ffl Case Study di Contesto: Africa DISPUTA TRA IL PROPRIETARIO

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Case Study di Contesto: Africa
DISPUTA TRA IL PROPRIETARIO DI CASA E L’INQUILINO NEL
KIBERA
Scritto da Peter Weke, Caritas Kenya
Kibera è uno dei più grandi bassifondi del mondo. È la casa di più di 700,000 persone colpite dalla povertà,
gran parte della quale non ha lavoro. È situata nei sobborghi della città di Nairobi, non troppo lontano dalle
baracche dell’esercito di Langata. Con gli anni, questo posto è stato principalmente abitato da due tribù, i
Nubians e i Luos. Entrambe le tribù sono d’origine di Nilotic nel Sudan ed hanno vissuto nel Kenya
pacificamente, fino a poco tempo fa. Una notte è scoppiata una lotta molto aspra che ha lasciato parecchie
case bruciate e colpito molte persone. Parecchie persone furono uccise.
ORIGINE
Molti proprietari di casa in Kibera sono della comunità di Nubian mentre la maggioranza degli inquilini sono
Luo. La storia dice che i Nubian furono insediati qui dal governo coloniale dopo la prima guerra mondiale.
Questo perché non potevano tornare in Sudan, il loro paese di origine. Il governo coloniale assegnò le terre,
compresa quella del Kibera ai Nubians. Più tardi, i Luo arrivarono a Nairobi dalle loro terre di origine nella
campagna in cerca di lavoro e vissero come affittuari a Kibera. La maggior parte di loro trovò lavoro
nell’area industriale e nelle ferrovie come “occasionali” ed avevano una paga veramente misera. Non
riuscivano ad ottenere delle case decenti e l’unica alternativa era quella di trovare rifugio nelle baracche. Le
persone che lavoravano ma che poi avevano smesso di farlo, erano conosciuti come “ retrenches”. Molti di
loro vivevano nelle baracche di Nairobi e vivevano di lavori saltuari e come venditori ambulanti; spesso non
riuscivano a finire la contrattazione.
In questo periodo I Nubians costruirono le baracche da affittare nei bassifondi. Questo è il motivo per cui
queste comunità iniziarono a vivere insieme in stretta relazione: I Nubians fornivano le baracche da affittare
e i Luo vivevano come inquilini. Negli anni i proprietari delle case, i Nubians, ricavavano molto da questa
relazione. Alcuni chiedevano cifre esorbitanti che erano fuori dalla portata dei “retrenches”. Tuttavia,
entrambe le parti erano importanti in questa relazione perché entrambe ne beneficiavano. Questa coesistenza
pacifica durò per molti anni fino ad ora, quando il presidente ha ordinato la riduzione degli affitti e ha
intimato agli affittuari di non pagare finchè il suo ordine non fosse eseguito dai proprietari.
La situazione economica in Kenya è disastrosa al momento e molte persone vivono al limite della
sopravvivenza. Per questa ragione, il Presidente del kenya chiese ai proprietari delle case di ridurre gli affitti
alle persone povere che vivevano nelle baracche, così facendo però fece nascere il conflitto in Kibera.
Dichiarò che nessuno avrebbe dovuto pagare l’affitto da quando la terra apparteneva al governo e quindi
nessuno poteva rivendicarne la proprietà. La direttiva del Capo di Stato portò ad una situazione di confusione
perché gli affittuari si rifiutarono di pagare, mentre i proprietari collaborarono con il Capo dell’area che
insisteva nel riscuotere gli affitti. Questa situazione portò a scontri sanguinosi tra le due parti, e la polizia fu
chiamata per restaurare l’ordine.
In ogni caso la situazione non durò a lungo. Alcuni politici locali usavano a loro vantaggio la situazione per
pubblicare accese dichiarazioni in vista delle elezioni dell’anno successivo. Alcune persone d’affari
pensarono che fosse una buona opportunità impadronirsi dei terreni poiché gli abitanti furono costretti a
fuggire per salvarsi. Anche l’amministrazione locale-provinciale contribuì al conflitto, non riuscendo a
riconciliare le parti in lotta.
LA SITUAZIONE ATTUALE
Fino ad adesso, decine di persone sono spaventate a morte e registrano ferite profonde. Almeno una decina di
case sono state bruciate e alcune proprietà abbandonate sono state distrutte. Quindi l’amministrazione
provinciale ha dichiarato pericolosa la zona delle baracche. Il Commissario provinciale nella sua ultima
dichiarazione, dopo aver fatto un sopralluogo con un elicottero, disse che un’indagine nelle baracche era già
stata avviata e che il governo aveva avviato un processo di istituzione del perimetro delle terre che erano
state assegnate alla comunità dei Nubian al tempo coloniale. Una volta stabiliti i confini, l’Amministrazione
Provinciale e i leader delle comunità decideranno se vi sarà un comando congiunto o a titolo individuale. I
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leader delle comunità sono rappresentativi di ognuna di esse- consiglieri di area e capi. Sono in contatto con
le persone che vivono in Kibera e capiscono i loro problemi.
TENTATIVI DI RISOLUZIONE DEL CONFLITTO
Come fu riportato sulla carta, il membro del parlamento dell’area (MP) ha visitato i bassifondi per aiutare la
riconciliazione tra i gruppi in guerra. Ma siccome è un Luo, è visto come sostenitore della sua tribù. Pesanti
combattimenti tra i Nubian e i Luo hanno seguito la sua visita. L’accusa dei Nubian è che il MP, che è anche
ministro del gabinetto, ha lavorato su un piano per sfrattare i Nubian affinché il terreno fosse occupato solo
dai Luo. Per di più, i Nubian sostengono tenacemente che fu il governo coloniale a ristabilirli lì dopo la fine
della seconda guerra mondiale, e quindi non se ne andranno.
Non ci fu nessun intervento significativo da parte delle ONG. L’amministrazione provinciale e il MP locale
hanno tentato di mediare tra le due parti e adesso la situazione si sta calmando. Alcune organizzazioni hanno
fornito cibo ed hanno sopperito ad altri bisogni fondamentali. Tra queste troviamo la Caritas Nairobi, la
gente per la pace in Africa, alla società della Croce Rossa del Kenya. Il governo ha anche tentato di
riconciliare la gente attraverso l’amministrazione provinciale. All’inizio, questa idea fu rifiutata dalla gente
perché si credeva che il governo avesse istigato la violenza. Gran parte della gente che campeggiava nel
recinto del District Officer, è ritornata alle loro case. Le squadre di polizia antirivolta che furono dispiegate,
furono ritirate.
I proprietari delle casa e gli affittuari ora stanno negoziando per la giustizia e molti credono che prevarrà la
convivenza pacifica.
Case Study di Contesto: Africa
LA RIBELLIONE AL NORD DI MALI
Scritto da Theodore Togo, Caritas Mali
Sebbene il conflitto cominciò negli anni sessanta, la fase attuale del conflitto nel nord del Mali è iniziata con
la ribellione dei Tuareg dal 1990 al 1995. Il problema complesso della ribellione dei Tuareg ha influito
fortemente sull’unità e l’integrità di tutta la nazione del Mali. Il conflitto ha scatenato questioni di sicurezza e
di sviluppo, ed è stato visto come una guerra tra la comunità bianca e quella nera.
SITUAZIONE GEOGRAFICA E LA POPOLAZIONE DEL NORD
La popolazione del Mali è di circa 10,000,000 persone di differenti gruppi etnici. Ci sono otto regioni
amministrative: Kayes, Bamako, Sikasso, Ségou, Mopti, Gao, Kidal, e Tombouctou. Una grande parte dei
1,242,021 km2 del paese sono nel deserto Saheliano.
Le regioni amministrative di Gao, Kidal, e Tombouctou appartengono al Nord. Queste regioni sono le aree
sfavorite del paese. La popolazione è composta da nomadi (Arabi, Tuareg, Peulh) ed agricoltori (Songhoy,
Arma, i pescatori di Sorka, Somono, Bozo e Bambara).
Il terreno e l’interdipendenza tra la gestione dell’agricoltura e degli animali rende obbligatorio il contatto tra
i differenti gruppi etnici dell’area. Hanno relazioni matrimoniali e culturali che avvicinano gli agricoltori agli
allevatori d’animali. In questo caso, il concetto di un gruppo di minoranza può indicare gruppi etnici bianchi
e neri così come agricoltori e nomadi.
LA PRIMA RIBELLIONE DURANTE LA PRIMA REPUBBLICA (1960-1968)
All’inizio, le popolazioni nel Nord vivevano una vita molto cooperativa. Le loro principali occupazioni erano
l’agricoltura e l’artigianato, ed avevano buone relazioni di commercio con il Niger, un paese vicino. Nel
1963, avvenne una rivolta Tuareg a Kidal. Questa rivolta fu mal interpretata come una ribellione. La zona fu
messa sotto amministrazione militare dopo un intervento brutale dell’esercito. Questo creò sospetto tra le
comunità bianche e le autorità pubbliche.
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Dopo la rivolta del 1963, susseguirono terribili anni di siccità nel Mali dal 1974 al 1984. Questa siccità fu
drastica nel Nord, molti persero il bestiame e soffrirono la fame. Tutte le comunità del nord furono colpite,
ma i nomadi, e gli allevatori d’animali soffrirono particolarmente. Questo causò la fuga di molte famiglie
nomadi in paesi che offrivano condizioni migliori, come la Libia, l’Algeria e anche il Libano.
LA RIBELLIONE DEL 1990
Il 28-29 Giugno 1990 circa 60 ribelli armati attaccarono la zona di Tiderméne durante la notte. Uccisero
l’ufficiale del governo locale, sua moglie, un prigioniero, ed una guardia. Il giorno successivo raggiunsero
Menaka dove uccisero altre 14 persone, tra i quali 4 soldati. Attacchi del genere avvennero in tutta la zona.
VARI MOVIMENTI RIBELLI
I ribelli sono essenzialmente composti da gruppi di nomadi e di giovani esiliati in Libia durante gli anni della
siccità. Furono strappati dalle loro famiglie e dal loro ambiente sociale e non ebbero alcuna formazione o
qualifica professionale. Furono educati come soldati e usati come mercenari per differenti scopi in altri paesi,
come il Chad, il Libano, la Palestina ed altrove.
Esiste una serie di differenti movimenti di ribelli:
1. Movimento popolare dell’Azawad, MPA
2. Fronte Arabo-Islamico dell’Azawad, FIAA
3. Esercito rivoluzionario di liberazione dell’Azawad, ERLA
4. Fronte popolare di liberazione dell’Azawad, FPLA
5. Fronte nazionale di liberazione dell’Azawad, FNLA
6. Base autonoma di Timitrine
7. Base autonoma del fronte unito di liberazione dell’Azawad, FULA
8. Movimento patriottico Ganda Koye, MPGK
Ganda Koye significa “proprietario del terreno” in Sonrhai, una delle lingue parlate nel Mali. I ribelli
annunciarono che le forze armate del Mali e il MPGK stavano progettando di eliminare la popolazione dei
bianchi in Mali, dopo la morte dell’assistente capo del personale del FIAA e la distruzione dei suoi mezzi da
parte di una pattuglia dell’esercito.
Durante la ribellione, le antiche divisioni tra le tribù crearono spaccature tra i vari movimenti, invece di unirli
contro le autorità nazionali. Queste divisioni non favoriscono una buona relazione tra lo stato e i differenti
movimenti.
GLI OBIETTIVI DELLA RIBELLIONE DEL 1990
Gli obiettivi conosciuti dei ribelli erano quelli di vendicarsi per l’intervento armato del 1963 e di ottenere un
maggior coinvolgimento dei nomadi nella gestione del paese e delle loro terre. L’obiettivo specifico della
rivolta era quello di guidare l’attenzione del governo sulle sue politiche discriminatorie nel nord. Questa
discriminazione aveva la forma di: totale assenza dell’amministrazione, percezione di un totale abbandono
da parte del governo della parte Nord; mancanza di agenti di sicurezza, scuole e strutture sanitarie; una
mancanza forte di acqua e di una infrastruttura per le comunicazioni.
Gli attacchi divennero generici e assai diffusi. Diventarono un serio problema per il paese, per gli attacchi
locali agli uffici della sicurezza e ai palazzi dell’amministrazione, causando gravi perdite di vite e risorse. I
ribelli, infatti, uccisero circa 60 abitanti del Mali e ne ferirono altre 30. Molte persone scomparvero. Inoltre,
la perdita del materiale portò al blocco o alla cancellazione di differenti progetti di sviluppo nella regione.
Come risultato, molte persone provenienti dalle diverse comunità fuggirono dalla parte nord e si diressero
verso le aree centrali del paese o in quelli confinanti. L’amministrazione del governo abbandonò le terre
perché i suoi impiegati erano i primi ad essere colpiti. I progetti di sanità e sviluppo sociale non poterono
avanzare a causa della persistente mancanza di sicurezza.
Le autorità del governo: Per contrastare la ribellione, le autorità usarono le forze armate e di sicurezza. Il
loro intervento durò fino al dicembre 1990, quando il multipartismo era nell’aria, e si stava combattendo per
la democrazia.
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ACCORDI DI PACE
GLI ACCORDI DI TAMANRASSET (GENNAIO 1991)
Il 5-6 Gennaio 1991, i rappresentanti di governo incontrarono le delegazioni di entrambi i movimenti WA e
FIAA a Tamanrasset per iniziare le negoziazioni che portarono alla firma dell’accordo di pace.
L’accordo di Tamanrasset incluse: la pace e il rilascio dei prigionieri; una riduzione nelle dimensioni delle
forze ribelli; una riduzione della presenza delle truppe del governo nel Nord; il ritiro delle forze armate
dall’amministrazione locale; l’eliminazione di alcune posizioni militari strategiche; l’integrazione di forze
ribelli nelle forze armate sulla base di una negoziazione; l’accelerazione del processo di decentralizzazione;
la provvigione di credito per i programmi d’investimento nel nord.
IL PROBLEMA DEL NORD NEL PERIODO DI TRANSIZIONE (DA MARZO 1991 AD APRILE 1992)
Il comitato di transizione per la salute del popolo (CTSP) optò per una politica d’apertura, e diede due posti a
MPA e FIAA al CTSP. Malgrado lo sforzo da parte delle nuove autorità del paese, le forze ribelli
continuarono le loro azioni con 43 attacchi nel Nord dal 6 Giugno al 25 Settembre 1991. Più di 60 civili
morirono, 67 furono feriti e 13 scomparsi. Più di 4,000 animali e sette veicoli furono rubati. Nonostante tutto
ciò, le autorità furono d’accordo sul principio di negoziazione con i ribelli armati, con l’aiuto della
mediazione del governo Algerino.
IL PATTO NAZIONALE COME UNA SOLUZIONE
Il patto nazionale è il risultato di un lungo processo, nel corso del quale le autorità del Mali accettarono il
coinvolgimento di differenti attori della nazione per riuscire a realizzare un censimento nazionale effettivo.
Una conferenza nazionale (31 Luglio – 15 Agosto 1991) propose all’organizzazione di una conferenza
speciale nel Nord, di aumentare la partecipazione di quella specifica area. Nel Novembre 1991, si fece un
incontro tecnico preparatorio nel Segou. Quest’incontro coinvolse i partecipanti delle tre regioni del Nord e
parti politiche nazionali sotto la supervisione delle autorità di transizione.
La Conferenza di Mopti (16 – 18 Dicembre 1991) fu fatta sotto la supervisione del governo transitorio. La
conferenza coinvolse la parte civile, le parti politiche nazionali, ed anche differenti movimenti ribelli.
All’incontro ha anche partecipato un comitato di anziani.
L’incontro di Algeri (29-30 Dicembre 1991) tra i governi del Mali e della Nigeria definì il contesto e la
mediazione che l’Algeria avrebbe avviato. Il primo incontro di Algeri (22-24 Gennaio 1992) fu la prima
sessione di negoziazione sponsorizzato dal governo dell’Algeria. A questo incontro, le due parte si misero
d’accordo su: firmare un accordo di pace; il rilascio reciproco dei prigionieri; fondare una commissione
indipendente d’indagine; la necessità di continuare le negoziazioni.
Al secondo incontro di Algeri (15-19 Febbraio 1992), non si ottenne alcun risultato perchè non si
presentarono i principali leader della rivolta. In ogni caso, il terzo incontro di Algeri (15-25 Marzo 1992)
portò ad una soddisfacente elaborazione del Patto Nazionale. Le parti lo firmarono a Bamako l’11 aprile
1992. Lo scopo principale è ristabilire la pace, la riconciliazione nazionale e l’integrazione socio-economica
delle regioni del nord in tutti gli aspetti. Alcuni dei punti salienti del patto furono: l’integrazione dei
combattenti e il ritorno della popolazione costretta a fuggire; la riorganizzazione dell’amministrazione;
continuare le attività di sviluppo; prendere misure appropriate per contrastare qualsiasi attività che possa
compromettere la pace appena stipulata.
Nota che la parte essenziale di questa riconciliazione fu fatta dalla gente stessa ed aspettava solo di essere
consolidata e sostenuta dallo stato per dare vita a nuove dinamiche di pace.
LA SITUAZIONE ATTUALE (DA QUANDO FU FIRMATO L’ACCORDO DI PACE NEL MAGGIO
1995)
Il nord è diventato un’altra regione. La pace è ritornata, da Mopti a Tessalit a Anetis Kida e Gao. Non si può
facilmente credere che questa zona di Mali ha visto una ribellione così violenta solo pochi mesi fa. I sorrisi
mostrano che la guerra è finita. La gente si muove liberamente, e le donne vanno a prendere la legna da
ardere senza alcun problema. Le cose sono ritornate alla normalità: i pastori possono dare a mangiare al loro
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bestiame; la gente può muoversi con i cammelli senza aver paura; e gli agricoltori possono lavorare la loro
terra fino al tramonto. Gli autisti guidano da Gao a Tessalit da soli.
Malgrado i progressi, c’è ancora molto da fare. Per consolidare la pace, sono necessarie le seguenti cose:
l’implementazione di un vasto programma di sviluppo per il nord; la sviluppo di progetti rurali d’acqua; la
costruzione di centri sanitari e di scuole; lo sviluppo del sistema comunicativo; procurare il cibo a chi non ne
ha; cessare il commercio delle armi; il ritorno e la reintegrazione dei rifugiati e delle persone emigrate
internamente.
