e immigrazione. Anche Berlusconi e Salvini, a Bologna, l'8 novembre, hanno tenuto a rimarcare le differenze col movimento di Grillo: il primo, però, per segnare le diversità e additarlo come un nemico, al pari dei "comunisti"; il secondo, invece, più pragmaticamente, ha puntato sull'argomento che il centrodestra "non è solo il partito del no" ma è anche forza di governo. Del resto, anche Grillo ha voluto, parlando delle elezioni comunali a Roma, accreditare il proprio movimento come un soggetto in grado di affrontare senza problemi la prova di governare realtà complesse. In teoria, l'elettorato di destra (Lega-FdI) e quello del M5S dovrebbero essere molto distanti (una parte non marginale degli elettori "grillini" proviene da passate esperienze di voto al centrosinistra, senza dimenticare che nel Movimento c'è anche, tuttavia, una fetta di ex sostenitori della CDL). Su alcuni temi, invece, appaiono più vicini e pronti - se necessario e opportuno - ad un'osmosi (non ad un'intesa fra leader che è impossibile, ma a più praticabili singole scelte personali degli elettori) fra loro. In questo modo, il "continuum" sinistra-destra (che rende arduo collocare il M5S) lascia il posto in parte ad altre linee di divisione (economia ed Europa fra tutte) ma anche ad una sorta di dimensione "circolare" dove i soggetti politici sono disposti come punti su una circonferenza e dove, perciò, gli estremi possono avvicinarsi. Si potrebbe spiegare, inoltre, anche la disponibilità manifestata in ambienti della sinistra a sostenere nelle città - in caso di ballottaggio comunale - candidati del M5S. Il movimento di Grillo si presenta come speculare al Pd (posto dall'altra parte del "cerchio") perchè è in grado di dialogare con settori delle estreme mentre il partito di Renzi è capace di entrare in sintonia con l'elettorato più moderato (anche se presente in partiti d'opposizione come Forza Italia, come dimostra in parte anche il sondaggio EMG). Abbiamo, così, una diversa polarizzazione. In un terzo del cerchio abbiamo il Pd (secondo i dati EMG del 9/11, SWG del 6/11 ed Euromedia per “Ballarò” del 10/11) intorno al 31,5-34,3%; accanto, il Ncd (2,3-2,9%) da una parte e l'area dell'ex Lista Tsipras (3,4-4%) dall'altra. In un altro settore, il M5S (25,5-27,7%). Infine, i partiti di centrodestra, iniziando dal più vicino al centro (FI, 10,8-12,5%), proseguendo con la Lega (14,4-15,6%) e finendo, a destra, con FdI (4-4,8%). Nessuna di queste aree, variamente aggregata, varca decisamente il 40%, almeno da quel che sembra (al netto, dunque, di una campagna elettorale lontana e degli immancabili difetti dei sondaggi), ma oggi non sembra azzardo ipotizzare come probabile che per assegnare il premio di maggioranza dell'Italicum si debba ricorrere ad un secondo turno di ballottaggio. Con quali protagonisti ed esiti è troppo presto per dirlo. Lo "spirito repubblicano" 28.11.2015 Dopo l'attentato di Parigi la Francia ha dato prova di possedere ancora il suo "spirito repubblicano". Si tratta di un comune sentire del quale in Italia si è sempre lamentata la scarsità o l'assenza. Nel nostro paese, del resto, alcune ricorrenze che dovrebbero accomunare le parti politiche e i cittadini non sono sempre state pacificamente riconosciute come tali, prima fra tutti quella del 25 aprile. L'avvento della Seconda Repubblica, nel 1994-'96, ha soltanto accentuato divisioni che apparivano in precedenza ricomposte e che invece erano pronte a riproporsi in occasione della scelta fra un "polo" e l'altro. Certamente, la creazione di un "nemico" interno da additare ai propri sostenitori (il comunismo da una parte, Berlusconi dall'altra) non ha favorito una pacificazione nazionale che pure il presidente della Repubblica Ciampi, fra il 1999 e il 2006, ha tentato di promuovere. L’aggregazione in due “famiglie politiche” ha polarizzato l'elettorato e ha svolto una funzione divisiva che ha finito per colpire non solo i simboli del nostro patrimonio comune (dalle feste nazionali alla stessa Costituzione e alle istituzioni). Ad una più attenta analisi, però, appare riduttivo e sbagliato attribuire al sistema elettorale maggioritario uninominale (1994-2005) e alla personalizzazione della politica (con l'emergere di leader e di "partiti del capo") l'impossibilità di far nascere (o rinascere) in Italia lo "spirito repubblicano". La divisione sulle ragioni fondanti dello stare insieme, infatti, si protrae per buona parte della storia politica dall'Unità in poi. Prima con la questione meridionale e con la disputa fra Chiesa e Stato (caratterizzante soprattutto il primo mezzo secolo del Regno d'Italia), in seguito col fascismo, poi con la guerra fredda, quindi con un'artificiosa ma efficace distinzione fra poli elettorali e con l'ennesima, finale, divisione in tre blocchi, accompagnata da una disaffezione crescente verso i partiti e le istituzioni, il popolo italiano si è trovato unito in poche occasioni, quasi tutte cruciali. La stagione della Costituente e la lotta al terrorismo sono stati rari episodi nei quali gli italiani e le forze politiche si sono trovati insieme dalla stessa parte. Non intendendosi sui contenuti da dare al "comune sentire", i partiti hanno spesso rinunciato a lavorare per edificare un insieme di valori, diritti e doveri sui quali convergere, al di là e al di sopra delle rispettive divergenze ideologiche. Forse, non avendo chiara la sostanza da attribuire allo "spirito repubblicano", è prevalsa l'interpretazione più prudente (per non dire diffidente) e si è commesso lo stesso errore imputato a chi, durante i lavori della Costituente, ebbe "il complesso del tiranno". Per timore che il 25 aprile e la Resistenza diventassero la festa della sinistra (in particolare di quella comunista, anche se le forze del CLN rappresentavano un ben più ampio spettro politico) per anni si è trascurato, nell'immediato dopoguerra, il valore di quella ricorrenza. Questa è diventata patrimonio comune (mai unanime, peraltro) col passare del tempo, quando però è stata celebrata in modo sempre più rituale e in parte decontestualizzato. Lo stesso è avvenuto per la celebrazione dell'unità nazionale (contestata, nel 2011, dalla Lega Nord) e, in parte, per quella del 2 giugno (caratterizzata più dalle polemiche sulla parata militare a Roma che da una riflessione sullo stato della nostra democrazia e della Repubblica). Lo "spirito repubblicano" alla francese (al netto del ruolo attuale del FN, diverso dal passato ma non completamente in discontinuità con le posizioni che nel 2002, in occasione del ballottaggio presidenziale Chirac-Le Pen, spinsero alla mobilitazione anche gli elettori di sinistra, pur di impedire l’elezione all’Eliseo del capo dell’estrema destra) è stato scambiato, nel tempo, per un rigurgito di nazionalismo prima e poi, nella Seconda Repubblica, per una riedizione del "consociativismo" che il "nuovo ordine" creato dopo il 1994 proclamava di voler abbattere. I tentativi del Presidente Carlo Azeglio Ciampi sul versante del recupero dell'idea di Patria si sono scontrati con la diffidenza per l'abuso che il fascismo ne aveva fatto. La stessa Costituzione, che per circa 45 anni è stata l'unica piattaforma comune delle forze politiche (o quasi: si parlava, non a caso, di "arco costituzionale" al di fuori del quale erano gli extraparlamentari e l'estrema sinistra nonchè, fra i partiti, il Msi, fautore di un assetto dei poteri radicalmente diverso) è diventata, con la Seconda Repubblica, ulteriore motivo di contrapposizione. Mentre sul finire degli anni Settanta e negli anni Ottanta la "Grande Riforma" viene vista come un tentativo di aggiornare la Carta Fondamentale senza svilirne il valore, nella Seconda Repubblica la Costituzione viene sovente attaccata e, quando si pone mano ad un'operazione di riforma (com'è avvenuto in numerose occasioni negli ultimi venti anni) si trasforma in un campo di battaglia fra i partiti. Così, persino il nostro "succedaneo" dello spirito repubblicano, cioè l'unità intorno alla Costituzione, viene posto in discussione. Subentra una dialettica fra vecchio e nuovo, fra innovatore e conservatore nella quale non è più facile ricondurre ad unità il quadro, soprattutto perchè ogni parte in causa rivendica la bontà della propria posizione in confronto all'"eresia" di quella opposta. Nel momento in cui l'unico strumento davvero unificatore, la Costituzione, è stato dichiarato vecchio (molto prima che si procedesse al "restauro" e alla parziale ricostruzione) il patto repubblicano si è ulteriormente sfilacciato, proprio mentre un'ondata di particolarismi stava invadendo il terreno della politica. I richiami autorevoli, fra i quali quelli dell'attuale Capo dello Stato, a trovare terreni dove edificare un nuovo complesso di valori comuni per la Repubblica e i suoi cittadini sono seguiti spesso da ampi consensi formali, ma da scarse realizzazioni concrete. Sebbene ci si auguri di non dover mai avere a che fare con la controprova, è molto difficile ipotizzare che il Parlamento italiano abbia lo spirito unitario (ancora vivo, a tratti, negli anni Settanta) per tributare, sia pure in una circostanza eccezionale, un omaggio corale come quello rivolto dai deputati francesi in occasione del recente discorso del Presidente François Hollande. Appunti sul voto in Europa 12.12.2015 Nell'analisi politica c'è spesso il rischio di incappare in alcuni indizi che "spiegano troppo". Ci sono circostanze, sia pure molto rilevanti, che però sono concause di un determinato fenomeno e che non bastano, da sole, a spiegarne la vera natura. Taluni hanno affermato, subito dopo il voto regionale francese del 6 dicembre, che l'avanzata del Fronte nazionale di Marine Le Pen era frutto della paura per gli attentati terroristici di Parigi. Forse sarebbe stato sufficiente riprendere alcuni sondaggi precedenti al 13 novembre e persino dati elettorali recenti significativi, per rendersi conto che c'era anche dell'altro. L'istituto Ifop, poi, ha diffuso un interessantissimo studio sul voto regionale dal quale si evince che solo il 16% degli elettori del FN ha cambiato intenzione di voto a seguito degli attentati. In altre parole, nel 28,4% ottenuto dai lepenisti c'è un 4,5% conquistato in seguito ai fatti di Parigi: ciò dimostra che il restante 23,9% era già acquisito o acquisibile anche senza il verificarsi di eccezionali eventi esterni al dibattito politico corrente. Alle elezioni europee del 2014, peraltro, il FN aveva ottenuto il 24,86% dei voti (prima ancora persino dell'attentato a Charlie Hebdo dello scorso gennaio, quindi). Nella vittoria dell'estrema destra francese non c’è solo la contingenza del terrore e neppure soltanto la linea "securitaria" di Marine Le Pen. Così come, nei risultati di Syriza in Grecia, di