ffl Case Study di Contesto: Africa DISPUTA TRA IL PROPRIETARIO
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Case Study di Contesto: Africa DISPUTA TRA IL PROPRIETARIO DI CASA E L’INQUILINO NEL KIBERA Scritto da Peter Weke, Caritas Kenya Kibera è uno dei più grandi bassifondi del mondo. È la casa di più di 700,000 persone colpite dalla povertà, gran parte della quale non ha lavoro. È situata nei sobborghi della città di Nairobi, non troppo lontano dalle baracche dell’esercito di Langata. Con gli anni, questo posto è stato principalmente abitato da due tribù, i Nubians e i Luos. Entrambe le tribù sono d’origine di Nilotic nel Sudan ed hanno vissuto nel Kenya pacificamente, fino a poco tempo fa. Una notte è scoppiata una lotta molto aspra che ha lasciato parecchie case bruciate e colpito molte persone. Parecchie persone furono uccise. ORIGINE Molti proprietari di casa in Kibera sono della comunità di Nubian mentre la maggioranza degli inquilini sono Luo. La storia dice che i Nubian furono insediati qui dal governo coloniale dopo la prima guerra mondiale. Questo perché non potevano tornare in Sudan, il loro paese di origine. Il governo coloniale assegnò le terre, compresa quella del Kibera ai Nubians. Più tardi, i Luo arrivarono a Nairobi dalle loro terre di origine nella campagna in cerca di lavoro e vissero come affittuari a Kibera. La maggior parte di loro trovò lavoro nell’area industriale e nelle ferrovie come “occasionali” ed avevano una paga veramente misera. Non riuscivano ad ottenere delle case decenti e l’unica alternativa era quella di trovare rifugio nelle baracche. Le persone che lavoravano ma che poi avevano smesso di farlo, erano conosciuti come “ retrenches”. Molti di loro vivevano nelle baracche di Nairobi e vivevano di lavori saltuari e come venditori ambulanti; spesso non riuscivano a finire la contrattazione. In questo periodo I Nubians costruirono le baracche da affittare nei bassifondi. Questo è il motivo per cui queste comunità iniziarono a vivere insieme in stretta relazione: I Nubians fornivano le baracche da affittare e i Luo vivevano come inquilini. Negli anni i proprietari delle case, i Nubians, ricavavano molto da questa relazione. Alcuni chiedevano cifre esorbitanti che erano fuori dalla portata dei “retrenches”. Tuttavia, entrambe le parti erano importanti in questa relazione perché entrambe ne beneficiavano. Questa coesistenza pacifica durò per molti anni fino ad ora, quando il presidente ha ordinato la riduzione degli affitti e ha intimato agli affittuari di non pagare finchè il suo ordine non fosse eseguito dai proprietari. La situazione economica in Kenya è disastrosa al momento e molte persone vivono al limite della sopravvivenza. Per questa ragione, il Presidente del kenya chiese ai proprietari delle case di ridurre gli affitti alle persone povere che vivevano nelle baracche, così facendo però fece nascere il conflitto in Kibera. Dichiarò che nessuno avrebbe dovuto pagare l’affitto da quando la terra apparteneva al governo e quindi nessuno poteva rivendicarne la proprietà. La direttiva del Capo di Stato portò ad una situazione di confusione perché gli affittuari si rifiutarono di pagare, mentre i proprietari collaborarono con il Capo dell’area che insisteva nel riscuotere gli affitti. Questa situazione portò a scontri sanguinosi tra le due parti, e la polizia fu chiamata per restaurare l’ordine. In ogni caso la situazione non durò a lungo. Alcuni politici locali usavano a loro vantaggio la situazione per pubblicare accese dichiarazioni in vista delle elezioni dell’anno successivo. Alcune persone d’affari pensarono che fosse una buona opportunità impadronirsi dei terreni poiché gli abitanti furono costretti a fuggire per salvarsi. Anche l’amministrazione locale-provinciale contribuì al conflitto, non riuscendo a riconciliare le parti in lotta. LA SITUAZIONE ATTUALE Fino ad adesso, decine di persone sono spaventate a morte e registrano ferite profonde. Almeno una decina di case sono state bruciate e alcune proprietà abbandonate sono state distrutte. Quindi l’amministrazione provinciale ha dichiarato pericolosa la zona delle baracche. Il Commissario provinciale nella sua ultima dichiarazione, dopo aver fatto un sopralluogo con un elicottero, disse che un’indagine nelle baracche era già stata avviata e che il governo aveva avviato un processo di istituzione del perimetro delle terre che erano state assegnate alla comunità dei Nubian al tempo coloniale. Una volta stabiliti i confini, l’Amministrazione Provinciale e i leader delle comunità decideranno se vi sarà un comando congiunto o a titolo individuale. I Pagina 219 di 252 leader delle comunità sono rappresentativi di ognuna di esse- consiglieri di area e capi. Sono in contatto con le persone che vivono in Kibera e capiscono i loro problemi. TENTATIVI DI RISOLUZIONE DEL CONFLITTO Come fu riportato sulla carta, il membro del parlamento dell’area (MP) ha visitato i bassifondi per aiutare la riconciliazione tra i gruppi in guerra. Ma siccome è un Luo, è visto come sostenitore della sua tribù. Pesanti combattimenti tra i Nubian e i Luo hanno seguito la sua visita. L’accusa dei Nubian è che il MP, che è anche ministro del gabinetto, ha lavorato su un piano per sfrattare i Nubian affinché il terreno fosse occupato solo dai Luo. Per di più, i Nubian sostengono tenacemente che fu il governo coloniale a ristabilirli lì dopo la fine della seconda guerra mondiale, e quindi non se ne andranno. Non ci fu nessun intervento significativo da parte delle ONG. L’amministrazione provinciale e il MP locale hanno tentato di mediare tra le due parti e adesso la situazione si sta calmando. Alcune organizzazioni hanno fornito cibo ed hanno sopperito ad altri bisogni fondamentali. Tra queste troviamo la Caritas Nairobi, la gente per la pace in Africa, alla società della Croce Rossa del Kenya. Il governo ha anche tentato di riconciliare la gente attraverso l’amministrazione provinciale. All’inizio, questa idea fu rifiutata dalla gente perché si credeva che il governo avesse istigato la violenza. Gran parte della gente che campeggiava nel recinto del District Officer, è ritornata alle loro case. Le squadre di polizia antirivolta che furono dispiegate, furono ritirate. I proprietari delle casa e gli affittuari ora stanno negoziando per la giustizia e molti credono che prevarrà la convivenza pacifica. Case Study di Contesto: Africa LA RIBELLIONE AL NORD DI MALI Scritto da Theodore Togo, Caritas Mali Sebbene il conflitto cominciò negli anni sessanta, la fase attuale del conflitto nel nord del Mali è iniziata con la ribellione dei Tuareg dal 1990 al 1995. Il problema complesso della ribellione dei Tuareg ha influito fortemente sull’unità e l’integrità di tutta la nazione del Mali. Il conflitto ha scatenato questioni di sicurezza e di sviluppo, ed è stato visto come una guerra tra la comunità bianca e quella nera. SITUAZIONE GEOGRAFICA E LA POPOLAZIONE DEL NORD La popolazione del Mali è di circa 10,000,000 persone di differenti gruppi etnici. Ci sono otto regioni amministrative: Kayes, Bamako, Sikasso, Ségou, Mopti, Gao, Kidal, e Tombouctou. Una grande parte dei 1,242,021 km2 del paese sono nel deserto Saheliano. Le regioni amministrative di Gao, Kidal, e Tombouctou appartengono al Nord. Queste regioni sono le aree sfavorite del paese. La popolazione è composta da nomadi (Arabi, Tuareg, Peulh) ed agricoltori (Songhoy, Arma, i pescatori di Sorka, Somono, Bozo e Bambara). Il terreno e l’interdipendenza tra la gestione dell’agricoltura e degli animali rende obbligatorio il contatto tra i differenti gruppi etnici dell’area. Hanno relazioni matrimoniali e culturali che avvicinano gli agricoltori agli allevatori d’animali. In questo caso, il concetto di un gruppo di minoranza può indicare gruppi etnici bianchi e neri così come agricoltori e nomadi. LA PRIMA RIBELLIONE DURANTE LA PRIMA REPUBBLICA (1960-1968) All’inizio, le popolazioni nel Nord vivevano una vita molto cooperativa. Le loro principali occupazioni erano l’agricoltura e l’artigianato, ed avevano buone relazioni di commercio con il Niger, un paese vicino. Nel 1963, avvenne una rivolta Tuareg a Kidal. Questa rivolta fu mal interpretata come una ribellione. La zona fu messa sotto amministrazione militare dopo un intervento brutale dell’esercito. Questo creò sospetto tra le comunità bianche e le autorità pubbliche. Pagina 220 di 252 Dopo la rivolta del 1963, susseguirono terribili anni di siccità nel Mali dal 1974 al 1984. Questa siccità fu drastica nel Nord, molti persero il bestiame e soffrirono la fame. Tutte le comunità del nord furono colpite, ma i nomadi, e gli allevatori d’animali soffrirono particolarmente. Questo causò la fuga di molte famiglie nomadi in paesi che offrivano condizioni migliori, come la Libia, l’Algeria e anche il Libano. LA RIBELLIONE DEL 1990 Il 28-29 Giugno 1990 circa 60 ribelli armati attaccarono la zona di Tiderméne durante la notte. Uccisero l’ufficiale del governo locale, sua moglie, un prigioniero, ed una guardia. Il giorno successivo raggiunsero Menaka dove uccisero altre 14 persone, tra i quali 4 soldati. Attacchi del genere avvennero in tutta la zona. VARI MOVIMENTI RIBELLI I ribelli sono essenzialmente composti da gruppi di nomadi e di giovani esiliati in Libia durante gli anni della siccità. Furono strappati dalle loro famiglie e dal loro ambiente sociale e non ebbero alcuna formazione o qualifica professionale. Furono educati come soldati e usati come mercenari per differenti scopi in altri paesi, come il Chad, il Libano, la Palestina ed altrove. Esiste una serie di differenti movimenti di ribelli: 1. Movimento popolare dell’Azawad, MPA 2. Fronte Arabo-Islamico dell’Azawad, FIAA 3. Esercito rivoluzionario di liberazione dell’Azawad, ERLA 4. Fronte popolare di liberazione dell’Azawad, FPLA 5. Fronte nazionale di liberazione dell’Azawad, FNLA 6. Base autonoma di Timitrine 7. Base autonoma del fronte unito di liberazione dell’Azawad, FULA 8. Movimento patriottico Ganda Koye, MPGK Ganda Koye significa “proprietario del terreno” in Sonrhai, una delle lingue parlate nel Mali. I ribelli annunciarono che le forze armate del Mali e il MPGK stavano progettando di eliminare la popolazione dei bianchi in Mali, dopo la morte dell’assistente capo del personale del FIAA e la distruzione dei suoi mezzi da parte di una pattuglia dell’esercito. Durante la ribellione, le antiche divisioni tra le tribù crearono spaccature tra i vari movimenti, invece di unirli contro le autorità nazionali. Queste divisioni non favoriscono una buona relazione tra lo stato e i differenti movimenti. GLI OBIETTIVI DELLA RIBELLIONE DEL 1990 Gli obiettivi conosciuti dei ribelli erano quelli di vendicarsi per l’intervento armato del 1963 e di ottenere un maggior coinvolgimento dei nomadi nella gestione del paese e delle loro terre. L’obiettivo specifico della rivolta era quello di guidare l’attenzione del governo sulle sue politiche discriminatorie nel nord. Questa discriminazione aveva la forma di: totale assenza dell’amministrazione, percezione di un totale abbandono da parte del governo della parte Nord; mancanza di agenti di sicurezza, scuole e strutture sanitarie; una mancanza forte di acqua e di una infrastruttura per le comunicazioni. Gli attacchi divennero generici e assai diffusi. Diventarono un serio problema per il paese, per gli attacchi locali agli uffici della sicurezza e ai palazzi dell’amministrazione, causando gravi perdite di vite e risorse. I ribelli, infatti, uccisero circa 60 abitanti del Mali e ne ferirono altre 30. Molte persone scomparvero. Inoltre, la perdita del materiale portò al blocco o alla cancellazione di differenti progetti di sviluppo nella regione. Come risultato, molte persone provenienti dalle diverse comunità fuggirono dalla parte nord e si diressero verso le aree centrali del paese o in quelli confinanti. L’amministrazione del governo abbandonò le terre perché i suoi impiegati erano i primi ad essere colpiti. I progetti di sanità e sviluppo sociale non poterono avanzare a causa della persistente mancanza di sicurezza. Le autorità del governo: Per contrastare la ribellione, le autorità usarono le forze armate e di sicurezza. Il loro intervento durò fino al dicembre 1990, quando il multipartismo era nell’aria, e si stava combattendo per la democrazia. Pagina 221 di 252 ACCORDI DI PACE GLI ACCORDI DI TAMANRASSET (GENNAIO 1991) Il 5-6 Gennaio 1991, i rappresentanti di governo incontrarono le delegazioni di entrambi i movimenti WA e FIAA a Tamanrasset per iniziare le negoziazioni che portarono alla firma dell’accordo di pace. L’accordo di Tamanrasset incluse: la pace e il rilascio dei prigionieri; una riduzione nelle dimensioni delle forze ribelli; una riduzione della presenza delle truppe del governo nel Nord; il ritiro delle forze armate dall’amministrazione locale; l’eliminazione di alcune posizioni militari strategiche; l’integrazione di forze ribelli nelle forze armate sulla base di una negoziazione; l’accelerazione del processo di decentralizzazione; la provvigione di credito per i programmi d’investimento nel nord. IL PROBLEMA DEL NORD NEL PERIODO DI TRANSIZIONE (DA MARZO 1991 AD APRILE 1992) Il comitato di transizione per la salute del popolo (CTSP) optò per una politica d’apertura, e diede due posti a MPA e FIAA al CTSP. Malgrado lo sforzo da parte delle nuove autorità del paese, le forze ribelli continuarono le loro azioni con 43 attacchi nel Nord dal 6 Giugno al 25 Settembre 1991. Più di 60 civili morirono, 67 furono feriti e 13 scomparsi. Più di 4,000 animali e sette veicoli furono rubati. Nonostante tutto ciò, le autorità furono d’accordo sul principio di negoziazione con i ribelli armati, con l’aiuto della mediazione del governo Algerino. IL PATTO NAZIONALE COME UNA SOLUZIONE Il patto nazionale è il risultato di un lungo processo, nel corso del quale le autorità del Mali accettarono il coinvolgimento di differenti attori della nazione per riuscire a realizzare un censimento nazionale effettivo. Una conferenza nazionale (31 Luglio – 15 Agosto 1991) propose all’organizzazione di una conferenza speciale nel Nord, di aumentare la partecipazione di quella specifica area. Nel Novembre 1991, si fece un incontro tecnico preparatorio nel Segou. Quest’incontro coinvolse i partecipanti delle tre regioni del Nord e parti politiche nazionali sotto la supervisione delle autorità di transizione. La Conferenza di Mopti (16 – 18 Dicembre 1991) fu fatta sotto la supervisione del governo transitorio. La conferenza coinvolse la parte civile, le parti politiche nazionali, ed anche differenti movimenti ribelli. All’incontro ha anche partecipato un comitato di anziani. L’incontro di Algeri (29-30 Dicembre 1991) tra i governi del Mali e della Nigeria definì il contesto e la mediazione che l’Algeria avrebbe avviato. Il primo incontro di Algeri (22-24 Gennaio 1992) fu la prima sessione di negoziazione sponsorizzato dal governo dell’Algeria. A questo incontro, le due parte si misero d’accordo su: firmare un accordo di pace; il rilascio reciproco dei prigionieri; fondare una commissione indipendente d’indagine; la necessità di continuare le negoziazioni. Al secondo incontro di Algeri (15-19 Febbraio 1992), non si ottenne alcun risultato perchè non si presentarono i principali leader della rivolta. In ogni caso, il terzo incontro di Algeri (15-25 Marzo 1992) portò ad una soddisfacente elaborazione del Patto Nazionale. Le parti lo firmarono a Bamako l’11 aprile 1992. Lo scopo principale è ristabilire la pace, la riconciliazione nazionale e l’integrazione socio-economica delle regioni del nord in tutti gli aspetti. Alcuni dei punti salienti del patto furono: l’integrazione dei combattenti e il ritorno della popolazione costretta a fuggire; la riorganizzazione dell’amministrazione; continuare le attività di sviluppo; prendere misure appropriate per contrastare qualsiasi attività che possa compromettere la pace appena stipulata. Nota che la parte essenziale di questa riconciliazione fu fatta dalla gente stessa ed aspettava solo di essere consolidata e sostenuta dallo stato per dare vita a nuove dinamiche di pace. LA SITUAZIONE ATTUALE (DA QUANDO FU FIRMATO L’ACCORDO DI PACE NEL MAGGIO 1995) Il nord è diventato un’altra regione. La pace è ritornata, da Mopti a Tessalit a Anetis Kida e Gao. Non si può facilmente credere che questa zona di Mali ha visto una ribellione così violenta solo pochi mesi fa. I sorrisi mostrano che la guerra è finita. La gente si muove liberamente, e le donne vanno a prendere la legna da ardere senza alcun problema. Le cose sono ritornate alla normalità: i pastori possono dare a mangiare al loro Pagina 222 di 252 bestiame; la gente può muoversi con i cammelli senza aver paura; e gli agricoltori possono lavorare la loro terra fino al tramonto. Gli autisti guidano da Gao a Tessalit da soli. Malgrado i progressi, c’è ancora molto da fare. Per consolidare la pace, sono necessarie le seguenti cose: l’implementazione di un vasto programma di sviluppo per il nord; la sviluppo di progetti rurali d’acqua; la costruzione di centri sanitari e di scuole; lo sviluppo del sistema comunicativo; procurare il cibo a chi non ne ha; cessare il commercio delle armi; il ritorno e la reintegrazione dei rifugiati e delle persone emigrate internamente. Un’altra cosa importante è che c’è bisogno di rafforzare la volontà della gente per mantenere la pace nella zona nord del paese. Case Study di Contesto: Africa LE DONNE E IL CONFLITTO IN RWANDA Scritto da Thérèse Nduwamungu, Caritas Ruanda Secondo la tradizione, le donne sono state sempre viste come donatrici di vita e di altri valori umani in molte società, e per questo sono sempre state protette dagli uomini anche in tempi di conflitto. Questo è particolarmente importante nel Rwanda dove le donne erano chiamate nya-upinga, che significa “rifugio di pace.” Dato che la società del Rwanda