Un’altra cosa importante è che c’è bisogno di rafforzare la volontà della gente per mantenere la pace nella
zona nord del paese.
Case Study di Contesto: Africa
LE DONNE E IL CONFLITTO IN RWANDA
Scritto da Thérèse Nduwamungu, Caritas Ruanda
Secondo la tradizione, le donne sono state sempre viste come donatrici di vita e di altri valori umani in molte
società, e per questo sono sempre state protette dagli uomini anche in tempi di conflitto. Questo è
particolarmente importante nel Rwanda dove le donne erano chiamate nya-upinga, che significa “rifugio di
pace.” Dato che la società del Rwanda è patriarcale (significa che l’affiliazione etnica passa per gli uomini),
le donne sono considerate come se non appartenessero a nessun gruppo etnico, perché sono libere di sposare
chiunque e vivere in una famiglia appartenente a un qualsiasi gruppo etnico. Tradizionalmente, sono sempre
state trattate con rispetto e sono servite come collegamento tra le famiglie e gli amici. Anche se sembrano
riservate rispetto alla società, hanno giocato in maniera discreta un ruolo consultivo e riconciliatorio per le
persone nel conflitto, ed anche alla corte tradizionale della monarchia del Rwanda, la regina madre era il
consigliere del re e ha regnato insieme a suo figlio. Quando due famiglie nemiche smettevano di mettere in
evidenza le loro differenze, offrivano le ragazze come spose per arrivare ad una riconciliazione. Comunque
questa tradizione non ha evitato che alcuni uomini trattassero male le donne, fatto che si è poi acuito durante
la guerra e il genocidio del 1994.
LE DONNE DURANTE IL GENOCIDIO
Contrariamente al costume, in cui le donne erano considerate al centro della casa e anche capaci di fermare il
conflitto tra due uomini, le donne hanno sperimentato le peggiori atrocità e torture durante il genocidio.
Erano soggette alla violenza e all’umiliazione. Hanno assistito alla morte dei loro cari e dopo sono state
violentate dai loro esecutori. Furono costrette a sopportare ogni tipo di violenza sessuale fino ad essere anche
rapite da un figlio, da un fratello o dal padre prima di essere testimoni dell’esecuzione dei suoi stessi membri
familiari o essere uccise. Il Ministro Rwandese delle pari opportunità e della promozione delle donne stimò
che circa il 30% delle ragazze e delle giovani donne avevano subito violenza sessuale durante il genocidio. Il
Ministro Rwandese per la Salute ha dichiarato che ci sono stati tra i 300.000 e i 500.000 casi di rapimento
durante questo periodo. Ancora peggio, alcune donne hanno ucciso madri e bambini. Altre collaborarono nel
rapimento di donne e ragazze, e spesso subivano delle mutilazioni sessuali. Più di 5.000 donne sono in
carcere per aver partecipato al genocidio. E’ triste confermare che la maggior parte delle donne non hanno
avuto pietà delle persone del loro stesso sesso (vedere il rapporto UNICEF 1998: le donne e i bambini del
Rwanda).
La guerra e i massacri del genocidio generalmente colpiscono gli uomini e i bambini maschi, lasciando molte
vedove – spesso traumatizzate – come capi di famiglia. Molte di loro furono risparmiate dopo essere state
rapite e sono psicologicamente e mentalmente disturbate a causa di quello che hanno vissuto. Attualmente, il
34 % delle case sono portate avanti da donne ed è estimato che in 85.000 case dove i genitori non ci sono
più, sono i bambini ad esserne a capo. (Rapporto UNICEF)
Le donne furono costrette ad assumere delle responsabilità per le quali non erano preparate. Un numero in
aumento di donne si sta trovando in situazioni molto difficili: vedove con o senza famiglia sotto la loro
responsabilità; donne separate dai loro mariti (perché sono in prigione); e donne che sono sopravvissute alle
violenze e alle mutilazioni sessuali.
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I fatti del genocidio hanno influito psicologicamente su molte donne, in modo davvero crudele, attraverso i
rapimenti, la forma di violenza più usata durante il genocidio. I racconti di alcuni testimoni e in alcuni casi
delle stesse vittime, i casi riscontrati dai medici, sono sufficienti per confermare che il numero di donne che
hanno subito violenza sessuale è indubbiamente di centinaia di migliaia. Il desiderio di umiliazione era tanto
forte quanto quello di uccidere. Per la maggior parte delle donne che era direttamente minacciata di morte e
poi risparmiata, era il prezzo da pagare per essere state rapite. E chi è stato rapito si vergognava di questo, un
qualcosa che comunque aveva subito. In Rwanda, questa vergogna è aumentata dal fatto di sentirsi colpevoli
di essere sopravvissute. Questo è il motivo per cui l’essere rapiti era il crimine più comune e quindi minore.
In più i vicini erano spesso coloro che perpetravano il rapimento, aumentando la vergogna e contribuendo
alla difficoltà di una denuncia. L’umiliazione, il dolore fisico e psichico, unito alla perdita delle persone
amate davanti ai propri occhi, hanno messo le donne in una situazione estremamente drammatica.
LE DONNE IN PRIGIONE
Il cinque per cento delle persone tenute in prigione per il presunto genocidio, sono donne. La promiscuità
con i prigionieri maschi porta a gravidanze e favorisce la diffusione di malattie sessualmente trasmesse. Le
condizioni delle prigioni sono precarie per le donne giovani e incinte, ed anche per i bambini che vivono
nelle prigioni con le loro madri. Le donne sono generalmente separate dagli uomini, ma avere le prigioni
sovraffollate significa che qualche volta si ritrovano insieme agli uomini.
LE DONNE NEI CAMPI PER RIFUGIATI
Durante i conflitti armati, le donne sono spesso i bersagli preferiti di chi fa uso della violenza. Dovunque ci
sia una guerra e dovunque la gente fugga in cerca di una zona più pacifica, le donne soffrono maggiormente.
Sin dall’inizio della guerra, può accadere che si debba partire per destinazioni sconosciute. Le donne partono
sempre con i più piccoli, portando con sè utensili da cucina e il poco cibo che è rimasto. Spesso vivono in
condizioni igieniche terrificanti.
In Rwanda, alcune donne, lasciarono le loro case quando scoppiò la guerra nel 1990. Dopo il genocidio nel
1994, migliaia di persone cercarono rifugio nei paesi vicini. Quando arrivarono nei campi, le donne furono
violentate e subirono ogni tipo di crudeltà, specialmente quelle senza un padre, un fratello o un marito.
Dovettero vivere accanto a stranieri per beneficiare dall’assistenza (utensili da cucina, cibo, tende, ecc.).
Anche se resistettero, le loro tende furono il bersaglio di ripetuti attacchi di uomini in ricerca di cibo, o anche
peggio, di rapporti sessuali. Per di più, la promiscuità tra i rifugiati significava che molte giovani donne
fertili (dai 13 ai 35 anni) si ritrovarono incinte a causa di rapporti sessuali occasionali. L’incentivo a
rimanere incinte aumentò ogni giorno di più perché come donne single ricevevano una, seppur irrisoria
assistenza. Alcune donne furono coinvolte in atteggiamenti promiscui o furono rapite dagli operatori di
alcune organizzazioni umanitarie che gli promettevano un trattamento privilegiato.
Quando i campi di rifugiati del Rwanda, furono distrutti alla fine del 1996, le donne furono separate ed
alcune persero i loro cari (mariti, bambini, fratelli, parenti). Alcune si persero nella foresta mentre cercavano
legna da ardere o l’acqua. Parecchie furono rapite o violentate dai membri della comunità locale, in cambio
di lavoro, cibo o riparo.
In breve, durante il periodo di guerra, dalla parte degli aggressori e delle vittime, le donne soffrono molto di
più degli uomini a parità di condizioni. La situazione delle donne in Rwanda, non è l’unico caso al mondo.
Le donne in altri paesi dell’Africa dove ci sono guerre (es. il Sudan, la Repubblica Democratica del Congo, il
Burundi, la Sierra Leone, o l’Angola) subiscono le stesse violenze. Anche se non muoiono, le donne
continuano a soffrire psicologicamente per le atrocità subite perché gli effetti dei rapimenti e delle violenze
ci mettono molti anni a scomparire. Il rispetto dell’articolo 76 della Convenzione di Ginevra che dichiara “le
donne devono essere rispettate e protette da ogni azione traumatica come il rapimento, la tortura psicologica,
la prostituzione forzata e qualsiasi cosa possa minare la loro dignità” fu completamente ignorato da coloro
che continuavano a ricorrere alla violenza. E’ allarmante inoltre che le donne non rispettarono le persone del
loro stesso sesso e autorizzarono e parteciparono alle torture dei loro pari. Quelli che lottano per il rispetto
dei diritti umani devono fare del loro meglio per assicurare che i colpevoli siano puniti in maniera
appropriata.
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Case Study di Contesto: Asia
ALIGARH
Scritto da Fr. Gregory d’Souza, Caritas India
Aligarh è un villaggio con una popolazione con un po’più d’otto lakhs (800,000). Si trova nella diocesi di
Agra, a 100 Km a sud-est di Nuova Delhi, capitale dell’India. Aligarh è famosa per l’Università Musulmana
(AMU), considerata il nucleo degli studi islamici in India. Il numero degli studenti si aggira intorno alle
migliaia, la maggior parte dei quali è musulmana. L’Università è sotto l’amministrazione della comunità
minoritaria (Hindu) e questo è fonte di tensione per la comunità.
Aligarh è un villaggio tipico, situato su un barile di polvere da sparo. I gruppi in conflitto, gli Hindu e i
Musulmani sono potenti forze dominati che controllano due aspetti della società molto importanti. Gli hindu
dominano negli affari, e l’educazione è gestita dai Musulmani. In superficie sembra che ci sia pace e
tranquillità. Ma la verità è ben nascosta dagli sguardi sfuggenti, nelle parole non dette, e nelle risposte
incerte.
Un studente dell’ultimo anno del dipartimento di Sociologia (MSW) all’AMU lo descrive cosi: “Bisogna
capire che il campus conta 27,000 studenti. A parte questo, è considerato il centro dell’intelligenza
Musulmana. Entrambi sono grossi fattori che possono preoccupare l’amministrazione [che è Hindu].”
Un membro Hindu dello staff dell’AMU ha commentato così quando gli hanno chiesto un’opinione sulla
situazione ad Aligarh: “Lavoro per 15-18 ore al giorno e do tutto me stesso all’Università. Penso che gli
studenti mi hanno mostrato molto rispetto chiamandomi ‘Kurien Bhai (fratello)’. Non ho sentito di nessun
incidente come la rivolta dopo la demolizione del Bahri Masjid all’Ayodhya.”
La tensione è cominciata ad aumentare ad Aligarh sin dal 1990. Per capire le differenze tra le due comunità
dobbiamo capire come è strutturata l’economia di Aligarh. L’industria principale ad Aligarh, quella delle
serrature per cui è famosa, è controllata dagli Hindu ma gli impiegati sono musulmani. Questa differenza
economica potrebbe essere la causa di attriti o di differenze tra le due comunità. In maniera simile molti
terreni sono nelle mani dei Jats, che sono di nuovo Hindu. Un numero di musulmani che vorrebbero
comprare un terreno non lo possono fare; questo porta ad un altro confronto. In questa maniera la tensione
economica si confonde e si mischia con quella religiosa.
I germogli della tensione religiosa furono seminati al tempo dell’indipendenza. I Musulmani che dominano il
posto sono sempre visti come pro - Pakistan e anti - India (visto come terreno per gli Hindu). Un insegnante
di scuola elementare musulmano ed un abitante di Aligarh dice, “Non importa cosa succede, siamo sempre
visti come traditori. Vogliamo dire a tutti che siamo Indiani come tutti gli altri.”
Due incidenti collegati, hanno contribuito fortemente alle tensioni tra i due gruppi ad Aligarh. Il primo
incidente, lo scandalo del Collegio Medico, avvenne al Collegio Medico di Jawaharlal Nehru. Si vociferava
che i dottori Musulmani del Collegio Medico di Jawaharlal Nehru erano responsabili della morte dei pazienti
Hindu. Spinti da questo, una folla di Hindu scese in strada qualche giorno dopo e fermò il treno Gomti sulla
via per Nuova Delhi. Presero i musulmani del treno li massacrarono. Fu un evento simile a quelli accaduti
durante la spartizione dell’India e del Pakistan. Questo incidente è chiamato il Massacro del Gomti Express.
Gli osservatori dissero che il numero dei decessi e il numero delle persone appartenenti a tale comunità sono
entrambi sconosciuti.
Questi due incidenti nel 1990 sconvolsero il villaggio. Fu dichiarato immediatamente il coprifuoco. Un
studente ricordava quel periodo quando il governo vietò alle persone di riunirsi in gruppi più numerosi di
cinque unità. Pochi giorni dopo, quando la situazione non era ancora sotto controllo, il governo proibì a tutti
di muoversi da casa. Il coprifuoco fu imposto anche all’Università.
La gente aveva appena dimenticato le ferite del passato quando la tragedia colpì di nuovo nel Dicembre del
1991. Il Babri Masjid ad Ayodhya fu raso al suolo da un gruppo di Hindu kar sevaks (operatori) sotto l’egida
di Rasgtriya Swyam Seva (RSS). Uno studente Hindu all’AMU si lamentò del fatto che “la demolizione fu
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una cosa orribile. Ha colpito i sentimenti dei Musulmani ed eravamo sconvolti.” Questo stesso evento
rafforzò l’identità musulmana anche nelle città. Questo evento intensificò le tensioni religiose che esistevano
in tutta l’India, e colpì fortemente le libertà garantite dalla Costituzione Indiana.
La situazione all’AMU e al villaggio era torva e tesa. Era certo che la tensione sarebbe potuta esplodere in
qualsiasi momento. Sorprendentemente non fu così. Una persona Hindu dallo staff dell’AMU dichiarò “il
villaggio era in pace dopo la demolizione della moschea. Il campus non fu colpito.” Un altro membro della
facoltà aggiunse: “In maniera interessante non ci sono state esplosioni dopo la demolizione della moschea a
Ayodhya. Però ci fu una protesta silenziosa di 400-500 studenti che si erano riuniti. Mostrarono molta più
maturità rispetto alle persone nelle altre zone del paese.” L’amministratore Hindu giocò un ruolo chiave nel
mantenere un’atmosfera calma. L’amministrazione statale pensò che era meglio imporre un parziale
coprifuoco e calmare le persone. Tutto questo ha provocato sofferenze significative agli abitanti di Aligarh. Il
cibo iniziò a scarseggiare e le persone iniziarono a preoccuparsi per il futuro.
Commentando la situazione stabile del 1991, un professore all’AMU disse che la situazione economica ad
Aligarh ebbe molto a che fare con la sua stabilità. Propose “Entrambe le comunità, gli Hindu e i Musulmani
capirono che erano entrambe dipendenti l’una dall’altra. Gli affari non andavano avanti. Per condurre un
affare senza rischi e per minimizzare i danni bisognava solo andare avanti.” Un altro professore puntualizzò:
“Le tensioni non erano tra le persone. Erano più tra chi deteneva il potere e chi no. Era una faccenda a
proposito del perseguimento del potere e sulla politica.”
La situazione politica nazionale in India ha contribuito alle tensioni ad Aligarh dopo il 1990. Uno dei
ministri del governo nazionale cominciò un rath ratra (percorso con un carro) nel 1990, un congegno ben
sviluppato per suscitare i sentimenti degli Hindu. Uno studente all’AMU disse: “Se guardi ai modelli di
votazione prima delle elezioni del 1990 il BJP (Bharitya Janta Party) aveva solo 91 seggi. Ma
successivamente il numero salì a 141. Fu un semplice tentativo per giocarsi la carta religiosa.” Gli interessi
politici furono mescolati con la religione e vennero presentati alla massa analfabeta. La gente comune era
nelle mani dei politici e i ribelli ormai erano presenti in tutto il paese.
Aligarh ha sperimentato tumulti anche prima, perciò la situazione del 1991 non ebbe così tante ripercussioni,
anche perché in quel momento si faceva più cauta e più chiara. Questo non vuole dire che non ci fosse
ansietà tra la gente. Comunque quello che è veramente interessante è che i media hanno giocato un ruolo
critico nello sviluppare quest’ansietà ed hanno fatto la loro peggiore performance. La stampa è stata
strumentalizzata nella diffusione della violenza comune. Le immagini e le analisi dei giornali erano tutte
molto provocatorie e suggestive. Le notizie hanno aumentato il diffondersi delle tensioni.
Una domanda sorge spontanea: la Chiesa sta facendo qualche passo per promuovere la pace e la
riconciliazione tra le due comunità? La risposta è positiva. Cominciando nel 1990, il prete della parrocchia
ha organizzato incontri interspirituali ed ha invitato i leader di tutte le comunità a partecipare agli incontri.
La risposta fu ottima. In aggiunta a questi incontri regolari, si sono svolti incontri di preghiera per la pace. Il
nuovo prete della parrocchia ha continuato il lascito di quello vecchio, invitando persone che hanno avuto
differenti percorsi di vita. Condivisero le loro esperienze, parlarono e pregarono per la pace.
Quest’enorme risposta ha incoraggiato il direttore della scuola Cattolica ad intraprendere un’avventura. La
scuola ha organizzato degli eventi per le festività più importanti come il Deepawali (Hindu), il Natale e l’Idd
(Musulmano). I parenti furono invitati a vedere i programmi portati avanti dai bambini della scuola.
È interessante riassumere con una frase di un professore dell’AMU,“Quando c’è qualche cosa che disturba
da fuori, la situazione ad Aligarh diventa disturbata a sua volta. Quando la situazione è calma, Aligarh è un
villaggio pieno di pace.” Un altro aggiunge: “Alcune persone – che sono responsabili per le situazioni di cui
siamo stati testimoni – per acquisire potere, sono pronti a tutto, superando ogni limite.” Fino a quando
persone del genere rimarranno al potere, Aligarh continuerà a sedersi su una bomba a orologeria che
potrebbe esplodere da un momento all’altro.