Podemos in Spagna, del M5S e della Lega nel nostro paese, tanto diversi fra loro per "collocazione" politica quanto per i contesti nazionali (senza contare che anche in Germania si sta "muovendo" qualcosa) ci sono ragioni profonde che spiegano uno spostamento elettorale così potente da scardinare il bipolarismo (in alcuni casi bipartitismo) che caratterizzava fino a pochi anni fa Spagna, Francia, Grecia, Italia. Un elemento di quel sondaggio Ifop sulle regionali francesi ci può fornire una via per proseguire nell'indagine. Mentre solo il 24-26% degli elettori di sinistra (FDG, Verdi, PS) e il 37% di centristi e LR di Sarkozy ha orientato il proprio voto più in funzione del valore nazionale che della scelta locale o regionale, gli unici ad aver messo la scheda nell'urna guardando più ai problemi generali (quelli che gli enti locali non possono risolvere) che agli altri sono proprio i lepenisti (55% contro 45%). E se è vero che, fra i temi che hanno supportato il voto ai partiti, l'accoglienza dei migranti e la lotta al terrorismo sono stati importanti per circa il 90% degli elettori del FN contro il 52% di quelli di sinistra, il 61-67% dei socialisti e il 71-77% di centristi e "repubblicani", è però vero che tutti sono concordi nel dare il primato nelle proprie preoccupazioni al problema del lavoro: il 93% medio, con differenze minime fra i partiti (92-95%). L'economia, dunque, sembra oggi il motore delle scelte politiche, più che nel passato. La sicurezza è - per così dire - un "tema di rinforzo" per partiti come il FN, ma il vero pericolo è la propria condizione occupazionale. Il partito della Le Pen ha ottenuto il 38% del voto dei disoccupati, contro il 24 dei socialisti e il 18 di LRUDI-MoDem. C'è inoltre un fattore generazionale (osservato, peraltro, anche in Italia, dove il M5S ha più voti fra le fasce giovanili che nelle altre, sopravanzando il Pd), cioè fra le coorti più interessate dalla disoccupazione: ha votato FN il 33% dei francesi sotto i 35 anni (27% dai 35 in su) contro il 19% dei socialisti (25% over 35) e il 22% del raggruppamento di Sarkozy (contro il 29%). Infine, l'Ifop ci informa che chi ha deciso di votare nel corso delle settimane immediatamente precedenti le elezioni (il periodo concide all'incirca con la distanza fra i fatti di Parigi e il primo turno amministrativo) rappresenta il 40% dell'elettorato in generale, ma solo il 25% di quello lepenista. Quindi, l'effetto degli attentati si conferma importante ma non determinante. Non è la reazione alle bombe ad aver "creato" il consenso al FN. Che la linea politica in materia di immigrazione e lotta al terrorismo sia fra le motivazioni più forti del voto al FN (ma anche ad altri partiti europei come la Lega di Salvini) è dunque vero, ma non rappresenta il "nucleo" che porta un partito "antisistema" a competere per il primato nazionale. Torniamo, dunque, su un altro terreno, quello dell'economia, che accomuna i successi (molti dei quali in chiave anti-euro) di parecchi partiti di Francia, Spagna, Italia e Grecia. Il CISE-Luiss ci informa che fra i disoccupati il 38% voterebbe M5S, contro il 22% del PD. Fra gli operai, il M5S avrebbe, secondo lo stesso studio, il 46% dei voti, doppiando il partito di Renzi. Resta però difficile stabilire chi, in Italia, possa raccogliere un'affermazione simile a quella del FN francese. Lo scarso radicamento nelle grandi città (a Parigi i lepenisti sono ancora sotto il 10%) è simile alla difficoltà della Lega, la quale, come abbiamo visto alle regionali 2015, ha nei comuni non capoluogo percentuali di gran lunga superiori rispetto a quelle ottenute nei capoluoghi. Come dimensioni complessive nazionali, invece, FN e M5S si avvicinano. Lepenisti e "grillini" hanno in comune il fatto di non aver mai amministrato in passato neanche una regione, ma solo poche città, mentre la Lega è stata al governo del Paese per anni (e alleata con altre forze, cosa che FN e M5S sembrano escludere) ma anche alla guida di importanti regioni, province e comuni. Il motore del successo di tutti questi soggetti politici, però, come si accennava, è l'economia e, più in generale, il rifiuto degli attuali assetti europei (euro, Unione europea) e dello status quo nazionale (i sostenitori del M5S chiamano gli avversari "Pd meno L e Pd con L", mentre i lepenisti fanno altrettanto, accomunando nella sigla UMPS i socialisti di Hollande e i "repubblicani" di Sarkozy). Gli scardinatori dei bipolarismi, insomma, hanno una forte spinta di consenso dovuta alla crisi economica (che è la vera causa che li ha generati o ne ha accresciuto notevolmente i consensi elettorali), alle difficoltà dell'Unione europea, oltre che all'incertezza circa il futuro e al rifiuto della politica (declinati in modo diverso a seconda dell'offerta elettorale: FN e Lega puntano più su immigrazione e terrorismo, M5S e gli altri sull'opposizione ai partiti tradizionali e alla "Casta"). Fra questi nuovi soggetti politici, molti sono pronti ad assumersi responsabilità di governo (Syriza lo fa già; Podemos potrebbe; la Lega ha una certa esperienza, mentre FN e M5S non ne hanno). In comune hanno alcune caratteristiche, quasi tutte quelli vincenti che abbiamo solo tratteggiato. Hanno anche un nemico pericoloso che può frenarne le ambizioni: non i partiti tradizionali, ma l'astensionismo, molto più seduttivo. Questo è il loro limite: se - con gradazioni e accenti diversi hanno in comune un messaggio semplice e diretto rispetto a quello più articolato e complesso delle forze politiche preesistenti, sono però in difficoltà rispetto all'argomentazione ancor più semplice e di forte presa nell'elettorato di chi pensa che andare alle urne (anche per scegliere loro) non cambierebbe la situazione. Il “nemico” di costoro, insomma, è quello che non si vede. Francia-Italia: riflessioni sul ballottaggio 19.12.2015 Fra i numerosi spunti interessanti che l'analisi del voto francese offre al dibattito italiano ce ne sono alcuni che soprattutto meriterebbero nella maggior prospettiva di rilievo, un non improbabile ballottaggio, con l'"Italicum", alle future (forse non molto prossime) elezioni per il rinnovo dell'Assemblea di Montecitorio. Al secondo turno delle "regionali" francesi sono andati ai seggi 26.455.071 elettori (il 58,41% del totale degli aventi diritto): fra essi, 25.167.273 hanno espresso un voto valido (55,56% sugli aventi diritto, 95,13% sui votanti). Al primo turno, invece, i votanti erano stati 22.609.335 (49,91%) e i voti validi 21.708.280 (47,92% sugli aventi diritto, 96,01% sui votanti). Nel giro di una settimana, insomma, i francesi che sono andati alle urne sono aumentati di circa 3 milioni e 850 mila unità, mentre i voti validi hanno avuto un incremento di 3 milioni e 460 mila unità. Un progresso notevole, pari all'8,5% degli aventi diritto. Com'è noto, i ballottaggi hanno visto prevalere in sette occasioni il candidato del centrodestra e in cinque quello di sinistra (più un autonomista, in Corsica) ma nessun esponente del FN ha ottenuto la vittoria. Anche senza addentrarci nell'analisi delle matrici di flusso elettorale (che pure ci darebbe indicazioni interessanti, come per esempio il dato Ipsos-France in base al quale l'indice di fedeltà degli elettori nei ballottaggi triangolari, fra primo e secondo turno, è stato del 95% per i socialisti, del 92% per il centrodestra e solo dell'88% fra chi aveva votato FN, con un 10% di lepenisti che ha scelto al ballottaggio il candidato della "droite" repubblicana, mentre il 16% dei votanti per l'estrema sinistra al primo turno ha preferito astenersi al secondo) sono sufficienti dati "grezzi" per comprendere cosa può essere accaduto. Dei 3 milioni e 460 mila voti in più "pescati" fra gli astenuti rimobilitati del primo turno regionale, solo 800 mila (il 23% circa) ha premiato il FN, mentre il restante 77% è andato ai candidati socialisti o di centrodestra. Con questo progresso, i lepenisti sono giunti alla quota record di 6 milioni e 820 mila voti (il 27,1%) contro i 6 milioni e 18 mila del primo turno (27,73%). È quindi ampiamente comprovato quel che Michele Marchi ha scritto su "Mentepolitica" del 15 dicembre circa l'esito del secondo turno: "È stato l'effetto della chiamata alle armi in funzione anti frontista? La lettura in questa direzione può essere corretta, ma il dato può anche essere interpretato in altro modo: ancora una volta una parte consistente di elettori dei partiti di governo (PS e LR) hanno voluto mandare un segnale di insoddisfazione alle rispettive classi dirigenti astenendosi massicciamente al primo turno, un po' meno al secondo. Al contrario, il voto FN sembra ormai essersi strutturato come voto di adesione, che non tende a diminuire quando aumenta la partecipazione". Lette in chiave italiana, queste parole non ci evocano forse qualcosa? L'aumento dell'astensione, che alle politiche del 2008 colpì la sinistra radicale e nel 2013 pesantemente il centrodestra (ma anche, in buona misura, il centrosinistra) e che alle amministrative 2014-2015 pare essersi ampliato ancora, non è forse il segnale che solo una parte dei "delusi" dai poli della Seconda Repubblica ha trovato collocazione in altri soggetti politici (in primo luogo nel M5S)? Se nessun partito o cartello elettorale ottenesse il 40% dei voti validi alle prossime elezioni legislative italiane si andrebbe al ballottaggio fra i primi due: in quella occasione, è presumibile prevedere un aumento o una diminuzione dell'affluenza alle urne? La domanda non solo non è oziosa ma è fondamentale, perchè il "voto di chi non vota" e il voto di chi avrà scelto in precedenza partiti esclusi dal ballottaggio saranno decisivi per l'esito della competizione. In primo luogo, a tal proposito, bisogna considerare che non tutti i ballottaggi sono suscettibili di veder registrare la stessa affluenza alle urne. Se lo scontro finale fosse fra Pd e un partitone di centrodestra, verosimilmente molti degli elettori del M5S (teoricamente tutti, visto che il MoVimento rivendica la sua "alterità", o almeno quelli che non si sentono vicini per trascorsi o per simpatia ai contendenti) potrebbero decidere di restare a casa, anche se è altrettanto verosimile che i “pentastellati” interpretino la contesa come un'occasione per affossare Renzi. Nel caso - il più improbabile, ad oggi - di un ballottaggio listone di centrodestra-M5S, parecchi elettori del Pd potrebbero considerare l'esito comunque sgradito e non prendere parte al secondo turno. Ma, nell'ipotesi di un ballottaggio Pd-M5S, ci sarebbe molto da interrogarsi non tanto sul "sentimento" degli elettori di centrodestra (che tutti i sondaggi danno prevalentemente ostile al partito di Renzi), ma sulla scarsa propensione del votante medio dell'ex CDL a recarsi ai seggi