è patriarcale (significa che l’affiliazione etnica passa per gli uomini), le donne sono considerate come se non appartenessero a nessun gruppo etnico, perché sono libere di sposare chiunque e vivere in una famiglia appartenente a un qualsiasi gruppo etnico. Tradizionalmente, sono sempre state trattate con rispetto e sono servite come collegamento tra le famiglie e gli amici. Anche se sembrano riservate rispetto alla società, hanno giocato in maniera discreta un ruolo consultivo e riconciliatorio per le persone nel conflitto, ed anche alla corte tradizionale della monarchia del Rwanda, la regina madre era il consigliere del re e ha regnato insieme a suo figlio. Quando due famiglie nemiche smettevano di mettere in evidenza le loro differenze, offrivano le ragazze come spose per arrivare ad una riconciliazione. Comunque questa tradizione non ha evitato che alcuni uomini trattassero male le donne, fatto che si è poi acuito durante la guerra e il genocidio del 1994. LE DONNE DURANTE IL GENOCIDIO Contrariamente al costume, in cui le donne erano considerate al centro della casa e anche capaci di fermare il conflitto tra due uomini, le donne hanno sperimentato le peggiori atrocità e torture durante il genocidio. Erano soggette alla violenza e all’umiliazione. Hanno assistito alla morte dei loro cari e dopo sono state violentate dai loro esecutori. Furono costrette a sopportare ogni tipo di violenza sessuale fino ad essere anche rapite da un figlio, da un fratello o dal padre prima di essere testimoni dell’esecuzione dei suoi stessi membri familiari o essere uccise. Il Ministro Rwandese delle pari opportunità e della promozione delle donne stimò che circa il 30% delle ragazze e delle giovani donne avevano subito violenza sessuale durante il genocidio. Il Ministro Rwandese per la Salute ha dichiarato che ci sono stati tra i 300.000 e i 500.000 casi di rapimento durante questo periodo. Ancora peggio, alcune donne hanno ucciso madri e bambini. Altre collaborarono nel rapimento di donne e ragazze, e spesso subivano delle mutilazioni sessuali. Più di 5.000 donne sono in carcere per aver partecipato al genocidio. E’ triste confermare che la maggior parte delle donne non hanno avuto pietà delle persone del loro stesso sesso (vedere il rapporto UNICEF 1998: le donne e i bambini del Rwanda). La guerra e i massacri del genocidio generalmente colpiscono gli uomini e i bambini maschi, lasciando molte vedove – spesso traumatizzate – come capi di famiglia. Molte di loro furono risparmiate dopo essere state rapite e sono psicologicamente e mentalmente disturbate a causa di quello che hanno vissuto. Attualmente, il 34 % delle case sono portate avanti da donne ed è estimato che in 85.000 case dove i genitori non ci sono più, sono i bambini ad esserne a capo. (Rapporto UNICEF) Le donne furono costrette ad assumere delle responsabilità per le quali non erano preparate. Un numero in aumento di donne si sta trovando in situazioni molto difficili: vedove con o senza famiglia sotto la loro responsabilità; donne separate dai loro mariti (perché sono in prigione); e donne che sono sopravvissute alle violenze e alle mutilazioni sessuali. Pagina 223 di 252 I fatti del genocidio hanno influito psicologicamente su molte donne, in modo davvero crudele, attraverso i rapimenti, la forma di violenza più usata durante il genocidio. I racconti di alcuni testimoni e in alcuni casi delle stesse vittime, i casi riscontrati dai medici, sono sufficienti per confermare che il numero di donne che hanno subito violenza sessuale è indubbiamente di centinaia di migliaia. Il desiderio di umiliazione era tanto forte quanto quello di uccidere. Per la maggior parte delle donne che era direttamente minacciata di morte e poi risparmiata, era il prezzo da pagare per essere state rapite. E chi è stato rapito si vergognava di questo, un qualcosa che comunque aveva subito. In Rwanda, questa vergogna è aumentata dal fatto di sentirsi colpevoli di essere sopravvissute. Questo è il motivo per cui l’essere rapiti era il crimine più comune e quindi minore. In più i vicini erano spesso coloro che perpetravano il rapimento, aumentando la vergogna e contribuendo alla difficoltà di una denuncia. L’umiliazione, il dolore fisico e psichico, unito alla perdita delle persone amate davanti ai propri occhi, hanno messo le donne in una situazione estremamente drammatica. LE DONNE IN PRIGIONE Il cinque per cento delle persone tenute in prigione per il presunto genocidio, sono donne. La promiscuità con i prigionieri maschi porta a gravidanze e favorisce la diffusione di malattie sessualmente trasmesse. Le condizioni delle prigioni sono precarie per le donne giovani e incinte, ed anche per i bambini che vivono nelle prigioni con le loro madri. Le donne sono generalmente separate dagli uomini, ma avere le prigioni sovraffollate significa che qualche volta si ritrovano insieme agli uomini. LE DONNE NEI CAMPI PER RIFUGIATI Durante i conflitti armati, le donne sono spesso i bersagli preferiti di chi fa uso della violenza. Dovunque ci sia una guerra e dovunque la gente fugga in cerca di una zona più pacifica, le donne soffrono maggiormente. Sin dall’inizio della guerra, può accadere che si debba partire per destinazioni sconosciute. Le donne partono sempre con i più piccoli, portando con sè utensili da cucina e il poco cibo che è rimasto. Spesso vivono in condizioni igieniche terrificanti. In Rwanda, alcune donne, lasciarono le loro case quando scoppiò la guerra nel 1990. Dopo il genocidio nel 1994, migliaia di persone cercarono rifugio nei paesi vicini. Quando arrivarono nei campi, le donne furono violentate e subirono ogni tipo di crudeltà, specialmente quelle senza un padre, un fratello o un marito. Dovettero vivere accanto a stranieri per beneficiare dall’assistenza (utensili da cucina, cibo, tende, ecc.). Anche se resistettero, le loro tende furono il bersaglio di ripetuti attacchi di uomini in ricerca di cibo, o anche peggio, di rapporti sessuali. Per di più, la promiscuità tra i rifugiati significava che molte giovani donne fertili (dai 13 ai 35 anni) si ritrovarono incinte a causa di rapporti sessuali occasionali. L’incentivo a rimanere incinte aumentò ogni giorno di più perché come donne single ricevevano una, seppur irrisoria assistenza. Alcune donne furono coinvolte in atteggiamenti promiscui o furono rapite dagli operatori di alcune organizzazioni umanitarie che gli promettevano un trattamento privilegiato. Quando i campi di rifugiati del Rwanda, furono distrutti alla fine del 1996, le donne furono separate ed alcune persero i loro cari (mariti, bambini, fratelli, parenti). Alcune si persero nella foresta mentre cercavano legna da ardere o l’acqua. Parecchie furono rapite o violentate dai membri della comunità locale, in cambio di lavoro, cibo o riparo. In breve, durante il periodo di guerra, dalla parte degli aggressori e delle vittime, le donne soffrono molto di più degli uomini a parità di condizioni. La situazione delle donne in Rwanda, non è l’unico caso al mondo. Le donne in altri paesi dell’Africa dove ci sono guerre (es. il Sudan, la Repubblica Democratica del Congo, il Burundi, la Sierra Leone, o l’Angola) subiscono le stesse violenze. Anche se non muoiono, le donne continuano a soffrire psicologicamente per le atrocità subite perché gli effetti dei rapimenti e delle violenze ci mettono molti anni a scomparire. Il rispetto dell’articolo 76 della Convenzione di Ginevra che dichiara “le donne devono essere rispettate e protette da ogni azione traumatica come il rapimento, la tortura psicologica, la prostituzione forzata e qualsiasi cosa possa minare la loro dignità” fu completamente ignorato da coloro che continuavano a ricorrere alla violenza. E’ allarmante inoltre che le donne non rispettarono le persone del loro stesso sesso e autorizzarono e parteciparono alle torture dei loro pari. Quelli che lottano per il rispetto dei diritti umani devono fare del loro meglio per assicurare che i colpevoli siano puniti in maniera appropriata. Pagina 224 di 252 Case Study di Contesto: Asia ALIGARH Scritto da Fr. Gregory d’Souza, Caritas India Aligarh è un villaggio con una popolazione con un po’più d’otto lakhs (800,000). Si trova nella diocesi di Agra, a 100 Km a sud-est di Nuova Delhi, capitale dell’India. Aligarh è famosa per l’Università Musulmana (AMU), considerata il nucleo degli studi islamici in India. Il numero degli studenti si aggira intorno alle migliaia, la maggior parte dei quali è musulmana. L’Università è sotto l’amministrazione della comunità minoritaria (Hindu) e questo è fonte di tensione per la comunità. Aligarh è un villaggio tipico, situato su un barile di polvere da sparo. I gruppi in conflitto, gli Hindu e i Musulmani sono potenti forze dominati che controllano due aspetti della società molto importanti. Gli hindu dominano negli affari, e l’educazione è gestita dai Musulmani. In superficie sembra che ci sia pace e tranquillità. Ma la verità è ben nascosta dagli sguardi sfuggenti, nelle parole non dette, e nelle risposte incerte. Un studente dell’ultimo anno del dipartimento di Sociologia (MSW) all’AMU lo descrive cosi: “Bisogna capire che il campus conta 27,000 studenti. A parte questo, è considerato il centro dell’intelligenza Musulmana. Entrambi sono grossi fattori che possono preoccupare l’amministrazione [che è Hindu].” Un membro Hindu dello staff dell’AMU ha commentato così quando gli hanno chiesto un’opinione sulla situazione ad Aligarh: “Lavoro per 15-18 ore al giorno e do tutto me stesso all’Università. Penso che gli studenti mi hanno mostrato molto rispetto chiamandomi ‘Kurien Bhai (fratello)’. Non ho sentito di nessun incidente come la rivolta dopo la demolizione del Bahri Masjid all’Ayodhya.” La tensione è cominciata ad aumentare ad Aligarh sin dal 1990. Per capire le differenze tra le due comunità dobbiamo capire come è strutturata l’economia di Aligarh. L’industria principale ad Aligarh, quella delle serrature per cui è famosa, è controllata dagli Hindu ma gli impiegati sono musulmani. Questa differenza economica potrebbe essere la causa di attriti o di differenze tra le due comunità. In maniera simile molti terreni sono nelle mani dei Jats, che sono di nuovo Hindu. Un numero di musulmani che vorrebbero comprare un terreno non lo possono fare; questo porta ad un altro confronto. In questa maniera la tensione economica si confonde e si mischia con quella religiosa. I germogli della tensione religiosa furono seminati al tempo dell’indipendenza. I Musulmani che dominano il posto sono sempre visti come pro - Pakistan e anti - India (visto come terreno per gli Hindu). Un insegnante di scuola elementare musulmano ed un abitante di Aligarh dice, “Non importa cosa succede, siamo sempre visti come traditori. Vogliamo dire a tutti che siamo Indiani come tutti gli altri.” Due incidenti collegati, hanno contribuito fortemente alle tensioni tra i due gruppi ad Aligarh. Il primo incidente, lo scandalo del Collegio Medico, avvenne al Collegio Medico di Jawaharlal Nehru. Si vociferava che i dottori Musulmani del Collegio Medico di Jawaharlal Nehru erano responsabili della morte dei pazienti Hindu. Spinti da questo, una folla di Hindu scese in strada qualche giorno dopo e fermò il treno Gomti sulla via per Nuova Delhi. Presero i musulmani del treno li massacrarono. Fu un evento simile a quelli accaduti durante la spartizione dell’India e del Pakistan. Questo incidente è chiamato il Massacro del Gomti Express. Gli osservatori dissero che il numero dei decessi e il numero delle persone appartenenti a tale comunità sono entrambi sconosciuti. Questi due incidenti nel 1990 sconvolsero il villaggio. Fu dichiarato immediatamente il coprifuoco. Un studente ricordava quel periodo quando il governo vietò alle persone di riunirsi in gruppi più numerosi di cinque unità. Pochi giorni dopo, quando la situazione non era ancora sotto controllo, il governo proibì a tutti di muoversi da casa. Il coprifuoco fu imposto anche all’Università. La gente aveva appena dimenticato le ferite del passato quando la tragedia colpì di nuovo nel Dicembre del 1991. Il Babri Masjid ad Ayodhya fu raso al suolo da un gruppo di Hindu kar sevaks (operatori) sotto l’egida di Rasgtriya Swyam Seva (RSS). Uno studente Hindu all’AMU si lamentò del fatto che “la demolizione fu Pagina 225 di 252 una cosa orribile. Ha colpito i sentimenti dei Musulmani ed eravamo sconvolti.” Questo stesso evento rafforzò l’identità musulmana anche nelle città. Questo evento intensificò le tensioni religiose che esistevano in tutta l’India, e colpì fortemente le libertà garantite dalla Costituzione Indiana. La situazione all’AMU e al villaggio era torva e tesa. Era certo che la tensione sarebbe potuta esplodere in qualsiasi momento. Sorprendentemente non fu così. Una persona Hindu dallo staff dell’AMU dichiarò “il villaggio era in pace dopo la demolizione della moschea. Il campus non fu colpito.” Un altro membro della facoltà aggiunse: “In maniera interessante non ci sono state esplosioni dopo la demolizione della moschea a Ayodhya. Però ci fu una protesta silenziosa di 400-500 studenti che si erano riuniti. Mostrarono molta più maturità rispetto alle persone nelle altre zone del paese.” L’amministratore Hindu giocò un ruolo chiave nel mantenere un’atmosfera calma. L’amministrazione statale pensò che era meglio imporre un parziale coprifuoco e calmare le persone. Tutto questo ha provocato sofferenze significative agli abitanti di Aligarh. Il cibo iniziò a scarseggiare e le persone iniziarono a preoccuparsi per il futuro. Commentando la situazione stabile del 1991, un professore all’AMU disse che la situazione economica ad Aligarh ebbe molto a che fare con la sua stabilità. Propose “Entrambe le comunità, gli Hindu e i Musulmani capirono che erano entrambe dipendenti l’una dall’altra. Gli affari non andavano avanti. Per condurre un affare senza rischi e per minimizzare i danni bisognava solo andare avanti.” Un altro professore puntualizzò: “Le tensioni non erano tra le persone. Erano più tra chi deteneva il potere e chi no. Era una faccenda a proposito del perseguimento del potere e sulla politica.” La situazione politica nazionale in India ha contribuito alle tensioni ad Aligarh dopo il 1990. Uno dei ministri del governo nazionale cominciò un rath ratra (percorso con un carro) nel 1990, un congegno ben sviluppato per suscitare i sentimenti degli Hindu. Uno studente all’AMU disse: “Se guardi ai modelli di votazione prima delle elezioni del 1990 il BJP (Bharitya Janta Party) aveva solo 91 seggi. Ma successivamente il numero salì a 141. Fu un semplice tentativo per giocarsi la carta religiosa.” Gli interessi politici furono mescolati con la religione e vennero presentati alla massa analfabeta. La gente comune era nelle mani dei politici e i ribelli ormai erano presenti in tutto il paese. Aligarh ha sperimentato tumulti anche prima, perciò la situazione del 1991 non ebbe così tante ripercussioni, anche perché in quel momento si faceva più cauta e più chiara. Questo non vuole dire che non ci fosse ansietà tra la gente. Comunque quello che è veramente interessante è che i media hanno giocato un ruolo critico nello sviluppare quest’ansietà ed hanno fatto la loro peggiore performance. La stampa è stata strumentalizzata nella diffusione della violenza comune. Le immagini e le analisi dei giornali erano tutte molto provocatorie e suggestive. Le notizie hanno aumentato il diffondersi delle tensioni. Una domanda sorge spontanea: la Chiesa sta facendo qualche passo per promuovere la pace e la riconciliazione tra le due comunità? La risposta è positiva. Cominciando nel 1990, il prete della parrocchia ha organizzato incontri interspirituali ed ha invitato i leader di tutte le comunità a partecipare agli incontri. La risposta fu ottima. In aggiunta a questi incontri regolari, si sono svolti incontri di preghiera per la pace. Il nuovo prete della parrocchia ha continuato il lascito di quello vecchio, invitando persone che hanno avuto differenti percorsi di vita. Condivisero le loro esperienze, parlarono e pregarono per la pace. Quest’enorme risposta ha incoraggiato il direttore della scuola Cattolica ad intraprendere un’avventura. La scuola ha organizzato degli eventi per le festività più importanti come il Deepawali (Hindu), il Natale e l’Idd (Musulmano). I parenti furono invitati a vedere i programmi portati avanti dai bambini della scuola. È interessante riassumere con una frase di un professore dell’AMU,“Quando c’è qualche cosa che disturba da fuori, la situazione ad Aligarh diventa disturbata a sua volta. Quando la situazione è calma, Aligarh è un villaggio pieno di pace.” Un altro aggiunge: “Alcune persone – che sono responsabili per le situazioni di cui siamo stati testimoni – per acquisire potere, sono pronti a tutto, superando ogni limite.” Fino a quando persone del genere rimarranno al potere, Aligarh continuerà a sedersi su una bomba a orologeria che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Pagina 226 di 252 Case Study di Contesto: Medio Oriente Africa del Nord L’AZIONE CORAGGIOSA DI UN EX LEADER DELLA MILIZIA LIBANESE Basato su una lettera di M. Assad Shaftari La guerra civile in Libano fu segnata dalla violenza tra le fazioni rivali Druze, Cristiane e Musulmane. La guerra su vasta scala è scoppiata nel 1975 ed è durata fino al 1990. Durante la guerra, i paesi vicini come la Siria e Israele sono rimasti coinvolti nel combattimento. Furono mandate anche forze internazionali di peacekeeping. Tutte le forze esterne hanno contribuito a cambiare le dinamiche della guerra. In totale, più di 150,000 persone sono morte nella guerra e 17,000 scomparvero o non furono trovati. Dopo la fine della guerra, passò una legge che preveniva la persecuzione e concedeva l’amnistia ai membri ordinari della milizia e ai politici più anziani che commisero atti di violenza durante la