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Case Study di Contesto: Medio Oriente Africa del Nord
L’AZIONE CORAGGIOSA DI UN EX LEADER
DELLA MILIZIA LIBANESE
Basato su una lettera di M. Assad Shaftari
La guerra civile in Libano fu segnata dalla violenza tra le fazioni rivali Druze, Cristiane e Musulmane. La
guerra su vasta scala è scoppiata nel 1975 ed è durata fino al 1990. Durante la guerra, i paesi vicini come la
Siria e Israele sono rimasti coinvolti nel combattimento. Furono mandate anche forze internazionali di
peacekeeping. Tutte le forze esterne hanno contribuito a cambiare le dinamiche della guerra. In totale, più di
150,000 persone sono morte nella guerra e 17,000 scomparvero o non furono trovati.
Dopo la fine della guerra, passò una legge che preveniva la persecuzione e concedeva l’amnistia ai membri
ordinari della milizia e ai politici più anziani che commisero atti di violenza durante la guerra. Altri sforzi per
costruire solide fondamenta per la pace nel paese comprendevano la Carta di Riconciliazione Nazionale del
1989, che dava uguale percentuale di presenza ai musulmani e ai cristiani all’interno del parlamento.
La guerra fu caratterizzata da innumerevoli atrocità, gran parte delle quali hanno ancora implicazioni sulla
stabilità regionale e sulla riconciliazione in Libano. Nel Settembre del 1982, il presidente eletto Maronita
Bashir Gemayel fu assassinato. Si presume che subito dopo, l’ala destra Cristiana, con l’avvallo degli
israeliani, massacrò tra i 500 e i 1000 Palestinesi che vivevano nei campi per rifugiati di Sabra e Shatilla.
Riconoscendo le durevoli implicazioni della guerra e delle atrocità, Assad Shaftari, ex capo del servizio di
sicurezza del Partito ultracristiano delle Falangi, ha scritto una lettera al quotidiano libanese, An Nahar. In
questa lettera chiede perdono per il suo ruolo nella guerra.
Scrisse la lettera dopo un programma televisivo, nel quale un altro membro del suo partito aveva raccontato
gli atti di violenza commessi.
Di seguito un estratto di ciò che ha scritto Shaftari :
Non voglio che il mio atteggiamento sia visto come una reazione, ma piuttosto come un’azione che
ne segue un’altra. Questo è qualcosa che volevo fare da tanto tempo, da più di dieci anni in verità.
Ma non ho avuto abbastanza coraggio perché avevo paura di essere trattato come un pazzo o un
ingenuo. Adesso vorrei chiedere scusa a tutte quelle persone che ho giustiziato o che furono mie
vittime, quelle che ne erano consapevoli e quelle che non lo erano, o quelle che conoscevo così come
quelle che non conoscevo. Non importa se questi atti furono commessi personalmente da me o per
mio conto.
Chiedo scusa per l’orrore della guerra e per quello che ho fatto durante la guerra civile Libanese nel
nome dei “Libano”, della “causa”, e della “Cristianità.” Chiedo scusa per essermi considerato come
l’unico rappresentante e difensore di queste idee. Chiedo scusa essermi considerato come un Dio,
capace di mettere da solo in ordine la propria casa– e quella degli altri – con qualunque mezzo
inclusa la violenza.
Chiedo scusa per – nel difendere quello che ho creduto essere la Cristianità in Libano – non aver
praticato la vera Cristianità, che è l’amore per gli altri, un amore che non conosce violenza. Chiedo
scusa per essere stato un fanatico. Chiedo scusa per aver creduto che, a nome della “causa”, io e i
miei compagni eravamo dalla parte del giusto.
Chiedo scusa per il clima di disgusto creato da quello che è e sarà detto nei libri scritti in Inglese,
Francese, e in Arabo, o da quello che è stato visto in televisione, non importa se i fatti comunicati
sono veri o falsi, conosciuti o sconosciuti, soggetti all’amnistia o no, o se è o non è troppo tardi per
avviare procedimenti legali.
Mi piacerebbe dire che ho perdonato da lungo tempo quelli che hanno fatto del male a me, alla mia
famiglia ed ai miei amici, direttamente o indirettamente, durante questa “sporca” guerra civile.
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Questo processo è l’unico modo per me di diventare un nuovo uomo, capace di far fronte al mondo
del dopo guerra. È una fase di costruzione, e di ricostruzione di quello che fu distrutto, e sopra tutto,
una fase di ricompensa per quello che fu fatto durante i lunghi anni di guerra.
Spero che il mio atteggiamento sia visto come responsabile piuttosto che come un segno di
debolezza. Non ha niente a che vedere con alcuna decisione della Corte Libanese per metà composta
da Libanesi, ai quali offro il mio rispetto.
L’immagine distorta che è stata lasciata da quindici anni di lotta cruenta è che tutti quelli che ne
hanno preso parte, qualunque fossero le loro alleanze, erano criminali di guerra. Chiedo scusa a tutte
quelle “anime nobili” di tutte le parti qualsiasi sia la loro appartenenza che hanno rischiato o hanno
rinunciato alla loro vita per una certa idea del paese, sia se avevano ragione oppure no. Inoltre,
potevamo sapere chi aveva ragione? Il comportamento di pochi svergognati ha diffuso orrore tra tutti
noi, facendoci diventare tutti criminali di guerra.
Spero che il mio appello sia visto come il solo vero ed efficace modo per uscire dalla crisi Libanese.
Le anime saranno purificate dall’odio, dal rancore, e dai dolori del passato, portandoci una
riconciliazione vera con noi stessi prima che con gli altri.
Infine, spero che il mio Santo Padre mi aiuterà a guarire le ferite della mia anima e delle anime degli
altri.
Assad Shaftari
Case Study di Progettazione: Africa
RICONCILIAZIONE IN SIERRA LEONE
Scritto da Fr. Brian Starken CSSp
Durante la guerra in Sierra Leona migliaia di persone furono costrette ad andarsene. Molte persone dal nord
e dall’est del paese si diressero nella vicina Guinea come rifugiati, ma la maggioranza diventò fuggiasca
all’interno del paese (IDPs: Internally Displaced People) e si riunì in zone sicure all’interno della Sierra
Leone.
Tra il 1995 e il 1996 la Caritas Sierra Leone ha sviluppato un programma di riconciliazione basato sulla
comunità. Il programma fu progettato come formazione dei formatori. Questi formatori, a turno,
formerebbero animatori della comunità per gestire i problemi di fine guerra all’interno delle comunità in
ricostruzione. Il programma nacque dall’idea che la firma dell’accordo di pace non avrebbe portato alla fine
di ogni conflitto. Non appena le persone sarebbero tornate alle loro case, sarebbero sorti nuovi conflitti su,
per esempio dove fossero finiti coloro che avevano commesso le atrocità della guerra. Di chi era figlio quel
ribelle? Chi ha distrutto la mia casa? Chi mi ha tagliato la mano? Chi ha ucciso mio fratello?
Parte della ricerca per il programma, ha portato la Caritas ad osservare i meccanismi tradizionali per la
riconciliazione che esisteva all’interno delle comunità, per vedere se questi meccanismi potevano essere
rafforzati e se potevano essere canali di riconciliazione nel dopo guerra in Sierra Leone.
MECCANISMI TRADIZIONALI PER LA RICONCILIAZIONE
Le istituzioni riconosciute e il modo di vivere della maggior parte della popolazione furono bersagliate
durante la guerra. Le istituzioni sociali e culturali che collegano la gente alla loro storia, alla loro identità e ai
loro valori, in parecchi casi sono state tutte distrutte.
Si credeva in maniera molto forte che non appena le persone fossero tornate da un “esilio” forzato, avrebbero
dedicato il loro tempo alla costruzione delle loro tradizionali istituzioni. A seconda della situazione del post
guerra queste istituzioni ricreerebbero strutture precedenti o assicurerebbero che i loro elementi essenziali
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rimangano intatti. Circostanze permettendo, sarebbero state celebrate cerimonie tradizionali. Queste
cerimonie, tradizionalmente hanno meccanismi incorporati per creare un clima di riconciliazione e, se
utilizzate in maniera consona, potrebbero allontanare la possibilità di un conflitto in periodo di dopoguerra a
livello di comunità.
La riconciliazione è un grosso obiettivo a livello comunitario. Per chi continua a usare la violenza contro la
comunità o verso ogni individuo che vi appartiene, ci sono quattro fasi coinvolte nel processo di
riconciliazione: 1. Riconoscere la colpa; 2. Chiedere perdono; 3. La concessione del perdono; 4. La
restituzione.
Queste quattro fasi sono parte integrante della riconciliazione nelle società tradizionali in Sierra Leone.
Quando qualcuno commette un crimine nella comunità, il colpevole deve fare una confessione pubblica di
colpa, e chiedere perdono per i suoi misfatti. La comunità dà una punizione, o alcuni mezzi di restituzione,
che una volta adempiuto, la persona può essere riaccettata in comunità (perdono). Tutto questo è seguito da
una purificazione rituale, generalmente compiuta da una persona o da una che è stata investita dell’autorità di
regolare la moralità all’interno della società.
Generalmente sono richiesti regali tradizionali come olio per cucinare, riso, un vestito bianco, una noce di
cola e un pollo. Il lavaggio rituale del colpevole è eseguito pubblicamente – eccetto in alcune comunità dove
il rito è considerato sacro e quindi non è possibile farlo in pubblico.
CERIMONIE FUNEBRI
Tradizionalmente, la riconciliazione può passare attraverso le cerimonie funebri, con tutti gli sbagli che
riguardano le persone decedute, sistemate prima di aver eseguito la cerimonia funebre. Durante la guerra
migliaia di famiglie della Sierra Leone non riuscivano a celebrare il funerale per i loro familiari, né in
maniera naturale, né direttamente a causa della guerra. Quando le comunità saranno risistemate, le prime
cerimonie da eseguire saranno quelle funebri.
Nel caso di morte violenta dei membri di famiglia (come nella guerra), la riconciliazione deve essere cercata
con gli antenati – che devono essere accontentati o soddisfatti. Possono anche essere eseguite le cerimonie
che riguardano la purificazione della terra.
Non esiste nessuna garanzia che le strutture tradizionali/culturali per la riconciliazione, per loro stesse,
saranno utili o adatte a ristabilire le relazioni sia durante il conflitto che nel periodo successivo. Comunque, a
livello di comunità, queste strutture possono e devono essere esaminate e, quando possibile, rafforzate per
sostenere i programmi di costruzione della pace. Questo è particolarmente vero quando le comunità
spenderanno tempo nel ridare vita alle istituzioni culturali danneggiate durante la guerra, e dove le cerimonie
tradizionali includono meccanismi per la riconciliazione.
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Case Study di Progettazione: Asia
LA CARITAS NEL TIMOR EST
Scritto da Julie Morgan, Caritas Australia
Il coinvolgimento di Caritas Australia nel Timor Est è stato lungo. Da quando la terribile violenza che ha
preceduto immediatamente e poi ha seguito la votazione per l’indipendenza nel settembre 1999, il
coinvolgimento della Caritas ha assunto forme nuove, compresa la formazione per la raccolta dei fatti, il
lavoro con le persone sopravvissute a violenze sessuali e il lavoro verso un tribunale criminale internazionale
per il Timor Est. Accanto alla ricostruzione delle case, alla distribuzione e alla sicurezza del cibo e ad altre
attività per lo sviluppo delle comunità, fu avviato un programma che si spera, incanali le ingiustizie e le
violazioni dei diritti umani avvenute durante quel periodo terribile.
Quando la milizia sostenuta dall’esercito Indonesiano distrusse e bombardò gli edifici, le case, le chiese e le
scuole, le loro intenzioni non erano solamente quelle di lasciare solo polvere e macerie per la popolazine del
Timor Est. La rabbia e l’odio che alimentò la distruzione di quasi tutti gli edifici di Dili, la capitale, e circa
l’8% di queste case nell’enclave di Decussi, erano diretti in particolar modo alle chiese e alle case religiose.
Perché? Era solo un bigotto motivo religioso o c’era qualcosa di più? Era risaputo che le chiese detenevano
la reale registrazione – un’accurata registrazione di compleanni, morti e matrimoni e anche la registrazione
delle violazioni dei diritti umani, gli omicidi e le persone scomparse accadute durante i venti anni di
occupazione. Distruggere le chiese rappresentava un’altra via per assicurarsi che la portata del genocidio nel
Timor Est non sarebbe mai stata conosciuta o pubblicata.
Nelle settimane successive alla votazione, quando l’enorme orrore di quello che è successo è venuto fuori, è
diventato chiaro per lo Staff internazionale della Caritas che nell’aiutare gli abitanti del Timor Est nel
ricostruire il loro paese esisteva un imperativo molto forte oltre quello di ricostruirne la struttura fisica. La
ricostruzione comportava anche il raccontare la verità, ascoltare le storie della gente, documentare un’altra
volte i fati riguardanti le violazioni dei diritti umani, e scoprire che cosa fosse successo ai padri, ai fratelli, ai
cugini, alle sorelle, nei loro ultimi giorni, spesi in un dolore inesprimibile. Ricostruire gli eventi di quei
giorni terribili significa fare i conti con il fatto che mentre i numeri dei morti e la quantità di tombe non si
potevano collegare a quelli del Rwanda o del Kosovo, il silenzio del mare probabilmente nasconde migliaia
di abitanti del Timor Est che furono riuniti in delle navi per essere portati fuori dal porto di Dili e, sembra,
essere ammazzati e buttati in mare. Come possono aspettare sulla terra ferma senza mai sapere cosa è
realmente successo ai loro cari?
Raccogliere i fatti, ascoltare le storie e provare di riconfigurare le molteplici esperienze frammentate di
quelle settimane e mesi terribili, è adesso una parte essenziale per rielaborare il passato mentre si costruisce
il futuro. Furono avviati programmi psico –sociali, fu ricostruita la Stazione della Radio Cattolica e
programmi di guarigione della memoria hanno fatto eco attorno alle colline di Dili.
Quando una nazione intera deve essere ricostruita, i sistemi di legge e di giustizia, ed anche il ruolo della
legge stessa, devono essere ricostruiti. La vastità della distruzione nel Timor Est, significava che la comunità
internazionale si doveva occupare degli aspetti pratici dell’assistenza umanitaria. Ancora una volta la Caritas
locale e quella Internazionale si resero conto che c’era bisogno di formare le ONG locali per raccogliere i
fatti legati alle violazioni dei diritti umani. Se la verità cura, lo fa anche quando è raccontata e ascoltata. I
fatti devono essere riuniti, collezionati e archiviati accuratamente senza scontri né pregiudizi. Molti fatti
evidenti marcirono letteralmente sotto il sole tropicale mentre le forze di Peacekeeping, i Coordinatori delle
Nazioni Unite, e la polizia civile, non sembravano capaci di indirizzare il problema. Il personale Caritas e gli
esperti che provenivano dalla polizia Australiana e portati in Timor Est erano strumentali nel discutere se
stabilire un’Unità per le persone scomparse. Le risorse umane e finanziare vennero incanalate in questo
lavoro.
E’ importante sottolineare che il personale Caritas non stava raccogliendo i fatti da utilizzare contro la
milizia o l’esercito Indonesiano, o investigando sui crimini, o cercando i dispersi. Stava assistendo altre
persone, provvedendo alla loro formazione nel miglior modo possibile, nella speranza che un giorno, queste
verità, opportunamente raccolte e considerate, avrebbero condotto alla giustizia – alla fine – per le vittime di
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questi crimini. E’ la nostra speranza e di quella degli abitanti del Timor Est che sia fatta giustizia. In ogni
caso, anche se la comunità internazionale non assicura mai che chi ha usato violenza sia portato in giudizio,
adesso che un debole sistema di giustizia è stato avviato, la formazione che le ONG locali hanno già ricevuto
le sta aiutando ad entrare in maniera più disinvolta e più efficace nell’importante dimensione della vita
all’interno della democrazia.
Il programma di formazione ha enormemente beneficiato del lavoro volontario della polizia e degli esperti
forensi Australiani e dagli avvocati e da coloro che si occupano di violenze sessuali. Il personale di Caritas
Australia ha facilitato questi collegamenti e ha supportato i volontari in vari modi. Le ONG locali hanno
partecipato alle sessioni della formazione riguardanti la raccolta dei fatti, il fornire aiuto in caso di violenza
sessuale (sia di base che avanzato), capacità di consigliare, far passare un progetto e la difesa, l’acquisizione
della capacità di parlare in pubblico, scrivere un progetto, capacità finanziarie, sviluppo della leadership,
legge, giustizia e morale. Appena le ONG identificarono i nuovi bisogni delle vittime dell’oppressione nella
lotta alla giustizia, furono incoraggiati ad avvicinare la Caritas per ulteriore aiuto e assistenza. I collegamenti
tra la difesa tradizionale e le attività di sviluppo stanno diventando sempre più forti e sta emergendo un
programma integrato che indirizza i bisogni di ogni persona e di tutta la comunità.
Il lavoro di Caritas Australia e di altri collaboratori Caritas nel Timor Est continuano, e ora le ONG locali e
internazionale cattoliche stanno esplorando nuovi modi di animare e curare una conversazione su un
tribunale internazionale per i crimini commessi. E’ importante assicurare che la voce dei cattolici su questo
argomento sia concorde, coesiva e ben informata sulla natura e sul contesto della verità, delle commissioni
per la riconciliazione e dei tribunali internazionali per i crimini commessi. Due anni dopo il voto e la
violenza che è esplosa, incontreremo ancora famiglie sconvolte, case ed edifici che attendono di essere
ricostruiti, la profondo e duratura cicatrice dei rapimenti, il dolore di persone che lottano per credere, e
migliaia di rifugiati che non vogliono e hanno paura di tornare nelle loro case. E molte persone che hanno
usato violenza non sono state ancora prese. Appena la comunità internazionale si è riunita in passato per
cercare di stabilire delle corti e per trovare non solo quelli che avevano commesso i crimini ma anche coloro
che hanno organizzato tutto questo, le ONG cattoliche stanno cercando forze simili per le persone del Timor
Est. Come ci ricorda costantemente il Vescovo Belo, ci sarà riconciliazione finché ci sarà giustizia.