per due volte di seguito a breve scadenza. Se dunque il primo elemento da valutare per fare ipotesi sul comportamento elettorale è la struttura della competizione (con le tre varianti esaminate), il secondo è l'astensionismo aggiuntivo “cronico” che caratterizza i ballottaggi in tutte le tornate amministrative della Seconda Repubblica. Astensionismo che ha sovente avvantaggiato (o penalizzato meno) il centrosinistra. In Francia, come si è visto, al secondo turno può votare un numero di elettori anche molto maggiore rispetto al primo, ma da noi è possibile che si verifichi un'eventualità del genere? E, se sì, a quali condizioni? Il terzo elemento della nostra analisi, dunque, non può che essere l'esistenza o meno di quello che per l'occasione non chiameremo "spirito repubblicano" (vista l'accezione che ne abbiamo dato in un precedente intervento su "Mentepolitica") ma "coalizione di necessità". In Francia solo i socialisti hanno ritirato i loro candidati giunti terzi in favore dei neogollisti, mentre questi ultimi hanno preferito rischiare di far vincere un esponente del FN anzichè ritirarsi dove erano meno forti degli altri due maggiori partiti (di qui, i ballottaggi triangolari, che hanno però ugualmente "bloccato" i lepenisti, sia pure per poco, come in Borgogna). In Italia il doppio turno eventuale dell'Italicum è chiuso ai primi due classificati, quindi il problema di "desistere" non si pone. Ma, nelle varie combinazioni possibili del ballottaggio, siamo certi che in Italia assisteremmo al comporsi di un'alleanza fra gli elettori - per esempio - di Pd e centrodestra (una sorta di "unione per la Seconda Repubblica") da contrapporre al M5S? Oppure avremmo un'altrettanto ampia o comunque competitiva "coalizione antirenziana" che farebbe del Pd l'avversario da battere uniti (anche se diversi)? O, infine (eventualità a nostro giudizio più probabile), non si risolverà tutto nello scontro fra queste due alleanze trasversali che abbiamo delineato? Qui, inoltre, c'è da chiedersi se e in quale misura il secondo turno possa attrarre elettorato rispetto al primo, visto che entrambe le opzioni (il voto contro il M5S, quello contro il partito di Renzi) non sembrano tali da mobilitare grandi folle di astensionisti. Così giungiamo all'ultimo punto di quella che è un'analisi la quale non può che lasciare molte questioni irrisolte: la grande massa di italiani che non è andata alle urne per le politiche 2013 (25%) e che è aumentata alle europee 2014 e alle regionali 2014-2015, ha ancora un sentimento vago di simpatia (se non di appartenenza) politica? È mobilitabile dai due poli di un tempo? Oppure può "risvegliarsi" per andare a premiare il M5S? In Francia il quadro è più chiaro: il 27-28% di chi è andato alle urne al primo turno o al ballottaggio ha votato FN; il restante 7273% per quella che la Le Pen definisce in modo poco affettuoso l'"UMPS" (socialisti e repubblicani gollisti; in realtà, in quel 72% va calcolata anche una fetta di elettorato ecologista e di sinistra non socialista). Secondo i sondaggi, un esponente del centrodestra potrebbe battere la Le Pen alle presidenziali grazie ai voti dei socialisti, mentre un rappresentante del PS ce la potrebbe fare, ma con più difficoltà. In altre parole, c'è un fronte repubblicano da una parte e c'è il FN dall'altra. In Italia cosa abbiamo? Il legame sistemico fra monocameralismo e Italicum 16.1.2016 L'approvazione, da parte della Camera dei deputati, del disegno di legge costituzionale che riforma, fra l'altro, il bicameralismo e il Titolo V della Carta repubblicana, sollecita un approfondimento di riflessione sul rapporto fra il rinnovato (o rinnovabile, a seconda dell'esito del referendum confermativo di ottobre-novembre) quadro istituzionale e la nuova legge elettorale (l'Italicum, che entrerà in vigore a luglio). In precedenti occasioni abbiamo avuto modo di sottolineare su Mentepolitica che l'Italicum può rafforzare gli effetti della revisione costituzionale: è in grado di assicurare un po' più della maggioranza assoluta dei seggi di Montecitorio al partito che vincerà (con almeno il 40% dei voti) al primo turno o (con la metà più uno dei voti validi) al ballottaggio fra le prime due liste classificate. Eliminando la differenza non marginale che esiste oggi fra gli elettorati di Camera (comprendente tutti i maggiorenni) e Senato (limitato a chi ha compiuto 25 anni) e la stessa articolazione terroriale della legge per Palazzo Madama (la quale ha dovuto pur sempre tener conto dell'elezione "su base regionale", mentre per Montecitorio il premio - quando c'è stato - è sempre stato nazionale, anche con la legge 148 del 1953, definita dagli oppositori “legge truffa”) e togliendo ai senatori il potere di concedere e negare la fiducia al Governo (senza contare che la gran parte della legislazione sarà affidata ai deputati e passerà per eventuali "richiami" non decisivi in Senato), la revisione della Carta delinea un sistema decisionale più rapido ma anche, praticamente, "senza appello" (o quasi). In altre parole, chi vincerà le elezioni per la Camera avrà i voti per governare e fare approvare le leggi del suo programma senza sottoporsi (se non in casi eccezionali e con modalità particolari) alla "navetta" attuale. Con la possibile (quando non scontata) coincidenza fra leadership e premiership, avremo un sistema parlamentare nel quale il governo (e il partito di governo, nella persona del suo più alto esponente) rivestirà un ruolo molto più incisivo. Se, da un lato, il bicameralismo differenziato eviterà negoziati lunghi e complessi causati dalla diversa composizione delle Camere o dai contrasti fra deputati e senatori della stessa maggioranza, dall'altro mancherà quell'"azione di raffreddamento" che spesso ha permesso di emendare nel secondo ramo del Parlamento gli errori commessi nel concepimento e nell'approvazione di un progetto di legge (fra i quali le modifiche apportate in seguito a "imboscate", a scrutinio segreto, dei "franchi tiratori" di maggioranza). La trattativa per arrivare all'approvazione di un testo da parte dell'Assemblea di Montecitorio dovrà dunque essere "blindata" al momento della trasmissione in Aula del testo della Commissione parlamentare competente, altrimenti ci troveremo talvolta di fronte alla necessità di far "arenare" disegni e proposte di legge prima del voto finale, pur di evitare guasti legislativi. Sono inconvenienti che potrebbero rivelarsi marginali ed episodici, dei quali tuttavia andrebbe tenuto conto. In questo quadro, com'è evidente, il "combinato disposto" fra poteri esclusivi della Camera dei deputati e legge elettorale ha un ruolo determinante per l'intero sistema. Da un lato, la fiducia concessa da un solo ramo del Parlamento monocamerale e creano la un legislazione quadro di semplificazione e di rafforzamento dell'Assemblea di Montecitorio, che resta la sola a decidere, senza il "contrappeso" (chiamiamolo così, impropriamente) del Senato. Dall'altro, però, la configurazione del meccanismo di trasformazione di voti in seggi può decidere da quale parte far oscillare il pendolo del potere: più verso il governo e la leadership del partito di maggioranza (nel caso dell'Italicum) oppure verso la Camera dei deputati (se un giorno si adottasse un sistema elettorale proporzionale). Il meccanismo di voto per Montecitorio può assumere così un'importanza maggiore nel sistema persino rispetto al periodo della Seconda all'ipotesi che Repubblica. Torniamo, formulammo tempo infatti, fa su Mentepolitica: se il partito al governo fosse certo di non poter vincere le elezioni successive, la tentazione di cambiare il sistema elettorale e, di conseguenza, di riportare il "pendolo" verso il Parlamento, allontanandolo da Palazzo Chigi, potrebbe portare all'approvazione di una legge più o meno puramente proporzionale (per esempio con correttivi e soglie, come fecero in Francia i socialisti nel 1985 per impedire il trionfo del centrodestra). Oppure potrebbe constatare il partito di governo di dover costituire una coalizione con altri gruppi per essere competitivo alle elezioni successive, e potrebbe trovarsi costretto dai nuovi potenziali alleati a varare una modifica dell'Italicum tale da prevedere il premio di coalizione. Avremmo, circostanze, diverse istituzionali. Col a dialettiche binomio seconda delle politiche e monocameralismo- Italicum il confronto sarebbe verosimilmente quasi soltanto interno al partito di maggioranza, al suo gruppo dirigente, al gruppo parlamentare della Camera, al rapporto fra il premier/leader e il partito. Nel caso di una modifica che comportasse la formazione di coalizioni pre-elettorali, si avrebbe uno spostamento della negoziazione verso i partiti della maggioranza, il che comporterebbe possibili divergenze su singoli punti programmatici e renderebbe il governo del Paese più simile a quello "collegiale" del Pentapartito (o di parecchi governi della Seconda Repubblica) che a quello monocolore che si prospetta con l'Italicum nella sua versione attuale. Se poi si adottasse un sistema elettorale proporzionale o simile a quello tedesco, per esempio, avremmo verosimilmente governi di coalizione un po' più ampi dei "recinti" attuali. L’impossibilità di poter correggere il testo di una legge (se non approvando in fretta nuove norme “riparatrici”) renderebbe necessario un negoziato che si svolgerebbe non solo fra i partiti ma tra i gruppi parlamentari e le componenti di questi ultimi. In altre parole, la modifica costituzionale può produrre alcuni effetti sul quadro complessivo, fra i quali lo snellimento del processo legislativo e il rafforzamento del governo nel sistema, però questi effetti possono essere amplificati o attenuati a seconda del meccanismo elettorale in uso. Poichè la Costituzione è fatta per resistere al tempo (ed è difficile cambiarla, come si è visto nella storia repubblicana) ma le leggi elettorali durano in media circa dieci anni (19942005 Mattarellum; 2005-2015 Porcellum), non è escluso che già al termine della prossima legislatura o nella successiva si ponga il tema di rivedere le norme che "trasformano voti in seggi". Col risultato possibile di produrre ripercussioni sull'intero quadro istituzionale e dei rapporti fra e nei partiti, fra partiti e governo, fra governo e Camera dei deputati; sempre che, ovviamente, il Senato non sia fortemente "presidiato" dalle opposizioni, il che introdurrebbe ulteriori variabili. La "finestra elettorale" del 2017 30.1.2016 Il referendum confermativo costituzionale previsto per il prossimo ottobre potrebbe accelerare la conclusione della legislatura. Allora, infatti, le Camere avranno appena quindici mesi di "vita" residua, perchè nel 2013 si è votato a febbraio. L'eventualità che gli italiani siano