guerra. Altri sforzi per costruire solide fondamenta per la pace nel paese comprendevano la Carta di Riconciliazione Nazionale del 1989, che dava uguale percentuale di presenza ai musulmani e ai cristiani all’interno del parlamento. La guerra fu caratterizzata da innumerevoli atrocità, gran parte delle quali hanno ancora implicazioni sulla stabilità regionale e sulla riconciliazione in Libano. Nel Settembre del 1982, il presidente eletto Maronita Bashir Gemayel fu assassinato. Si presume che subito dopo, l’ala destra Cristiana, con l’avvallo degli israeliani, massacrò tra i 500 e i 1000 Palestinesi che vivevano nei campi per rifugiati di Sabra e Shatilla. Riconoscendo le durevoli implicazioni della guerra e delle atrocità, Assad Shaftari, ex capo del servizio di sicurezza del Partito ultracristiano delle Falangi, ha scritto una lettera al quotidiano libanese, An Nahar. In questa lettera chiede perdono per il suo ruolo nella guerra. Scrisse la lettera dopo un programma televisivo, nel quale un altro membro del suo partito aveva raccontato gli atti di violenza commessi. Di seguito un estratto di ciò che ha scritto Shaftari : Non voglio che il mio atteggiamento sia visto come una reazione, ma piuttosto come un’azione che ne segue un’altra. Questo è qualcosa che volevo fare da tanto tempo, da più di dieci anni in verità. Ma non ho avuto abbastanza coraggio perché avevo paura di essere trattato come un pazzo o un ingenuo. Adesso vorrei chiedere scusa a tutte quelle persone che ho giustiziato o che furono mie vittime, quelle che ne erano consapevoli e quelle che non lo erano, o quelle che conoscevo così come quelle che non conoscevo. Non importa se questi atti furono commessi personalmente da me o per mio conto. Chiedo scusa per l’orrore della guerra e per quello che ho fatto durante la guerra civile Libanese nel nome dei “Libano”, della “causa”, e della “Cristianità.” Chiedo scusa per essermi considerato come l’unico rappresentante e difensore di queste idee. Chiedo scusa essermi considerato come un Dio, capace di mettere da solo in ordine la propria casa– e quella degli altri – con qualunque mezzo inclusa la violenza. Chiedo scusa per – nel difendere quello che ho creduto essere la Cristianità in Libano – non aver praticato la vera Cristianità, che è l’amore per gli altri, un amore che non conosce violenza. Chiedo scusa per essere stato un fanatico. Chiedo scusa per aver creduto che, a nome della “causa”, io e i miei compagni eravamo dalla parte del giusto. Chiedo scusa per il clima di disgusto creato da quello che è e sarà detto nei libri scritti in Inglese, Francese, e in Arabo, o da quello che è stato visto in televisione, non importa se i fatti comunicati sono veri o falsi, conosciuti o sconosciuti, soggetti all’amnistia o no, o se è o non è troppo tardi per avviare procedimenti legali. Mi piacerebbe dire che ho perdonato da lungo tempo quelli che hanno fatto del male a me, alla mia famiglia ed ai miei amici, direttamente o indirettamente, durante questa “sporca” guerra civile. Pagina 227 di 252 Questo processo è l’unico modo per me di diventare un nuovo uomo, capace di far fronte al mondo del dopo guerra. È una fase di costruzione, e di ricostruzione di quello che fu distrutto, e sopra tutto, una fase di ricompensa per quello che fu fatto durante i lunghi anni di guerra. Spero che il mio atteggiamento sia visto come responsabile piuttosto che come un segno di debolezza. Non ha niente a che vedere con alcuna decisione della Corte Libanese per metà composta da Libanesi, ai quali offro il mio rispetto. L’immagine distorta che è stata lasciata da quindici anni di lotta cruenta è che tutti quelli che ne hanno preso parte, qualunque fossero le loro alleanze, erano criminali di guerra. Chiedo scusa a tutte quelle “anime nobili” di tutte le parti qualsiasi sia la loro appartenenza che hanno rischiato o hanno rinunciato alla loro vita per una certa idea del paese, sia se avevano ragione oppure no. Inoltre, potevamo sapere chi aveva ragione? Il comportamento di pochi svergognati ha diffuso orrore tra tutti noi, facendoci diventare tutti criminali di guerra. Spero che il mio appello sia visto come il solo vero ed efficace modo per uscire dalla crisi Libanese. Le anime saranno purificate dall’odio, dal rancore, e dai dolori del passato, portandoci una riconciliazione vera con noi stessi prima che con gli altri. Infine, spero che il mio Santo Padre mi aiuterà a guarire le ferite della mia anima e delle anime degli altri. Assad Shaftari Case Study di Progettazione: Africa RICONCILIAZIONE IN SIERRA LEONE Scritto da Fr. Brian Starken CSSp Durante la guerra in Sierra Leona migliaia di persone furono costrette ad andarsene. Molte persone dal nord e dall’est del paese si diressero nella vicina Guinea come rifugiati, ma la maggioranza diventò fuggiasca all’interno del paese (IDPs: Internally Displaced People) e si riunì in zone sicure all’interno della Sierra Leone. Tra il 1995 e il 1996 la Caritas Sierra Leone ha sviluppato un programma di riconciliazione basato sulla comunità. Il programma fu progettato come formazione dei formatori. Questi formatori, a turno, formerebbero animatori della comunità per gestire i problemi di fine guerra all’interno delle comunità in ricostruzione. Il programma nacque dall’idea che la firma dell’accordo di pace non avrebbe portato alla fine di ogni conflitto. Non appena le persone sarebbero tornate alle loro case, sarebbero sorti nuovi conflitti su, per esempio dove fossero finiti coloro che avevano commesso le atrocità della guerra. Di chi era figlio quel ribelle? Chi ha distrutto la mia casa? Chi mi ha tagliato la mano? Chi ha ucciso mio fratello? Parte della ricerca per il programma, ha portato la Caritas ad osservare i meccanismi tradizionali per la riconciliazione che esisteva all’interno delle comunità, per vedere se questi meccanismi potevano essere rafforzati e se potevano essere canali di riconciliazione nel dopo guerra in Sierra Leone. MECCANISMI TRADIZIONALI PER LA RICONCILIAZIONE Le istituzioni riconosciute e il modo di vivere della maggior parte della popolazione furono bersagliate durante la guerra. Le istituzioni sociali e culturali che collegano la gente alla loro storia, alla loro identità e ai loro valori, in parecchi casi sono state tutte distrutte. Si credeva in maniera molto forte che non appena le persone fossero tornate da un “esilio” forzato, avrebbero dedicato il loro tempo alla costruzione delle loro tradizionali istituzioni. A seconda della situazione del post guerra queste istituzioni ricreerebbero strutture precedenti o assicurerebbero che i loro elementi essenziali Pagina 228 di 252 rimangano intatti. Circostanze permettendo, sarebbero state celebrate cerimonie tradizionali. Queste cerimonie, tradizionalmente hanno meccanismi incorporati per creare un clima di riconciliazione e, se utilizzate in maniera consona, potrebbero allontanare la possibilità di un conflitto in periodo di dopoguerra a livello di comunità. La riconciliazione è un grosso obiettivo a livello comunitario. Per chi continua a usare la violenza contro la comunità o verso ogni individuo che vi appartiene, ci sono quattro fasi coinvolte nel processo di riconciliazione: 1. Riconoscere la colpa; 2. Chiedere perdono; 3. La concessione del perdono; 4. La restituzione. Queste quattro fasi sono parte integrante della riconciliazione nelle società tradizionali in Sierra Leone. Quando qualcuno commette un crimine nella comunità, il colpevole deve fare una confessione pubblica di colpa, e chiedere perdono per i suoi misfatti. La comunità dà una punizione, o alcuni mezzi di restituzione, che una volta adempiuto, la persona può essere riaccettata in comunità (perdono). Tutto questo è seguito da una purificazione rituale, generalmente compiuta da una persona o da una che è stata investita dell’autorità di regolare la moralità all’interno della società. Generalmente sono richiesti regali tradizionali come olio per cucinare, riso, un vestito bianco, una noce di cola e un pollo. Il lavaggio rituale del colpevole è eseguito pubblicamente – eccetto in alcune comunità dove il rito è considerato sacro e quindi non è possibile farlo in pubblico. CERIMONIE FUNEBRI Tradizionalmente, la riconciliazione può passare attraverso le cerimonie funebri, con tutti gli sbagli che riguardano le persone decedute, sistemate prima di aver eseguito la cerimonia funebre. Durante la guerra migliaia di famiglie della Sierra Leone non riuscivano a celebrare il funerale per i loro familiari, né in maniera naturale, né direttamente a causa della guerra. Quando le comunità saranno risistemate, le prime cerimonie da eseguire saranno quelle funebri. Nel caso di morte violenta dei membri di famiglia (come nella guerra), la riconciliazione deve essere cercata con gli antenati – che devono essere accontentati o soddisfatti. Possono anche essere eseguite le cerimonie che riguardano la purificazione della terra. Non esiste nessuna garanzia che le strutture tradizionali/culturali per la riconciliazione, per loro stesse, saranno utili o adatte a ristabilire le relazioni sia durante il conflitto che nel periodo successivo. Comunque, a livello di comunità, queste strutture possono e devono essere esaminate e, quando possibile, rafforzate per sostenere i programmi di costruzione della pace. Questo è particolarmente vero quando le comunità spenderanno tempo nel ridare vita alle istituzioni culturali danneggiate durante la guerra, e dove le cerimonie tradizionali includono meccanismi per la riconciliazione. Pagina 229 di 252 Case Study di Progettazione: Asia LA CARITAS NEL TIMOR EST Scritto da Julie Morgan, Caritas Australia Il coinvolgimento di Caritas Australia nel Timor Est è stato lungo. Da quando la terribile violenza che ha preceduto immediatamente e poi ha seguito la votazione per l’indipendenza nel settembre 1999, il coinvolgimento della Caritas ha assunto forme nuove, compresa la formazione per la raccolta dei fatti, il lavoro con le persone sopravvissute a violenze sessuali e il lavoro verso un tribunale criminale internazionale per il Timor Est. Accanto alla ricostruzione delle case, alla distribuzione e alla sicurezza del cibo e ad altre attività per lo sviluppo delle comunità, fu avviato un programma che si spera, incanali le ingiustizie e le violazioni dei diritti umani avvenute durante quel periodo terribile. Quando la milizia sostenuta dall’esercito Indonesiano distrusse e bombardò gli edifici, le case, le chiese e le scuole, le loro intenzioni non erano solamente quelle di lasciare solo polvere e macerie per la popolazine del Timor Est. La rabbia e l’odio che alimentò la distruzione di quasi tutti gli edifici di Dili, la capitale, e circa l’8% di queste case nell’enclave di Decussi, erano diretti in particolar modo alle chiese e alle case religiose. Perché? Era solo un bigotto motivo religioso o c’era qualcosa di più? Era risaputo che le chiese detenevano la reale registrazione – un’accurata registrazione di compleanni, morti e matrimoni e anche la registrazione delle violazioni dei diritti umani, gli omicidi e le persone scomparse accadute durante i venti anni di occupazione. Distruggere le chiese rappresentava un’altra via per assicurarsi che la portata del genocidio nel Timor Est non sarebbe mai stata conosciuta o pubblicata. Nelle settimane successive alla votazione, quando l’enorme orrore di quello che è successo è venuto fuori, è diventato chiaro per lo Staff internazionale della Caritas che nell’aiutare gli abitanti del Timor Est nel ricostruire il loro paese esisteva un imperativo molto forte oltre quello di ricostruirne la struttura fisica. La ricostruzione comportava anche il raccontare la verità, ascoltare le storie della gente, documentare un’altra volte i fati riguardanti le violazioni dei diritti umani, e scoprire che cosa fosse successo ai padri, ai fratelli, ai cugini, alle sorelle, nei loro ultimi giorni, spesi in un dolore inesprimibile. Ricostruire gli eventi di quei giorni terribili significa fare i conti con il fatto che mentre i numeri dei morti e la quantità di tombe non si potevano collegare a quelli del Rwanda o del Kosovo, il silenzio del mare probabilmente nasconde migliaia di abitanti del Timor Est che furono riuniti in delle navi per essere portati fuori dal porto di Dili e, sembra, essere ammazzati e buttati in mare. Come possono aspettare sulla terra ferma senza mai sapere cosa è realmente successo ai loro cari? Raccogliere i fatti, ascoltare le storie e provare di riconfigurare le molteplici esperienze frammentate di quelle settimane e mesi terribili, è adesso una parte essenziale per rielaborare il passato mentre si costruisce il futuro. Furono avviati programmi psico –sociali, fu ricostruita la Stazione della Radio Cattolica e programmi di guarigione della memoria hanno fatto eco attorno alle colline di Dili. Quando una nazione intera deve essere ricostruita, i sistemi di legge e di giustizia, ed anche il ruolo della legge stessa, devono essere ricostruiti. La vastità della distruzione nel Timor Est, significava che la comunità internazionale si doveva occupare degli aspetti pratici dell’assistenza umanitaria. Ancora una volta la Caritas locale e quella Internazionale si resero conto che c’era bisogno di formare le ONG locali per raccogliere i fatti legati alle violazioni dei diritti umani. Se la verità cura, lo fa anche quando è raccontata e ascoltata. I fatti devono essere riuniti, collezionati e archiviati accuratamente senza scontri né pregiudizi. Molti fatti evidenti marcirono letteralmente sotto il sole tropicale mentre le forze di Peacekeeping, i Coordinatori delle Nazioni Unite, e la polizia civile, non sembravano capaci di indirizzare il problema. Il personale Caritas e gli esperti che provenivano dalla polizia Australiana e portati in Timor Est erano strumentali nel discutere se stabilire un’Unità per le persone scomparse. Le risorse umane e finanziare vennero incanalate in questo lavoro. E’ importante sottolineare che il personale Caritas non stava raccogliendo i fatti da utilizzare contro la milizia o l’esercito Indonesiano, o investigando sui crimini, o cercando i dispersi. Stava assistendo altre persone, provvedendo alla loro formazione nel miglior modo possibile, nella speranza che un giorno, queste verità, opportunamente raccolte e considerate, avrebbero condotto alla giustizia – alla fine – per le vittime di Pagina 230 di 252 questi crimini. E’ la nostra speranza e di quella degli abitanti del Timor Est che sia fatta giustizia. In ogni caso, anche se la comunità internazionale non assicura mai che chi ha usato violenza sia portato in giudizio, adesso che un debole sistema di giustizia è stato avviato, la formazione che le ONG locali hanno già ricevuto le sta aiutando ad entrare in maniera più disinvolta e più efficace nell’importante dimensione della vita all’interno della democrazia. Il programma di formazione ha enormemente beneficiato del lavoro volontario della polizia e degli esperti forensi Australiani e dagli avvocati e da coloro che si occupano di violenze sessuali. Il personale di Caritas Australia ha facilitato questi collegamenti e ha supportato i volontari in vari modi. Le ONG locali hanno partecipato alle sessioni della formazione riguardanti la raccolta dei fatti, il fornire aiuto in caso di violenza sessuale (sia di base che avanzato), capacità di consigliare, far passare un progetto e la difesa, l’acquisizione della capacità di parlare in pubblico, scrivere un progetto, capacità finanziarie, sviluppo della leadership, legge, giustizia e morale. Appena le ONG identificarono i nuovi bisogni delle vittime dell’oppressione nella lotta alla giustizia, furono incoraggiati ad avvicinare la Caritas per ulteriore aiuto e assistenza. I collegamenti tra la difesa tradizionale e le attività di sviluppo stanno diventando sempre più forti e sta emergendo un programma integrato che indirizza i bisogni di ogni persona e di tutta la comunità. Il lavoro di Caritas Australia e di altri collaboratori Caritas nel Timor Est continuano, e ora le ONG locali e internazionale cattoliche stanno esplorando nuovi modi di animare e curare una conversazione su un tribunale internazionale per i crimini commessi. E’ importante assicurare che la voce dei cattolici su questo argomento sia concorde, coesiva e ben informata sulla natura e sul contesto della verità, delle commissioni per la riconciliazione e dei tribunali internazionali per i crimini commessi. Due anni dopo il voto e la violenza che è esplosa, incontreremo ancora famiglie sconvolte, case ed edifici che attendono di essere ricostruiti, la profondo e duratura cicatrice dei rapimenti, il dolore di persone che lottano per credere, e migliaia di rifugiati che non vogliono e hanno paura di tornare nelle loro case. E molte persone che hanno usato violenza non sono state ancora prese. Appena la comunità internazionale si è riunita in passato per cercare di stabilire delle corti e per trovare non solo quelli che avevano commesso i crimini ma anche coloro che hanno organizzato tutto questo, le ONG cattoliche stanno cercando forze simili per le persone del Timor Est. Come ci ricorda costantemente il Vescovo Belo, ci sarà riconciliazione finché ci sarà giustizia. Case Study di Progettazione: America del Nord LA SPERANZA E’ QUALCHE COSA CHE SI FA Scritto da Lisa Calderone-Stewart, Arcidiocesi di Milwaukee, WI, Stati Uniti DESCRIZIONE DEL PROGRAMMA La speranza è qualche cosa che si fa è il nome di un workshop di quattro ore sulla risoluzione non violenta del conflitto per i giovani della scuola superiore, e per gli adulti che lavorano con loro. È presentato da una team di ragazzi formati. Copre cinque stile personali di gestione del conflitto, tre cause di conflitto, e capacità di gestione come “parlare in maniera attenta”, “ascoltare attentamente”, e i passi da fare per raggiungere “vittoria, vittoria” nei