Case Study di Progettazione: America del Nord
LA SPERANZA E’ QUALCHE COSA CHE SI FA
Scritto da Lisa Calderone-Stewart, Arcidiocesi di Milwaukee, WI, Stati
Uniti
DESCRIZIONE DEL PROGRAMMA
La speranza è qualche cosa che si fa è il nome di un workshop di quattro ore sulla risoluzione non violenta
del conflitto per i giovani della scuola superiore, e per gli adulti che lavorano con loro. È presentato da una
team di ragazzi formati. Copre cinque stile personali di gestione del conflitto, tre cause di conflitto, e
capacità di gestione come “parlare in maniera attenta”, “ascoltare attentamente”, e i passi da fare per
raggiungere “vittoria, vittoria” nei risultati del conflitto (situazioni nelle quali sono rispettati i bisogni di
ognuno, così che nessuno si senta perdente nel caso in cui qualcuno si senta vincente).
LO SCOPO E GLI OBIETTIVI DEL PROGRAMMA
Ci sono molti conflitti ovunque – i giovani ne hanno con i loro amici, con le loro famiglie, a scuola, con il
loro lavoro. Questo workshop suggerisce che se noi, i giovani, possiamo tutti imparare queste capacità, per
gestire il conflitto con successo come bambini e giovani, allora quando la nostra generazione sarà abbastanza
anziana per essere direttori di collegi, di compagnie e di paesi, ci saranno meno guerre. Se i giovani
potessero imparare queste capacità, ci sarebbero meno combattimenti nei giardini delle scuole, portando
meno combattimenti tra le bande, meno violenza e meno morte, e più pace negli Stati Uniti. Lo scopo della
Speranza è Qualcosa che si Fa: creare costruttori di pace.
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Gli obiettivi principali sono:
1) Introdurre il concetto di risoluzione del conflitto, e insegnare le capacità e i concetti ai giovani ed
agli adulti in un modo divertente ed interattivo, per rendere l’apprendimento più piacevole;
2) Concepire i giovani come risorse per la comunità, come presentatori abili di workshop che si
sforzano di fare la differenza nel mondo;
3) Interessare i giovani e gli adulti nel trovare i modi migliori per raggiungere la pace;
4) Sviluppare una comunità di apprendimento tra i giovani nel team, così che le loro stesse capacità
migliorino tutte le volte che presentano il workshop;
5) Introdurre i concetti dell’insegnamento cattolico sociale al team in preparazione al loro lavoro come
costruttori di pace.
QUELLI CHE PARTICIPANO AL PROGRAMMA
All’inizio il gruppo era composto da ragazzi provenienti da due scuole superiori cattoliche (Pius High School
a Milwaukee e St Joseph High School a Kenosha) che presentarono i laboratori. Poi un gruppo di ragazzi
provenienti dalla Casa della Pace di Milwaukee (una comunità locale di Frati Cappuccini) parteciparono alla
formazione per condurre i laboratori. Agli adulti fu chiesto di identificare e di invitare un gruppo di giovani
da formare per condurre questo tipo di attività. Dopo quasi un anno dall’inizio della formazione, fui
avvicinato dal genitore di un ragazzo della Casa della Pace, chiedendo se i loro ragazzi leader potevano
partecipare alla formazione per poi condurre i laboratori. Nella maggior parte dei casi, gli adulti invitarono i
ragazzi che loro ritenevano avere capacità di leadership per far parte del team del workshop.
Le persone a cui erano rivolti questi laboratori provenivano da scuole, parrocchie o da gruppi scout. Di solito
i gruppi parrocchiali contattavano l’arcidiocesi e chiedevano se era possibile che un gruppo andasse nella
loro parrocchia per presentare il laboratorio. Se la parrocchia aveva la sua scuola, venivano invitati anche gli
alunni. Il laboratorio fu presentato due volte ai gruppi scout; quelli che partecipavano al laboratorio erano
invitati dagli adulti responsabili di questi gruppi. In genere i laboratori venivano tenuti di sabato o di
domenica.
Nel giugno del 2001, il laboratorio fu video registrato, e fu pubblicato anche un manuale. Ora, che esiste il
manuale dei laboratori e un video, molti gruppi di giovani ne possono usufruire.
Il laboratorio fu pensato in maniera tale da essere flessibile, cioè utilizzabile sia in un contesto cattolico, sia
laico; per persone di religione Cristiana così come per persone atee o di altre appartenenze religiose. I
laboratorio comprende una preghiera di chiusura, ma se i partecipanti non sono cristiani, la preghiera può
essere modificata o omessa. Il manuale comprende anche sessioni di formazione per i giovani presentatori
sugli schemi chiave dell’insegnamento sociale cattolico, ma se il team non è cattolico o cristiano (e non
interessato ad imparare l’insegnamento cattolico), queste sessioni non sono necessarie per formare il team
nella presentazione del laboratorio.
PROMOZIONE DEL PROGRAMMA
Per due anni, l’Arcidiocesi di Milwaukee ha pubblicizzato il programma via e-mail e newsletters. Ci sono
state molte richieste di presentazione del laboratorio. Fu presentato 14 volte prima che uscisse il video. La
Casa della Pace inizierà a offrire presto il laboratorio; il programma pubblicitario non è stato ancora avviato.
Il manuale formativo e il video saranno presto pubblicizzati sul sito dell’arcidiocesi; sono stati inoltre scritti
molti articoli per stimolare l’interesse al laboratorio. Nel 2002 sono previsti molti laboratori su tutto il
territorio per spingere sempre più persone a comprare il materiale offerto.
IL PROCESSO DECISIONALE USATO NEL PROGETTARE, IMPLEMENTARE, E VALUTARE IL
PROGRAMMA.
Prima della registrazione del video, il workshop veniva perfezionato di presentazione in presentazione. Si
cercava di stimolare i giovani ad imparare da ogni presentazione, capire come perfezionarle, sviluppare e
sperimentare nuove idee e provare ad esporle ad un’audience. In questo modo la qualità del laboratorio
migliorò durante i due anni in cui fu presentato. Ora che esistono un manuale e un video, i giovani sono
ulteriormente incoraggiati ad essere creativi e a pensare a delle forme nuove di presentazione.
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Abbiamo utilizzato dei moduli di valutazione dopo ogni presentazione, chiedendo un feedback su ciò che era
andato bene e chiedendo dei suggerimenti. Il team ha cercato di imparare dagli errori, e di trovare nuovi
modo per rendere l’apprendimento sempre più adeguato ad un pubblico sia giovane che adulto.
Ci furono piccoli miglioramenti come anche grandi. Per esempio un giovane riscrisse completamente una
scena di apertura su suggerimento di altri giovani. I giovani inoltre trovarono modi più efficaci per spiegare
alcuni concetti o per recitare alcune situazioni. I dialoghi che uscivano fuori spontaneamente spesso li si
ritrovava scritti sul manuale. Quello che cercavamo, e ciò che abbiamo trovato in “La speranza è qualcosa
che si fa”come programma di peacebuilding.
I ragazzi che conducevano i laboratori, applicavano i concetti e utilizzavano le loro abilità con i loro familiari
e con gli amici, a scuola e a lavoro. Le utilizzavano anche nella loro stessa pratica di conduzione di un
laboratorio e per gli incontri dei giovani.
Gli adulti ed i giovani che parteciparono ai laboratori dichiararono che li trovavano divertenti (anche se
durava quattro ore!) e che imparavano tantissimo. Il più grosso impatto lo si puo’ avere quando vi
partecipano i giovani con i loro responsabili come ad esempio un prete o un capo scout. In questo modo gli
adulti possono continuare a guidare i giovani a continuare ad usare queste capacità e a mettere in pratica i
concetti in situazioni differenti.
Quello che cercavamo (e che poi abbiamo trovato) era apprendere in maniera divertente. Il laboratorio è
divertente. Le parodie sono divertenti, i personaggi ridicoli, e i partecipanti iniziano e ridere durante la
sessione. Ridere motiva e aumenta la partecipazione, che porta all’apprendimento. Quando i partecipanti si
sentono coinvolti e hanno la possibilità di mettere in pratica le loro nuove capacità, di fare connessioni tra i
contenuti e la loro vita, l’apprendimento va sempre più a fondo. Il laboratorio porta i partecipanti dalla
dimensione in cui “si litiga per un orsacchiotto di peluche” alla dimensione in cui “due paesi stanno
combattendo una guerra”. Imparano che in ogni caso c’è bisogno di acquisire capacità per essere costruttori
di pace. Al giorno d’oggi non c’è messaggio più essenziale. Quando i giovani partecipano a questo tipo
d’iniziative sentono che stanno facendo qualcosa di utile per la loro comunità; fanno un servizio e stanno
facendo la differenza.
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Case Study di Progettazione: Oceania
IL BEINGI E’ COLPITO
Scritto da Raymond Ton, Caritas Papua Nuova Guinea
“Siate pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza
che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto.
(1 Pietro 3:15)
Circa 120 anni fa, un vulcano in Indonesia provocò giorni grigi e oscuri per gli abitanti Huli delle regioni
montuose del sud della Papua Nuova Guinea. Gli Huli chiamavano l’oscurità prodotta Beingi e ci si
aspettava che potesse accadere di nuovo. Le popolazioni vicine, i Dets e i Poromas, avevano a loro volta i
loro giorni scuri e minacciosi. Il loro Beingi era il conflitto tra le tribù. L’oscurità di questo conflitto era
rappresentata dalla distruzione su larga scala, da momenti di profonda disperazione e di morti insensate.
I tre più grandi conflitti tra tribù sono tre, avvennero tra il 1991 e il 1999. Durante questo periodo più di 200
uomini, donne e bambini morirono nei primi due scontri. A seguito delle elezioni del Consiglio nel 1997,
furono messe da parte le armi come l’arco e le frecce per essere sostituite dalle pistole. Aumentò il numero
dei morti e furono uccisi circa 60 uomini in 18 mesi.
Di seguito alcuni aspetti della lotta tribale che devono essere conosciuti:
a) La maggior parte dei conflitti nacquero per problemi legati ad una singola persona o ad un gruppo.
b) La maggioranza delle persone non voleva essere coinvolta ma si sentirono obbligati a farlo più per una
questione di abitudine.
c) Le pistole furono portate all’interno della regione dai trafficanti di armi, che approfittarono delle
tradizioni culturali.
d) Le pistole furono utilizzate da entrambe le parti, per questo la polizia non riuscì a fermare il conflitto
armato.
Gli operatori Caritas si presentarono alle due tribù (i Dets e i Poromas) nell’ Aprile 1998. Entrambi i gruppi
parteciparono al corso della Caritas chiamato Sviluppo Umano Integrato. Mentre i due gruppi discutevano su
cosa significasse essere un padre responsabile e affettuoso, un membro responsabile del proprio clan, il
conflitto tra le due rimase intenso. Il mediatore della Caritas pose loro delle domande sulle loro vite e sul
loro desiderio di pace, chiedendo loro cosa desideravano veramente, e cosa poteva fare per aiutarli. La loro
risposta fu “vogliamo la pace”. Con questa forte dichiarazione, la Chiesa si convinse che era il momento
giusto per avviare un percorso di pace condiviso.
Ma rimaneva una questione sia per la Chiesa che per la Caritas: Chi parlerà per conto dei più, coloro che non
hanno voce e sono spinti e tirati da delle armi inutili?
Gli operatori Caritas fecero avanti e indietro tra le due tribù, portando messaggi, trasmettendo i sentimenti e
le aspettative. I leader del conflitto iniziarono ad ascoltare ciò che veniva detto. Iniziarono a parlarsi tra di
loro attraverso il mediatore. Ci furono lenti progressi. Fu stabilito un incontro iniziale nel Maggio 1998 dove
le due parti principali discussero su una possibilità di pace. Sembrava che si fosse raggiunto un buon livello
poiché le parti dichiararono che desideravano la pace per i loro figli. Ma subito dopo la fine dell’incontro fu
ucciso un pastore locale con un’imboscata. Ancora una volta il processo di pace subiva uno scossone. La
tensione comparì di nuovo.
Fu terribile per tutte le persone coinvolte, soprattutto per il mediatore che aveva lavorato tanto per far
incontrare le tribù. Fu tentato di licenziarsi e andarsene. Ma continuò a fare piccole visite alle aree di
entrambi i clan, ripetendo sempre lo stesso messaggio: “Ho speranza, non perdete la vostra”. Passarono 18
mesi. Ancora una volta, sembrava ci fossero segni di speranza. Questa speranza svanì non appena furono
uccise a colpi di pistola due giovani uomini e una donna. La polizia cercò di intervenire. Arrestò il leader di
un clan e un suo sostenitore. Gli attacchi continuarono fino a Novembre. Molte case furono bruciate e furono
uccise molte persone. Ma come segno di buon auspicio e del fatto che erano ancora ben disposti ad un
percorso di pace, non ci fu nessuna rappresaglia da parte del clan dei Det! Molte persone dissero che ne
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avevano abbastanza e che volevano la pace. I capi della polizia e della chiesa continuavano ad incoraggiare
le persone, e nello stesso tempo il mediatore continuava a parlare con ogni tribù per convincerle che se non
ci fossero state più rappresaglie, anche l’altra parte avrebbe fatto altrettanto. La speranza crebbe.
Nel Febbraio 2000 i due clan furono chiamati per un grande incontro. Ormai erano passati due anni
dall’ultimo incontro. Fu detto all’operatore Caritas che i clan volevano smettere di combattere. Gli sarebbero
stati gradi se gli avesse dimostrato il modo in cui uscire dal conflitto. Coloro che non avevano voce, poterono
esprimersi e furono ascoltati! Fu organizzato un altro incontro, questa volta si sarebbe svolto in un terreno
neutrale, come per esempio la chiesa cattolica di Mendi. Risultava importante ancora una volta riunire tutti i
clan e i relativi alleati, perché se solo un gruppo tribale fosse stato escluso, il conflitto sarebbe scoppiato di
nuovo. Il mediatore della Caritas chiese ai due clan di fare un elenco di tutti i gruppi coinvolti. I clan poi si
scambiarono le liste. Sarebbero stati tutti invitati. Entrambi i gruppi poi aggiunsero i nomi delle persone
all’interno dei clan nemici che volevano fossero presenti alla cerimonia per la pace. Vennero anche i
consiglieri, magistrati e uomini importanti dei villaggi di entrambi i clan. Il vescovo Cattolico, un ufficiale
di polizia, e l’operatore Caritas erano presenti insieme ai 90 uomini che si riunirono quel giorno.
Parlarono tre uomini per ogni parte. Tutti e sei dissero la stessa cosa: “ Vogliamo la pace. Sappiamo che i
conflitti cominciano a causa di poche persone che hanno problemi e che ci coinvolgono in questa cosa. Non
ci alleeremo mai più con un clan che abbia intenzione di far scoppiare un conflitto. La guerra è finita.”
Una volta che ebbero parlato era importante iniziare a celebrare formalmente la riconciliazione. Fu deciso di
unire la cerimonia con un gruppo di donne cattoliche riunite lo stesso giorno per pregare e cantare.
Fu organizzate una marcia di 6 Km di 800 donne, il vescovo, molti uomini e l’operatore Caritas per celebrare
la riconciliazione a Poroma.
Le donne e le ragazze ballarono e cantarono per tutto il tempo. Era Miriam, la sorella di Mosè, moltiplicata
per 800, che ballava e cantava. Queste tante Miriam celebrarono la presenza e la protezione di Dio e l’inizio
di un nuovo periodo di promesse, prosperità e pace (Esodo, 15: 20-21). Il giorno di festa fu il 26 Marzo del
2000. Forse questo era il frutto delle celebrazioni per il giubileo cattolico della chiese di Mendi. In questo
giorno tra le 5000 e le 6000 persone si riunirono per festeggiare la fine di nove anni di distruzione,
disperazione e morte. Kunjap, il capo del clan Det di sessant’anni disse: “A cominciare da ora, dormirò sonni
tranquilli per la prima volta”.
Qualcuno chiese all’operatore Caritas: “Quale magia hai usato per far smettere la guerra?” e lui rispose che
non aveva fatto nessuna magia. Quello che lo aveva aiutato era il grande impegno di portare la pace e di
imparare sempre più su ogni clan e i suoi modi di vivere. Questo è quello che la Chiesa offre – interessarsi
alla vita degli altri e lavorare con ogni gruppo in posizione di debolezza. Mentre il pensare comune sostiene
che la forza si dimostra con la guerra, chi segue Gesù crede la debolezza ha potere. Gesù disse a Paolo: “ La
mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza”. (2 Cor. 12:9).
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Case Study di Contesti e di Progettazione: Asia
PORRIDGE PER IL DISTRETTO DI VANNI
Scritto da A. Quintus, Caritas Sri Lanka
Lo Sri Lanka ha affrontato per anni disastri naturali e disastri causati dall’uomo. I disastri naturali
comprendono inondazioni, siccità, frane, oscillazioni della terra ma fortunatamente non ci sono terremoti.
E’ risaputo, comunque, che alcune zone del paese giacciono su una fascia a rischio di terremoto e lievi
scosse sono state avvertite o riportate. Ma questa sono le cose minori. Sono stati già avviati molti studi
sull’argomento per cercare di valutare i possibili effetti futuri di queste piccole scosse.
Tra i disastri causati dall’uomo invece c’è la guerra, che è la più distruttiva di tutti. Lo Sri Lanka ha vissuto
una guerra disastrosa negli ultimi venti anni. La guerra è rimasta confinata principalmente a nord e ad est del
paese dove i ribelli tamil hanno combattuto contro le forze di governo per il controllo di alcune aree
considerate la loro terra d’origine. Quella che cominciò come una battaglia per l’uguaglianza e la giustizia
per la minoranza tamil, ora è diventata una guerra a tutti gli effetti che ha lasciato un’intera nazione stanca e
ferita. Nella parte nord-est dove la guerra si vive quotidianamente, le persone sono rimaste senza niente, con
innumerevoli perdite sia in termini di vite umane che di case e mezzi di sussistenza. La guerra ha fatto più di
65.000 morti, migliaia dei quali mutilati, numerose vedove e orfani, e milioni di sfollati. Gli sfollati
(Internally Displaced People) sono rifugiati virtuali nella loro stessa patria. A causa dei combattimenti e delle
tensioni, queste persone sono state sradicate dalle loro case e, in cerca di salvezza, si sono spostate
continuamente. Di conseguenza hanno lasciato le loro abitazioni, l’educazione dei loro figli, e così via. Molti
di loro si trovano nei campi per rifugiati e nei centri gestiti dal governo, mentre altri sono stati sistemati in
altri centri permanenti o semi permanenti. Il problema è peggiorato dal fatto che le parti del nord-est sono
sotto controllo militare del governo. Sono chiamate zone franche. Le zone sotto il controllo dei militanti
Tamil erano conosciuta come zone non franche. Il movimento di cibo e persone all’interno di entrambe le
aree era estremamente controllato, di conseguenza le persone che vivevano nella zona non franca soffrivano
di mancanza di cibo, medicine, elettricità, mancanza di supporto sanitario e mancanza di qualsiasi struttura
scolastica.