chiamati alle urne per le elezioni politiche già nella tarda primavera del 2017 (maggio-giugno) diventa la più probabile, anche perchè, in fondo, si tratterebbe di un anticipo di 8 mesi sulla scadenza naturale. Inoltre, votando nel 2018, la necessità di sovrapporre parte della campagna elettorale con il dibattito sulla Legge di stabilità (per di più, con un Senato che - se passasse la revisione costituzionale - potrebbe diventare ingovernabile, a poche settimane dal "liberi tutti") renderebbe complessa la gestione degli ultimi mesi di legislatura. Così, molti indizi sembrano condurci verso il possibile anticipo del voto al 2017. Il più importante è il referendum confermativo, vero snodo politico della legislatura. Qui abbiamo due possibili conseguenze: una politica, l'altra in parte anche tecnica. La prima è data dal fatto che - per ammissione dello stesso Renzi - la consultazione finirà per diventare anche un giudizio sul presidente del Consiglio. In modo simile a D'Alema nel 2000 (elezioni regionali) e Craxi nel 1985 (referendum sulla "scala mobile"), anzi con maggior forza, il leader del Pd ha affermato che in caso di sconfitta abbandonerà il campo. In altre parole, se dalle urne uscisse un "no" alla riforma costituzionale, il governo si dimetterebbe. In tal caso la parola passerebbe al Presidente della Repubblica che dovrebbe verificare prima la possibilità di dar vita ad un nuovo Esecutivo presieduto da un diverso esponente del Pd e poi scegliere se dare un incarico per formare un governo tecnico-balneare volto all’approvazione delle leggi di bilancio e gestire l'anno restante della legislatura, o se - eventualità più probabile sciogliere le Camere e chiamare gli italiani alle urne a gennaio 2017. La possibilità di un governoponte in caso di vittoria dei "no" al referendum potrebbe essere più forte se i partiti sentissero la necessità di estendere al Senato (che resterebbe eletto direttamente dal popolo) l'Italicum valevole per la sola Camera dei deputati. La permanenza dell'attuale sistema bicamerale, infatti, renderebbe perfettamente inutile (come nel 2013) l'attribuzione di un premio di maggioranza a Montecitorio, non essendovene uno per Palazzo Madama. Riflettendoci, legge elettorale e provvedimenti economici sono i classici "ingredienti" di un governo di transizione, tecnico o politico che sia. Il referendum confermativo non influirebbe sul destino della legislatura solo in caso di vittoria del "no". Se vincesse il sì, Renzi potrebbe essere tentato di sfruttare l'onda del successo per andare subito ad elezioni anticipate. Le esperienze delle europee 2014 e delle regionali 2015 insegnano che il “momento di grazia” potrebbe non durare per un anno e che la "cresta dell'onda" sarebbe in grado di riportare l’attuale premier a Palazzo Chigi soltanto se presa subito. Se si votasse nel 2018, invece, il leader del Pd dovrebbe ricominciare la sua campagna elettorale da capo, senza contare sugli effetti - a quel punto lontani - della consultazione referendaria. C'è poi un secondo motivo, insieme tecnico e politico, che fa pensare ad elezioni anticipate nel 2017. Se vinceranno i sì, il Senato continuerà a sopravvivere nella sua forma e funzione attuale solo "in proroga". Di fatto, sarà un ramo del Parlamento che difficilmente potrà esprimere pareri diversi rispetto a Montecitorio senza incorrere nell'accusa di essere un'assemblea obsoleta in via di scioglimento e praticamente "delegittimata" dal voto popolare. Poichè già oggi Palazzo Madama ha una composizione politica frammentata e non rappresenta un punto di forza della maggioranza di governo, è facile pensare che nell'ultimo anno di "convivenza" fra Camera, Senato e governo si possano sviluppare tensioni dall'esito imprevedibile. Andando al voto già nel 2017, invece, il problema sarebbe risolto. Inoltre, non si vede perchè la realizzazione di un obiettivo (la differenziazione del bicameralismo) che ha costituito una delle principali ragioni d'essere dell'attuale dirigenza del partito di maggioranza relativa debba essere lasciata in sospeso per un anno, fino alla scadenza naturale della legislatura. Poichè Palazzo Madama si rinnoverà quando sarà sciolta l'Assemblea di Montecitorio, la "rottamazione" del vecchio Senato non potrà facilmente essere rinviata a lungo: è anche una questione d'immagine, oltre che politica. Molti degli scenari fin qui tracciati ci portano alle elezioni anticipate del 2017. A meno che, nel frattempo, le circostanze e gli eventi politici non conducano alla creazione di maggioranze più ampie, necessitate da eccezionali problemi interni o internazionali oggi non prevedibili: in tal caso, l'approdo naturale del 2018 sarebbe l'esito più scontato. Ma, allo stato attuale dei fatti, è molto probabile che pochi mesi dopo il referendum confermativo costituzionale avremo - indipendentemente dalla vittoria del "sì" o del "no" - nuove elezioni politiche in Italia. La società caleidoscopica 13.2.2016 Il confronto molto aspro sulle unioni civili ci ricorda che nel nostro paese non solo non è possibile, ma ricondurre è le addirittura anacronistico contrapposizioni politiche al continuum sinistra-destra. Non era molto facile neppure al tempo della Prima Repubblica, quando le differenze ideologiche si sommavano a quelle riguardanti le scelte religiose. Non lo è stato durante la Seconda, quando allo schierarsi per un polo o l'altro si è sovrapposta la forte motivazione del berlusconismo-antiberlusconismo, che però è stata accompagnata nell'elettorato, ad da esempio altre da divisioni quella sul federalismo. Oggi, soprattutto dopo il voto del 2013 e ancor più dopo questo triennio di legislatura, appare sempre più difficile tracciare confini tradizionali fra destra e sinistra e collocare i partiti seguendo vecchie distinzioni. La posizione anti-euro, ad esempio, è condivisa dalla Lega come dal M5S. Ora, inoltre, persino sull'Unione europea sembra talvolta allargarsi il fronte di chi vorrebbe assetti diversi, sia pure senza rivoluzionare il sistema dell'UE. Le critiche rivolte dal premier italiano al presidente della Commissione europea appaiono inedite nella forma e nella sostanza, tali da prefigurare quasi una terza posizione rispetto ai tenaci antieuropeisti e ai difensori "senza se e senza ma" dell'Europa e dell'euro. Una posizione non intermedia fra le due "estreme", ma semplicemente diversa, che può (o vuole) avere consensi trasversali nell'opinione pubblica. Viviamo, dunque, in una società sempre più plurale, nella quale - per esempio - il comportamento elettorale dei giovani non varia di pochi punti percentuali rispetto alle scelte dei più anziani, ma spesso è addirittura completamente diverso. Non è la solita distinzione generazionale, ma l'affermarsi di una società multistratificata nella quale le aggregazioni e le sfumature prevalgono sugli steccati che la Seconda Repubblica aveva cercato di costruire intorno a due poli elettorali rivelatisi incapaci di comprendere, di orientare e talvolta di interpretare l'agire sociale, al punto di finire per essere affiancati da altri soggetti politici ma soprattutto di essere sovrastati, sul piano numerico, da un "fronte dell'astensione" tanto vasto quanto eterogeneo. La difficoltà del pensiero e ancor più dell'azione politica stanno dunque nell'individuare e nel comprendere tutte le manifestazioni e le differenze di una società caleidoscopica. Paradossalmente, durante la Prima Repubblica alcune di queste caratteristiche erano in gran parte sfumate o inesistenti (ne sussistevano, però, altre): tuttavia, c'erano partiti anche di estrema minoranza capaci di offrire un'esaustiva rappresentanza a settori precisi del Paese. Oggi, la necessità di favorire la creazione di una maggioranza parlamentare numerica (con l'Italicum) e teoricamente forte e stabile sul piano istituzionale (con la riforma costituzionale in fieri) portano il quadro politico a privilegiare una "rappresentanza omnibus" (molti sono catch all definizione parties, ormai per riprendere cinquantenaria di una Otto Kirchheimer). Così facendo, portano al loro interno alcune delle differenze, che prima o poi riemergono, per esempio sul caso attuale delle unioni civili e delle adozioni (si potrebbero, però, fare molti altri esempi, in tema di maggiore o minore intervento dello Stato nell'economia o in materia di politica estera). La rappresentanza parlamentare della Prima Repubblica finiva quasi per esaltare le differenze, moltiplicandole anche quando (nel caso di "partiti fratelli") erano superabili con un po' di buona volontà. La "democrazia maggioritaria", invece, deve semplificare e riunire: il che non ha e non può avere un connotato oggettivamente positivo o negativo, ma è un modo d'essere, che però comporta una particolare capacità d'ascolto da parte delle classi dirigenti. La politica, infatti, ha di fronte due strade possibili: una, più semplice, di seguire l'orientamento che trova maggior consenso, a costo di trascurare temi urgenti che però sono “divisivi”; l'altra, impervia, che richiede di affrontare ogni tipo di problema e di coinvolgere sui temi più delicati tutte le forze diverse dalla propria, impegnandosi in una grande capacità di ascolto e di tessitura paziente. Nella società dell'informazione rapida, della polemica facile e spesso dirompente quanto effimera, la seconda via è sempre più ricca d'intralci. Se ogni ricerca di soluzione è intesa come un compromesso deteriore e un tradimento, far coesistere i pezzi del mosaico diventa impossibile. La nostra è una società nella quale si discute molto, ma si dialoga poco. Appunti sulla "Terza Repubblica" 20.2.2016 La transizione avviata con le elezioni del 2013 non si concluderà, probabilmente, neppure se al referendum sulla revisione della Carta Repubblicana dovessero prevalere i sì al progetto di riforma. Un quadro politico-istituzionale, infatti, non si caratterizza solo per l'impianto "formale" che lo sorregge (la Costituzione, le leggi come quella elettorale) ma anche per una serie di fattori, fra i quali spicca la struttura del sistema partitico. Quest'ultimo è tanto importante che - ristrutturandosi profondamente, fra il 1992 e il 1996 - ha "imposto" un passaggio alla "Seconda Repubblica" avvenuto in realtà a Costituzione immutata. Stavolta, data la vastità della revisione della Carta Fondamentale introdotta col voto delle Camere (il testo sarà sottoposto a ottobrenovembre al giudizio del popolo) potremmo osservare un fenomeno opposto rispetto a quello di venti anni fa. Passando alla "Terza Repubblica", il sistema dei partiti resterà verosimilmente strutturato sui tre soggetti (due costituiti da singoli gruppi - Pd e M5S - e uno "plurale", un centrodestra dai contorni ancora non ben definiti) che hanno dominato le scorse