risultati del conflitto (situazioni nelle quali sono rispettati i bisogni di ognuno, così che nessuno si senta perdente nel caso in cui qualcuno si senta vincente). LO SCOPO E GLI OBIETTIVI DEL PROGRAMMA Ci sono molti conflitti ovunque – i giovani ne hanno con i loro amici, con le loro famiglie, a scuola, con il loro lavoro. Questo workshop suggerisce che se noi, i giovani, possiamo tutti imparare queste capacità, per gestire il conflitto con successo come bambini e giovani, allora quando la nostra generazione sarà abbastanza anziana per essere direttori di collegi, di compagnie e di paesi, ci saranno meno guerre. Se i giovani potessero imparare queste capacità, ci sarebbero meno combattimenti nei giardini delle scuole, portando meno combattimenti tra le bande, meno violenza e meno morte, e più pace negli Stati Uniti. Lo scopo della Speranza è Qualcosa che si Fa: creare costruttori di pace. Pagina 231 di 252 Gli obiettivi principali sono: 1) Introdurre il concetto di risoluzione del conflitto, e insegnare le capacità e i concetti ai giovani ed agli adulti in un modo divertente ed interattivo, per rendere l’apprendimento più piacevole; 2) Concepire i giovani come risorse per la comunità, come presentatori abili di workshop che si sforzano di fare la differenza nel mondo; 3) Interessare i giovani e gli adulti nel trovare i modi migliori per raggiungere la pace; 4) Sviluppare una comunità di apprendimento tra i giovani nel team, così che le loro stesse capacità migliorino tutte le volte che presentano il workshop; 5) Introdurre i concetti dell’insegnamento cattolico sociale al team in preparazione al loro lavoro come costruttori di pace. QUELLI CHE PARTICIPANO AL PROGRAMMA All’inizio il gruppo era composto da ragazzi provenienti da due scuole superiori cattoliche (Pius High School a Milwaukee e St Joseph High School a Kenosha) che presentarono i laboratori. Poi un gruppo di ragazzi provenienti dalla Casa della Pace di Milwaukee (una comunità locale di Frati Cappuccini) parteciparono alla formazione per condurre i laboratori. Agli adulti fu chiesto di identificare e di invitare un gruppo di giovani da formare per condurre questo tipo di attività. Dopo quasi un anno dall’inizio della formazione, fui avvicinato dal genitore di un ragazzo della Casa della Pace, chiedendo se i loro ragazzi leader potevano partecipare alla formazione per poi condurre i laboratori. Nella maggior parte dei casi, gli adulti invitarono i ragazzi che loro ritenevano avere capacità di leadership per far parte del team del workshop. Le persone a cui erano rivolti questi laboratori provenivano da scuole, parrocchie o da gruppi scout. Di solito i gruppi parrocchiali contattavano l’arcidiocesi e chiedevano se era possibile che un gruppo andasse nella loro parrocchia per presentare il laboratorio. Se la parrocchia aveva la sua scuola, venivano invitati anche gli alunni. Il laboratorio fu presentato due volte ai gruppi scout; quelli che partecipavano al laboratorio erano invitati dagli adulti responsabili di questi gruppi. In genere i laboratori venivano tenuti di sabato o di domenica. Nel giugno del 2001, il laboratorio fu video registrato, e fu pubblicato anche un manuale. Ora, che esiste il manuale dei laboratori e un video, molti gruppi di giovani ne possono usufruire. Il laboratorio fu pensato in maniera tale da essere flessibile, cioè utilizzabile sia in un contesto cattolico, sia laico; per persone di religione Cristiana così come per persone atee o di altre appartenenze religiose. I laboratorio comprende una preghiera di chiusura, ma se i partecipanti non sono cristiani, la preghiera può essere modificata o omessa. Il manuale comprende anche sessioni di formazione per i giovani presentatori sugli schemi chiave dell’insegnamento sociale cattolico, ma se il team non è cattolico o cristiano (e non interessato ad imparare l’insegnamento cattolico), queste sessioni non sono necessarie per formare il team nella presentazione del laboratorio. PROMOZIONE DEL PROGRAMMA Per due anni, l’Arcidiocesi di Milwaukee ha pubblicizzato il programma via e-mail e newsletters. Ci sono state molte richieste di presentazione del laboratorio. Fu presentato 14 volte prima che uscisse il video. La Casa della Pace inizierà a offrire presto il laboratorio; il programma pubblicitario non è stato ancora avviato. Il manuale formativo e il video saranno presto pubblicizzati sul sito dell’arcidiocesi; sono stati inoltre scritti molti articoli per stimolare l’interesse al laboratorio. Nel 2002 sono previsti molti laboratori su tutto il territorio per spingere sempre più persone a comprare il materiale offerto. IL PROCESSO DECISIONALE USATO NEL PROGETTARE, IMPLEMENTARE, E VALUTARE IL PROGRAMMA. Prima della registrazione del video, il workshop veniva perfezionato di presentazione in presentazione. Si cercava di stimolare i giovani ad imparare da ogni presentazione, capire come perfezionarle, sviluppare e sperimentare nuove idee e provare ad esporle ad un’audience. In questo modo la qualità del laboratorio migliorò durante i due anni in cui fu presentato. Ora che esistono un manuale e un video, i giovani sono ulteriormente incoraggiati ad essere creativi e a pensare a delle forme nuove di presentazione. Pagina 232 di 252 Abbiamo utilizzato dei moduli di valutazione dopo ogni presentazione, chiedendo un feedback su ciò che era andato bene e chiedendo dei suggerimenti. Il team ha cercato di imparare dagli errori, e di trovare nuovi modo per rendere l’apprendimento sempre più adeguato ad un pubblico sia giovane che adulto. Ci furono piccoli miglioramenti come anche grandi. Per esempio un giovane riscrisse completamente una scena di apertura su suggerimento di altri giovani. I giovani inoltre trovarono modi più efficaci per spiegare alcuni concetti o per recitare alcune situazioni. I dialoghi che uscivano fuori spontaneamente spesso li si ritrovava scritti sul manuale. Quello che cercavamo, e ciò che abbiamo trovato in “La speranza è qualcosa che si fa”come programma di peacebuilding. I ragazzi che conducevano i laboratori, applicavano i concetti e utilizzavano le loro abilità con i loro familiari e con gli amici, a scuola e a lavoro. Le utilizzavano anche nella loro stessa pratica di conduzione di un laboratorio e per gli incontri dei giovani. Gli adulti ed i giovani che parteciparono ai laboratori dichiararono che li trovavano divertenti (anche se durava quattro ore!) e che imparavano tantissimo. Il più grosso impatto lo si puo’ avere quando vi partecipano i giovani con i loro responsabili come ad esempio un prete o un capo scout. In questo modo gli adulti possono continuare a guidare i giovani a continuare ad usare queste capacità e a mettere in pratica i concetti in situazioni differenti. Quello che cercavamo (e che poi abbiamo trovato) era apprendere in maniera divertente. Il laboratorio è divertente. Le parodie sono divertenti, i personaggi ridicoli, e i partecipanti iniziano e ridere durante la sessione. Ridere motiva e aumenta la partecipazione, che porta all’apprendimento. Quando i partecipanti si sentono coinvolti e hanno la possibilità di mettere in pratica le loro nuove capacità, di fare connessioni tra i contenuti e la loro vita, l’apprendimento va sempre più a fondo. Il laboratorio porta i partecipanti dalla dimensione in cui “si litiga per un orsacchiotto di peluche” alla dimensione in cui “due paesi stanno combattendo una guerra”. Imparano che in ogni caso c’è bisogno di acquisire capacità per essere costruttori di pace. Al giorno d’oggi non c’è messaggio più essenziale. Quando i giovani partecipano a questo tipo d’iniziative sentono che stanno facendo qualcosa di utile per la loro comunità; fanno un servizio e stanno facendo la differenza. Pagina 233 di 252 Case Study di Progettazione: Oceania IL BEINGI E’ COLPITO Scritto da Raymond Ton, Caritas Papua Nuova Guinea “Siate pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto. (1 Pietro 3:15) Circa 120 anni fa, un vulcano in Indonesia provocò giorni grigi e oscuri per gli abitanti Huli delle regioni montuose del sud della Papua Nuova Guinea. Gli Huli chiamavano l’oscurità prodotta Beingi e ci si aspettava che potesse accadere di nuovo. Le popolazioni vicine, i Dets e i Poromas, avevano a loro volta i loro giorni scuri e minacciosi. Il loro Beingi era il conflitto tra le tribù. L’oscurità di questo conflitto era rappresentata dalla distruzione su larga scala, da momenti di profonda disperazione e di morti insensate. I tre più grandi conflitti tra tribù sono tre, avvennero tra il 1991 e il 1999. Durante questo periodo più di 200 uomini, donne e bambini morirono nei primi due scontri. A seguito delle elezioni del Consiglio nel 1997, furono messe da parte le armi come l’arco e le frecce per essere sostituite dalle pistole. Aumentò il numero dei morti e furono uccisi circa 60 uomini in 18 mesi. Di seguito alcuni aspetti della lotta tribale che devono essere conosciuti: a) La maggior parte dei conflitti nacquero per problemi legati ad una singola persona o ad un gruppo. b) La maggioranza delle persone non voleva essere coinvolta ma si sentirono obbligati a farlo più per una questione di abitudine. c) Le pistole furono portate all’interno della regione dai trafficanti di armi, che approfittarono delle tradizioni culturali. d) Le pistole furono utilizzate da entrambe le parti, per questo la polizia non riuscì a fermare il conflitto armato. Gli operatori Caritas si presentarono alle due tribù (i Dets e i Poromas) nell’ Aprile 1998. Entrambi i gruppi parteciparono al corso della Caritas chiamato Sviluppo Umano Integrato. Mentre i due gruppi discutevano su cosa significasse essere un padre responsabile e affettuoso, un membro responsabile del proprio clan, il conflitto tra le due rimase intenso. Il mediatore della Caritas pose loro delle domande sulle loro vite e sul loro desiderio di pace, chiedendo loro cosa desideravano veramente, e cosa poteva fare per aiutarli. La loro risposta fu “vogliamo la pace”. Con questa forte dichiarazione, la Chiesa si convinse che era il momento giusto per avviare un percorso di pace condiviso. Ma rimaneva una questione sia per la Chiesa che per la Caritas: Chi parlerà per conto dei più, coloro che non hanno voce e sono spinti e tirati da delle armi inutili? Gli operatori Caritas fecero avanti e indietro tra le due tribù, portando messaggi, trasmettendo i sentimenti e le aspettative. I leader del conflitto iniziarono ad ascoltare ciò che veniva detto. Iniziarono a parlarsi tra di loro attraverso il mediatore. Ci furono lenti progressi. Fu stabilito un incontro iniziale nel Maggio 1998 dove le due parti principali discussero su una possibilità di pace. Sembrava che si fosse raggiunto un buon livello poiché le parti dichiararono che desideravano la pace per i loro figli. Ma subito dopo la fine dell’incontro fu ucciso un pastore locale con un’imboscata. Ancora una volta il processo di pace subiva uno scossone. La tensione comparì di nuovo. Fu terribile per tutte le persone coinvolte, soprattutto per il mediatore che aveva lavorato tanto per far incontrare le tribù. Fu tentato di licenziarsi e andarsene. Ma continuò a fare piccole visite alle aree di entrambi i clan, ripetendo sempre lo stesso messaggio: “Ho speranza, non perdete la vostra”. Passarono 18 mesi. Ancora una volta, sembrava ci fossero segni di speranza. Questa speranza svanì non appena furono uccise a colpi di pistola due giovani uomini e una donna. La polizia cercò di intervenire. Arrestò il leader di un clan e un suo sostenitore. Gli attacchi continuarono fino a Novembre. Molte case furono bruciate e furono uccise molte persone. Ma come segno di buon auspicio e del fatto che erano ancora ben disposti ad un percorso di pace, non ci fu nessuna rappresaglia da parte del clan dei Det! Molte persone dissero che ne Pagina 234 di 252 avevano abbastanza e che volevano la pace. I capi della polizia e della chiesa continuavano ad incoraggiare le persone, e nello stesso tempo il mediatore continuava a parlare con ogni tribù per convincerle che se non ci fossero state più rappresaglie, anche l’altra parte avrebbe fatto altrettanto. La speranza crebbe. Nel Febbraio 2000 i due clan furono chiamati per un grande incontro. Ormai erano passati due anni dall’ultimo incontro. Fu detto all’operatore Caritas che i clan volevano smettere di combattere. Gli sarebbero stati gradi se gli avesse dimostrato il modo in cui uscire dal conflitto. Coloro che non avevano voce, poterono esprimersi e furono ascoltati! Fu organizzato un altro incontro, questa volta si sarebbe svolto in un terreno neutrale, come per esempio la chiesa cattolica di Mendi. Risultava importante ancora una volta riunire tutti i clan e i relativi alleati, perché se solo un gruppo tribale fosse stato escluso, il conflitto sarebbe scoppiato di nuovo. Il mediatore della Caritas chiese ai due clan di fare un elenco di tutti i gruppi coinvolti. I clan poi si scambiarono le liste. Sarebbero stati tutti invitati. Entrambi i gruppi poi aggiunsero i nomi delle persone all’interno dei clan nemici che volevano fossero presenti alla cerimonia per la pace. Vennero anche i consiglieri, magistrati e uomini importanti dei villaggi di entrambi i clan. Il vescovo Cattolico, un ufficiale di polizia, e l’operatore Caritas erano presenti insieme ai 90 uomini che si riunirono quel giorno. Parlarono tre uomini per ogni parte. Tutti e sei dissero la stessa cosa: “ Vogliamo la pace. Sappiamo che i conflitti cominciano a causa di poche persone che hanno problemi e che ci coinvolgono in questa cosa. Non ci alleeremo mai più con un clan che abbia intenzione di far scoppiare un conflitto. La guerra è finita.” Una volta che ebbero parlato era importante iniziare a celebrare formalmente la riconciliazione. Fu deciso di unire la cerimonia con un gruppo di donne cattoliche riunite lo stesso giorno per pregare e cantare. Fu organizzate una marcia di 6 Km di 800 donne, il vescovo, molti uomini e l’operatore Caritas per celebrare la riconciliazione a Poroma. Le donne e le ragazze ballarono e cantarono per tutto il tempo. Era Miriam, la sorella di Mosè, moltiplicata per 800, che ballava e cantava. Queste tante Miriam celebrarono la presenza e la protezione di Dio e l’inizio di un nuovo periodo di promesse, prosperità e pace (Esodo, 15: 20-21). Il giorno di festa fu il 26 Marzo del 2000. Forse questo era il frutto delle celebrazioni per il giubileo cattolico della chiese di Mendi. In questo giorno tra le 5000 e le 6000 persone si riunirono per festeggiare la fine di nove anni di distruzione, disperazione e morte. Kunjap, il capo del clan Det di sessant’anni disse: “A cominciare da ora, dormirò sonni tranquilli per la prima volta”. Qualcuno chiese all’operatore Caritas: “Quale magia hai usato per far smettere la guerra?” e lui rispose che non aveva fatto nessuna magia. Quello che lo aveva aiutato era il grande impegno di portare la pace e di imparare sempre più su ogni clan e i suoi modi di vivere. Questo è quello che la Chiesa offre – interessarsi alla vita degli altri e lavorare con ogni gruppo in posizione di debolezza. Mentre il pensare comune sostiene che la forza si dimostra con la guerra, chi segue Gesù crede la debolezza ha potere. Gesù disse a Paolo: “ La mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza”. (2 Cor. 12:9). Pagina 235 di 252 Case Study di Contesti e di Progettazione: Asia PORRIDGE PER IL DISTRETTO DI VANNI Scritto da A. Quintus, Caritas Sri Lanka Lo Sri Lanka ha affrontato per anni disastri naturali e disastri causati dall’uomo. I disastri naturali comprendono inondazioni, siccità, frane, oscillazioni della terra ma fortunatamente non ci sono terremoti. E’ risaputo, comunque, che alcune zone del paese giacciono su una fascia a rischio di terremoto e lievi scosse sono state avvertite o riportate. Ma questa sono le cose minori. Sono stati già avviati molti studi sull’argomento per cercare di valutare i possibili effetti futuri di queste piccole scosse. Tra i disastri causati dall’uomo invece c’è la guerra, che è la più distruttiva di tutti. Lo Sri Lanka ha vissuto una guerra disastrosa negli ultimi venti anni. La guerra è rimasta confinata principalmente a nord e ad est del paese dove i ribelli tamil hanno combattuto contro le forze di governo per il controllo di alcune aree considerate la loro terra d’origine. Quella che cominciò come una battaglia per l’uguaglianza e la giustizia per la minoranza tamil, ora è diventata una guerra a tutti gli effetti che ha lasciato un’intera nazione stanca e ferita. Nella parte nord-est dove la guerra si vive quotidianamente, le persone sono rimaste senza niente, con innumerevoli perdite sia in termini di vite umane che di case e mezzi di sussistenza. La guerra ha fatto più di 65.000 morti, migliaia dei quali mutilati, numerose vedove e orfani, e milioni di sfollati. Gli sfollati (Internally Displaced People) sono rifugiati virtuali nella loro stessa patria. A causa dei combattimenti e delle tensioni, queste persone sono state sradicate dalle loro case e, in cerca di salvezza, si sono spostate continuamente. Di conseguenza hanno lasciato le loro abitazioni, l’educazione dei loro figli, e così via. Molti di loro si trovano nei campi per rifugiati e nei centri gestiti dal governo, mentre altri sono stati sistemati in altri centri permanenti o semi permanenti. Il problema è peggiorato dal fatto che le parti del nord-est sono sotto controllo militare del governo. Sono chiamate zone franche. Le zone sotto il controllo dei militanti Tamil erano conosciuta come zone non franche. Il movimento di cibo e persone all’interno di entrambe le aree era estremamente controllato, di conseguenza le persone che vivevano nella zona non franca soffrivano di mancanza di cibo, medicine, elettricità, mancanza di supporto sanitario e mancanza di qualsiasi struttura scolastica. La Caritas è attivamente coinvolta con le agenzie