La Caritas è attivamente coinvolta con le agenzie di stato, le ONG e i gruppi parrocchiali per avviare
un’azione ampia di aiuto e un programma di riabilitazione a nord e ad est. Un’attenzione particolare andava
alle zone non definite dove le persone vivevano in condizioni disastrate. Un’area che appartiene a questa
zona era quella di Vanni che comprendeva due distretti, chiamati Kilinochchi e Mulluaitivu, che insieme
contavano una popolazione di 70.000 famiglie di 250.000 persone. Il Vanni è un terreno vasto che una volta
accoglieva una ricca attività agricola grazie al suolo particolarmente fertile e ad una grande disponibilità di
acqua per l’irrigazione. Contava un’ampia popolazione che viveva nelle due città di Mullaitivu e
Kilinochchi. Oltre all’agricoltura anche la pesca rappresentava l’attività principale di questi abitanti.
Oggi il Vanni è una terra desolata che ha perso ogni risorsa e il suo posto nella storia del paese. La guerra lo
ha devastato. I suoi attuali abitanti sono migliaia di sfollati dalle aree toccate dalla guerra. Non passa un
giorno in cui queste persone non debbano scappare alla vista di un caccia bombardiere che vola sulle loro
teste. Questo senso di panico permanente e di paura ha provocato traumi profondi nelle loro vite. Il cibo
scarseggia ed è costoso, non c’è elettricità, non c’è comunicazione con il resto del mondo, non ci sono scuole
con un personale docente qualificato, non ci sono edifici di nessun genere, non c’è assistenza sanitaria e non
c’è speranza per il futuro. I loro figli sono cresciuti senza un’adeguata alimentazione, educazione o senso di
appartenenza alla terra in cui sono nati.
Le loro speranze sono riposte nelle agenzie umanitarie, le organizzazioni della chiesa e altre ONG che hanno
mostrato attenzione e impegno dove le agenzie di stato hanno fallito. Siccome tutte le zone, sia quelle
definite che quello non definite, sono rimaste divise come lo sono ora, la zona del Vanni e altre simili a nord
e ad est rimarranno tagliate fuori dalla vita economica, politica e sociale che avviene nel resto del paese. Sia
per uscire che per entrare nella zona di Vanni c’è bisogno di un permesso speciale delle autorità militari. A
causa di tutto questo molti non hanno ricevuto assistenza sanitaria, comprese le operazioni chirurgiche tese a
salvare una vita.
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Oltre alla mancanza di cibo come risultato dell’embargo economico, anche se ce ne fosse avrebbe un prezzo
altissimo e le persone non potrebbero comprarlo. Questo ha portato alla malnutrizione, specialmente tra i
bambini e i neonati. Il programma della pappa d’avena è una speciale risposta della Caritas per alleviare la
malnutrizione nell’are del Vanni. La pappa d’avena è un misto tra latte e cereali che hanno un alto valore
nutrizionale. Attualmente circa 14.000 bambini che vanno a scuola stanno beneficiando di questo
programma. La responsabilità di base, perché fosse portato avanti, fu affidato ai direttori ed al personale
delle scuole e al comitato dei genitori. Gli ingredienti e il materiale grezzo sono recapitati alle scuole una
volta al mese e ogni mattina viene cotta l’avena dai membri del comitato della scuola all’interno della stessa.
Da quando è iniziata l’operazione, si è innalzato il livello nutrizionale dei bambini e anche il loro rendimento
scolastico. I bambini non vedono l’ora di mangiare l’avena per il loro stato di denutrizione. Il loro
rendimento scolastico è certamente aumentato anche perché si è regolarizzata la loro presenza a scuola.
Questo ha un effetto positivo a lungo termine sui bambini poiché dovranno affrontare un triste futuro senza
un’ appropriata qualificazione di base scolastica. Questa situazione, poi renderebbe più difficile la
preparazione ad un eventuale riconciliazione che un giorno avverrà in Sri Lanka.
Ramesh di dieci anni ha perso suo padre durante il conflitto. La sua famiglia si è spostata cinque volte dal
luogo in cui stava a causa di evacuazioni improvvise, conseguenza della guerra tra l’esercito e il LTTE
(Liberation Tigers of Tamil Eelam). A causa di questi spostamenti non è potuto andare a scuola per lungo
tempo. E’ denutrito e spesso non può mangiare niente. Sua madre ha paura che non abbia un futuro. In ogni
caso un barlume di speranza si è acceso con il programma dell’avena della Caritas. Adesso gli piace andare a
scuola. Ramesh è solo uno dei migliaia di bambini che sono in attesa di una mano che stringa la loro.
Case Study di Contesti e di Progettazione: Europa
PROGETTARE IN CROAZIA
Scritto da Vincent J. Batarelo, Caritas Croazia
GEOGRAFIA
La Croazia è situata nel sud est dell’Europa. La sua estensione geografica è ampia e va dalle pianure dell’est
della Croazia, fino alle regioni collinose nel nord ed è caratterizzata da migliaia di isole lungo la costa
adriatica. Tra le regioni della costa e quelle continentali scorre la catena montuosa Dinarica. Città dalla storia
antica si trovano lungo la costa, sebbene la capitale Zagabria si trovi nelle zona continentale a nord del paese.
POPOLAZIONE
La Croazia, secondo i numeri iniziali dichiarati nel censimento del 2000, ha una popolazione di 4.2 milioni.
La maggioranza della popolazione è Croata, circa il 90 percento e i Serbi sono circa il 5 percento. Nel 1991, i
Croati erano l’80 percento, con il 15 percento d’origine Serba. Entrambi i gruppi sono slavi. I Serbi sono
collegati etnicamente e politicamente ai Serbi che vivono in Serbia, parte dell’ex Iugoslavia. La loro cultura
e religione arriva da questo altro paese e anche la loro affiliazione politica. Parlano una lingua che è
grammaticalmente differente dal Croato moderno, ed è differente anche la rappresentazione delle lettere
dell’alfabeto (che è il Cirillico). I due gruppi si capiscono molto bene. I Croati hanno una storia e una cultura
differente. La maggior parte dei Croati è cattolica, mentre i Serbi sono ortodossi.
STORIA
I Croati arrivarono nell’attuale Croazia nel settimo secolo d.c. Furono convertiti al Cristianesimo dai
missionari di Roma. Dal 10 secolo la Croazia divenne un regno. Era collegato a sua volta con il regno
Ungarico e dal 16 secolo si unì volontariamente con l’impero Asburgico (Austriaco) per ragioni di sicurezza
per far fronte alla dominazione ottomana. Dal 15 secolo diventò il “baluardo della Cristianità”, affrontando
molti attacchi da parte Ottomana. Divenne l’avamposto dell’Europa dell’est Cristiana, con molte terre
occupate, migliaia di persone uccise, molti mandati in esilio dai Turchi, e molti altri furono costretti a fuggire
in altre parti d’Europa. Alla fine del 16 secolo la Croazia era un paese devastato, saccheggiato e spopolato.
La corrente politica cambiò direzione e alla fine del 17 secolo furono apportati miglioramenti dalle forze
Cristiane. La forma della Croazia è stata determinata dagli eventi riguardanti la pace nel paese.
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Recuperate le terre, esistevano problemi legati alla spopolamento e alla difesa – quella di chi voleva
difendere i nuovi confini della Croazia (e l’Europa Cristiana) verso quelli più ad ovest dell’Impero Ottomano
(quello che oggi corrisponde alla Serbia e alla Bosnia). I sovrani degli Asburgo decisero di creare una zona
militare al confine con l’impero Ottomano. La chiamarono vojna krajina (zona militare). Misero da parte il
feudalesimo e spinsero le persone a spostarsi nell’area per essere liberi cittadini dell’impero con il solo
obbligo di difendere la frontiera. Molti di loro erano Cristiani Ortodossi Vlachs che scapparono dall’impero
Ottomano (Bosnia) e accettarono la proposta degli Asburgo di spostarsi in quell’area. Altre regioni della
Croazia, che erano considerate civili, avevano un sistema feudale come nel resto dell’Europa dell’ovest.
Durante il 19esimo secolo, un tempo di risveglio, i Vlachs accettarono la nazionalità Serba. Fu abolita la
frontiera militare e la zona divenne parte della Croazia “civile”. In questo secolo, molti reggimenti Croati che
si battevano per un’identità nazionale Croata, erano composti da Serbi Ortodossi che consideravano la
Croazia come la loro terra. Molti scrittori, politici e soldati famosi erano di etnia Serba e erano integrati nella
vita culturale e politica Croata.
Il 20esimo secolo tuttavia vide un’inversione di tendenza. Le relazioni tra la maggioranza Croata e la
minoranza Serba si inasprirono. Diventò una relazione di ripicche reciproche. La ragione principale di questa
situazione era che esistevano relazioni ingiuste all’interno del nuovo paese che formava la Yugoslavia (1918)
composto da vari gruppi etnici con differenti background culturali e storici. Il paese era dominato dalla
Serbia e dall’elite politica governante. Le minoranze Serbe che facevano parte della Yugoslavia (inclusa la
Croazia) furono palesemente usati e manipolati da Belgrado (la capitale della Yugoslavia) nello stabilire la
leadership. I Croati come minoranza all’interno del paese, si sentirono completamente colpiti dal regime
Serbo, che negava loro qualsiasi diritto umano e politico di base. Gli omicidi a sfondo politico per mano dei
Serbi furono ricambiati dagli estremisti Croati. Così il circolo vizioso della violenza in questo paese multietnico divenne parte del paesaggio. Durante il periodo terribile della seconda guerra mondiale, la Croazia
divenne uno stato indipendente sotto gli auspici del potere fascista in Europa. Il regime in Croazia era
fascista e razzista. Si rapportava ingiustamente con la minoranza serba (e anche con altre minoranze), proprio
come il regime Serbo si era comportato verso i Croati ai tempi della Yugoslavia. Campi di concentramento,
deportazioni e uccisioni erano all’ordine del giorno.
Sebbene ci fosse pace in Yugoslavia dopo la guerra, la riconciliazione non fu propriamente ricercata dal
nuovo governo. All’interno del paese, non esisteva un dialogo aperto né alcuna discussione sugli eventi del
passato recente e sul perché e come il circolo vizioso della violenza fosse iniziato. Invece lo strumento
politico della colpevolezza nazionale fu usato come necessario a, specialmente contro i Croati, per reprimere
qualsiasi critica legittima o qualsiasi dibattito. Ancora una volta i diritti politici dei Croati furono calpestati e
ci furono parecchie uccisioni a sfondo politico ed emigrazioni. I Serbi in Croazia e in altre repubbliche
Yugoslave, godettero di privilegi politici e sociali all’interno del partito comunista e delle forze di sicurezza.
Con i cambiamenti del 1990 in tutta l’Europa e nel mondo, la Croazia organizzò le sue prime libere elezioni,
stabilendo così il proprio parlamento dopo più di 800 anni. Il primo passo del governo Croato fu quello di
provare a ristabilire i rapporti con la Yugoslavia, lavorando con gli altri (la Slovenia) e creando una libera
confederazione tra stati sovrani. Questa iniziativa fu rifiutata dal leader Serbo, Slobodan Milosevic, che
aveva altri piani, cioè non solo mantenere la struttura federale comunista, ma anche far diventare la
Yugoslavia una Grande Serbia. Capito questo sia la Croazia che la Slovenia si dichiararono indipendenti nel
1991. Questo fu seguito a turno da tutte le repubbliche Yugoslave fatta eccezione della Serbia e del
Montenegro.
LA GUERRA E LA DIFESA DELLA TERRA
Totalmente coscienti di quello che aveva fatto il regime di Milosevic alla maggioranza etnica Albanese in
Kossovo negli anni ’80 e che l’esercito Jugoslavo tra il 1990 e il 1991 era completamente in mano ai Serbi,
la Croazia cercò di evitare la guerra nel 1990 e per tutto l’autunno del 1991. Questo fu attuato attraverso
negoziazioni faccia a faccia con chi deteneva il potere in Serbia a Belgrado, compreso Milosevic stesso. Le
negoziazioni all’inizio giravano attorno alle nuove condizioni della Federazione all’interno della Yugoslavia.
Mentre queste negoziazioni andavano avanti, il regime di Milosevic manipolò politicamente la minoranza
Serba in Croazia. Nelle zone della Croazia dove formavano la maggioranza, insieme all’aiuto dell’esercito
Jugoslavo, sistemavano posti di blocco nelle strade principali e sulla ferrovia, erano determinati ad andare
contro le nuove elette autorità Croate. Milosevic usò il potere della paura su queste minoranze. Il suo regime
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comunicava in maniera propagandistica che le nuove autorità Croate avevano intenzione di ritornare al
regime della seconda guerra mondiale e che i Serbi che vivevano in Croazia sarebbero stati uccisi o costretti
a fuggire. Sebbene queste dichiarazioni non avevano un fondamento, il rapporto tra serbi e Croati si incrinò.
Come disse il Ministro degli Esteri Yugoslavo Goran Svilanovic in Croazia nel Dicembre 2001 in una
dichiarazione di scuse, tutta questa manipolazione della paura era il motivo per cui la minoranza Serba
commise atti illegali e crimini in Croazia nel 1991.
Sebbene i Croati fossero in maggioranza nella repubblica Croata del 1991 (più dell’80 per cento), non
avevano un esercito, la forza della polizia era agli albori e la popolazione era disarmata. I Serbi che vivevano
in Croazia, con alle spalle l’esercito Jugoslavo, formò dei gruppi paramilitari. Dai posti di blocco, iniziarono
ad occupare villaggi e città, stabilendo l’autorità Krajina. Le negoziazioni con le autorità Croate fallirono,
poiché i Serbi si sentivano spalleggiati da Milosevic che appoggiava apertamente gli obiettivi ultra
nazionalistici della Grande Serbia che significava l’annessione di più di metà della Repubblica Croata alla
Serbia.
VUKOVAR
Dall’autunno 1991 ci fu la guerra in tutta la Croazia, la prima guerra nel continente europeo dopo la seconda
guerra mondiale, con i gruppi paramilitari Serbi e l’esercito Jugoslavo che agivano all’unisono. Tutte le
negoziazioni fallirono. La Croazia dichiarò la sua indipendenza. In questo periodo su invito delle autorità
Croate, l’Unione Europea andò sul luogo per monitorare, veder e riportare quello che stava succedendo. I
segni più eclatanti delle aggressioni si potevano vedere nella città più ad est della Croazia al confine con la
Serbia, Vukovar. La città resistette contro una forza dieci volte superiore in tre mesi di constanti
bombardamenti. Vukovar era circondata da ogni parte. La difesa eroica della città significava che i piani
delle forze Serbe per annettere la Croazia erano sconfitti. Ma una volta presa la città, i suoi abitanti e
difensori Croati furono uccisi, incarcerati o costretti a fuggire.
LA FINE DEL CONFLITTO
Nel Gennaio 1992 il mondo riconobbe la sofferenza dei Croati e accettò l’indipendenza della Croazia.
L’indipendenza fu pagata con il sangue. Più di 10.000 persone furono uccise, migliaia erano scomparse, e
centinaia di migliaia furono sfollati. Metà del paese fu occupato e distrutto. Subito dopo questi eventi, dopo
costanti appelli le Nazioni Unite mediò tra le parti e pose fine ad un conflitto aperto.
Sebbene ci furono tentativi di negoziazione con le autorità Serbe nella Croazia “occupata”, non portarono a
niente per lungo tempo perché ricevevano un diretto spalleggiamento del regime di Milosevic. Nel 1995
attraverso operazioni militari, i croati si riappropriarono delle terre precedentemente occupate dai Serbi, in
poche ore. La maggior parte degli abitanti Serbi erano coscienti di quello che stava avvenendo e tutto questo
combinato con una manipolazione sulla paura del passato, fuggirono da quelle zone, verso le aree Serbe della
Bosnia e della Jugoslavia.
IL PROCESSO DI RITORNO
I villaggi, le case, le chiese e le attività dei Croati costretti a fuggire furono distrutti e saccheggiati. Dal 1995,
fu avviato un programma governativo di ricostruzione di tutte le comunità. Tutte le case sono ricostruite in
un preciso momento e i prestiti sono elargiti per le rifiniture. Caritas, CRS, USAID, the EU e altre
organizzazioni umanitarie donarono i mobili, l’attrezzatura agricola, gli animali, gli strumenti. Molte agenzie
cattoliche hanno aiutato a ricostruire le chiese e i centri comunitari.
Mentre le autorità del governo Croato, a seguito del 1995, trovarono difficile promuovere il ritorno dei Serbi
in Croazia così avviare indagini appropriate i presunti crimini contro coloro che si trovavano nel paese. Dopo
il cambio di governo nel 2000, il processo di ritorno fu molto più agevole.
REINTEGRAZIONE PACIFICA A VUKOVAR
L’esempio più interessante di una concreta riconciliazione, a seguito dei vari conflitti, fu la reintegrazione
pacifica nelle regioni occupate ad est della Croazia, compresa la città di Vukovar. Questa reintegrazione fu
promossa direttamente dalle Nazioni Unite con il permesso e la collaborazione delle autorità Croate.