elezioni parlamentari. In realtà, il quadro istituzionale non sarà affatto modificato soltanto nei suoi risvolti costituzionali, ma vedrà le forze politiche adattarsi ad un nuovo sistema elettorale (l'Italicum). Un cambiamento - persino se a vincere fossero i no alla riforma - avverrà comunque nel breve-medio periodo, perchè l'attuale sistema dei partiti è come si accennava all'inizio - in piena transizione: non siamo più nella Seconda Repubblica, ma non si è ancora approdati alla Terza. Finora il dibattito sul futuro del sistema politico-istituzionale si è incentrato sul bicameralismo ruolo che e la riforma del l'introduzione dell'Italicum dovrebbero giocare, ma non si è tenuto conto di variabili non facilmente “gestibili”. Una fra le più rilevanti è rappresentata da un fenomeno assente durante la Prima Repubblica ma molto diffuso durante la Seconda: quello che certa pubblicistica ha definito, in modo poco elegante ma efficace, come "transumanza parlamentare". Il venir meno delle ideologie, dei partiti rigidamente strutturati e coesi ha, insieme all'affermarsi di nuove fedeltà basate su leader carismatici (nel vago ricordo della tarda età liberale a cavallo fra i secoli XIX e XX), reso molto "fluida" l'appartenenza ai gruppi parlamentari. Si può dire, nel momento in cui si discute di "libertà di coscienza" sulle unioni civili, che la Seconda Repubblica è stata il luogo dove si è affermata (di volta in volta, fra il biasimo di chi ha dovuto subire delle perdite e l'apprezzamento di chi, invece, ne ha beneficiato) la massima libertà di mutare orientamento e partito. Questo elemento non è stato toccato dalla riforma costituzionale, perchè riguarda il divieto di vincolo di mandato, cioè un caposaldo del nostro regime democratico. Tuttavia, l'esistenza di una sola Camera politica (nell'ipotesi che faremo da qui in poi, di costituzionale) dell’Assemblea vittoria dei sì al referendum ogni componente Montecitorio doppiamente renderà di decisivo rispetto al passato. Il potere di quelli che potremmo chiamare "deputati di confine" fra governo e opposizione può inoltre aumentare proprio in ragione del sistema elettorale: l'Italicum, infatti, attribuisce 340 seggi su 630 al partito che vince, cioè appena ventiquattro oltre la metà più uno dei componenti della Camera. Non è difficile pensare che la possibilità, per ventisei deputati di maggioranza, di far cadere il governo o, per altrettanti di opposizione, di sostiture i dissidenti del partito vincitore delle elezioni, generi ulteriori tensioni. Chi avrà un "pacchetto" di poco meno di una trentina di seggi di maggioranza potrà orientare la politica del governo o quantomeno condizionarla in determinati passaggi, depotenziando così tutti gli argini che proprio la riforma costituzionale e l'Italicum hanno cercato di innalzare a difesa della governabilità e del potere dell'Esecutivo in un sistema che nelle intenzioni dovrebbe avere alcuni tratti in comune con quello Westminster descritto da Arend Lijphart. La tenuta dei gruppi parlamentari e dei soggetti politici (tutta da verificare, in un periodo di instabilità non solo politica, ma sociale ed economica) va inoltre valutata, nel prefigurare il passaggio ad una possibile Terza Repubblica, alla luce di altri due elementi: i "partiti parlamentari" e la forza delle leadership. Durante la Prima Repubblica i primi erano rari, frutto di divisioni spesso drammatiche dei partiti (fra tutti, la scissione socialdemocratica nel 1947, poi quella monarchica nel ‘54, il Psiup nel '64, la scissione del Psu nel '69, l'espulsione dal Pci - nel ’69 - del gruppo del "Manifesto", la nascita – dal Msi - di Democrazia Nazionale nel ‘76). In tutti i casi, avevamo nuovi soggetti politici che si sarebbero misurati col giudizio degli elettori. Il gruppo Misto non era folto. Per contro, le leadership (soprattutto quelle del partito di maggioranza relativa, la Dc) erano - dopo il periodo degasperiano - deboli e comunque destinate a incontrare resistenze tali da abbatterle, prima o poi (Fanfani, De Mita) o fiaccarle. Nella Seconda Repubblica, invece, il panorama è stato completamente diverso: abbiamo avuto leader forti e partiti parlamentari destinati talvolta a durare pochi mesi. La forza dei governi della Terza Repubblica dipenderà molto da quanto, sulla scorta del discorso già fatto sui cambiamenti di gruppo, resterà vivo e forte il fenomeno dei "partiti parlamentari" sorti per sostenere un Esecutivo o per opporvisi. Inoltre, la tenuta e la continuità alla guida del governo dipenderà dalla forza delle leadership. Così com'è disegnato, infatti, il sistema istituzionale che scaturirà dalla riforma non prevede la sfiducia costruttiva o la fine automatica della legislatura in caso di dimissioni del Presidente del Consiglio, il che lascia spazio alla nascita di maggioranze non pienamente corrispondenti a quella uscita vittoriosa dalle elezioni per la Camera dei deputati. Nessuna garanzia, inoltre, permette al leader del partito che ha conquistato i 340 seggi del "premio" di restare a Palazzo Chigi per l'intera durata della legislatura. Un cambio al vertice del partito maggioritario può comportare - come ad esempio è avvenuto nel 2014 - un avvicendamento alla guida del governo. In sintesi, non possiamo sapere fin da adesso se e quanto il modello istituzionale della Terza Repubblica influenzerà il sistema dei partiti e il comportamento degli eletti o viceversa. È probabile che i primi anni siano caratterizzati da spinte e controspinte di assestamento. I precedenti sono chiari: la Prima Repubblica ha avuto, con la proporzionale quasi pura e il bicameralismo, formule politiche di lunga durata ma governi brevi, mentre nella Seconda il centrosinistra e il centrodestra non hanno mai vinto due elezioni consecutive e le rispettive formule non hanno avuto cicli complessivamente più lunghi di otto o nove anni. Inoltre, nella Prima Repubblica abbiamo avuto un Presidente del Consiglio ininterrottamente in carica per circa otto anni (De Gasperi) sia pure con differenti maggioranze e combinazioni politiche, ma anche molti premier rimasti al governo per pochi mesi nell'ambito di "formule" longeve: tutto è dipeso dal sistema dei partiti. Nella Seconda Repubblica la concidenza fra leadership e premiership è stata forte e totale solo per il centrodestra (Berlusconi) ma molto più labile e discontinua per il centrosinistra. Se il partito che vincerà le prime elezioni della Terza Repubblica sarà forte e coeso, la nostra democrazia raggiungerà "l'obiettivo Westminster", ma non necessariamente questa condizione sarà duratura. Sia perchè, come ricordavamo, un ceto politico abituato alla trasmigrazione non ha motivo nè ostacoli tali da essere portato a mutare avviso, sia perchè non è escluso che dissidi interni al partito vincitore delle elezioni non scompaginino gli assetti. Non è improbabile, infine, come si accennava in un precedente capitolo, che in una legislatura il partito di governo si trovi a constatare di non essere in grado di competere con successo per riconquistare il "premio" alle elezioni seguenti e decida, perciò, di introdurre un sistema elettorale "alla tedesca", accentuando la natura parlamentare del quadro istituzionale. In tal caso, con la proporzionale, avremmo una Camera politica in meno rispetto ad oggi (il Senato) ma non necessariamente un sistema sull'Esecutivo e sul governo legislatura. più centrato monocolore di Terza Repubblica e ricambio delle leadership 27.2.2016 I soggetti politici maggiori della nascente Terza Repubblica hanno in comune una caratteristica: sono tutti “partiti del leader”. Si è giunti a questo punto per le vie più svariate. Il Pd, partendo dalla lunga tradizione “classica” della “Ditta”, ci è arrivato dopo una serie di avvenimenti: lo strano risultato elettorale del 2013; le primarie che hanno condotto Renzi alla guida del partito; il repentino “cambio della guardia” a Palazzo Chigi fra Letta e lo stesso ex sindaco di Firenze, che ha così unificato premiership e leadership. Il M5S è nato come “partito di Grillo”: il rapporto fra il vertice (il portavoce) e la base di simpatizzanti ed elettori è stato mediato attraverso la “Rete” di Internet e dei social network. Quello fra il “padre padrone” di Forza Italia Silvio Berlusconi e i sostenitori “azzurri” è invece stato caratterizzato da un abile uso delle tecniche di comunicazione di massa quali la televisione. Infine, il quarto “partito del leader”, la Lega, ha avuto sempre un legame quasi fisico fra il Capo (Bossi) e il territorio. A questo proposito, l’avvento di Salvini ha mutato in parte le forme comunicative (aggiungendo i social network e soprattutto la televisione) ma ha conservato la natura leaderistica del Carroccio. Oggi, dunque, il sistema politico italiano è nelle mani di poche persone, ma che indicazioni abbiamo circa il futuro? I partiti personali come Forza Italia sembrano quasi tutti destinati a seguire la sorte dei loro fondatori: nei momenti migliori giungono a percentuali anche molto elevate (quasi sempre inferiori, però, al 30% dei voti) mentre nelle fasi di crisi del leader resistono attestandosi su "nuclei duri" del 4-5%. E’ quanto accaduto alla Lega nel 2012-2013 che, fino a poco prima, era stata "di Bossi" e che – non a caso – si è poi risollevata proprio perché, pur essendo un “partito del Capo”, è stata in grado di darsene un altro (Salvini), a differenza da tutti gli altri. C’è infine chi (le liste di Segni, Dini, Di Pietro, Fini) ha invece conosciuto l’esclusione dal Parlamento e sostanzialmente l’estinzione. Le capacità espansive dei soggetti politici “personali” o “personalizzati” (cioè di quelli che sono nati così o lo sono diventati, come il Pd) risultano legate alla possibilità di andare oltre il semplice tradizionale del mantenimento partito e alla dell'elettorato necessità di strutturare l'offerta politica non su un "marchio" (che resta uguale) ma sul "gestore". A ben vedere, molti grandi partiti italiani sembrano diventati ristoranti dove si va fidandosi delle capacità dello chef. Non è detto che, finita la stagione del cuoco rinomato, ci siano successori all'altezza della situazione. Ma, finchè il problema resta confinato ad un soggetto, all’uscita di scena o alla sconfitta di una personalità che guida il partito (com’è avvenuto alla Lega nel 2012, al Pd nel 2009, all'Idv nel 2012, a Scelta Civica nel 2013, a Forza Italia dal 2011) il sistema ne risente solo parzialmente. Il guaio è che se la Terza Repubblica sarà strutturata - come e più della Seconda - sulla "democrazia del leader" (riprendendo il titolo di un recente saggio di Mauro Calise) rischieremo di trovarci ad avvertire la necessità di un governo e di partiti basati su personalità carismatiche, senza che i soggetti