di stato, le ONG e i gruppi parrocchiali per avviare un’azione ampia di aiuto e un programma di riabilitazione a nord e ad est. Un’attenzione particolare andava alle zone non definite dove le persone vivevano in condizioni disastrate. Un’area che appartiene a questa zona era quella di Vanni che comprendeva due distretti, chiamati Kilinochchi e Mulluaitivu, che insieme contavano una popolazione di 70.000 famiglie di 250.000 persone. Il Vanni è un terreno vasto che una volta accoglieva una ricca attività agricola grazie al suolo particolarmente fertile e ad una grande disponibilità di acqua per l’irrigazione. Contava un’ampia popolazione che viveva nelle due città di Mullaitivu e Kilinochchi. Oltre all’agricoltura anche la pesca rappresentava l’attività principale di questi abitanti. Oggi il Vanni è una terra desolata che ha perso ogni risorsa e il suo posto nella storia del paese. La guerra lo ha devastato. I suoi attuali abitanti sono migliaia di sfollati dalle aree toccate dalla guerra. Non passa un giorno in cui queste persone non debbano scappare alla vista di un caccia bombardiere che vola sulle loro teste. Questo senso di panico permanente e di paura ha provocato traumi profondi nelle loro vite. Il cibo scarseggia ed è costoso, non c’è elettricità, non c’è comunicazione con il resto del mondo, non ci sono scuole con un personale docente qualificato, non ci sono edifici di nessun genere, non c’è assistenza sanitaria e non c’è speranza per il futuro. I loro figli sono cresciuti senza un’adeguata alimentazione, educazione o senso di appartenenza alla terra in cui sono nati. Le loro speranze sono riposte nelle agenzie umanitarie, le organizzazioni della chiesa e altre ONG che hanno mostrato attenzione e impegno dove le agenzie di stato hanno fallito. Siccome tutte le zone, sia quelle definite che quello non definite, sono rimaste divise come lo sono ora, la zona del Vanni e altre simili a nord e ad est rimarranno tagliate fuori dalla vita economica, politica e sociale che avviene nel resto del paese. Sia per uscire che per entrare nella zona di Vanni c’è bisogno di un permesso speciale delle autorità militari. A causa di tutto questo molti non hanno ricevuto assistenza sanitaria, comprese le operazioni chirurgiche tese a salvare una vita. Pagina 236 di 252 Oltre alla mancanza di cibo come risultato dell’embargo economico, anche se ce ne fosse avrebbe un prezzo altissimo e le persone non potrebbero comprarlo. Questo ha portato alla malnutrizione, specialmente tra i bambini e i neonati. Il programma della pappa d’avena è una speciale risposta della Caritas per alleviare la malnutrizione nell’are del Vanni. La pappa d’avena è un misto tra latte e cereali che hanno un alto valore nutrizionale. Attualmente circa 14.000 bambini che vanno a scuola stanno beneficiando di questo programma. La responsabilità di base, perché fosse portato avanti, fu affidato ai direttori ed al personale delle scuole e al comitato dei genitori. Gli ingredienti e il materiale grezzo sono recapitati alle scuole una volta al mese e ogni mattina viene cotta l’avena dai membri del comitato della scuola all’interno della stessa. Da quando è iniziata l’operazione, si è innalzato il livello nutrizionale dei bambini e anche il loro rendimento scolastico. I bambini non vedono l’ora di mangiare l’avena per il loro stato di denutrizione. Il loro rendimento scolastico è certamente aumentato anche perché si è regolarizzata la loro presenza a scuola. Questo ha un effetto positivo a lungo termine sui bambini poiché dovranno affrontare un triste futuro senza un’ appropriata qualificazione di base scolastica. Questa situazione, poi renderebbe più difficile la preparazione ad un eventuale riconciliazione che un giorno avverrà in Sri Lanka. Ramesh di dieci anni ha perso suo padre durante il conflitto. La sua famiglia si è spostata cinque volte dal luogo in cui stava a causa di evacuazioni improvvise, conseguenza della guerra tra l’esercito e il LTTE (Liberation Tigers of Tamil Eelam). A causa di questi spostamenti non è potuto andare a scuola per lungo tempo. E’ denutrito e spesso non può mangiare niente. Sua madre ha paura che non abbia un futuro. In ogni caso un barlume di speranza si è acceso con il programma dell’avena della Caritas. Adesso gli piace andare a scuola. Ramesh è solo uno dei migliaia di bambini che sono in attesa di una mano che stringa la loro. Case Study di Contesti e di Progettazione: Europa PROGETTARE IN CROAZIA Scritto da Vincent J. Batarelo, Caritas Croazia GEOGRAFIA La Croazia è situata nel sud est dell’Europa. La sua estensione geografica è ampia e va dalle pianure dell’est della Croazia, fino alle regioni collinose nel nord ed è caratterizzata da migliaia di isole lungo la costa adriatica. Tra le regioni della costa e quelle continentali scorre la catena montuosa Dinarica. Città dalla storia antica si trovano lungo la costa, sebbene la capitale Zagabria si trovi nelle zona continentale a nord del paese. POPOLAZIONE La Croazia, secondo i numeri iniziali dichiarati nel censimento del 2000, ha una popolazione di 4.2 milioni. La maggioranza della popolazione è Croata, circa il 90 percento e i Serbi sono circa il 5 percento. Nel 1991, i Croati erano l’80 percento, con il 15 percento d’origine Serba. Entrambi i gruppi sono slavi. I Serbi sono collegati etnicamente e politicamente ai Serbi che vivono in Serbia, parte dell’ex Iugoslavia. La loro cultura e religione arriva da questo altro paese e anche la loro affiliazione politica. Parlano una lingua che è grammaticalmente differente dal Croato moderno, ed è differente anche la rappresentazione delle lettere dell’alfabeto (che è il Cirillico). I due gruppi si capiscono molto bene. I Croati hanno una storia e una cultura differente. La maggior parte dei Croati è cattolica, mentre i Serbi sono ortodossi. STORIA I Croati arrivarono nell’attuale Croazia nel settimo secolo d.c. Furono convertiti al Cristianesimo dai missionari di Roma. Dal 10 secolo la Croazia divenne un regno. Era collegato a sua volta con il regno Ungarico e dal 16 secolo si unì volontariamente con l’impero Asburgico (Austriaco) per ragioni di sicurezza per far fronte alla dominazione ottomana. Dal 15 secolo diventò il “baluardo della Cristianità”, affrontando molti attacchi da parte Ottomana. Divenne l’avamposto dell’Europa dell’est Cristiana, con molte terre occupate, migliaia di persone uccise, molti mandati in esilio dai Turchi, e molti altri furono costretti a fuggire in altre parti d’Europa. Alla fine del 16 secolo la Croazia era un paese devastato, saccheggiato e spopolato. La corrente politica cambiò direzione e alla fine del 17 secolo furono apportati miglioramenti dalle forze Cristiane. La forma della Croazia è stata determinata dagli eventi riguardanti la pace nel paese. Pagina 237 di 252 Recuperate le terre, esistevano problemi legati alla spopolamento e alla difesa – quella di chi voleva difendere i nuovi confini della Croazia (e l’Europa Cristiana) verso quelli più ad ovest dell’Impero Ottomano (quello che oggi corrisponde alla Serbia e alla Bosnia). I sovrani degli Asburgo decisero di creare una zona militare al confine con l’impero Ottomano. La chiamarono vojna krajina (zona militare). Misero da parte il feudalesimo e spinsero le persone a spostarsi nell’area per essere liberi cittadini dell’impero con il solo obbligo di difendere la frontiera. Molti di loro erano Cristiani Ortodossi Vlachs che scapparono dall’impero Ottomano (Bosnia) e accettarono la proposta degli Asburgo di spostarsi in quell’area. Altre regioni della Croazia, che erano considerate civili, avevano un sistema feudale come nel resto dell’Europa dell’ovest. Durante il 19esimo secolo, un tempo di risveglio, i Vlachs accettarono la nazionalità Serba. Fu abolita la frontiera militare e la zona divenne parte della Croazia “civile”. In questo secolo, molti reggimenti Croati che si battevano per un’identità nazionale Croata, erano composti da Serbi Ortodossi che consideravano la Croazia come la loro terra. Molti scrittori, politici e soldati famosi erano di etnia Serba e erano integrati nella vita culturale e politica Croata. Il 20esimo secolo tuttavia vide un’inversione di tendenza. Le relazioni tra la maggioranza Croata e la minoranza Serba si inasprirono. Diventò una relazione di ripicche reciproche. La ragione principale di questa situazione era che esistevano relazioni ingiuste all’interno del nuovo paese che formava la Yugoslavia (1918) composto da vari gruppi etnici con differenti background culturali e storici. Il paese era dominato dalla Serbia e dall’elite politica governante. Le minoranze Serbe che facevano parte della Yugoslavia (inclusa la Croazia) furono palesemente usati e manipolati da Belgrado (la capitale della Yugoslavia) nello stabilire la leadership. I Croati come minoranza all’interno del paese, si sentirono completamente colpiti dal regime Serbo, che negava loro qualsiasi diritto umano e politico di base. Gli omicidi a sfondo politico per mano dei Serbi furono ricambiati dagli estremisti Croati. Così il circolo vizioso della violenza in questo paese multietnico divenne parte del paesaggio. Durante il periodo terribile della seconda guerra mondiale, la Croazia divenne uno stato indipendente sotto gli auspici del potere fascista in Europa. Il regime in Croazia era fascista e razzista. Si rapportava ingiustamente con la minoranza serba (e anche con altre minoranze), proprio come il regime Serbo si era comportato verso i Croati ai tempi della Yugoslavia. Campi di concentramento, deportazioni e uccisioni erano all’ordine del giorno. Sebbene ci fosse pace in Yugoslavia dopo la guerra, la riconciliazione non fu propriamente ricercata dal nuovo governo. All’interno del paese, non esisteva un dialogo aperto né alcuna discussione sugli eventi del passato recente e sul perché e come il circolo vizioso della violenza fosse iniziato. Invece lo strumento politico della colpevolezza nazionale fu usato come necessario a, specialmente contro i Croati, per reprimere qualsiasi critica legittima o qualsiasi dibattito. Ancora una volta i diritti politici dei Croati furono calpestati e ci furono parecchie uccisioni a sfondo politico ed emigrazioni. I Serbi in Croazia e in altre repubbliche Yugoslave, godettero di privilegi politici e sociali all’interno del partito comunista e delle forze di sicurezza. Con i cambiamenti del 1990 in tutta l’Europa e nel mondo, la Croazia organizzò le sue prime libere elezioni, stabilendo così il proprio parlamento dopo più di 800 anni. Il primo passo del governo Croato fu quello di provare a ristabilire i rapporti con la Yugoslavia, lavorando con gli altri (la Slovenia) e creando una libera confederazione tra stati sovrani. Questa iniziativa fu rifiutata dal leader Serbo, Slobodan Milosevic, che aveva altri piani, cioè non solo mantenere la struttura federale comunista, ma anche far diventare la Yugoslavia una Grande Serbia. Capito questo sia la Croazia che la Slovenia si dichiararono indipendenti nel 1991. Questo fu seguito a turno da tutte le repubbliche Yugoslave fatta eccezione della Serbia e del Montenegro. LA GUERRA E LA DIFESA DELLA TERRA Totalmente coscienti di quello che aveva fatto il regime di Milosevic alla maggioranza etnica Albanese in Kossovo negli anni ’80 e che l’esercito Jugoslavo tra il 1990 e il 1991 era completamente in mano ai Serbi, la Croazia cercò di evitare la guerra nel 1990 e per tutto l’autunno del 1991. Questo fu attuato attraverso negoziazioni faccia a faccia con chi deteneva il potere in Serbia a Belgrado, compreso Milosevic stesso. Le negoziazioni all’inizio giravano attorno alle nuove condizioni della Federazione all’interno della Yugoslavia. Mentre queste negoziazioni andavano avanti, il regime di Milosevic manipolò politicamente la minoranza Serba in Croazia. Nelle zone della Croazia dove formavano la maggioranza, insieme all’aiuto dell’esercito Jugoslavo, sistemavano posti di blocco nelle strade principali e sulla ferrovia, erano determinati ad andare contro le nuove elette autorità Croate. Milosevic usò il potere della paura su queste minoranze. Il suo regime Pagina 238 di 252 comunicava in maniera propagandistica che le nuove autorità Croate avevano intenzione di ritornare al regime della seconda guerra mondiale e che i Serbi che vivevano in Croazia sarebbero stati uccisi o costretti a fuggire. Sebbene queste dichiarazioni non avevano un fondamento, il rapporto tra serbi e Croati si incrinò. Come disse il Ministro degli Esteri Yugoslavo Goran Svilanovic in Croazia nel Dicembre 2001 in una dichiarazione di scuse, tutta questa manipolazione della paura era il motivo per cui la minoranza Serba commise atti illegali e crimini in Croazia nel 1991. Sebbene i Croati fossero in maggioranza nella repubblica Croata del 1991 (più dell’80 per cento), non avevano un esercito, la forza della polizia era agli albori e la popolazione era disarmata. I Serbi che vivevano in Croazia, con alle spalle l’esercito Jugoslavo, formò dei gruppi paramilitari. Dai posti di blocco, iniziarono ad occupare villaggi e città, stabilendo l’autorità Krajina. Le negoziazioni con le autorità Croate fallirono, poiché i Serbi si sentivano spalleggiati da Milosevic che appoggiava apertamente gli obiettivi ultra nazionalistici della Grande Serbia che significava l’annessione di più di metà della Repubblica Croata alla Serbia. VUKOVAR Dall’autunno 1991 ci fu la guerra in tutta la Croazia, la prima guerra nel continente europeo dopo la seconda guerra mondiale, con i gruppi paramilitari Serbi e l’esercito Jugoslavo che agivano all’unisono. Tutte le negoziazioni fallirono. La Croazia dichiarò la sua indipendenza. In questo periodo su invito delle autorità Croate, l’Unione Europea andò sul luogo per monitorare, veder e riportare quello che stava succedendo. I segni più eclatanti delle aggressioni si potevano vedere nella città più ad est della Croazia al confine con la Serbia, Vukovar. La città resistette contro una forza dieci volte superiore in tre mesi di constanti bombardamenti. Vukovar era circondata da ogni parte. La difesa eroica della città significava che i piani delle forze Serbe per annettere la Croazia erano sconfitti. Ma una volta presa la città, i suoi abitanti e difensori Croati furono uccisi, incarcerati o costretti a fuggire. LA FINE DEL CONFLITTO Nel Gennaio 1992 il mondo riconobbe la sofferenza dei Croati e accettò l’indipendenza della Croazia. L’indipendenza fu pagata con il sangue. Più di 10.000 persone furono uccise, migliaia erano scomparse, e centinaia di migliaia furono sfollati. Metà del paese fu occupato e distrutto. Subito dopo questi eventi, dopo costanti appelli le Nazioni Unite mediò tra le parti e pose fine ad un conflitto aperto. Sebbene ci furono tentativi di negoziazione con le autorità Serbe nella Croazia “occupata”, non portarono a niente per lungo tempo perché ricevevano un diretto spalleggiamento del regime di Milosevic. Nel 1995 attraverso operazioni militari, i croati si riappropriarono delle terre precedentemente occupate dai Serbi, in poche ore. La maggior parte degli abitanti Serbi erano coscienti di quello che stava avvenendo e tutto questo combinato con una manipolazione sulla paura del passato, fuggirono da quelle zone, verso le aree Serbe della Bosnia e della Jugoslavia. IL PROCESSO DI RITORNO I villaggi, le case, le chiese e le attività dei Croati costretti a fuggire furono distrutti e saccheggiati. Dal 1995, fu avviato un programma governativo di ricostruzione di tutte le comunità. Tutte le case sono ricostruite in un preciso momento e i prestiti sono elargiti per le rifiniture. Caritas, CRS, USAID, the EU e altre organizzazioni umanitarie donarono i mobili, l’attrezzatura agricola, gli animali, gli strumenti. Molte agenzie cattoliche hanno aiutato a ricostruire le chiese e i centri comunitari. Mentre le autorità del governo Croato, a seguito del 1995, trovarono difficile promuovere il ritorno dei Serbi in Croazia così avviare indagini appropriate i presunti crimini contro coloro che si trovavano nel paese. Dopo il cambio di governo nel 2000, il processo di ritorno fu molto più agevole. REINTEGRAZIONE PACIFICA A VUKOVAR L’esempio più interessante di una concreta riconciliazione, a seguito dei vari conflitti, fu la reintegrazione pacifica nelle regioni occupate ad est della Croazia, compresa la città di Vukovar. Questa reintegrazione fu promossa direttamente dalle Nazioni Unite con il permesso e la collaborazione delle autorità Croate. Successivamente alle operazioni militari, si decise di negoziare un ricambio pacifico delle regioni occupate dell’est. Con l’intervento delle Nazioni Unite, per circa due anni, fu possibile un periodo di transizione Pagina 239 di 252 pacifico nel quale i Serbi che vivevano in quelle zone furono introdotti gradualmente nelle istituzioni dello stato Croato. Per esempio, vennero assegnate ai Serbi posizioni, prima nella polizia multi etnica delle Nazioni Unite che poi sarebbe stata eventualmente trasformata nella forza di polizia Croata. I cittadini ordinari non dovevano lasciare le case in cui vivevano, fino a che la loro casa in un’altra parte della Croazia non fosse pronta. Nel 1998, i Croati iniziarono a tornare nella città di Vukovar. A causa dei preparativi concreti e psicologici fatti durante la fase di transizione, esistevano piccoli conflitti. Molte persone erano contente solo per il fatto di essere tornate. Vukovar, che è stata chiamata la fenice Croata, sorse di nuovo in una maniera pacifica. Oggi si presenta come una città etnicamente composta con ancora tanto da costruire sotto il punto di vista materiale e umano. Molti progetti di larga scala di ricostruzione furono e sono intrapresi dal governo Croato, dalle agenzie governative straniere così come piccoli progetti avviati dalle ONG locali e straniere. Esistono molte ONG locali, comprese quelle che si fondano sulla fede