Successivamente alle operazioni militari, si decise di negoziare un ricambio pacifico delle regioni occupate
dell’est. Con l’intervento delle Nazioni Unite, per circa due anni, fu possibile un periodo di transizione
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pacifico nel quale i Serbi che vivevano in quelle zone furono introdotti gradualmente nelle istituzioni dello
stato Croato. Per esempio, vennero assegnate ai Serbi posizioni, prima nella polizia multi etnica delle
Nazioni Unite che poi sarebbe stata eventualmente trasformata nella forza di polizia Croata. I cittadini
ordinari non dovevano lasciare le case in cui vivevano, fino a che la loro casa in un’altra parte della Croazia
non fosse pronta. Nel 1998, i Croati iniziarono a tornare nella città di Vukovar. A causa dei preparativi
concreti e psicologici fatti durante la fase di transizione, esistevano piccoli conflitti. Molte persone erano
contente solo per il fatto di essere tornate. Vukovar, che è stata chiamata la fenice Croata, sorse di nuovo in
una maniera pacifica. Oggi si presenta come una città etnicamente composta con ancora tanto da costruire
sotto il punto di vista materiale e umano. Molti progetti di larga scala di ricostruzione furono e sono
intrapresi dal governo Croato, dalle agenzie governative straniere così come piccoli progetti avviati dalle
ONG locali e straniere. Esistono molte ONG locali, comprese quelle che si fondano sulla fede che lavorano
in vari modi per abbattere i muri che sono nei cuori delle persone. L’aspetto più importante che porterà pace
e aumenterà la tolleranza e forse porterà al perdono e alla riconciliazione, è che l’immaginazione e
significato tornino nelle vite delle persone. Questo può essere fatto in due maniere, attraverso il lavoro (che
non c’è) e attraverso lo sviluppo spirituale per la riconciliazione, curato dalla Chiesa Cattolica e da quella
Ortodossa.
I Serbi che stanno ritornando in Croazia devono affrontare molti problemi. I rifugiati Croato-Bosniaci che
vivono nelle case dei Serbi hanno problemi legali e burocratici e sono vittime di discriminazione sociale
essendo dell’altra parte. ONG specifiche si sono stabilite nella zona per fornire aiuto legale, difesa o
comunque come supporto a questi problemi, inclusa CRS Croazia. Il ruolo di Caritas Croazia è quello di
un’organizzazione locale basata sulla fede che mantiene e lavora sulle relazioni con la Chiesa Ortodossa e i
suoi istituti di beneficenza, così da creare solidarietà e lavoro contro la diffusione di una mentalità
ghettizzante tra i Serbi. Questi ultimi devono sentirsi parte della Croazia che è la loro terra e la loro società.
IL PROGETTO CROPAX
Caritas Croazia, seguendo il suo ruolo durante gli anni della guerra come fornitore di aiuto diretto, decise nel
2000 di orientare il suo ruolo verso il processo di riconciliazione. Essendo la Croazia un paese a
maggioranza cattolica, era importante assumere il mandato della Chiesa per la pace, la giustizia e la
riconciliazione. Era importante rivedere quello che era successo e lavorare per una società giusta, così che il
ciclo della violenza non si sarebbe ripetuto. Fu avviata un’indagine, condotta su tutto il paese, che indagava
su come i cittadini ordinari vedevano un possibile perdono e riconciliazione. Caritas Croazia ospitò tavole
rotonde e conferenze internazionali sull’argomento. Fu avviato un piccolo progetto in collaborazione con i
gruppi di carità della Chiesa Ortodossa a Zagabria, per i bambini che vivevano nelle aree della Croazia ad
etnia mista dove stavano facendo ritorno i Serbi. Il valore simbolico di un vescovo Cattolico che è vicino ai
rappresentanti delle istituzioni caritatevoli Ortodosse, che regalano biciclette ai bambini Serbi e a quelli
Croati, non può essere sottovalutato in queste zone isolate e piene di tensione.
La Caritas ha integrato il progetto Cropax nella sua programmazione di peacebuilding. L’obiettivo principale
è quello di considerare le attività di peacebuilding, in particolare all’interno della chiesa, non più come un
qualcosa di superfluo ma come qualcosa che è al centro di ogni attività. Si focalizzerà soprattutto sui giovani
e comporterà un lavoro diretto con il Ministro dell’educazione. Si impegnerà inoltre a mantenere le relazioni
con le altre Chiese, religioni ed ONG con le quali ha sviluppato forti collegamenti attraverso il progetto
Cropax.
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Case Study di Contesti e di Progettazione: America Latina
SPAZIO PER COSTRUIRE FIDUCIA NEL MEZZO DEL
CONFLITTO ARMATO IN COLOMBIA
Scritto da Mons. Héctor Fabio Henao, Caritas Colombia
La guerriglia in Colombia è una delle più antiche nel continente Americano. Per più di 50 anni, i gruppi
paramilitari si sono scontrati con le forze di governo in un conflitto che ha complesse radici sociali, politiche
ed economiche. Il conflitto che stava avvenendo ha emarginato milioni di Colombiani; questa esclusione
sociale era il risultato di una politica di intolleranza e di una ancor peggiore crisi economica. Allo stesso
tempo, il traffico di droga e la corruzione dilagante all’interno del governo e delle organizzazioni sociali
avevano contributo al peggiorare della situazione.
I principali gruppi coinvolti nel conflitto sono le ali di sinistra della guerriglia, gruppi paramilitari locali e
regionali e le forze di governo. Tuttavia i trafficanti di droga, i rapitori e criminali comuni rappresentavano
un fattore serio.
Le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) sono il più grande gruppo paramilitare in Colombia.
Due anni fa cercarono di parlare con il governo per cercare una soluzione politica al conflitto. Il secondo
gruppo più grande è l’Esercito di Liberazione Nazionale con una presenza su tutto il territorio nazionale.
I gruppi paramilitari locali che proteggono uomini d’affari privati e proprietari terrieri contro i rapitori e altri
guerriglieri, sono in aumento.
La Caritas sta lavorando su tre differenti livelli in Colombia. A livello nazionale, la Caritas lavora insieme
alla Commissione Colombiana di Vita, Giustizia e Pace per potenziare il ruolo della Chiesa Colombiana nel
processo di pace. Organizza anche una serie di dibattiti, marce e attività per promuovere la pace in tutto il
paese. A livello regionale, la Caritas lavora costantemente per promuovere la pace e per aiutare le tante
vittime del conflitto, specialmente coloro che sono stati costretti a fuggire dalla violenza. In più a livello
locale, la Caritas ha un approccio da trasmettere sul problem solving tra i gruppi in conflitto.
Una parte importante del lavoro di pace e di riconciliazione della Chiesa in Colombia è quella di ridurre la
fiducia in soluzioni militari per incoraggiare un pluralismo più sano dove gli accordi di base possono essere
raggiunti tra gruppi in opposizione. Nel caso della Colombia, un accordo di base avviene quando entrambe
le pareti accettano i principi della Legge Internazionale dei Diritti Umani come base per ogni negoziazione.
La Conferenza del Vescovo della Colombia è fortemente coinvolta in tale lavoro per assicurare che questi
accordi diventino pietre miliari per aprire le porte al dialogo e alle fiducia.
Seguono tre esempi di lavoro. Una delle zone più colpite dalla violenza paramilitare è la regione di Urabà.
Quattro anni fa, la Caritas organizzò una marcia per la pace ad Arabà: la Via Crucis per la Vita, la Giustizia e
la Pace. La marcia è ormai divenuta un evento annuale. Tuttavia, non è vista solo come una mossa religiosa,
ma è diventato anche una delle più grandi manifestazioni per la pace in Colombia alla quale prendono parte
molte organizzazioni. Questa marcia ha portato il Vangelo per la Pace e la Vita alle comunità più colpite
dalla violenza e ha dato a queste persone un’importante via per esprimersi.
Durante il primo anno della marcia, il Vescovo di Apartdò e la Chiesa locale lanciarono una proposta di
discussione, suggerendo di dare più autonomia alle comunità locali nelle zone più colpite dalla violenza
paramilitare, come la regione di Arabà. Come risultato di questa proposta, ci fu un accordo per creare le
Comunità di Pace, gruppi i.e. che si fanno chiamare cittadini di pace ed eleggono un Consiglio di Pace per
unire un insieme di ruoli per le loro rispettive comunità. Non solo questo permetteva a questa comunità di
partecipare alla creazioni di un consenso, ma teneva conto delle varie differenza tra regioni. In più, esiste un
dibattito, tutt’ora in corso, nelle comunità locali sulla possibilità di rimanere neutrali in questo conflitto
esteso, dove il ruolo della legge è in netto contrasto con l’escalation della violenza.
Il secondo esempio riguarda il lavoro della Conferenza Episcopale nel portare le parti in guerra ad
avvicinarsi. Sotto il governo del Presidente Camper, furono fatti inutili sforzi per avviare un dialogo con i
gruppi di guerriglieri, portando al collasso qualsiasi processo di pace. Fu il risultato di questo fallimento che
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portò il Presidente Camper ad avvisare il presidente successivo della Conferenza Episcopale, Msgr Pedro
Rubiano, per stabilire una Commissione Nazionale per la Riconciliazione con un gruppo di Colombiani con
un alto profilo.
Il ruolo della Commissione era quello di promuovere la pace con strumenti di mediazione, riconciliazione e
dibattito. Un particolare aspetto di questo lavoro è stato quello di incoraggiare il dialogo per la pace tra i
gruppi in opposizione all’interno della Colombia. In questo modo, vennero alla luce molte proposte
differenti, che hanno promosso il processo di pace attraverso il contatto e la comunicazione. La
Commissione ha mostrato l’importanza della presenza di un intermediario di cui si fidino entrambe le parti e
che dimostra iniziativa e autorità morale. Un passo chiave in questo è stato la pubblicazione e la circolazione
di alcune proposte che hanno portato all’apertura di alcune porte che portano al dialogo.
La Caritas ha giocato un ruolo sempre più importante nell’aiutare la Commissione a creare condizioni che
conducessero alla costruzione di una pace duratura nella società Colombiana.
Il terzo esempio è il lavoro locale della Caritas nell’aiutare a costruire le Comunità della Pace, create
inizialmente tra coloro che erano stati sfollati dai loro villaggi remoti e città dalla violenza. Per molti anni la
Chiesa ha giocato un importante ruolo organizzativo in queste comunità, promuovendo l’autonomia per
fronteggiare la minaccia della guerriglia. La struttura di queste comunità fu mantenuta grazie al dialogo
interno e alla determinazione a non rimanere coinvolte con nessun gruppo paramilitare. Tuttavia, il lavoro
con questo organizzazioni locali era sconosciuto e una grande numero di queste furono costrette a lasciare le
loro terre e le loro case per cercare rifugio in altri villaggi.
Gli esiliati usarono le loro organizzazioni locali per tenere unita la comunità nella speranza di tornare un
giorno nelle loro case.
Le Comunità della Pace divennero sempre più influenti e in molti casi avviarono il dialogo con i gruppi
paramilitari che in un primo momento li costringevano ad andarsene dai loro villaggi.
Questi esempi mostrano l’importanza e l’efficacia dell’organizzazione della comunità locale nell’affrontare
la continua violenza in Colombia. Molte comunità locali hanno fatto ascoltare la loro voce e sono diventate
collaboratrici attive nella ricerca della pace. Il lavoro corrente delle Comunità di Pace ha aumentato il profilo
della società civile e ha promosso l’importanza di rafforzare le relazioni tra culture differenti, basate sulla
dignità umana e il rispetto reciproco della vita umana.
Le Comunità della Pace sono in uno stato di continua evoluzione. Nonostante i molti passi fatti per costruire
una pace duratura in Colombia, sono rimaste molte sfide da affrontare. Le Comunità della Pace hanno aperto
la strada per relazioni più strette basate sulla cooperazione, sulla fraternità, e dicendo NO alla violenza.
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Case Study di Contesti e di Progettazione: America Latina
LA CHIESA IN PERU’ ED IL PROCESSO DI RICONCILIAZIONE
Scritto da Mons. Héctor Fabio Henao, Caritas Colombia
Un sommario del ruolo della Chiesa in Peru ed il processo di riconciliazione.
L’OPERA DELLA CHIESA NELLA DIFESA DEI DIRITTI UMANI IN PERU
Nella seconda metà degli anni ‘70, la CEAS (Commissione Sociale della Chiesa nel Peru) fu per prima
coinvolta nella questione dei diritti umani in Peru, in difesa degli operai che venivano licenziati illegalmente.
Per altre ragioni, quando scoppiò la violenza e fu proclamato uno stato di emergenza nelle Ande durante i
primi anni ’80, le famiglie delle persone che erano state vittime di attacchi terroristici e di rapimento chiesero
aiuto al Vescovo. In risposta a molte di queste richieste, CEAS acquisì aiuto legale per indagare sui casi. Nel
1985, CEAS avviò il suo progetto più importante – la difesa dei diritti politici delle vittime del terrorismo.
Sebbene CEAS si trovava a Lima, aprì degli uffici nelle diocesi regionali per promuovere i diritti umani.
Dagli anni ’90 più di questi 25 uffici diventarono operativi, fornendo consulenza legale e servizi sociali alle
vittime delle violazioni dei diritti umani e per dare informazioni al pubblico in generale.
I DIRITTI UMANI AL CENTRO DELL’OPERA SOCIALE DELLA CHIESA
Sin dal 1993, la violenza terroristica diminuì in Perù e CEAS volse l’attenzione alla promozione dei diritti
umani a livello sociale ed economico a fianco di altri gruppi cristiani. Allo stesso tempo CEAS continuò a
lavorare sui diritti umani con l’ottica di modificare il sistema di giustizia del Perù. Organizzò campagne
nazionali per la solidarietà economica, per l’aiuto al debito interno e per i diritti della terra dei contadini. Fu
proprio in questo periodo che fu proposto il forum dell’America Latina per promuovere il lavoro della
Chiesa nell’ambito dei diritti umani. Il primo forum si tenne a Lima nel 1994 e da questo momento ce ne
furono altri due: sempre a Lima nel 1997 e l’anno passato a El Salvador. Questi tre forum confermarono che
la difesa dei diritti umani è parte integrante del lavoro della chiesa in America Latina.
IL PROCESSO DI RICONCILIAZIONE IN PERU’
La riconciliazione copre un’ampia gamma azioni che il semplice placare gli animi degli antagonisti. Si
riferisce anche al lavoro che comprende l’aiutare le vittime della violenza a recuperare la loro integrità fisica,
psicologica, culturale e spirituale. CEAS ha lavorato in 1uesta zona con gruppi ecumenici, quali
l’Organizzazione Evangelica per la Pace e Organizzazioni Cattoliche Internazionali per la Speranza come i
Servizi di Aiuto Cattolico. Tuttavia un grande problema in Perù era che il regime autocratico del Presidente
Fujimori rinforzò leggi draconiane contro i terroristi e leggi di impunità in favore delle forze armate. Ciò
significava che era impossibile costruire un quadro di riferimento appropriato verso una riconciliazione
nazionale. Violenza, traffico di droga e corruzione del governo erano sempre presenti e portarono ad una
generale divisione della società.
Quando il governo del Presidente Fujimori cadde a Novembre del 2000, l’amministrazione di transizione di
Valentìn Paniagua mise insieme una task force per considerare la possibilità di creare una Commissione
basata sulla Verità e sulla Riconciliazione. Questa task force fu creata il 29 dicembre 2000 ed era formata dai
rappresentanti della giustizia Peruviana, dagli Affari Interni, dai Ministri della Difesa, dal difensore civico,
da rappresentanti della società civile (compresi coloro che promuovevano le campagne per i diritti umani) e i
corpi religiosi (Il Consiglio Nazionale Evangelico e la Conferenza Episcopale Peruviana).La Chiesa elesse
Msgr Luis Bambarén SJ, Presidente della Conferenza Episcopale e Laura Vargas, Capo Amministratore della
CEAS, come suo delegato per prendere parte a questa task force.
La task force si incontrò per 14 volte e invitò esperti dal Cile, Sud Africa, El Salvador, il Guatemala, le
Nazioni Unite ed altre organizzazioni internazionali a prenderne parte. Parteciparono anche ad un Seminario
Internazionale per la Commissioni della Verità e della Riconciliazione. Durante il Seminario, fu condotta
un’indagine di opinione sulla saggezza di una Commissione sulla Verità e sulla Riconciliazione. Il 90% dei
447 delegati che erano stati interpellati notarono l’importanza di questa Commissione per fare luce sulle
violazioni dei diritti umani negli ultimi venti anni.
I risultati furono presentati al Presidente Peruviano il 29 Marzo, esattamente tre mesi dopo la creazione della
task force. Molti gruppi a livello governativo stanno studiando le indicazioni per la task force di oggi. La
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Commissione della Verità e della Riconciliazione sarà composta da 5 membri. Tuttavia non sono stati ancora
nominati ma corrono voci sulla possibilità che Msrg ne diventi il presidente. La Commissione avrebbe a
disposizione un periodo di due anni per svolgere il suo lavoro dopo il quale deve dare dei risultati concreti al
pubblico.
Il primo obiettivo della Commissione è quello di rendere consapevoli le persone dell’estensione della
violenza e delle violazioni dei diritti umani in Perù ascoltando le testimonianze della vittime. Il secondo è
quello di investigare e rendere pubblici i dati delle migliaia di persone che scomparvero durante il periodo
della violenza e quindi sulle esecuzioni e torutre illecite che avvennero. La Commissione non avrà il potere
di attuare nessuna decisione legale come questa, ma presenterà le sue conclusioni al Ministro della Giustizia
Peruviano, che può portare più avanti le pratiche. Il terzo obiettivo sarà quello di redirigere proposte per ogni
riforma strutturale necessaria all’interno della società Peruviana e di stabilire un programma per fermare la
minaccia della violenza, dei rapimenti e di altre atrocità.
La Commissione della Verità e della Riconciliazione è solo il primo passo lungo la strada che porta alla
creazione di una società più giusta in Perù. Il Governo deve lavorare in maniera stretta con altre
organizzazioni nazionali per migliorare la società Peruviana. La Chiesa gioco un ruolo importante in tutto
questo. Tuttavia ci deve essere una volontà universale per completare le proposte della Commissione della
Verità e della Riconciliazione per mostrare che esiste una via d’uscita.
Case Study di Contesto e di Progettazione: America del Nord
INIZIATIVA DI PEACEBUILDING AI CONFINI DI SONORA
Scritto da Tom Brenneman e Cecilia Guzman, Stati Uniti e Messico
Gli stati dell’Arizona, degli Stati Uniti e di Sonora, Messico, si incontrano nella zona più a nord della regione
desertica Sonora. E’ una regione caratterizzata da diversi ecosistemi di natura selvatica, la flora, i paesaggi e
le risorse naturali uniche in questa parte del mondo che ha sostenuto per secoli persone, culture ed economie.