politici siano in grado di assicurare la crescita di nuovi “capi”. La difficoltà di "allevare" nuove generazioni e di aumentare gli spazi per le leadership potenzialmente alternative già presenti all'interno del partito può rivelarsi esiziale per il sistema. L'esito (voluto o meno dagli attuali protagonisti della scena politica) può essere quello della frase di Luigi XV: Après moi, le déluge. Ma un sistema dei partiti già fiaccato dall'astensionismo, dalla disillusione, dal venir meno di alcuni "motori" (la spinta berlusconiana, ad esempio, non è più sufficiente per tenere in quota il centrodestra e quella salviniana non lo è ancora) può, soprattutto in presenza di una nuova legge elettorale che premia un solo partito (in particolare il leader e i suoi fedelissimi che possono candidarsi nei listini bloccati) e di una riforma costituzionale che - almeno nelle intenzioni e nella prima applicazione - potrebbe e vorrebbe dare più poteri al Premier/Leader, “riconvertirsi” in caso di bisogno (ed eventualmente in fretta) in una democrazia parlamentare come quella della Prima Repubblica nella quale il potere era plurale e i partiti tutt'altro che personalistici o personalizzati? Allo stato attuale, le leadership non sembrano assicurare una continuità o una successione nel medio-lungo periodo: mentre Grillo si sta già discostando – sia pur lievemente, ma in modo sempre più deciso - dal suo Movimento, Renzi annuncia che resterà a Palazzo Chigi al massimo altri sette anni e Berlusconi sta per compiere ottanta anni. Siamo proprio sicuri che il diluvio non si avvicini e che i leader attuali stiano prendendo le contromisure necessarie per evitare che esso si abbatta su una democrazia fragile e in piena, lunga e sofferta transizione? Dove sono le seconde linee? È vero o no, ad esempio, che in Forza Italia oggi si vive una situazione non dissimile da quella dei primi anni Duemila nel centrosinistra quando Nanni Moretti poteva salire sul palco e dire agli astanti che con quei dirigenti non si sarebbe vinto nulla per parecchio tempo? Nello stesso partito più tradizionale per vocazione e struttura, il Pd, è ancora certo che dopo Renzi il posto al vertice del partito o di Palazzo Chigi sia pronto per Maria Elena Boschi, oppure il logorio recente di certe battaglie politiche e mediatiche ha reso meno scontata una “successione nella continuità” da attuare qualora il premier dovesse lasciare il campo? I singoli problemi che riguardano i rispettivi partiti sono affare dei loro elettori, certo. Ma, se a livello sistemico le crepe negli scenari futuri si moltiplicano, è l'intero sistema democratico ad avere un grosso problema da risolvere, perchè se durante la Seconda Repubblica è stato “in campo” almeno un competitore forte (Berlusconi per un ventennio, Prodi per due elezioni vinte dal centrosinistra), la Terza potrebbe finire per non averne alcuno. L’offerta elettorale non può limitarsi al leader, tralasciando il bagaglio politico-programmatico (e ideologico: ma di questo non si è più certi) obbligatorio per un partito destinato a durare. E’ pur vero che il presente e il futuro sono dei “partiti pigliatutto”, spinti dalla necessità ad assumere posizioni sfumate pur di “catturare” un elettorato più vasto del proprio campo tradizionale, ma è altrettanto vero che – così facendo – l’unico punto unificante e qualificante diventa il leader. Una personalità carismatica senza programma o un partito senza una base ideologica possono vincere le elezioni; un partito con leader deboli (mai cresciuti dai tempi nei quali erano fra le “seconde linee”) e con un programma senz’anima non può che durare l’espace d’un matin. Nel giro di cinque o dieci anni – o forse molto prima – il sistema politico nato per essere personalista e maggioritario può ritrovarsi all’improvviso – in una temperie socioeconomica non agevole - senza protagonisti in grado di recitare parti impegnative. Una “Repubblica dei leader” senza capi carismatici sarebbe come la Fortezza Bastiani del Deserto dei Tartari di Buzzati. L’ampliamento della “base democratica” 5.3.2016 A pochi mesi dalle elezioni amministrative e forse a un anno (o poco più) dalle politiche, è opportuno interrogarsi sulle cause e sulla natura di un astensionismo che sicuramente sarà vasto e forse addirittura maggioritario (almeno alle "comunali"). Va premesso che l'astensione non è da considerarsi automaticamente come un rifiuto della democrazia e degli istituti rappresentativi. Come si è spesso spiegato, l'area del non voto è estremamente composita: oltre a comprendere chi non va mai alle urne per impossibilità di vario genere o per indifferenza, c'è anche chi non ci va perchè non crede nella democrazia, ma anche chi vuole esprimere così la sua protesta e, infine, chi non trova nell'offerta politica e partitica ciò che più gli somiglia o gli aggrada. Un 40-50% di astensionismo (che può peraltro ridursi a un 3035% alle politiche) non equivale assolutamente alla "secessione" del corpo elettorale e allo strappo del tessuto democratico del Paese. Però qualche riflessione su come recuperare la partecipazione (fermo restando che una buona metà del "partito del non voto" non sarà mai riportata alle urne, proprio perchè la quota di astensionismo fisiologico e di protesta irreversibile è praticamente impossibile da riassorbire) bisognerebbe farla. Si tratta, in altre parole, di riscoprire e riadattare ciò che un tempo si definiva “allargamento della base democratica”, intendendo non solo lo specifico tema della partecipazione elettorale, ma – più in generale – considerando anche la necessità di una “recupero” del rapporto fra cittadini e istituzioni. Un rapporto che negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo era mediato dai partiti. Allora il problema non stava nella partecipazione ai processi elettorali, perché ancora nel 1976 votava il 93,4% degli aventi diritto: l'astensionismo era appunto circoscritto a casi personali molto limitati, marginali. L’"allargamento della base democratica", perciò, avveniva coinvolgendo i partiti e le masse nel processo decisionale e facendo entrare più soggetti politici nell'area di accettazione del sistema. Oggi, a questa necessità (l’integrazione parlamentare) si aggiunge quella di agire su un secondo versante (quello dell’aumento della partecipazione politica ed elettorale) che è appunto la “riconquista” delle "correnti più fluide" del multiforme ed eterogeneo partito di chi non vota. Nell’attuale fase di transizione verso una non meglio definita Terza Repubblica non si può allargare la base democratica tramite il sistema dei partiti, che non è quasi più – a differenza da quello di quaranta o cinquanta anni fa – in grado di mediare il rapporto con grandi masse popolari. Le differenze fra gli anni ’60-’70 e il panorama politico attuale sono enormi, però qualche spunto di riflessione può essere colto – a mo’ di provocazione culturale - riprendendo suggestioni di allora. Il pensiero di Aldo Moro, per esempio, potrebbe, se riscoperto, contribuire al dibattito sulle nuove sfide della democrazia italiana. In particolare, l’”eretica” rilettura che nel 1979 ne fece George intervista Mosse in sullo un'importante statista e discussa democristiano, recentemente ripubblicata da Rubbettino. In quella occasione lo storico afferma, fra l'altro, che secondo lo statista democristiano "la politica, in ultima istanza, è determinata dagli individui, la storia è fatta dagli individui e quelli che ne sono alienati devono essere integrati nel processo politico". Come spiega Mosse, "Moro voleva mantenere le strutture sociali e politiche esistenti, ma voleva anche renderle più sensibili, più flessibili e rispondenti ai mutamenti dei tempi, ai mutamenti delle esigenze e dei modi di pensare della gente". La mobilità economica e sociale è dunque "sempre nel quadro di una democrazia parlamentare, che sappia allargare le sue basi popolari tramite l'integrazione delle masse". Molti di questi elementi sono attuali e ancora presenti nel dibattito politico-culturale. Anche ai tempi di Moro si parlava di crisi di partiti: il Corriere della Sera, nel 1969, con articoli di Giovanni Russo e un dibattito pubblicato nel numero dell'11 marzo (con interventi di Norberto Bobbio, Vezio Crisafulli, Francesco Compagna, Leopoldo Elia, Aldo Garosci, Panfilo Gentile e Leo Valiani) apre al grande pubblico una finestra su un tema discusso, in realtà, già dai tempi delle osservazioni critiche di Don Sturzo e degli intellettuali del "Mondo" di Pannunzio, negli anni Cinquanta. Se dunque la partecipazione politica ed elettorale era ai tempi di Moro molto maggiore rispetto ai nostri giorni, restava tuttavia il problema di adattare il regime democratico al mutamento dei tempi, provando a coinvolgere il più ampio numero possibile di persone. Lo scopo dello statista democristiano era di condurre il Paese verso una “democrazia compiuta” come in altri paesi europei, quali ad esempio la Germania. L’ampliamento dell’area di accettazione del sistema avrebbe reso possibile un’evoluzione del quadro politico-istituzionale che invece la scomparsa di Moro ha bruscamente interrotta, bloccando il processo riformatore che avrebbe potuto evitare alla Prima Repubblica la fine ingloriosa del 1992. Allora c’erano ostacoli di vario tipo, nazionale e internazionale, che rendevano l’operazione più complessa. Oggi, invece, i fattori frenanti sono altri: i partiti, per esempio, vivono una delle fasi storiche di maggiore impopolarità, perchè non rappresentano più ampie masse e, anche quando ottengono buoni risultati elettorali, non sono confortati da un reale consenso. Gli indicatori di fiducia nei partiti sono a livelli infimi; solo la personalizzazione della politica permette ad alcuni leader di ottenere percentuali di consenso poco più che dignitose. Siamo, però, in una situazione nella quale domina una sorta di "fiducia a tempo parziale" e circoscritto nei confronti di soggetti politici e delle istituzioni: il contesto (soprattutto in ragione del fatto che il 40% o più degli italiani non si riconosce neppure in un partito al momento del voto) è verosimilmente più grave e pericoloso per la democrazia rispetto a quella degli anni Settanta. L'insidia dei nostri giorni non è quella violenta e drammatica del terrorismo politico, ma quella più "innocente" ma inesorabile della disaffezione, dell'uscita delle masse dalla condivisione della centralità dei valori, delle prassi e degli istituti democratici. Come dice Mosse, “il problema principale della nostra epoca è che in una società enorme, informe e piena di sperequazioni, come quella in cui viviamo, la gente sente l'esigenza di una qualche forma di aggregazione e questa esigenza è soddisfatta solo al di fuori del sistema parlamentare