che lavorano in vari modi per abbattere i muri che sono nei cuori delle persone. L’aspetto più importante che porterà pace e aumenterà la tolleranza e forse porterà al perdono e alla riconciliazione, è che l’immaginazione e significato tornino nelle vite delle persone. Questo può essere fatto in due maniere, attraverso il lavoro (che non c’è) e attraverso lo sviluppo spirituale per la riconciliazione, curato dalla Chiesa Cattolica e da quella Ortodossa. I Serbi che stanno ritornando in Croazia devono affrontare molti problemi. I rifugiati Croato-Bosniaci che vivono nelle case dei Serbi hanno problemi legali e burocratici e sono vittime di discriminazione sociale essendo dell’altra parte. ONG specifiche si sono stabilite nella zona per fornire aiuto legale, difesa o comunque come supporto a questi problemi, inclusa CRS Croazia. Il ruolo di Caritas Croazia è quello di un’organizzazione locale basata sulla fede che mantiene e lavora sulle relazioni con la Chiesa Ortodossa e i suoi istituti di beneficenza, così da creare solidarietà e lavoro contro la diffusione di una mentalità ghettizzante tra i Serbi. Questi ultimi devono sentirsi parte della Croazia che è la loro terra e la loro società. IL PROGETTO CROPAX Caritas Croazia, seguendo il suo ruolo durante gli anni della guerra come fornitore di aiuto diretto, decise nel 2000 di orientare il suo ruolo verso il processo di riconciliazione. Essendo la Croazia un paese a maggioranza cattolica, era importante assumere il mandato della Chiesa per la pace, la giustizia e la riconciliazione. Era importante rivedere quello che era successo e lavorare per una società giusta, così che il ciclo della violenza non si sarebbe ripetuto. Fu avviata un’indagine, condotta su tutto il paese, che indagava su come i cittadini ordinari vedevano un possibile perdono e riconciliazione. Caritas Croazia ospitò tavole rotonde e conferenze internazionali sull’argomento. Fu avviato un piccolo progetto in collaborazione con i gruppi di carità della Chiesa Ortodossa a Zagabria, per i bambini che vivevano nelle aree della Croazia ad etnia mista dove stavano facendo ritorno i Serbi. Il valore simbolico di un vescovo Cattolico che è vicino ai rappresentanti delle istituzioni caritatevoli Ortodosse, che regalano biciclette ai bambini Serbi e a quelli Croati, non può essere sottovalutato in queste zone isolate e piene di tensione. La Caritas ha integrato il progetto Cropax nella sua programmazione di peacebuilding. L’obiettivo principale è quello di considerare le attività di peacebuilding, in particolare all’interno della chiesa, non più come un qualcosa di superfluo ma come qualcosa che è al centro di ogni attività. Si focalizzerà soprattutto sui giovani e comporterà un lavoro diretto con il Ministro dell’educazione. Si impegnerà inoltre a mantenere le relazioni con le altre Chiese, religioni ed ONG con le quali ha sviluppato forti collegamenti attraverso il progetto Cropax. Pagina 240 di 252 Case Study di Contesti e di Progettazione: America Latina SPAZIO PER COSTRUIRE FIDUCIA NEL MEZZO DEL CONFLITTO ARMATO IN COLOMBIA Scritto da Mons. Héctor Fabio Henao, Caritas Colombia La guerriglia in Colombia è una delle più antiche nel continente Americano. Per più di 50 anni, i gruppi paramilitari si sono scontrati con le forze di governo in un conflitto che ha complesse radici sociali, politiche ed economiche. Il conflitto che stava avvenendo ha emarginato milioni di Colombiani; questa esclusione sociale era il risultato di una politica di intolleranza e di una ancor peggiore crisi economica. Allo stesso tempo, il traffico di droga e la corruzione dilagante all’interno del governo e delle organizzazioni sociali avevano contributo al peggiorare della situazione. I principali gruppi coinvolti nel conflitto sono le ali di sinistra della guerriglia, gruppi paramilitari locali e regionali e le forze di governo. Tuttavia i trafficanti di droga, i rapitori e criminali comuni rappresentavano un fattore serio. Le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) sono il più grande gruppo paramilitare in Colombia. Due anni fa cercarono di parlare con il governo per cercare una soluzione politica al conflitto. Il secondo gruppo più grande è l’Esercito di Liberazione Nazionale con una presenza su tutto il territorio nazionale. I gruppi paramilitari locali che proteggono uomini d’affari privati e proprietari terrieri contro i rapitori e altri guerriglieri, sono in aumento. La Caritas sta lavorando su tre differenti livelli in Colombia. A livello nazionale, la Caritas lavora insieme alla Commissione Colombiana di Vita, Giustizia e Pace per potenziare il ruolo della Chiesa Colombiana nel processo di pace. Organizza anche una serie di dibattiti, marce e attività per promuovere la pace in tutto il paese. A livello regionale, la Caritas lavora costantemente per promuovere la pace e per aiutare le tante vittime del conflitto, specialmente coloro che sono stati costretti a fuggire dalla violenza. In più a livello locale, la Caritas ha un approccio da trasmettere sul problem solving tra i gruppi in conflitto. Una parte importante del lavoro di pace e di riconciliazione della Chiesa in Colombia è quella di ridurre la fiducia in soluzioni militari per incoraggiare un pluralismo più sano dove gli accordi di base possono essere raggiunti tra gruppi in opposizione. Nel caso della Colombia, un accordo di base avviene quando entrambe le pareti accettano i principi della Legge Internazionale dei Diritti Umani come base per ogni negoziazione. La Conferenza del Vescovo della Colombia è fortemente coinvolta in tale lavoro per assicurare che questi accordi diventino pietre miliari per aprire le porte al dialogo e alle fiducia. Seguono tre esempi di lavoro. Una delle zone più colpite dalla violenza paramilitare è la regione di Urabà. Quattro anni fa, la Caritas organizzò una marcia per la pace ad Arabà: la Via Crucis per la Vita, la Giustizia e la Pace. La marcia è ormai divenuta un evento annuale. Tuttavia, non è vista solo come una mossa religiosa, ma è diventato anche una delle più grandi manifestazioni per la pace in Colombia alla quale prendono parte molte organizzazioni. Questa marcia ha portato il Vangelo per la Pace e la Vita alle comunità più colpite dalla violenza e ha dato a queste persone un’importante via per esprimersi. Durante il primo anno della marcia, il Vescovo di Apartdò e la Chiesa locale lanciarono una proposta di discussione, suggerendo di dare più autonomia alle comunità locali nelle zone più colpite dalla violenza paramilitare, come la regione di Arabà. Come risultato di questa proposta, ci fu un accordo per creare le Comunità di Pace, gruppi i.e. che si fanno chiamare cittadini di pace ed eleggono un Consiglio di Pace per unire un insieme di ruoli per le loro rispettive comunità. Non solo questo permetteva a questa comunità di partecipare alla creazioni di un consenso, ma teneva conto delle varie differenza tra regioni. In più, esiste un dibattito, tutt’ora in corso, nelle comunità locali sulla possibilità di rimanere neutrali in questo conflitto esteso, dove il ruolo della legge è in netto contrasto con l’escalation della violenza. Il secondo esempio riguarda il lavoro della Conferenza Episcopale nel portare le parti in guerra ad avvicinarsi. Sotto il governo del Presidente Camper, furono fatti inutili sforzi per avviare un dialogo con i gruppi di guerriglieri, portando al collasso qualsiasi processo di pace. Fu il risultato di questo fallimento che Pagina 241 di 252 portò il Presidente Camper ad avvisare il presidente successivo della Conferenza Episcopale, Msgr Pedro Rubiano, per stabilire una Commissione Nazionale per la Riconciliazione con un gruppo di Colombiani con un alto profilo. Il ruolo della Commissione era quello di promuovere la pace con strumenti di mediazione, riconciliazione e dibattito. Un particolare aspetto di questo lavoro è stato quello di incoraggiare il dialogo per la pace tra i gruppi in opposizione all’interno della Colombia. In questo modo, vennero alla luce molte proposte differenti, che hanno promosso il processo di pace attraverso il contatto e la comunicazione. La Commissione ha mostrato l’importanza della presenza di un intermediario di cui si fidino entrambe le parti e che dimostra iniziativa e autorità morale. Un passo chiave in questo è stato la pubblicazione e la circolazione di alcune proposte che hanno portato all’apertura di alcune porte che portano al dialogo. La Caritas ha giocato un ruolo sempre più importante nell’aiutare la Commissione a creare condizioni che conducessero alla costruzione di una pace duratura nella società Colombiana. Il terzo esempio è il lavoro locale della Caritas nell’aiutare a costruire le Comunità della Pace, create inizialmente tra coloro che erano stati sfollati dai loro villaggi remoti e città dalla violenza. Per molti anni la Chiesa ha giocato un importante ruolo organizzativo in queste comunità, promuovendo l’autonomia per fronteggiare la minaccia della guerriglia. La struttura di queste comunità fu mantenuta grazie al dialogo interno e alla determinazione a non rimanere coinvolte con nessun gruppo paramilitare. Tuttavia, il lavoro con questo organizzazioni locali era sconosciuto e una grande numero di queste furono costrette a lasciare le loro terre e le loro case per cercare rifugio in altri villaggi. Gli esiliati usarono le loro organizzazioni locali per tenere unita la comunità nella speranza di tornare un giorno nelle loro case. Le Comunità della Pace divennero sempre più influenti e in molti casi avviarono il dialogo con i gruppi paramilitari che in un primo momento li costringevano ad andarsene dai loro villaggi. Questi esempi mostrano l’importanza e l’efficacia dell’organizzazione della comunità locale nell’affrontare la continua violenza in Colombia. Molte comunità locali hanno fatto ascoltare la loro voce e sono diventate collaboratrici attive nella ricerca della pace. Il lavoro corrente delle Comunità di Pace ha aumentato il profilo della società civile e ha promosso l’importanza di rafforzare le relazioni tra culture differenti, basate sulla dignità umana e il rispetto reciproco della vita umana. Le Comunità della Pace sono in uno stato di continua evoluzione. Nonostante i molti passi fatti per costruire una pace duratura in Colombia, sono rimaste molte sfide da affrontare. Le Comunità della Pace hanno aperto la strada per relazioni più strette basate sulla cooperazione, sulla fraternità, e dicendo NO alla violenza. Pagina 242 di 252 Case Study di Contesti e di Progettazione: America Latina LA CHIESA IN PERU’ ED IL PROCESSO DI RICONCILIAZIONE Scritto da Mons. Héctor Fabio Henao, Caritas Colombia Un sommario del ruolo della Chiesa in Peru ed il processo di riconciliazione. L’OPERA DELLA CHIESA NELLA DIFESA DEI DIRITTI UMANI IN PERU Nella seconda metà degli anni ‘70, la CEAS (Commissione Sociale della Chiesa nel Peru) fu per prima coinvolta nella questione dei diritti umani in Peru, in difesa degli operai che venivano licenziati illegalmente. Per altre ragioni, quando scoppiò la violenza e fu proclamato uno stato di emergenza nelle Ande durante i primi anni ’80, le famiglie delle persone che erano state vittime di attacchi terroristici e di rapimento chiesero aiuto al Vescovo. In risposta a molte di queste richieste, CEAS acquisì aiuto legale per indagare sui casi. Nel 1985, CEAS avviò il suo progetto più importante – la difesa dei diritti politici delle vittime del terrorismo. Sebbene CEAS si trovava a Lima, aprì degli uffici nelle diocesi regionali per promuovere i diritti umani. Dagli anni ’90 più di questi 25 uffici diventarono operativi, fornendo consulenza legale e servizi sociali alle vittime delle violazioni dei diritti umani e per dare informazioni al pubblico in generale. I DIRITTI UMANI AL CENTRO DELL’OPERA SOCIALE DELLA CHIESA Sin dal 1993, la violenza terroristica diminuì in Perù e CEAS volse l’attenzione alla promozione dei diritti umani a livello sociale ed economico a fianco di altri gruppi cristiani. Allo stesso tempo CEAS continuò a lavorare sui diritti umani con l’ottica di modificare il sistema di giustizia del Perù. Organizzò campagne nazionali per la solidarietà economica, per l’aiuto al debito interno e per i diritti della terra dei contadini. Fu proprio in questo periodo che fu proposto il forum dell’America Latina per promuovere il lavoro della Chiesa nell’ambito dei diritti umani. Il primo forum si tenne a Lima nel 1994 e da questo momento ce ne furono altri due: sempre a Lima nel 1997 e l’anno passato a El Salvador. Questi tre forum confermarono che la difesa dei diritti umani è parte integrante del lavoro della chiesa in America Latina. IL PROCESSO DI RICONCILIAZIONE IN PERU’ La riconciliazione copre un’ampia gamma azioni che il semplice placare gli animi degli antagonisti. Si riferisce anche al lavoro che comprende l’aiutare le vittime della violenza a recuperare la loro integrità fisica, psicologica, culturale e spirituale. CEAS ha lavorato in 1uesta zona con gruppi ecumenici, quali l’Organizzazione Evangelica per la Pace e Organizzazioni Cattoliche Internazionali per la Speranza come i Servizi di Aiuto Cattolico. Tuttavia un grande problema in Perù era che il regime autocratico del Presidente Fujimori rinforzò leggi draconiane contro i terroristi e leggi di impunità in favore delle forze armate. Ciò significava che era impossibile costruire un quadro di riferimento appropriato verso una riconciliazione nazionale. Violenza, traffico di droga e corruzione del governo erano sempre presenti e portarono ad una generale divisione della società. Quando il governo del Presidente Fujimori cadde a Novembre del 2000, l’amministrazione di transizione di Valentìn Paniagua mise insieme una task force per considerare la possibilità di creare una Commissione basata sulla Verità e sulla Riconciliazione. Questa task force fu creata il 29 dicembre 2000 ed era formata dai rappresentanti della giustizia Peruviana, dagli Affari Interni, dai Ministri della Difesa, dal difensore civico, da rappresentanti della società civile (compresi coloro che promuovevano le campagne per i diritti umani) e i corpi religiosi (Il Consiglio Nazionale Evangelico e la Conferenza Episcopale Peruviana).La Chiesa elesse Msgr Luis Bambarén SJ, Presidente della Conferenza Episcopale e Laura Vargas, Capo Amministratore della CEAS, come suo delegato per prendere parte a questa task force. La task force si incontrò per 14 volte e invitò esperti dal Cile, Sud Africa, El Salvador, il Guatemala, le Nazioni Unite ed altre organizzazioni internazionali a prenderne parte. Parteciparono anche ad un Seminario Internazionale per la Commissioni della Verità e della Riconciliazione. Durante il Seminario, fu condotta un’indagine di opinione sulla saggezza di una Commissione sulla Verità e sulla Riconciliazione. Il 90% dei 447 delegati che erano stati interpellati notarono l’importanza di questa Commissione per fare luce sulle violazioni dei diritti umani negli ultimi venti anni. I risultati furono presentati al Presidente Peruviano il 29 Marzo, esattamente tre mesi dopo la creazione della task force. Molti gruppi a livello governativo stanno studiando le indicazioni per la task force di oggi. La Pagina 243 di 252 Commissione della Verità e della Riconciliazione sarà composta da 5 membri. Tuttavia non sono stati ancora nominati ma corrono voci sulla possibilità che Msrg ne diventi il presidente. La Commissione avrebbe a disposizione un periodo di due anni per svolgere il suo lavoro dopo il quale deve dare dei risultati concreti al pubblico. Il primo obiettivo della Commissione è quello di rendere consapevoli le persone dell’estensione della violenza e delle violazioni dei diritti umani in Perù ascoltando le testimonianze della vittime. Il secondo è quello di investigare e rendere pubblici i dati delle migliaia di persone che scomparvero durante il periodo della violenza e quindi sulle esecuzioni e torutre illecite che avvennero. La Commissione non avrà il potere di attuare nessuna decisione legale come questa, ma presenterà le sue conclusioni al Ministro della Giustizia Peruviano, che può portare più avanti le pratiche. Il terzo obiettivo sarà quello di redirigere proposte per ogni riforma strutturale necessaria all’interno della società Peruviana e di stabilire un programma per fermare la minaccia della violenza, dei rapimenti e di altre atrocità. La Commissione della Verità e della Riconciliazione è solo il primo passo lungo la strada che porta alla creazione di una società più giusta in Perù. Il Governo deve lavorare in maniera stretta con altre organizzazioni nazionali per migliorare la società Peruviana. La Chiesa gioco un ruolo importante in tutto questo. Tuttavia ci deve essere una volontà universale per completare le proposte della Commissione della Verità e della Riconciliazione per mostrare che esiste una via d’uscita. Case Study di Contesto e di Progettazione: America del Nord INIZIATIVA DI PEACEBUILDING AI CONFINI DI SONORA Scritto da Tom Brenneman e Cecilia Guzman, Stati Uniti e Messico Gli stati dell’Arizona, degli Stati Uniti e di Sonora, Messico, si incontrano nella zona più a nord della regione desertica Sonora. E’ una regione caratterizzata da diversi ecosistemi di natura selvatica, la flora, i paesaggi e le risorse naturali uniche in questa parte del mondo che ha sostenuto per secoli persone, culture ed economie. A seguito della guerra tra gli Stati Uniti e il Messico, e il Trattato di Gadsen nel 1848, fu stabilito un confine politico che separava i due paesi il Texas e Tamaulipas dalla California e la Baja California. Tracciato lungo le banchine del fiume Rio Grande e lungo strade polverose, passando attraverso piccole cittadine, riserve e centinaia di miglia di deserto sconfinato, questo confine divide la regione di Sonora, oltrepassa storiche linee familiari, proprietà