A seguito della guerra tra gli Stati Uniti e il Messico, e il Trattato di Gadsen nel 1848, fu stabilito un confine
politico che separava i due paesi il Texas e Tamaulipas dalla California e la Baja California. Tracciato lungo
le banchine del fiume Rio Grande e lungo strade polverose, passando attraverso piccole cittadine, riserve e
centinaia di miglia di deserto sconfinato, questo confine divide la regione di Sonora, oltrepassa storiche linee
familiari, proprietà terriere, comunità e culture.
UNA CRISI UMANITARIA COMPLESSA IN UN CONTESTO DI PROFONDI CAMBIAMENTI
DEMOGRAFICI
Al giorno d’oggi la regione di Sonora e tutte le regioni al confine tra il Messico e gli Stati Uniti sono colpite
da conflitti che derivano non soltanto da questa storia di divisione ma anche dal dilemma di una
immigrazione con molte imperfezioni e di politiche economiche inadeguate, di processi non pianificati per
indirizzare lo sviluppo della comunità, della sicurezza economica regionale e la ramificazione del complesso
cambiamento sociale. La migrazione di persone al confine tra Stati Uniti e Messico dall’interno di questo
ultimo così come dall’America Latina, dal Sud e dal Nord America è causata da un miscuglio di
sopravvivenza e sussistenza, commercio economico e interessi legati allo stile di vita poiché la regione di
confine sta diventando sempre di più un posto che dà la possibilità di più alti stipendi per le persone
provenienti dal Sud e affari e diverse opportunità di avere un buon stile di vita per le persone provenienti dal
Nord. Facilitati da politiche di commercio globale come l’Accordo di Libero Scambio nel Nord America,
dalla tecnologia e dalle risorse che permettono a sempre più persone di vivere in paesaggi aridi, le comunità
che si trovano al confine hanno visto la popolazione raddoppiare e triplicarsi per lacune comunità negli
ultimi dieci anni. Le migrazioni verso le città e i villaggi su entrambi i lati del confine non ha solamente
comportato l’aumento delle persone presenti nelle comunità di confine ma hanno anche avuto un impatto
sulla morale della comunità e sulle relazioni civiche attraverso l’incremento delle diversità etniche e culturali
e delle sfide per le infrastrutture intese in senso fisico e sociale di queste comunità di confine.
MIGRAZIONE UMANA E LA GLOBALIZZAZIONE DEL CAPITALE
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Durante gli ultimi 20 anni, la regione di confine è rapidamente diventata una zona industrializzata di
commercio tra le nazione del primo mondo e del terzo mondo. La regione accoglie impianti di fabbricazione
posseduti da stranieri, chiamati maquilladoras. Queste sono industrie che importano materiale grezzo dagli
Stati Uniti, dal Canada e da altre nazioni per l’assemblaggio finale e trarre profitto dal lavoro più a basso
costo in Messico con incentivi regolativi geografici e logistici per servire i mercati del Nord America.
Mentre erano contestate per avere maggiore giustizia ed equità nelle condizioni di lavoro, le maquilladoras
offrirono lavoro a migliaia di lavoratori che migrarono al confine della regione. La crescita delle
maquilladoras sfida e contribuisce al conflitto sulle infrastrutture e sui servizi municipali alle comunità su
entrambi i lati del confine, e contribuisce a nuovi problemi sull’ambiente, sulla sicurezza, la salute e il
benessere di queste comunità. La recessione economica e i cambiamenti nelle strategie di investimento del
capitale globale porta cambiamenti inaspettati allo status di lavoratore di migliaia di impiegati nelle
maquilladoras, e sono correlate alla disoccupazione e all’aumento sostanziale degli abusi, di violenze contro
le donne e di rabbia e povertà croniche.
IMMIGRAZIONE E QUESTIONI DI CONFINE
Le crisi riguardanti l’immigrazione e la sempre più forte presenza del personale Statunitense per il rinforzo
della legge federale, dei piccoli armamenti e di supporto militare (la pattuglia di confine bruscamente
raddoppiò a 8,000 agenti dal 1993 a 2000) può essere ricondotta all’Ottobre 1994 quando il Messico svalutò
la valuta del Peso per una crisi economica. Nel tentativo di prevenire le ondate di immigrazione clandestina,
il Servizio Statunitense per l’Immigrazione e la Naturalizzazione (INS) avviò l’Operazione “custode del
cancello” ed una serie di altre operazioni volte a fermare l’immigrazione clandestina e il traffico di narcotici
in zone particolari. Le intenzioni dichiarate dalla polizia di confine dell’INS sono quelle di mantenere un
confine internazionale che faciliti il commercio regolare, che generi e regoli il libero movimento delle
persone e dei beni, che prevenga il traffico di droga, l’immigrazione clandestina e il trasporto di merce
illegale. L’INS gode dell’aiuto della task force Sei, un consorzio di forze di legge federali, militari, dogane e
agenzie di regolazione. Adottano una strategia di conflitto a bassa intensità che insegue la sicurezza
attraverso tattiche di forza che scoraggiano fisicamente e psicologicamente i civili. Queste vengono messe in
atto sotto forma di aerei che volano a bassa quota alla ricerca di elicotteri, di posti di blocco armati nelle
autostrade, illuminazione forte durante la notte del confine nelle aree municipali e nei veicoli molto grandi,
biciclette e pattuglie a cavallo. L’impatto sui migranti senza documenti che passano attraverso queste
operazioni militari dell’INS è drammatico. Per esempio, il numero di morti tra i migranti che passavano per
la valle imperiale in California e il deserto di Sonora in Arizona sono aumentati del 600% da quando è
iniziata l’operazione del “custode del cancello”, con più di 1500 morti negli ultimi cinque anni.
CONFLITTO DI COMUNITA’, VIOLENZA ED IMPATTO ECOLOGICO
La distinzione razziale, una tattica usata dalla polizia per fermare e detenere persone sulla base del colore
della pelle, è stata utilizzata contro i migranti dalla polizia in alcune città dell’Arizona. Questo ha fatto
sorgere conflitti tra vicini di casa e gruppi comunitari, siccome in Arizona ci sono poche fattorie e pochi
proprietari di case cha hanno sparato e detenuto gli immigrati sotto la minaccia di una pistola. Tale violenza
aumentò la tensione all’interno delle comunità e creò gruppi di fazione.
Il consumo delle risorse da parte delle comunità di confine in risposta ai problemi di rinforzo giuridico e
sanitario, sta salendo a dei livelli allarmanti. Gli ospedali, le agenzie di rinforzo giuridico e le organizzazioni
civiche sono tassate sempre di più nell’incontrare questi bisogni d’emergenza e nascono conflitti quando il
governo e i gruppi comunitari distinguono le legalità e le responsabilità sulla remunerazione delle spese per
avere cura dei bisogni degli immigrati. Tra questi conflitti sono noti casi e imputazioni di violenze contro le
donne immigrate, come il rapimento e la violenza sessuale da parte dei “coyotes” (contrabbandieri di
persone) e agenti delle pattuglie di confine.
Lo spreco dei manufatti provenienti dai maquilladora insieme al mal disposto sistema di smaltimento di
rifiuti sia umani che non nelle comunità di confine dove le infrastrutture sono sottoposte a grandi sforzi a
causa della sovrappopolazione, pone delle sfide ambientali significative. L’accresciuta pattuglia di confine e
l’accresciuto traffico dei migranti nell’habitat fragile del deserto, destabilizza l’industria ambientale poiché le
recisioni lungo i terreni sono distrutti dai migranti e dall’INS, la spazzatura e gli effetti personali sono
abbandonati dai migranti, il suolo viene eroso dall’aumento del traffico dei veicoli e le migrazioni degli
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animali selvatici sono colpite dalle mura dell’INS che dividono le città degli Stati Uniti da quelle del
Messico.
DIVERSI APPROCCI NELL’INDIRIZZARE LE CRISI ED IL CONFLITTO STRUTTURALE
All’interno del contesto del crescente rinforzo regionale della legge e delle armi, i gruppi di difesa con
interessi locali che provengono da vari settori sociali, hanno iniziato a riunirsi all’interno delle comunità di
confine per discutere, a sostegno dei loro rispettivi punti di vista, sui problemi di confine. Tuttavia, in alcuni
casi, queste buone intenzioni hanno contribuito ad aumentare la tensione, la paura e la divisione all’interno
delle comunità locali. Oltre le attività necessarie di molti gruppi di difesa e le iniziative, gli approcci alla
risoluzione del problema e al cambiamento sociale che sostiene i diritti umani, non sono presenti gli interessi
libertari, civici, i gruppi economici e governativi che si sforzino in un dialogo comune, orientato alla
risoluzione di entrambe le crisi e al cambiamento strutturale di lungo periodo. Quindi, il potenziale per il
peacebuilding.
Mentre la violenza e il conflitto hanno un impatto immediato sulle comunità locali, questi problemi sul
confine sono sintomatici in natura e affondano le radici in più ampie tendenze dell’economia globalizzata, le
politiche nazionali e le basi del potere, situate lontano dalle zone di confine. Stabilire le responsabilità locali,
statali, federali o internazionali nei problemi di confine è un dilemma che preme. Discernere quali sono i
processi di problem solving nelle comunità di confine presenta una serie di sfide alle ONG e alle istituzioni
governative nel rispondere alla crisi dell’immigrazione, alla violenza sugli immigrati e al profondo
cambiamento sociale all’interno delle comunità di confine. Date queste sfide, ci avviciniamo al nostro
contesto attraverso una strategia di peacebuilding che cerca di creare entrambe le condizioni e le opportunità
per le persone a livello sia locale che regionale di trovare uno spazio comune fisico ed emotivo per
discernere il reciproco desiderio di un futuro condiviso.
COSTRUIRE UNA COSTITUZIONE REGIONALE PER UNA CULTURA DI PACE: CAPACITA’ DI
COSTRUIRE E COLLABORARE
Nel lavorare per indirizzare le complessità del conflitto e del cambiamento sociale nella nostra regione, sette
ONG (Borderlinks; Tecnologico de Nogales; Universidad Tecnologica de Nogales; Catholic Relief Services,
Cooperative By Design; Consorzio Arizona per il peacebuilding a Tucson; Centro di risoluzione del conflitto
Stati Uniti-Messico; e la rete delle comunità per il peacemaking e la risoluzione del conflitto.) hanno stretto
una collaborazione per cercare di indirizzare le attività di peacebuilding nelle zone di confine basata sulla
missione condivisa dell’educazione e del valore e principio secondo il quale le persone sono agenti di
cambiamento sociale. Mentre si differenziano per scopo, missione e rispettivo lavoro all’interno della
società, le ONG che si sono unite, stanno lavorando in collaborazione per facilitare i leader del confine a
programmare il peacebuilding che è sistematico in natura e radicato nel contesto delle nostre regioni di
confine.
SOMMARIO DEL PROGRAMMA
Le realtà dei nostri confini dimostrano che non esiste evento politico, politica di scambio, strategia di
rinforzamento legale, che crea o sostiene la giustizia, la attuabilità economica, e la sicurezza per la nostra
regione. In definitiva, la nostra reale risorsa di sicurezza e capacità di vivere si poggia su relazioni che si
stanno sviluppando con e tra le persone e le comunità nelle zone di confine e la nostra capacità di
visualizzare e progettare il cambiamento sociale nelle nostre comunità. L’Iniziativa di Peacebuilding nelle
terre di confine del Sonora (SBPI) ha come obiettivo quello ci portare le persone, le municipalità, le
comunità e le istituzioni ad unirsi da entrambi i lati del confine per capire al meglio come incontriamo i
nostri dilemmi e discerniamo e ci rafforziamo l’uno con l’altro in una azione cooperativa in senso
economico, sociale e politico.
L’obiettivo più grande del SBPI è quello di costruire un progetto di peacebuilding regionale che sia
sostenibile e ampio e che la rete di leadership con tutti i leader provenienti dai vari livelli sociali, crei
dialogo, educazione, e applichi le ricerche al peacebuilding, che è sia orientato all’azione che all’auto
riflessione. Cerchiamo di ridurre la violenza e di portare un cambiamento sociale giusto e duraturo nella
regione attraverso il rafforzamento delle capacità, le risorse e le relazioni all’interno e tra i leader formali
(Eletti/Designati) e i leader informali (radicati) da tutta la zona nord del Sonora e da tutta la zona sud
dell’Arizona. Come sforzo fatto da entrambe le nazioni, stiamo collaborando per sviluppare un approccio al
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peacebuilding per un giusto e sostenibile cambiamento sociale contestualizzato alla nostra regione,
culturalmente appropriato e attrezzato in modo tale da avere un impatto positivo sui dilemmi critici della
leadership, della sicurezza, della giustizia, della governabilità e della pace.
Inoltre consideriamo il peacebuilding come un processo che implica una costruzione attiva delle condizioni
che promuovono un desiderio reciproco di un futuro condiviso. Piuttosto che limitare le attività di
peacebuilding ad una “fase di post conflitto” o alla negoziazione, consideriamo il peacebuilding come un
processo continuo di lavoro, per impegnarsi in maniera creativa e canalizzare i conflitti in maniera
costruttiva, costruire relazioni paritarie con una forte enfasi sulla giustizia sociale, e sullo sviluppo socioeconomico sostenibile. Mentre il peacebuilding è un misto di mediazione e processi di risoluzione di pace, il
punto nodale di questa iniziativa è quello di avere la capacità di costruire una leadership attraverso il dialogo
e lo scambio. Questo avviene in una serie di forum dedicati all’apprendimento e in discussioni dirette al
rafforzamento, alla giustizia ed alla costruzione delle relazioni attraverso le divisioni sociali e politiche come
quelle tra i diritti umani e le comunità costrette dalla legge. Il compito del peacebuilding è quello di creare
opportunità di incontro lungo le linee di conflitto e lungo le stratificazioni sociali per discernere
reciprocamente, mobilitare le risorse relative all’interno delle comunità della regione di Sonora e rinforzare
le potenzialità degli individui e delle istituzioni per trasformare costruttivamente le loro vite e i loro rispettivi
conflitti.
Obiettivi fondamentali per l’Iniziativa di Peacebuilding nel Confini di Sonora
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Aumentare la comprensione della pace come processo di cambiamento basato sulla costruzione di
relazioni;
Aumentare la consapevolezza del Peacebuilding come sistema organico che richiede il mettersi in
relazione e il coordinamento di parecchie attività e ruoli a vari livelli e che nessuno da solo è in
grado di avviare e sostenere il processo di pace.
Aumentare la comprensione di attività particolari, richieste da vari settori sociali (p. es. leader
politici di alto livello, livello medio, e livelli di base) che sono necessari per costruire e sostenere
processi di cambiamento sociale;
Definire i punti di forza, i valori e le tradizioni della leadership e risoluzione del conflitto delle
comunità di confine di Sonora;
Promuovere il dialogo e le relazioni tra le persone e i gruppi che non si sono mai incontrati, quindi
lavorare per rafforzare le relazioni e creare collegamenti attraverso i livelli sociali negli USA, in
Messico e tra le stesse due nazioni;
Educare i leader alle strategie di Peacebuilding che integrano le diverse e ancora interdipendenti
questioni di diritti umani, di sicurezza, di autorità e sviluppo economico;
Sviluppare le potenzialità delle infrastrutture sociali, economiche e politiche dei confini, per
adattarsi e rispondere ai bisogni di relazione piuttosto che essere guidati solamente dagli eventi di
crisi e da accordi politici.
Utilizzare strategie pratiche di Peacebuilding sviluppate negli ambiti del conflitto dell’America
del Sud e dell’America Latina che sostengono l’azione collaborativa ed indirizzano le crisi, il
complesso cambiamento sociale, e lo sviluppo sostenibile a lungo termine.
LINEA CRONOLOGICA DEL PROGETTO E ATTIVITÀ
Le ONG partner si incontrarono per la prima volta nella primavera del 2001 per definire il concetto di
progetto, costruire le loro potenzialità, sviluppare la fiducia necessaria, le reti e le risorse per avviare una
serie di attività che hanno preso adesso il via. Queste attività comprendono:
♦ Comitato consultivo. Raggiungere e sviluppare efficacemente relazioni con i leader e le
organizzazioni in un contesto fortemente politicizzato ed attraverso una rete complessa di
stratificazioni sociali, in una regione condivisa da due paesi con storie, culture, risorse e potere
differenti, è scoraggiante. Questa sfida è in parte mitigata dalla leadership che va al di là delle ONG
ossia quella di un comitato consultivo formato da diverse persone che dimostrano di avere potere, e
che sono rappresentative di alcuni ambiti strategici sociali e civici, provenienti dalle altre
municipalità che si trovano al confine e che sono vicine tra loro. Si rivelano essenziali per questo
gruppo tutte quelle persone che sono capaci di lavorare attraverso le differenze e che hanno delle
relazioni con gruppi ed individui che occupano posizioni nelle istituzioni civiche, nelle ONG, nel
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settore economico, nei gruppi religiosi, tra le donne e i giovani, nelle strutture giuridiche, tra le
persone che lavorano con i media e nelle istituzioni pubbliche.
Inverno/Primavera 2002 Dialoghi strutturati di comunità: Aumentare le potenzialità culturali
e di leadership. Una serie di dialoghi strutturati di entrambe le parti del confine in formati bilingue,
enfatizzando la consapevolezza delle persone sulla realtà, la conoscenza delle questioni che creano
conflitto, i dilemmi che influenzano la leadership e una certa visione della vita e del cambiamento
sociale.
Primavera 2002 Seminario di Sonora: Sviluppare delle capacità negli approcci strategici di
Peacebuilding. Un seminario bilingue di una settimana sul peacebuilding strategico che introduce
una struttura di peacebuilding basato sul lavoro al lungo termine nei contesti dell’America del Sud e
dell’America Latina.
Autunno/Inverno 2002 Vertice regionale delle zone di confine: Riflessione e Dialogo
sull’impatto delle strategie di Peacebuilding. Un incontro convocherà i partecipanti alla
formazione e altri colleghi con cui hanno lavorato, per spargere le informazioni e i processi
incontrati durante l’iniziativa, enfatizzando le lezioni imparate, le sfide, e le aree di revisione e di
sviluppo per l’educazione futura di peacebuilding nelle zone di confine.