e anzi è stata soddisfatta finora addirittura in opposizione ad esso". E aggiunge: "credo che, per alcuni aspetti, Aldo Moro abbia avvertito questo problema (...) e compreso che ciò che si frapponeva tra la gente e la partecipazione politica non era solo la struttura fossilizzata dei partiti, ma anche quella sensazione che fu espressa da Jean-Jacques Rousseau, il quale diceva che si è liberi soltanto al momento del voto, ma tra un'elezione e l'altra non c'è alcuna libertà. Moro tentò di superare queste difficoltà coinvolgendo nel governo quanti più gruppi possibile". Ora alla struttura fossilizzata dei partiti si è sostituita, come in un'oscillazione completa del pendolo, una forma "liquida" o addirittura "gassosa" delle formazioni politiche. Gli stessi partiti che hanno ancora un qualche tipo di organizzazione hanno comunque strutture e seguito di attivisti (tesserati) infinitamente minore rispetto a quello dei soggetti politici degli anni Settanta. Sclerotizzati ieri, poco strutturati o "virtuali" oggi, i partiti non sembrano avere la forza e le capacità di assolvere al compito di ampliare l'area di partecipazione democratica e di consenso alle istituzioni repubblicane se non tramite messaggi leaderistici, i quali tuttavia restano legati alle alterne fortune dei capi carismatici. Così, resta aperto il problema: se il processo democratico che Moro voleva favorire non riuscì – in parte anche per i limiti di partiti allora ancora rappresentativi e "potenti" - e se oggi la via del coinvolgimento delle masse grazie al ricorso a convergenze politiche non è più praticabile (perchè inefficace: l'ampliamento della maggioranza parlamentare non corrisponde più ad un aumento del consenso popolare) non resta che cercare risposte altrove. Moro puntava dal vertice ad allargare "la base popolare del potere" attraverso il coinvolgimento dei partiti, ma faceva lo stesso dalla base consigliando la politica a non rovinare quel che il sociale va di per sé costruendo: tra realtà e potenzialità, spiegava, esiste quello spazio che deve essere occupato da una fattiva iniziativa politica. Tuttavia la democrazia dei leader, dei partiti "leggeri", della Rete non sembra assicurare quella mobilitazione generale e quell’attenzione al fermento sociale che sarebbe opportuna per permettere a milioni di persone di "sentirsi di nuovo a casa" nel sistema democratico rappresentativo. Così, da un lato, l’eventuale sperimentazione sul piano parlamentare di “equilibri più avanzati” appare oggi improduttiva – se non controproducente - ai fini dell’aumento del consenso popolare nei confronti delle istituzioni rappresentative. Dall’altro, invece, la mancanza di una base comune sulla quale costruire per coinvolgere non solo soggetti politici ma corpi sociali alla ricostruzione di un “idem sentire” repubblicano, rende difficile il dialogo fra i partiti e un elettorato sempre più distante (se non ormai assente). La via che Moro tentò di aprire negli anni Sessanta e Settanta è ormai chiusa, mentre quella della "politica 2.0" non ottiene ancora - in termini di partecipazione e coinvolgimento - i risultati sperati. La stessa transizione fra Seconda e Terza Repubblica è caratterizzata più da strappi e contrapposizioni che da comportamenti “inclusivi”. Così, senza che all’orizzonte sia ancora apparsa una terza via per uscire dall’impasse, le suggestioni antisistema si fanno sempre più forti e agguerrite. Le elezioni primarie 12.3.2016 È tempo di primarie. Negli USA, repubblicani e democratici stanno scegliendo i loro candidati alla Casa Bianca. In Italia, più modestamente, sono stati recentemente selezionati - in un modo tecnicamente diverso – coloro i quali rappresenteranno il centrosinistra alle “comunali” nelle maggiori città italiane. A Milano, Roma e Napoli l'ultima parola sugli aspiranti sindaci è stata detta dai partecipanti a consultazioni popolari aperte, cioè non riservate ai soli iscritti ai partiti della coalizione ma allargate alla platea dei simpatizzanti. Come sempre, torna il dibattito sull'utilità delle "primarie", sulla maggiore o minore affluenza, sulla qualità delle candidature, persino sull'opportunità politica di svolgerle (si veda il caso delle "regionali" in Liguria nel 2015). Uno degli ostacoli - a nostro avviso - nell'analisi di questa modalità di scelta delle candidature a cariche pubbliche elettive sta nell'attribuire allo strumento una connotazione positiva o negativa. Ci sono, certo, meccanismi che vanno messi a punto a seconda dei tipi di elezione ai quali si riferiscono. Anche il contesto politico-sociale è importante. Inoltre, quando c'è un eletto uscente che si ricandida, si può e forse si deve evitare (com'è successo a Torino per Fassino) di attivare il meccanismo delle "primarie". In sintesi, le primarie sono come i sistemi elettorali: uno strumento, non un fine. Non risolvono problemi se il contesto è difficile. Come scrive molto bene Luciano Fasano sull'ultimo numero del "Mulino" (1/2016) "le primarie funzionano secondo una logica garbage in/garbage out: se entra spazzatura non può che uscirne nuovamente quella". Sarebbe opportuno, quindi, concentrare l'analisi su questo fenomeno adottando un approccio più "laico", soffermandosi sugli effetti sistemici. Un giudizio sull'efficacia delle "primarie" non può che tenere conto, dunque, dello scopo che di volta in volta si vuole raggiungere. Come dicevamo, non è diverso il discorso per i sistemi elettorali: ad esempio, se si vuole assicurare la maggioranza dei seggi ad un partito, difficilmente si sceglie un meccanismo puramente proporzionale, ma si preferiscono quelli che attribuiscono premi impliciti o espliciti, sovrarappresentando soggetti politici a scapito di altri. Nel caso italiano, abbiamo avuto diverse finalità - talvolta concorrenti - delle "primarie": di selezione del candidato (evitando, così, scelte che il vertice del partito o della coalizione non intendeva compiere o che voleva rimettere all'orientamento della "base"), di mobilitazione dell'elettorato potenziale (aprendo la partecipazione ben oltre il recinto degli iscritti e sfruttando l'effetto mediatico che una competizione del genere assicura di solito), di "compensazione" fra una politica sempre più fatta di leader e la facoltà per il popolo di sceglierli. Se ne potrebbero citare altre, ma limitiamoci a queste. Nel 2005, quando milioni di persone andarono a votare per le primarie dell'Unione, il vincitore atteso (e plebiscitato) era Romano Prodi. In quel caso, lo scopo non era di fare una scelta, ma di rafforzare col voto popolare una leadership che aveva bisogno di dimostrarsi quasi più forte dei singoli partiti e di trainarli verso il successo alle seguenti elezioni politiche. Quel momento di grande partecipazione è stato sicuramente un fattore decisivo - per l'impatto mediatico e i risvolti politici che ha comportato a breve termine – nella vittoria del centrosinistra alle "politiche" del 2006 (nonostante il "sabotaggio" senatoriale attuato con scientifica precisione dal "Porcellum"). In quel voto c'è stata una forte componente comunitaria e identitaria, una sorta di uscita allo scoperto di un "popolo" che aveva subìto negli anni precedenti una lunga traversata nel "deserto" dell'era berlusconiana. Ma c'era anche, simbolicamente, il risarcimento all'uomo (Prodi, appunto) inopinatamente estromesso da Palazzo Chigi nel 1998 proprio ad opera di una parte (più o meno trasversale, dopo Gargonza, anche se a compiere lo strappo decisivo era stata Rifondazione comunista) dell'apparato di vertice della sua coalizione. Quelle del 2005 (il discorso vale anche per quelle del 2007 che hanno “incoronato” Veltroni leader del Pd) dunque, non sono state primarie selettive, mentre altre – come nel 2009 fra Franceschini e Bersani, nel 2012 fra Bersani e Renzi e nel 2013 fra Renzi, Cuperlo e Civati - hanno avuto un compito per così dire "intermedio": in tutti i casi c'era un favorito dai pronostici ma la gara è stata autentica e combattuta. Ancora diverso, inoltre, il discorso relativo ad altre primarie, dove il risultato non era scontato, ma soprattutto nelle quali i promotori non avevano alcuna intenzione di compiere una scelta delicata e forse rischiosa che preferivano far passare per le mani del "popolo di centrosinistra". In queste circostanze, le primarie hanno assolto al loro compito: quello di fornire un nome. Il fatto che talvolta siano state annullate perché qualcosa di poco chiaro era accaduto non deve meravigliare (e non è colpa del metodo elettivo) se si torna al principio semplice enunciato da Fasano: quel che entra, esce. Nel dibattito sulle "primarie", perciò, dovremmo preliminarmente discutere non tanto circa la "confezione" (gli aspetti tecnici, pur importanti) ma sul contenuto (gli scopi politici, i candidati, la volontà dei vertici di legittimare scelte già prese o di demandarle ai simpatizzanti, il contesto generale). Se osserviamo le recenti competizioni a Milano, Roma e Napoli, troviamo diversità di contesto (una città dove il centrosinistra governa; una dove governava prima del commissariamento; una, infine, nella quale alle scorse comunali il Pd non è neanche arrivato al ballottaggio e dove le precedenti primarie per le comunali sono state annullate per irregolarità) e di candidature (competitive, s'intende: di partiti diversi a Milano, dello stesso partito; maggioranza contro minoranza, semplificando, a Roma; dello stesso partito ma in una contrapposizione fra un politico di lungo corso presentatosi quasi "contro" il Pd e una candidata più giovane dello stesso partito, a Napoli). In queste consultazioni, le primarie dovevano servire fra l'altro a: 1) scegliere il candidato; 2) attirare la maggiore attenzione mediatica possibile sulla competizione, nella speranza di "dare una spinta" al vincitore in una campagna elettorale comunale non facile (soprattutto a Roma e a Napoli) e neppure scontata; 3) spostare dal vertice del partito (a Milano: della coalizione) alla base l'onore e l'onere della candidatura da presentare. Che alcune siano state più combattute e competitive di altre (di più quelle di Napoli e Milano, meno quella di Roma) dipende da molti fattori non inerenti al meccanismo di selezione. Ci sono cose, inoltre, che alle "primarie" non si possono chiedere: per esempio l'affluenza, che varia a seconda dell'interesse per la competizione, del clima socio- politico che si crea (compresi scandali o pregresse esperienze amministrative non soddisfacenti), del profilo dei candidati, del tipo di elezione che seguirà (nazionale, locale o di partito: un conto è scegliere il segretario del Pd, un altro conto il candidato sindaco e un altro ancora l'aspirante Premier). Le "primarie" per Prodi nel 2005 a Roma, ad esempio, hanno portato