terriere, comunità e culture. UNA CRISI UMANITARIA COMPLESSA IN UN CONTESTO DI PROFONDI CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI Al giorno d’oggi la regione di Sonora e tutte le regioni al confine tra il Messico e gli Stati Uniti sono colpite da conflitti che derivano non soltanto da questa storia di divisione ma anche dal dilemma di una immigrazione con molte imperfezioni e di politiche economiche inadeguate, di processi non pianificati per indirizzare lo sviluppo della comunità, della sicurezza economica regionale e la ramificazione del complesso cambiamento sociale. La migrazione di persone al confine tra Stati Uniti e Messico dall’interno di questo ultimo così come dall’America Latina, dal Sud e dal Nord America è causata da un miscuglio di sopravvivenza e sussistenza, commercio economico e interessi legati allo stile di vita poiché la regione di confine sta diventando sempre di più un posto che dà la possibilità di più alti stipendi per le persone provenienti dal Sud e affari e diverse opportunità di avere un buon stile di vita per le persone provenienti dal Nord. Facilitati da politiche di commercio globale come l’Accordo di Libero Scambio nel Nord America, dalla tecnologia e dalle risorse che permettono a sempre più persone di vivere in paesaggi aridi, le comunità che si trovano al confine hanno visto la popolazione raddoppiare e triplicarsi per lacune comunità negli ultimi dieci anni. Le migrazioni verso le città e i villaggi su entrambi i lati del confine non ha solamente comportato l’aumento delle persone presenti nelle comunità di confine ma hanno anche avuto un impatto sulla morale della comunità e sulle relazioni civiche attraverso l’incremento delle diversità etniche e culturali e delle sfide per le infrastrutture intese in senso fisico e sociale di queste comunità di confine. MIGRAZIONE UMANA E LA GLOBALIZZAZIONE DEL CAPITALE Pagina 244 di 252 Durante gli ultimi 20 anni, la regione di confine è rapidamente diventata una zona industrializzata di commercio tra le nazione del primo mondo e del terzo mondo. La regione accoglie impianti di fabbricazione posseduti da stranieri, chiamati maquilladoras. Queste sono industrie che importano materiale grezzo dagli Stati Uniti, dal Canada e da altre nazioni per l’assemblaggio finale e trarre profitto dal lavoro più a basso costo in Messico con incentivi regolativi geografici e logistici per servire i mercati del Nord America. Mentre erano contestate per avere maggiore giustizia ed equità nelle condizioni di lavoro, le maquilladoras offrirono lavoro a migliaia di lavoratori che migrarono al confine della regione. La crescita delle maquilladoras sfida e contribuisce al conflitto sulle infrastrutture e sui servizi municipali alle comunità su entrambi i lati del confine, e contribuisce a nuovi problemi sull’ambiente, sulla sicurezza, la salute e il benessere di queste comunità. La recessione economica e i cambiamenti nelle strategie di investimento del capitale globale porta cambiamenti inaspettati allo status di lavoratore di migliaia di impiegati nelle maquilladoras, e sono correlate alla disoccupazione e all’aumento sostanziale degli abusi, di violenze contro le donne e di rabbia e povertà croniche. IMMIGRAZIONE E QUESTIONI DI CONFINE Le crisi riguardanti l’immigrazione e la sempre più forte presenza del personale Statunitense per il rinforzo della legge federale, dei piccoli armamenti e di supporto militare (la pattuglia di confine bruscamente raddoppiò a 8,000 agenti dal 1993 a 2000) può essere ricondotta all’Ottobre 1994 quando il Messico svalutò la valuta del Peso per una crisi economica. Nel tentativo di prevenire le ondate di immigrazione clandestina, il Servizio Statunitense per l’Immigrazione e la Naturalizzazione (INS) avviò l’Operazione “custode del cancello” ed una serie di altre operazioni volte a fermare l’immigrazione clandestina e il traffico di narcotici in zone particolari. Le intenzioni dichiarate dalla polizia di confine dell’INS sono quelle di mantenere un confine internazionale che faciliti il commercio regolare, che generi e regoli il libero movimento delle persone e dei beni, che prevenga il traffico di droga, l’immigrazione clandestina e il trasporto di merce illegale. L’INS gode dell’aiuto della task force Sei, un consorzio di forze di legge federali, militari, dogane e agenzie di regolazione. Adottano una strategia di conflitto a bassa intensità che insegue la sicurezza attraverso tattiche di forza che scoraggiano fisicamente e psicologicamente i civili. Queste vengono messe in atto sotto forma di aerei che volano a bassa quota alla ricerca di elicotteri, di posti di blocco armati nelle autostrade, illuminazione forte durante la notte del confine nelle aree municipali e nei veicoli molto grandi, biciclette e pattuglie a cavallo. L’impatto sui migranti senza documenti che passano attraverso queste operazioni militari dell’INS è drammatico. Per esempio, il numero di morti tra i migranti che passavano per la valle imperiale in California e il deserto di Sonora in Arizona sono aumentati del 600% da quando è iniziata l’operazione del “custode del cancello”, con più di 1500 morti negli ultimi cinque anni. CONFLITTO DI COMUNITA’, VIOLENZA ED IMPATTO ECOLOGICO La distinzione razziale, una tattica usata dalla polizia per fermare e detenere persone sulla base del colore della pelle, è stata utilizzata contro i migranti dalla polizia in alcune città dell’Arizona. Questo ha fatto sorgere conflitti tra vicini di casa e gruppi comunitari, siccome in Arizona ci sono poche fattorie e pochi proprietari di case cha hanno sparato e detenuto gli immigrati sotto la minaccia di una pistola. Tale violenza aumentò la tensione all’interno delle comunità e creò gruppi di fazione. Il consumo delle risorse da parte delle comunità di confine in risposta ai problemi di rinforzo giuridico e sanitario, sta salendo a dei livelli allarmanti. Gli ospedali, le agenzie di rinforzo giuridico e le organizzazioni civiche sono tassate sempre di più nell’incontrare questi bisogni d’emergenza e nascono conflitti quando il governo e i gruppi comunitari distinguono le legalità e le responsabilità sulla remunerazione delle spese per avere cura dei bisogni degli immigrati. Tra questi conflitti sono noti casi e imputazioni di violenze contro le donne immigrate, come il rapimento e la violenza sessuale da parte dei “coyotes” (contrabbandieri di persone) e agenti delle pattuglie di confine. Lo spreco dei manufatti provenienti dai maquilladora insieme al mal disposto sistema di smaltimento di rifiuti sia umani che non nelle comunità di confine dove le infrastrutture sono sottoposte a grandi sforzi a causa della sovrappopolazione, pone delle sfide ambientali significative. L’accresciuta pattuglia di confine e l’accresciuto traffico dei migranti nell’habitat fragile del deserto, destabilizza l’industria ambientale poiché le recisioni lungo i terreni sono distrutti dai migranti e dall’INS, la spazzatura e gli effetti personali sono abbandonati dai migranti, il suolo viene eroso dall’aumento del traffico dei veicoli e le migrazioni degli Pagina 245 di 252 animali selvatici sono colpite dalle mura dell’INS che dividono le città degli Stati Uniti da quelle del Messico. DIVERSI APPROCCI NELL’INDIRIZZARE LE CRISI ED IL CONFLITTO STRUTTURALE All’interno del contesto del crescente rinforzo regionale della legge e delle armi, i gruppi di difesa con interessi locali che provengono da vari settori sociali, hanno iniziato a riunirsi all’interno delle comunità di confine per discutere, a sostegno dei loro rispettivi punti di vista, sui problemi di confine. Tuttavia, in alcuni casi, queste buone intenzioni hanno contribuito ad aumentare la tensione, la paura e la divisione all’interno delle comunità locali. Oltre le attività necessarie di molti gruppi di difesa e le iniziative, gli approcci alla risoluzione del problema e al cambiamento sociale che sostiene i diritti umani, non sono presenti gli interessi libertari, civici, i gruppi economici e governativi che si sforzino in un dialogo comune, orientato alla risoluzione di entrambe le crisi e al cambiamento strutturale di lungo periodo. Quindi, il potenziale per il peacebuilding. Mentre la violenza e il conflitto hanno un impatto immediato sulle comunità locali, questi problemi sul confine sono sintomatici in natura e affondano le radici in più ampie tendenze dell’economia globalizzata, le politiche nazionali e le basi del potere, situate lontano dalle zone di confine. Stabilire le responsabilità locali, statali, federali o internazionali nei problemi di confine è un dilemma che preme. Discernere quali sono i processi di problem solving nelle comunità di confine presenta una serie di sfide alle ONG e alle istituzioni governative nel rispondere alla crisi dell’immigrazione, alla violenza sugli immigrati e al profondo cambiamento sociale all’interno delle comunità di confine. Date queste sfide, ci avviciniamo al nostro contesto attraverso una strategia di peacebuilding che cerca di creare entrambe le condizioni e le opportunità per le persone a livello sia locale che regionale di trovare uno spazio comune fisico ed emotivo per discernere il reciproco desiderio di un futuro condiviso. COSTRUIRE UNA COSTITUZIONE REGIONALE PER UNA CULTURA DI PACE: CAPACITA’ DI COSTRUIRE E COLLABORARE Nel lavorare per indirizzare le complessità del conflitto e del cambiamento sociale nella nostra regione, sette ONG (Borderlinks; Tecnologico de Nogales; Universidad Tecnologica de Nogales; Catholic Relief Services, Cooperative By Design; Consorzio Arizona per il peacebuilding a Tucson; Centro di risoluzione del conflitto Stati Uniti-Messico; e la rete delle comunità per il peacemaking e la risoluzione del conflitto.) hanno stretto una collaborazione per cercare di indirizzare le attività di peacebuilding nelle zone di confine basata sulla missione condivisa dell’educazione e del valore e principio secondo il quale le persone sono agenti di cambiamento sociale. Mentre si differenziano per scopo, missione e rispettivo lavoro all’interno della società, le ONG che si sono unite, stanno lavorando in collaborazione per facilitare i leader del confine a programmare il peacebuilding che è sistematico in natura e radicato nel contesto delle nostre regioni di confine. SOMMARIO DEL PROGRAMMA Le realtà dei nostri confini dimostrano che non esiste evento politico, politica di scambio, strategia di rinforzamento legale, che crea o sostiene la giustizia, la attuabilità economica, e la sicurezza per la nostra regione. In definitiva, la nostra reale risorsa di sicurezza e capacità di vivere si poggia su relazioni che si stanno sviluppando con e tra le persone e le comunità nelle zone di confine e la nostra capacità di visualizzare e progettare il cambiamento sociale nelle nostre comunità. L’Iniziativa di Peacebuilding nelle terre di confine del Sonora (SBPI) ha come obiettivo quello ci portare le persone, le municipalità, le comunità e le istituzioni ad unirsi da entrambi i lati del confine per capire al meglio come incontriamo i nostri dilemmi e discerniamo e ci rafforziamo l’uno con l’altro in una azione cooperativa in senso economico, sociale e politico. L’obiettivo più grande del SBPI è quello di costruire un progetto di peacebuilding regionale che sia sostenibile e ampio e che la rete di leadership con tutti i leader provenienti dai vari livelli sociali, crei dialogo, educazione, e applichi le ricerche al peacebuilding, che è sia orientato all’azione che all’auto riflessione. Cerchiamo di ridurre la violenza e di portare un cambiamento sociale giusto e duraturo nella regione attraverso il rafforzamento delle capacità, le risorse e le relazioni all’interno e tra i leader formali (Eletti/Designati) e i leader informali (radicati) da tutta la zona nord del Sonora e da tutta la zona sud dell’Arizona. Come sforzo fatto da entrambe le nazioni, stiamo collaborando per sviluppare un approccio al Pagina 246 di 252 peacebuilding per un giusto e sostenibile cambiamento sociale contestualizzato alla nostra regione, culturalmente appropriato e attrezzato in modo tale da avere un impatto positivo sui dilemmi critici della leadership, della sicurezza, della giustizia, della governabilità e della pace. Inoltre consideriamo il peacebuilding come un processo che implica una costruzione attiva delle condizioni che promuovono un desiderio reciproco di un futuro condiviso. Piuttosto che limitare le attività di peacebuilding ad una “fase di post conflitto” o alla negoziazione, consideriamo il peacebuilding come un processo continuo di lavoro, per impegnarsi in maniera creativa e canalizzare i conflitti in maniera costruttiva, costruire relazioni paritarie con una forte enfasi sulla giustizia sociale, e sullo sviluppo socioeconomico sostenibile. Mentre il peacebuilding è un misto di mediazione e processi di risoluzione di pace, il punto nodale di questa iniziativa è quello di avere la capacità di costruire una leadership attraverso il dialogo e lo scambio. Questo avviene in una serie di forum dedicati all’apprendimento e in discussioni dirette al rafforzamento, alla giustizia ed alla costruzione delle relazioni attraverso le divisioni sociali e politiche come quelle tra i diritti umani e le comunità costrette dalla legge. Il compito del peacebuilding è quello di creare opportunità di incontro lungo le linee di conflitto e lungo le stratificazioni sociali per discernere reciprocamente, mobilitare le risorse relative all’interno delle comunità della regione di Sonora e rinforzare le potenzialità degli individui e delle istituzioni per trasformare costruttivamente le loro vite e i loro rispettivi conflitti. Obiettivi fondamentali per l’Iniziativa di Peacebuilding nel Confini di Sonora ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ Aumentare la comprensione della pace come processo di cambiamento basato sulla costruzione di relazioni; Aumentare la consapevolezza del Peacebuilding come sistema organico che richiede il mettersi in relazione e il coordinamento di parecchie attività e ruoli a vari livelli e che nessuno da solo è in grado di avviare e sostenere il processo di pace. Aumentare la comprensione di attività particolari, richieste da vari settori sociali (p. es. leader politici di alto livello, livello medio, e livelli di base) che sono necessari per costruire e sostenere processi di cambiamento sociale; Definire i punti di forza, i valori e le tradizioni della leadership e risoluzione del conflitto delle comunità di confine di Sonora; Promuovere il dialogo e le relazioni tra le persone e i gruppi che non si sono mai incontrati, quindi lavorare per rafforzare le relazioni e creare collegamenti attraverso i livelli sociali negli USA, in Messico e tra le stesse due nazioni; Educare i leader alle strategie di Peacebuilding che integrano le diverse e ancora interdipendenti questioni di diritti umani, di sicurezza, di autorità e sviluppo economico; Sviluppare le potenzialità delle infrastrutture sociali, economiche e politiche dei confini, per adattarsi e rispondere ai bisogni di relazione piuttosto che essere guidati solamente dagli eventi di crisi e da accordi politici. Utilizzare strategie pratiche di Peacebuilding sviluppate negli ambiti del conflitto dell’America del Sud e dell’America Latina che sostengono l’azione collaborativa ed indirizzano le crisi, il complesso cambiamento sociale, e lo sviluppo sostenibile a lungo termine. LINEA CRONOLOGICA DEL PROGETTO E ATTIVITÀ Le ONG partner si incontrarono per la prima volta nella primavera del 2001 per definire il concetto di progetto, costruire le loro potenzialità, sviluppare la fiducia necessaria, le reti e le risorse per avviare una serie di attività che hanno preso adesso il via. Queste attività comprendono: ♦ Comitato consultivo. Raggiungere e sviluppare efficacemente relazioni con i leader e le organizzazioni in un contesto fortemente politicizzato ed attraverso una rete complessa di stratificazioni sociali, in una regione condivisa da due paesi con storie, culture, risorse e potere differenti, è scoraggiante. Questa sfida è in parte mitigata dalla leadership che va al di là delle ONG ossia quella di un comitato consultivo formato da diverse persone che dimostrano di avere potere, e che sono rappresentative di alcuni ambiti strategici sociali e civici, provenienti dalle altre municipalità che si trovano al confine e che sono vicine tra loro. Si rivelano essenziali per questo gruppo tutte quelle persone che sono capaci di lavorare attraverso le differenze e che hanno delle relazioni con gruppi ed individui che occupano posizioni nelle istituzioni civiche, nelle ONG, nel Pagina 247 di 252 ♦ ♦ ♦ ♦ settore economico, nei gruppi religiosi, tra le donne e i giovani, nelle strutture giuridiche, tra le persone che lavorano con i media e nelle istituzioni pubbliche. Inverno/Primavera 2002 Dialoghi strutturati di comunità: Aumentare le potenzialità culturali e di leadership. Una serie di dialoghi strutturati di entrambe le parti del confine in formati bilingue, enfatizzando la consapevolezza delle persone sulla realtà, la conoscenza delle questioni che creano conflitto, i dilemmi che influenzano la leadership e una certa visione della vita e del cambiamento sociale. Primavera 2002 Seminario di Sonora: Sviluppare delle capacità negli approcci strategici di Peacebuilding. Un seminario bilingue di una settimana sul peacebuilding strategico che introduce una struttura di peacebuilding basato sul lavoro al lungo termine nei contesti dell’America del Sud e dell’America Latina. Autunno/Inverno 2002 Vertice regionale delle zone di confine: Riflessione e Dialogo sull’impatto delle strategie di Peacebuilding. Un incontro convocherà i partecipanti alla formazione e altri colleghi con cui hanno lavorato, per spargere le informazioni e i processi incontrati durante l’iniziativa, enfatizzando le lezioni