Meccanismi di valutazione. Le attività partecipatorie di valutazione e gli esercizi saranno facilitati
in tutti gli incontri del gruppo per modellare e dirigere continuamente l’iniziativa ai bisogni e alle
realtà dei partecipanti e valutare criticamente e monitorare l’impatto del cambiamento sociale.
Case Study di Contesti e di Progettazione: Oceania
IL CONFLITTO DI BOUGAINVILLE
Scritto da Justine McMahon, Caritas Australia
Bougainville è l’isola più grande nella provincia di North Solmons della Papua Nuova Guinea (PNG).
Malgrado faccia ancora parte del paese, è geograficamente a culturalmente più vicina alle Isole di Solomon
che alla terraferma della PNG. All’inizio del secolo era una colonia Tedesca. Successivamente, come parte di
risarcimento tedesco agli alleati, dopo la Prima Guerra Mondiale, diventò una colonia Britannica. La Gran
Bretagna cedette la responsabilità della Papua Nuova Guinea e quindi poi di Bougainville, all’Australia.
Più dell’80% della popolazione si considerava cattolica. Anche gli Avventisti del settimo giorno, la Chiesa
Unita, le sette fondamentaliste cristiane, ed alcuni culti religiosi avevano dei seguaci. Nell’Agosto 2001 la
Chiesa Cattolica celebrò i cento hanno di presenza sull’isola. I missionari, la maggior parte dei quali erano
preti Maristi, fratelli e sorelle, furono strumentalizzati per assicurare all’isola il più alto tasso di
alfabetizzazione nella PNG così da ottenere un buon accesso al servizio sanitario, più di ogni altra provincia.
Bougainville che ha un vulcano attivo e due disattivi, è un’isola ricca di minerali e molto fertile. Prima del
1984 aveva la più grande piantagione di copra del Pacifico del Sud e un’industria redditizia di cocco.
Durante la fine degli anni ’60 fu trovata una riserva di rame e di oro nelle montagne dietro la capitale Kieta.
Il Governo Australiano, e successivamente il governatore della PNG, incoraggiarono la costruzione di una
miniera che avrebbe reso più del 50% dei guadagni esteri della PNG una volta ottenuta l’indipendenza nel
settembre 1975.
Sfortunatamente i negoziatori Australiani presero nota delle questioni sulla proprietà della miniera.Una
compagnia Australiana, Cozinc Rio-Tinto Australia (CRA), mise in funzione la miniera di Panguna. Proprio
qualche settimana prima dell’indipendenza della PNG, un gruppo di proprietari terrieri intorno alla miniera
così come altri dell’isola, proclamarono l’indipendenza di Bougainville. Mentre non fu mai garantita
l’indipendenza, questo evento segnò i rapporti tra Bougainville, PNG e la miniera.
LA MINIERA DI RAME DI PANGUNA
La mina di rame di Panguna guadagnò migliaia, se non miliardi, di dollari come entrata sia per la PNG che
per la CRA. L’infrastruttura di Bougainville fu migliorata: un nuovo intero villaggio e principalmente fu
istituito un servizio per i lavoratori delle miniere. Furono quindi costruite scuole, ospedali e strade. L’isola
aveva uno degli ospedali più forniti della PNG. Aumentò l’occupazione e aumentarono le possibilità.
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Tuttavia esisteva l’altro lato della medaglia: i rifiuti della miniera stavano distruggendo l’ambiente, i vecchi
proprietari terrieri persero i loro possedimenti, in cambio di un compenso minimo, oppure niente. Inoltre, si
iniziava a percepire ostilità da parte dei proprietari terrieri e da parte di coloro che pensavano che troppo
denaro stesse lasciando Bougainville. Per alcuni l’indipendenza dalla PNG rimaneva ancora un sogno.
CHI ERA COINVOLTO
Nel 1987, i proprietari terrieri, guidati da Francio Ona, chiesero 10 miliardi di Kina (circa 8 miliardi di
dollari) come compenso. Sia la CRA che il Governo della PNG si rifiutarono di pagare. Da Novembre 1988
ogni tentativo di negoziazione fallì. In quel periodo i piloni che portavano energia alla miniera furono fatti
saltare in aria. Senza energia e a causa di altri sabotaggi la miniera fu chiusa per “alcune settimane”. La
squadra anti-rivolta della PNG (la polizia)fu chiamata per “ristabilire l’ordine”. Purtroppo furono artefici di
alcuni brutali eccessi, bruciarono alcune case e alcuni villaggi e commisero altri atti di violenza contro la
popolazione civile. L’esercito rivoluzionario di Bougainville (il BRA) si costituì per difendere la
popolazione. Nel marzo 1989 la forza di difesa della PNG fu chiamata per contrastare la squadra di rivolta.
Queste azioni galvanizzarono una buona parte della popolazione a seguire il BRA. Nonostante i tentativi di
negoziazione per portare una situazione pacifica, la disputa si fece sempre più forte. La minierà non riaprì
più. Il Governo della PNG dichiarò lo stato di emergenza nel 1989. Il governo impose un blocco sia aereo
che navale all’isola, impedendo la consegna di medicinali necessari e le riserve di cibo. Questa azione causò
la morte di migliaia di persone. Alcune azioni del BRA persero il sostegno di parte della popolazione,
causando una frattura all’interno dell’esercito rivoluzionario.
I combattenti divennero difficilmente identificabili, poiché cambiavano frequentemente posizione. La
Resistenza, che era per l’autonomia ma contro l’indipendenza, si schierò dalla parte del PNGDF (PNG Forze
di Difesa- l’esercito di governo) contro il BRA; alcune fazioni del BRA combattevano una contro l’altra. I
villaggi furono divisi. Vennero commesse terribili atrocità: i presunti membri del BRA o i simpatizzanti
venivano legati e caricati sugli elicotteri forniti dagli Australiani per poi essere gettati nel mare per farli
affogare o nel vulcano. Tutte le parti commisero delle esecuzioni, spesso con le pistole e coltelli ma qualche
volta anche con le catene. I rapimenti diventarono frequenti. Alcune stime dicono che morirono più di 20.000
persone durante i dieci anni di crisi.
TENTATIVI DI PACE
Da quando al disputa iniziò per la prima volta, ci sono stati parecchi tentativi di portare la pace a
Bougainville. Questi comprendono:
1989: il Doi Package offerto per aumentare l’impegno del governo centrale della PNG nello sviluppo delle
infrastrutture della provincia. Nello stesso anno il Rapporto Bika propose il controllo da parte del governo
provinciale della miniera e la ritenuta del 75% delle entrate avute nella provincia stessa.
1990: Gli Endeavour Accords furono firmati. Questo accordo cercò di riattivare i servizi ma non fu mai
rispettato a causa di dissensi su chi dovesse essere il responsabile della consegna di questi servizi. Fu
un’occasione persa.
1991: La Honiara Declaration fu firmata sia dal governo della PNG che dagli abitanti di Bougainville.
Anche questo fallì.
1997: Un maggiore – e preoccupante – colpo al processo di pace fu l’assunzione di un gruppo straniero
mercenario, chiamato Sandline, per porre fine alla crisi. Se questa azione fosse proseguita il conflitto sarebbe
potuto durare per decenni.
Il 1997 fu teatro anche di sviluppo positivo. Si trovarono d’accordo sulla Burnham Declaration. Si basava
sulla cessazione delle ostilità tra le parti in conflitto. Tra di loro si trovava un gruppo multinazionale di
monitoraggio della Pace formato da un personale proveniente dall’Australia, da Vanuatu, dalle Fiji e dalla
Nuova Zelanda. Molti passi avanti furono fatti per il blocco dell’isola.
Dopodichè fu firmato il Loloata Agreement per cementare ulteriormente la strada che conduce alla pace.
Agosto 2001:tutte le parti in conflitto firmarono un accordo di Pace. Questo accrebbe la fiducia all’interno
della comunità che la pace era stata raggiunta.
IL LAVORO DI RICONCILIAZIONE
Il programma Caritas di riabilitazione di Bougainville sostiene il lavoro della fondazione della pace del
programma riabilitativo di giustizia di Melanesia. In assenza di ogni legge ed ordine sull’isola, questo gioca
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un ruolo cruciale nel processo di pace. E’ un programma basato sul villaggio che forma i membri della
comunità a mediare le dispute e, se necessario, raccomandare un’azione appropriata.
Inoltre, le ONG hanno creato dei piccoli progetti per cercare di ristabilire una certa normalità alle persone
colpite dalla guerra e per fornire opportunità economiche alternative.
L’Istituto del consiglio di Bougainville per i traumi ha lavorato duramente nelle scuole e nei villaggi per
aiutare coloro che sono rimasti traumatizzati da dieci anni di conflitto. Questo sarà un processo lungo e lento,
anche perché una recente ricerca indica che il trauma non emerge fino a dieci anni dopo la fine del conflitto.
LA SITUAZIONE ATTUALE
Dall’accordo di Pace firmato nell’Agosto del 2001, è avvenuto un notevole incremento di fiducia all’interno
della comunità. Ogni giorno ci sono piccoli segni che si sta tornando alla normalità: l’erba è tagliata, ci sono
macchine lungo le strade della città (generalmente nascoste nelle buche scavate nella giungla nei tempi di
crisi) case che furono bruciate ora sono state rimesse a posto, stanno nascendo nuovi business e le persone
stanno tornando ai loro villaggi.
Esistono ancora alcuni episodi di violenza e di intimidazioni, ma la maggior parte sono legati a stati di
ubriachezza. Il più grande pericolo a Bougainville è che ci sono molti uomini giovani e forti che sono
cresciuti in tempo di guerra e che non hanno niente da fare. Se ciò continua, potrebbero decidere che è più
proficuo combattere che mantenere la pace. Tutto porta a dire che la gente è stanca di combattere. Le persone
a Bougainville vogliono la pace.
Case Study di Contesti e di Progettazione: Oceania
PORTARE LA PACE TRA LE TRIBU’ IN GUERRA
Scritto da Raymond Ton, Caritas Papua Nuova Guinea
Nelle zone montuose della Papua Nuova Guinea (PNG), l’influenza occidentale è vecchia solo di quaranta
cinque anni, introdotta dagli affari occidentali e dalle Chiese che si sono avventurate nell’area durante la
metà degli anni ‘50. Gli abitanti delle zone montuose vivono in maniera molto tradizionale, con le loro
credenze, le loro pratiche culturali, cambiando i loro valori solo negli ultimi anni. Le persone di questa zona
bella e remota sono molte e differenti tra loro. Esistono più di 700 dialetti in PNG e molti di questi si trovano
nelle zone montuose. La Caritas della Papua Nuova Guinea e la Chiesa Cattolica della PNG hanno lavorato
con alcune di queste comunità per molti anni. In tempi più recenti si sono focalizzati sul Peacebuilding e
sulla trasformazione del conflitto poiché ci furono molti conflitti tra le tribù e i clan. Il cerchio della violenza
sembra non chiudersi mai.
Dal punto di vista culturale i conflitti tribali sono spesso visti da molti come qualcosa che dà dignità e che
mantiene lo status quo e definisce la propria identità. Di conseguenza il “guerreggiare” è, sfortunatamente,
predominante in questa regione montuosa del paese. Le cause possono essere complesse come quelle relative
alla proprietà della terra e, a volte semplici come quella di una vendetta per furto o omicidio. I conflitti hanno
una cosa in comune: la bilancia delle uccisioni e della distruzione delle case è spesso senza unità di misura.
Due clan tribali della zona montuosa del sud della Papua Nuova Guinea sono state in guerra per più di sei
anni. I due clan dei villaggi di Senso e di Pingirip, i Torom- Pepala e gli Ungk-Wim e i rispettivi clan, si
sono fatti guerra utilizzando sia le armi tradizionali che quelle più tecnologicamente avanzate.
Inizialmente, gruppi di comunità tribali (piccoli imperi) vivevano vite distinte ma interdipendenti. Durante i
periodi di minaccia proveniente dall’esterno si legavano ad altri gruppi o clan. I Torom Pepala e gli UngkWim avevano i propri alleati, e i rispettivi alleati avevano altri nemici. I Torom-Pela e gli Ungk- Wim
avevano circa 14 tribù che sostenevano le battaglie tra tribù. Quando un conflitto terminava , le tribù e i clan
che avevano combattuto per una parte si aspettavano di ricevere lo stesso sostegno nella prossima battaglia.
Così i periodi di conflitto si mischiavano l’uno con l’altro e la causa prima di una battaglia veniva confusa
dagli avvenimenti successivi. Inoltre allearsi con una tribù è visto come un investimento, sia che possa essere
in termini monetari, di parole o di fatti. Il primo sostenitore appoggia la tribù principale – il proprietario del
conflitto tribale, il secondo sostenitore appoggia il primo sostenitore, e il terzo sostenitore appoggia il
secondo sostenitore, e così via. La lista dei sostenitori può essere lunghissima, a seconda delle tribù
“dell’impero”.
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Quando il combattimento termina dopo molti anni, sorge la questione del compenso. I compensi sono
condotti all’interno dei propri raggruppamenti tribali. La tribù principale si occupa del compenso della prima
sostenitrice che a sua volta si occupa di quello della seconda, e così funziona per il lungo elenco di tribù
“affiliate”. Se sorge un problema legato al pagamento del compenso (che sia in denaro o tramite la cessione
di maiali), il combattimento può scatenarsi di nuovo. Il processo di pace può essere tanto difficile quanto il
combattimento stesso. Un combattimento è considerato risolto in maniera efficace quando tutte le parti
collaborano fattivamente. E così nel processo di pace, ogni parte coinvolta nel conflitto deve volere la pace
stessa. Inevitabilmente alcune fazioni non converranno così facilmente e la questione sulla non
condiscendenza potrebbe portare ad un altro combattimento.
Il processo di pace tra i Torom – Pepala e gli Ungk – Wim coinvolse non solo questi due gruppi ma richiese
la negoziazione con 28-30 raggruppamenti di clan e i loro relativi problemi. Una pace che riesca a mediare
ha bisogno di tempo! La cosa importante è che ogni clan e le sue famiglie, fino ad arrivare agli individui,
comprenda il processo di pace e creda che quest’ultimo porti benefici a tutti quanti.
La mediazione fu un processo lungo e difficile. Prima di tutto, devono essere identificate le parti e chi ha il
potere in pugno di entrambe le parti e bisogna individuare i vari legami interconnessi che sono stati stabiliti.
Fu assolutamente vitale stabilire i fatti e le statistiche su chi ha perso cosa e chi ha ottenuto cosa da chi nel
conflitto. Conoscere i nomi di coloro che hanno giocato un ruolo chiave nel conflitto e di coloro che hanno
creato una relazioni basate sulla fiducia fu essenziale. Ogni persona di potere, ogni capo e ogni consigliere di
villaggio dovevano credere che il negoziatore fosse un giusto, onorabile e imparziale ascoltatore.
Una volta che erano state ottenute e analizzate le informazioni, venivano organizzati degli incontri di tutti
leader e i relativi membri delle tribù nelle loro comunità. Durante questi incontri furono discusse le seguenti
domande: “ Ora che avete mostrato un grande interesse nel voler mettere fine a questo disastrooso
combattimento fra tribù e volete giungere ad un accordo di pace con i vostri rivali,
1. Cosa ostacolerebbe il processo di pace da parte vostra? E Dall’altra parte?
2. Di cosa avete bisogno? Che cosa devono fare gli altri?
3. Quali sono le questioni rilevanti della vostra parte sui cui volete lavorare? E le loro?
4. Cosa vorreste fare come prova tangibile di buona volontà per costruire la pace e l’armonia? E cosa
volete che facciano i vostri rivali per dimostrarvi la stessa cosa?
5. Che cosa volete che faccia (come mediatore della Caritas) per questo processo?
6. Quando ci possiamo incontrare di nuovo?
Ascoltare attivamente e attentamente fu importante per assicurare la genuinità della discussione così come lo
fu essere sicuri di arrivare ad un consenso generale dando a più persone possibile l’opportunità di parlare per
conto del loro clan. Questo fu fatto in tutti e due i luoghi. Se c’erano discrepanze nella loro versione della
storia, il mediatore faceva ritorno e in maniera delicata cercava di capire cose fosse stato detto da entrambe
le tribù così che avessero l’opportunità di appianare le differenze.
Ci vollero due anni prima di raggiungere la meta della pace. Il processo culminò in una cerimonia pubblica
con la firma dei trattati di pace, testimoniati dai leader locali, dalle autorità governative e dai capi delle
Chiese. Questa cerimonia pubblica fornì l’occasione per annunciare alle comunità vicine, alle chiese, al
governo, ed al resto della provincia e del paese la decisione bilaterale di porre fine a questo combattimento.
Gli inviti furono spediti a tutte le autorità governative, ai capi delle chiese, ai leader delle comunità e ai
relativi membri delle due tribù, delle tribù alleate, alle comunità vicine e al resto della provincia che fu
colpita durante la lotta.
Durante questa cerimonia pubblica, un accordo, o memorandum di comprensione fu preparato e firmato dai
capi o dai leader di ogni singolo clan coinvolto nel combattimento. Sul documento erano presenti i nomi
delle autorità governative incluse le corti, la polizia, i consiglieri, i leader eletti, i leader più in vista delle
comunità, i principali rappresentanti delle chiese, i preti della parrocchia o i pastori che firmarono come
testimoni del fatto che le tribù non erano più in guerra tra loro. Durante la cerimonia i leader rivali, che
indossavano i vestiti tradizionali delle Highlands, entrarono nell’arena pubblica per mano a due a due. Si
avvicinarono al documento insieme e lo firmarono uno dopo l’altro.
Come segno che il processo di pace segnava un periodo nuovo, le due tribù rivali stanno ora lavorando per
costruire una strada che va alle loro comunità, grazie ai fondi della Caritas della Papua Nuova Guinea.
Hanno anche costruito una chiesa e una casa per un prete usando il materiale dei cespugli raccolti dalla terra
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su cui si erano battuti. Le famiglie stanno tornando nelle terre una volta deserte a causa del conflitto. La vita
sta piano piano tornando alla normalità e sono stati fatti degli sforzi per promuovere, nutrire ed educare alla
pace.
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