ai seggi molte più persone che per Giachetti nel 2016, ma si tratta di consultazioni differenti (e si potrebbe aggiungere: di momenti storici diversi, di partiti - Pd compreso - cambiati, eccetera). Quando parliamo di questo genere di consultazione popolare, dunque, e vogliamo dare giudizi di valore, dovremmo concentrarci sull'offerta politica e non sulla struttura della competizione, perché se è vero che i meccanismi tecnici e la platea degli aventi diritto possono cambiare qualcosa nel risultato, è però ancor più vero che sono sempre la politica e soprattutto la percezione (se non la convinzione) dell'opinione pubblica a fare la differenza e a decretare il successo, il conseguimento o meno dello scopo che ci si prefigge di raggiungere tramite il semplice strumento delle "primarie". La stessa possibilità consultazione e di del “inquinamento” risultato della dipende in grandissima parte dal contesto e ben poco dal meccanismo di voto: sono possibili brogli anche alle elezioni politiche e amministrative, ma non per questo si smette di andare alle urne per il rinnovo delle Camere o degli organismi rappresentativi locali. Una regolamentazione giuridica delle primarie comprendente sanzioni penali, semmai, potrebbe limitare episodi e “togliere qualche sovrastruttura” indesiderata a competizioni che si svolgono in climi particolari. In Italia, come scrive Fasano, “la natura di consultazioni aperte” delle primarie “ha contribuito ad accrescerne la partecipazione, favorendo la selezione di candidati rappresentativi di un mondo ben più ampio degli iscritti al Pd o ai partiti della coalizione di centrosinistra che se ne erano fatti promotori” anche se non sempre “ha scongiurato il rischio di scegliere candidati che alla prova dei fatti non fossero in grado di vincere”, ma “ha certamente impedito l’individuazione di candidati esclusivamente subordinati a logiche partitiche, il che non significa necessariamente riuscire ad escludere candidature poco attrattive (…)” nei confronti di alcuni settori dell’elettorato, anche se non è di questo di cui “possono farsi carico le primarie, riguardando l’orientamento politico di chi vota e non le caratteristiche del meccanismo adottato per la selezione delle candidature”. E’ corretto affermare, come fa Fasano, che si tende a sottovalutare primarie “la valenza costitutiva hanno assunto” per che le l’elettorato di centrosinistra, quale “elemento fondamentale per la vita democratica di partiti e coalizioni” e che il Pd “nasce considerate come partito “elemento delle primarie”, imprenscindibile della identificazione” degli elettori “e del proprio orientamento politico verso il partito e la coalizione”. Non è giusto sminuirne il ruolo di aggregazione e la funzione, che è quella di ovviare al calo della partecipazione politica “classica” (quella che passava per le sezioni e l’attivismo di milioni di persone) con strumenti nuovi, più aperti ai simpatizzanti e alla “società civile”, in un tempo nel quale i partiti sembrano avere vertici e leader forti ma basi fragili, sbriciolate. Tuttavia, ci sembra opportuno rimarcare, come sempre, che sono le persone - non i mezzi tecnici o le leggi - che fanno i partiti, le istituzioni e, in questo caso, i leader forti e i candidati migliori. Le elezioni comunali e il “voto degli esclusi” 19.3.2016 Mentre i partiti definiscono, fra mille difficoltà, le candidature alle elezioni comunali, c'è già chi si prepara a dare al voto nei grandi centri urbani un valore politico nazionale. Ovviamente si tratta di comparazioni rischiose, fra consultazioni di diverso genere. In primo luogo, l'affluenza alle comunali è solitamente più bassa di circa il 15-20% rispetto a quella delle politiche. Se ci riferiamo ai soli dati aggregati relativi alle sette maggiori città dove si voterà fra un paio di mesi (Torino, Milano, Bologna, Trieste, Roma, Napoli, Cagliari) abbiamo un'affluenza oscillante fra il 54,1% delle europee e il 62% delle regionali (59,6% comunali) che sale però al 74,6% alle politiche (il periodo considerato va dal 2011 al 2015). La "platea" di riferimento, insomma, sarà stavolta meno ampia che nel 2013. Inoltre, ci sono appuntamenti nei quali i partiti e le coalizioni ottengono rendimenti diversi: più il voto è politico, ad esempio, più il M5S ha possibilità di conseguire una percentuale elevata. Non si spiegherebbe diversamente il 24,3% avuto alle politiche 2013 dai Cinquestelle contro il 21,7% delle europee e il 16,4% delle regionali 2013-2015. Senza contare, inoltre, che a Roma si votò lo stesso giorno, nel 2013, per comunali e politiche, con questi risultati: M5S 12,8% comunali, 27,3% politiche. In quella occasione il centrodestra ottenne invece il 31,7% per le amministrative ma solo il 23,7% per la Camera. Anche il centrosinistra ebbe un maggior risultato alle comunali romane rispetto alle politiche. Inoltre, bisogna considerare che alle amministrative una percentuale media di voti variabile fra il 7,3% e il 7,7% degli aventi diritto è costituita da schede dove il votante non ha optato per un partito ma ha scelto solo il candidato sindaco o "governatore". Quindi, i raffronti andranno fatti con molto giudizio. Ad ogni buon conto, però, queste comunali possono dirci molto più di quanto crediamo: basta cercare altrove i segnali più significativi. Per ottenere qualche indicazione potremmo prendere in considerazione due fattori: la "filosofia di fondo" del sistema di voto e il comportamento degli elettori. Per quanto riguarda il primo, è ben noto che fra il meccanismo per l'elezione dei sindaci e l'Italicum per la Camera esistono alcune affinità: il doppio turno se nessuno supera una certa percentuale (il 50% nei comuni, il 40% per Montecitorio) e il ballottaggio "chiuso" (a due). Restano, ovviamente, molte differenze, fra le quali la possibilità di apparentamenti fra il primo e il secondo turno (possibili nei comuni ma non - o non ancora - per l'Italicum) e il premio di maggioranza che in un caso è riservato alla persona (comunali: contano i voti dei candidati sindaci, non quelli delle liste) e nell'altro al partito (Camera dei deputati). Questo "patrimonio comune" ai due sistemi (il premio e il ballottaggio chiuso) ci permette di fare un passo ulteriore: cercare di comprendere come si comportano gli elettori dei partiti e dei candidati esclusi dal ballottaggio. Si tratta, com'è evidente, di dati che anche in tal caso vanno presi con molta cautela, perchè conta anche la personalità dell’aspirante sindaco “bocciato” al primo turno. Quello più vicino ideologicamente - in teoria - ad uno dei promossi al ballottaggio potrebbe – per esempio essere un suo acerrimo avversario politico, quindi non necessariamente gli elettori rimasti "orfani" sarebbero disposti a tornare alle urne per sostenere il candidato "meno distante" (alcuni, piuttosto, potrebbero preferirgli lo sfidante). Fatte perciò le dovute distinzioni, resta però l'interesse che il comportamento di voto degli esclusi riveste in funzione di una possibile futura scelta analoga che potrebbe presentarsi loro in occasione del ballottaggio con l'Italicum. Poichè, secondo tutte le rilevazioni e i sondaggi, nella battaglia per la conquista del premio di maggioranza alla Camera i competitori in lizza sarebbero il Pd e il M5S, resta da vedere come si comporterebbe l'elettorato di centrodestra (sia nel caso che l’area di Berlusconi e Salvini tornasse unita e competitiva con gli altri due soggetti politici, sia nell’ipotesi di “corsa separata”). Sarà dunque importante confrontare i dati delle ultime elezioni politiche, europee e regionali con quelli delle comunali per capire se il centrodestra ottiene più voti andando diviso o unito e se - arrivato eventualmente al ballottaggio è in grado di attrarre voti e da quale direzione. A Bologna sarà interessante assistere alla lotta fra M5S e Lega. Altrove, invece (per esempio in qualche città non capoluogo di regione) potrebbero trovarsi a lottare per il secondo posto i Cinquestelle e il centrodestra: chi avrebbe la meglio (con nuovi o confermati rapporti di forza)? In situazioni del genere, come si comporterebbe l'elettorato escluso? I votanti di centrodestra appoggerebbero darebbero un il M5S, (poco si asterrebbero probabile) sostegno o al candidato di centrosinistra? Inoltre: in realtà come Torino, invece, la sinistra radicale accorrerebbe in massa per sostenere Fassino (nello specifico, ma si potrebbe fare anche il caso di Roma) in un possibile secondo turno? A Milano e Trieste, dove i favoriti appaiono i candidati di centrosinistra e centrodestra, a chi finirebbero i voti “grillini”? E nella Capitale, con la Raggi (M5S) favorita, come si comporterebbero gli elettori di un centrodestra che potremmo eufemisticamente definire "plurale"? C'è poi il caso di Napoli, dove ogni combinazione è possibile e dove i concorrenti competitivi sono almeno quattro (quindi due o più verranno "eliminati" al primo turno, lasciando elettorati più o meno cospicui a fare da arbitri). Insomma, mentre i ballottaggi con l'Italicum che i sondaggi presentati da Mentana il lunedì al Tgla7 sono "esercitazioni", nelle città italiane potrebbero andare in scena davvero tutte le combinazioni possibili: Pd contro M5S; Pd contro centrodestra; centrodestra contro M5S. Senza contare gli outsider e De Magistris a Napoli. Si tratta, nelle città come a livello nazionale, di sfide fra partiti o “cartelli elettorali” che possono portare al ballottaggio soggetti politici con un consenso complessivo (come sembra verosimile) di circa il 50-60% dei votanti del primo turno. La questione del “voto degli esclusi”, dunque, diventa cruciale. Inoltre, sarà importante leggere con attenzione i dati delle elezioni nei capoluoghi di regione tenendo presente che in questa classe di comuni (in particolare, nelle sette città al voto) la Lega è fortemente sottorappresentata (abbassando così il dato complessivo del centrodestra) mentre il Pd è sovrarappresentato. Andranno infine valutati i rapporti di forza fra Pd e sinistra radicale (di solito, Democratici e altri di area hanno fra il 70 e l'85% dei voti dell'intero centrosinistra allargato) e quelli fra Forza Italia e Lega (nei sette comuni considerati il Carroccio ha ottenuto, nel periodo 2011-2015, fra il 2 e il 4% dei voti mentre gli azzurri hanno oscillato fra il 14 e il 21%). Una volta depurati i dati dalle tendenze locali e isolati i casi più significativi, anche questo turno amministrativo potrà insomma darci qualche indicazione tendenziale. Il che, lo ripetiamo, non sarà un pronostico sulle "politiche" ma aiuterà partiti e analisti ad orientarsi circa l'andamento dell'offerta elettorale e del comportamento dei (pochi, si suppone) votanti. Quaderno di @Mentepolitica14 Edito nel mese di marzo 2016