imparate, le sfide, e le aree di revisione e di sviluppo per l’educazione futura di peacebuilding nelle zone di confine. Meccanismi di valutazione. Le attività partecipatorie di valutazione e gli esercizi saranno facilitati in tutti gli incontri del gruppo per modellare e dirigere continuamente l’iniziativa ai bisogni e alle realtà dei partecipanti e valutare criticamente e monitorare l’impatto del cambiamento sociale. Case Study di Contesti e di Progettazione: Oceania IL CONFLITTO DI BOUGAINVILLE Scritto da Justine McMahon, Caritas Australia Bougainville è l’isola più grande nella provincia di North Solmons della Papua Nuova Guinea (PNG). Malgrado faccia ancora parte del paese, è geograficamente a culturalmente più vicina alle Isole di Solomon che alla terraferma della PNG. All’inizio del secolo era una colonia Tedesca. Successivamente, come parte di risarcimento tedesco agli alleati, dopo la Prima Guerra Mondiale, diventò una colonia Britannica. La Gran Bretagna cedette la responsabilità della Papua Nuova Guinea e quindi poi di Bougainville, all’Australia. Più dell’80% della popolazione si considerava cattolica. Anche gli Avventisti del settimo giorno, la Chiesa Unita, le sette fondamentaliste cristiane, ed alcuni culti religiosi avevano dei seguaci. Nell’Agosto 2001 la Chiesa Cattolica celebrò i cento hanno di presenza sull’isola. I missionari, la maggior parte dei quali erano preti Maristi, fratelli e sorelle, furono strumentalizzati per assicurare all’isola il più alto tasso di alfabetizzazione nella PNG così da ottenere un buon accesso al servizio sanitario, più di ogni altra provincia. Bougainville che ha un vulcano attivo e due disattivi, è un’isola ricca di minerali e molto fertile. Prima del 1984 aveva la più grande piantagione di copra del Pacifico del Sud e un’industria redditizia di cocco. Durante la fine degli anni ’60 fu trovata una riserva di rame e di oro nelle montagne dietro la capitale Kieta. Il Governo Australiano, e successivamente il governatore della PNG, incoraggiarono la costruzione di una miniera che avrebbe reso più del 50% dei guadagni esteri della PNG una volta ottenuta l’indipendenza nel settembre 1975. Sfortunatamente i negoziatori Australiani presero nota delle questioni sulla proprietà della miniera.Una compagnia Australiana, Cozinc Rio-Tinto Australia (CRA), mise in funzione la miniera di Panguna. Proprio qualche settimana prima dell’indipendenza della PNG, un gruppo di proprietari terrieri intorno alla miniera così come altri dell’isola, proclamarono l’indipendenza di Bougainville. Mentre non fu mai garantita l’indipendenza, questo evento segnò i rapporti tra Bougainville, PNG e la miniera. LA MINIERA DI RAME DI PANGUNA La mina di rame di Panguna guadagnò migliaia, se non miliardi, di dollari come entrata sia per la PNG che per la CRA. L’infrastruttura di Bougainville fu migliorata: un nuovo intero villaggio e principalmente fu istituito un servizio per i lavoratori delle miniere. Furono quindi costruite scuole, ospedali e strade. L’isola aveva uno degli ospedali più forniti della PNG. Aumentò l’occupazione e aumentarono le possibilità. Pagina 248 di 252 Tuttavia esisteva l’altro lato della medaglia: i rifiuti della miniera stavano distruggendo l’ambiente, i vecchi proprietari terrieri persero i loro possedimenti, in cambio di un compenso minimo, oppure niente. Inoltre, si iniziava a percepire ostilità da parte dei proprietari terrieri e da parte di coloro che pensavano che troppo denaro stesse lasciando Bougainville. Per alcuni l’indipendenza dalla PNG rimaneva ancora un sogno. CHI ERA COINVOLTO Nel 1987, i proprietari terrieri, guidati da Francio Ona, chiesero 10 miliardi di Kina (circa 8 miliardi di dollari) come compenso. Sia la CRA che il Governo della PNG si rifiutarono di pagare. Da Novembre 1988 ogni tentativo di negoziazione fallì. In quel periodo i piloni che portavano energia alla miniera furono fatti saltare in aria. Senza energia e a causa di altri sabotaggi la miniera fu chiusa per “alcune settimane”. La squadra anti-rivolta della PNG (la polizia)fu chiamata per “ristabilire l’ordine”. Purtroppo furono artefici di alcuni brutali eccessi, bruciarono alcune case e alcuni villaggi e commisero altri atti di violenza contro la popolazione civile. L’esercito rivoluzionario di Bougainville (il BRA) si costituì per difendere la popolazione. Nel marzo 1989 la forza di difesa della PNG fu chiamata per contrastare la squadra di rivolta. Queste azioni galvanizzarono una buona parte della popolazione a seguire il BRA. Nonostante i tentativi di negoziazione per portare una situazione pacifica, la disputa si fece sempre più forte. La minierà non riaprì più. Il Governo della PNG dichiarò lo stato di emergenza nel 1989. Il governo impose un blocco sia aereo che navale all’isola, impedendo la consegna di medicinali necessari e le riserve di cibo. Questa azione causò la morte di migliaia di persone. Alcune azioni del BRA persero il sostegno di parte della popolazione, causando una frattura all’interno dell’esercito rivoluzionario. I combattenti divennero difficilmente identificabili, poiché cambiavano frequentemente posizione. La Resistenza, che era per l’autonomia ma contro l’indipendenza, si schierò dalla parte del PNGDF (PNG Forze di Difesa- l’esercito di governo) contro il BRA; alcune fazioni del BRA combattevano una contro l’altra. I villaggi furono divisi. Vennero commesse terribili atrocità: i presunti membri del BRA o i simpatizzanti venivano legati e caricati sugli elicotteri forniti dagli Australiani per poi essere gettati nel mare per farli affogare o nel vulcano. Tutte le parti commisero delle esecuzioni, spesso con le pistole e coltelli ma qualche volta anche con le catene. I rapimenti diventarono frequenti. Alcune stime dicono che morirono più di 20.000 persone durante i dieci anni di crisi. TENTATIVI DI PACE Da quando al disputa iniziò per la prima volta, ci sono stati parecchi tentativi di portare la pace a Bougainville. Questi comprendono: 1989: il Doi Package offerto per aumentare l’impegno del governo centrale della PNG nello sviluppo delle infrastrutture della provincia. Nello stesso anno il Rapporto Bika propose il controllo da parte del governo provinciale della miniera e la ritenuta del 75% delle entrate avute nella provincia stessa. 1990: Gli Endeavour Accords furono firmati. Questo accordo cercò di riattivare i servizi ma non fu mai rispettato a causa di dissensi su chi dovesse essere il responsabile della consegna di questi servizi. Fu un’occasione persa. 1991: La Honiara Declaration fu firmata sia dal governo della PNG che dagli abitanti di Bougainville. Anche questo fallì. 1997: Un maggiore – e preoccupante – colpo al processo di pace fu l’assunzione di un gruppo straniero mercenario, chiamato Sandline, per porre fine alla crisi. Se questa azione fosse proseguita il conflitto sarebbe potuto durare per decenni. Il 1997 fu teatro anche di sviluppo positivo. Si trovarono d’accordo sulla Burnham Declaration. Si basava sulla cessazione delle ostilità tra le parti in conflitto. Tra di loro si trovava un gruppo multinazionale di monitoraggio della Pace formato da un personale proveniente dall’Australia, da Vanuatu, dalle Fiji e dalla Nuova Zelanda. Molti passi avanti furono fatti per il blocco dell’isola. Dopodichè fu firmato il Loloata Agreement per cementare ulteriormente la strada che conduce alla pace. Agosto 2001:tutte le parti in conflitto firmarono un accordo di Pace. Questo accrebbe la fiducia all’interno della comunità che la pace era stata raggiunta. IL LAVORO DI RICONCILIAZIONE Il programma Caritas di riabilitazione di Bougainville sostiene il lavoro della fondazione della pace del programma riabilitativo di giustizia di Melanesia. In assenza di ogni legge ed ordine sull’isola, questo gioca Pagina 249 di 252 un ruolo cruciale nel processo di pace. E’ un programma basato sul villaggio che forma i membri della comunità a mediare le dispute e, se necessario, raccomandare un’azione appropriata. Inoltre, le ONG hanno creato dei piccoli progetti per cercare di ristabilire una certa normalità alle persone colpite dalla guerra e per fornire opportunità economiche alternative. L’Istituto del consiglio di Bougainville per i traumi ha lavorato duramente nelle scuole e nei villaggi per aiutare coloro che sono rimasti traumatizzati da dieci anni di conflitto. Questo sarà un processo lungo e lento, anche perché una recente ricerca indica che il trauma non emerge fino a dieci anni dopo la fine del conflitto. LA SITUAZIONE ATTUALE Dall’accordo di Pace firmato nell’Agosto del 2001, è avvenuto un notevole incremento di fiducia all’interno della comunità. Ogni giorno ci sono piccoli segni che si sta tornando alla normalità: l’erba è tagliata, ci sono macchine lungo le strade della città (generalmente nascoste nelle buche scavate nella giungla nei tempi di crisi) case che furono bruciate ora sono state rimesse a posto, stanno nascendo nuovi business e le persone stanno tornando ai loro villaggi. Esistono ancora alcuni episodi di violenza e di intimidazioni, ma la maggior parte sono legati a stati di ubriachezza. Il più grande pericolo a Bougainville è che ci sono molti uomini giovani e forti che sono cresciuti in tempo di guerra e che non hanno niente da fare. Se ciò continua, potrebbero decidere che è più proficuo combattere che mantenere la pace. Tutto porta a dire che la gente è stanca di combattere. Le persone a Bougainville vogliono la pace. Case Study di Contesti e di Progettazione: Oceania PORTARE LA PACE TRA LE TRIBU’ IN GUERRA Scritto da Raymond Ton, Caritas Papua Nuova Guinea Nelle zone montuose della Papua Nuova Guinea (PNG), l’influenza occidentale è vecchia solo di quaranta cinque anni, introdotta dagli affari occidentali e dalle Chiese che si sono avventurate nell’area durante la metà degli anni ‘50. Gli abitanti delle zone montuose vivono in maniera molto tradizionale, con le loro credenze, le loro pratiche culturali, cambiando i loro valori solo negli ultimi anni. Le persone di questa zona bella e remota sono molte e differenti tra loro. Esistono più di 700 dialetti in PNG e molti di questi si trovano nelle zone montuose. La Caritas della Papua Nuova Guinea e la Chiesa Cattolica della PNG hanno lavorato con alcune di queste comunità per molti anni. In tempi più recenti si sono focalizzati sul Peacebuilding e sulla trasformazione del conflitto poiché ci furono molti conflitti tra le tribù e i clan. Il cerchio della violenza sembra non chiudersi mai. Dal punto di vista culturale i conflitti tribali sono spesso visti da molti come qualcosa che dà dignità e che mantiene lo status quo e definisce la propria identità. Di conseguenza il “guerreggiare” è, sfortunatamente, predominante in questa regione montuosa del paese. Le cause possono essere complesse come quelle relative alla proprietà della terra e, a volte semplici come quella di una vendetta per furto o omicidio. I conflitti hanno una cosa in comune: la bilancia delle uccisioni e della distruzione delle case è spesso senza unità di misura. Due clan tribali della zona montuosa del sud della Papua Nuova Guinea sono state in guerra per più di sei anni. I due clan dei villaggi di Senso e di Pingirip, i Torom- Pepala e gli Ungk-Wim e i rispettivi clan, si sono fatti guerra utilizzando sia le armi tradizionali che quelle più tecnologicamente avanzate. Inizialmente, gruppi di comunità tribali (piccoli imperi) vivevano vite distinte ma interdipendenti. Durante i periodi di minaccia proveniente dall’esterno si legavano ad altri gruppi o clan. I Torom Pepala e gli UngkWim avevano i propri alleati, e i rispettivi alleati avevano altri nemici. I Torom-Pela e gli Ungk- Wim avevano circa 14 tribù che sostenevano le battaglie tra tribù. Quando un conflitto terminava , le tribù e i clan che avevano combattuto per una parte si aspettavano di ricevere lo stesso sostegno nella prossima battaglia. Così i periodi di conflitto si mischiavano l’uno con l’altro e la causa prima di una battaglia veniva confusa dagli avvenimenti successivi. Inoltre allearsi con una tribù è visto come un investimento, sia che possa essere in termini monetari, di parole o di fatti. Il primo sostenitore appoggia la tribù principale – il proprietario del conflitto tribale, il secondo sostenitore appoggia il primo sostenitore, e il terzo sostenitore appoggia il secondo sostenitore, e così via. La lista dei sostenitori può essere lunghissima, a seconda delle tribù “dell’impero”. Pagina 250 di 252 Quando il combattimento termina dopo molti anni, sorge la questione del compenso. I compensi sono condotti all’interno dei propri raggruppamenti tribali. La tribù principale si occupa del compenso della prima sostenitrice che a sua volta si occupa di quello della seconda, e così funziona per il lungo elenco di tribù “affiliate”. Se sorge un problema legato al pagamento del compenso (che sia in denaro o tramite la cessione di maiali), il combattimento può scatenarsi di nuovo. Il processo di pace può essere tanto difficile quanto il combattimento stesso. Un combattimento è considerato risolto in maniera efficace quando tutte le parti collaborano fattivamente. E così nel processo di pace, ogni parte coinvolta nel conflitto deve volere la pace stessa. Inevitabilmente alcune fazioni non converranno così facilmente e la questione sulla non condiscendenza potrebbe portare ad un altro combattimento. Il processo di pace tra i Torom – Pepala e gli Ungk – Wim coinvolse non solo questi due gruppi ma richiese la negoziazione con 28-30 raggruppamenti di clan e i loro relativi problemi. Una pace che riesca a mediare ha bisogno di tempo! La cosa importante è che ogni clan e le sue famiglie, fino ad arrivare agli individui, comprenda il processo di pace e creda che quest’ultimo porti benefici a tutti quanti. La mediazione fu un processo lungo e difficile. Prima di tutto, devono essere identificate le parti e chi ha il potere in pugno di entrambe le parti e bisogna individuare i vari legami interconnessi che sono stati stabiliti. Fu assolutamente vitale stabilire i fatti e le statistiche su chi ha perso cosa e chi ha ottenuto cosa da chi nel conflitto. Conoscere i nomi di coloro che hanno giocato un ruolo chiave nel conflitto e di coloro che hanno creato una relazioni basate sulla fiducia fu essenziale. Ogni persona di potere, ogni capo e ogni consigliere di villaggio dovevano credere che il negoziatore fosse un giusto, onorabile e imparziale ascoltatore. Una volta che erano state ottenute e analizzate le informazioni, venivano organizzati degli incontri di tutti leader e i relativi membri delle tribù nelle loro comunità. Durante questi incontri furono discusse le seguenti domande: “ Ora che avete mostrato un grande interesse nel voler mettere fine a questo disastrooso combattimento fra tribù e volete giungere ad un accordo di pace con i vostri rivali, 1. Cosa ostacolerebbe il processo di pace da parte vostra? E Dall’altra parte? 2. Di cosa avete bisogno? Che cosa devono fare gli altri? 3. Quali sono le questioni rilevanti della vostra parte sui cui volete lavorare? E le loro? 4. Cosa vorreste fare come prova tangibile di buona volontà per costruire la pace e l’armonia? E cosa volete che facciano i vostri rivali per dimostrarvi la stessa cosa? 5. Che cosa volete che faccia (come mediatore della Caritas) per questo processo? 6. Quando ci possiamo incontrare di nuovo? Ascoltare attivamente e attentamente fu importante per assicurare la genuinità della discussione così come lo fu essere sicuri di arrivare ad un consenso generale dando a più persone possibile l’opportunità di parlare per conto del loro clan. Questo fu fatto in tutti e due i luoghi. Se c’erano discrepanze nella loro versione della storia, il mediatore faceva ritorno e in maniera delicata cercava di capire cose fosse stato detto da entrambe le tribù così che avessero l’opportunità di appianare le differenze. Ci vollero due anni prima di raggiungere la meta della pace. Il processo culminò in una cerimonia pubblica con la firma dei trattati di pace, testimoniati dai leader locali, dalle autorità governative e dai capi delle Chiese. Questa cerimonia pubblica fornì l’occasione per annunciare alle comunità vicine, alle chiese, al governo, ed al resto della provincia e del paese la decisione bilaterale di porre fine a questo combattimento. Gli inviti furono spediti a tutte le autorità governative, ai capi delle chiese, ai leader delle comunità e ai relativi membri delle due tribù, delle tribù alleate, alle comunità vicine e al resto della provincia che fu colpita durante la lotta. Durante questa cerimonia pubblica, un accordo, o memorandum di comprensione fu preparato e firmato dai capi o dai leader di ogni singolo clan coinvolto nel combattimento. Sul documento erano presenti i nomi delle autorità governative incluse le corti, la polizia, i consiglieri, i leader eletti, i leader più in vista delle comunità, i principali rappresentanti delle chiese, i preti della parrocchia o i pastori che firmarono come testimoni del fatto che le tribù non erano più in guerra tra loro. Durante la cerimonia i leader rivali, che indossavano i vestiti tradizionali delle Highlands, entrarono nell’arena pubblica per mano a due a due. Si avvicinarono al documento insieme e lo firmarono uno dopo l’altro. Come segno che il processo di pace segnava un periodo nuovo, le due tribù rivali stanno ora lavorando per costruire una strada che va alle loro comunità, grazie ai fondi della Caritas della Papua Nuova Guinea. Hanno anche costruito una chiesa e una casa per un prete usando il materiale dei cespugli raccolti dalla terra Pagina 251 di 252 su cui si erano battuti. Le famiglie stanno tornando nelle terre una volta deserte a causa del conflitto. La vita sta piano piano tornando alla normalità e sono stati fatti degli sforzi per promuovere, nutrire ed educare alla pace. Pagina 252 di 252