1 XXVI Convegno della Società italiana di Scienza politica
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1 XXVI Convegno della Società italiana di Scienza politica
XXVI Convegno della Società italiana di Scienza politica Università Roma Tre, Facoltà di Scienze Politiche 13-15 settembre 2012 UNA DEMOCRAZIA IN BILICO Decentramento elusivo e indipendenza dell'Azawad nel Mali della Terza Repubblica. dott. Francesco Saraceno Dipartimento di Scienze politiche e sociali, Università degli studi di Pavia Abstract In the early nineties the African continent witnessed an extraordinary wave of democratization. The resulting debate highlighted the decentralization as an effective strategy to bring about democracy, tackling issues such as inclusiveness, local development and inter-ethnic divisions. Following this perspective, Mali has been widely viewed as a relatively successful case of democracy in a low-income country. In March 1991, the military regime of Moussa Traoré was overturned following extensive public protests, and a new democratic constitution was promulgated in early 1992. Since then and until March 2012, the country had undergone regular elections, and at least one president, Alpha Konaré, peacefully left office after serving two terms. The coup d'état of March 2012 overthrew Amadou Toumani Touré and raised doubts about the effectiveness of decentralization in achieving the objectives. Although the compromise of 1992 has ensured a solid framework to the functioning of democratic procedures, it didn't succeeded to include the Tuareg minority within the national political arena. As the observation of political system will show, the main reason is based on the weakness of local elites, powered by two sets of factors. First, the State's withdrawal from the Northern regions didn't help to consolidate the power over distance and facilitated the emergence of war's entrepreneurs. Secondly, the persisting ineffectiveness of development policies have exacerbated the tensions up to the break-up of March 2012. Articolo presentato nella Sezione I "Democrazie e democratizzazioni" (Marco Almagisti e Giovanni Carbone), Panel 1.5 "La democrazia e i suoi effetti economici, sociali e politici (II)" (Chairs: Giovanni Carbone e Davide Grassi). 1 Antefatti Nel 1960 la Repubblica Sudanese e il Senegal proclamarono l'indipendenza dalla Francia con il nome di Federazione del Mali. Pochi mesi dopo il Senegal si separò e l'ex Sudan francese divenne la Repubblica del Mali. All'indomani dell'indipendenza il partito dell'Union Soudanaise - Rassemblement Démocratique Africain (US-RDA), guidato dal primo ministro Modibo Keita, assorbì ogni altra formazione facendo del Mali un regime a partito unico (Zolberg, 1966; Camara, 2008). L'insorgenza della Prima ribellione tuareg nel nord del Paese fu repressa brutalmente e il potere fu gradualmente concentrato nelle mani dell'esecutivo. Nel giro di pochi anni il socialismo scientifico del presidente Keita alienò il Mali dalle linee di credito internazionale e la difesa dell'agenda governativa costrinse al silenzio le opposizioni. Il partito unico perseguì una strategia statalista che impoverì i bilanci statali e condusse l'economia al collasso. Nel 1968 Keita fu deposto da un colpo di stato militare che instaurò una giunta guidata dal tenente colonnello Moussa Traoré.1 Il regime si trovò ben presto in difficoltà: la conduzione neopatrimoniale (Bratton & van de Walle, 1997) della macchina pubblica prosciugò l'economia del paese e con essa ogni residuo di consenso. I tentativi di riattivare la legittimità del regime attraverso la promulgazione di una nuova costituzione e la garanzia di un maggiore grado di competizione interna al partito unico risultarono vani (Chazan, 1982; Camara, 2008). Quando sul finire degli anni Ottanta le politiche internazionali di condizionalità stimolarono la liberalizzazione dell'arena politica, il regime fu costretto a tollerare l'emersione di associazioni (molto ambiguamente il bando ai partiti non fu rimosso) che iniziarono una costante opera di pressione sul governo. Nel marzo 1990 lo scoppio della Seconda ribellione tuareg aprì un secondo fronte e costrinse governo e militari a correre rapidamente ai ripari siglando un accordo con i ribelli.2 Sull'onda delle pressioni internazionali e dei sommovimenti interni, le opposizioni scesero in piazza nella primavera del 1991.3 Il 26 marzo dello stesso anno, dopo la brutale repressione delle manifestazioni studentesche e il rifiuto dell'aviazione di bombardare la sede delle opposizioni, il generale Moussa Traoré fu deposto da un colpo di stato militare. La giunta guidata dal col. Amadou Toumani Touré (ATT) propose l'immediata devoluzione dei poteri ai civili i quali, tuttavia, chiesero un governo di transizione misto che nel giro di un anno avrebbe 1 Il colpo di stato fu promosso dai capitani Yoro Diakhité e Mamadou Cissoko, e dai tenenti colonnelli Youssouf Traoré, Kissima Doukara e Moussa Traoré. Una volta abrogata la Costituzione e sostituita con la nuova Legge fondamentale, il Comité militaire de libération nationale (CMLN) divenne l'organo supremo presieduto da Moussa Traoré. 2 Gli Accordi di Tamanrasset furono siglati il 6 gennaio 1991 nella cittadina algerina di Tamanrasset. Il testo dell'accordo, che in un primo momento rimase segreto, prevedeva: primo, il cessate il fuoco e lo scambio di prigionieri; secondo, lo smantellamento delle basi ribelli; terzo, la riduzione della presenza dell'esercito nelle regioni del nord e la rimozione degli avamposti percepiti come "minaccia" per le comunità locali; quarto, la rimozione dei militari dalla pubblica amministrazione; quarto, l'integrazione dei ribelli nelle fila dell'esercito regolare secondo condizioni da definirsi; quinto, l'allocazione alle regioni del nord del 47,3% dei fondi destinati agli investimenti per lo sviluppo. Si promise, inoltre, la concessione di uno Statuto particolare per l'autonomia delle tre regioni di Gao, Timbuctu e Kidal. 3 I principali gruppi organizzati furono: il sindacato dell'Union Nationale de Travailleurs du Mali (UNTD), l'Associazione degli avvocati del Mali, l'Associazione maliana per i diritti dell'uomo (AMDH), Association des élèves et étudiants du Mali (AEEM), il Congrès National d'Initiative Démocratique (CNID), l'Alliance pour la Démocratie au Mali (ADEMA), l'Associationes des Diplomes Initiateurs et Demandeurs d'Emplois (ADIDE) e la Jeunesse Libre et Démocratique (JLD). 2 dovuto varare una democrazia multipartitica. Il neocostituito Comité de Transition pour le Salut du Peuple (CTSP) fu una sorta di presidenza collettiva, composta di 15 civili e 10 militari. Il colonnello Amadou Toumani Touré fu eletto Presidente e Capo di stato ad interim e l'assegnazione dei dicasteri, avvenuta per consenso, vide la partecipazione dei separatisti del nord. Il lungo trascorso autoritario e la crisi separatista convinsero il governo della necessità di un nuovo compromesso nazionale. L'11 aprile 1992 governo e ribelli siglarono il Patto nazionale, con cui fu concesso alle tre regioni interessate uno Statuto particolare di autogoverno.4 Dal 29 luglio al 13 agosto, inoltre, si tenne la Conferenza nazionale che vide la partecipazione di tutti i rappresentanti delle società civile - protagonisti degli événements5 compresi i rappresentanti delle fazioni autonomiste del nord. Nel settembre seguente fu promulgata la Carta dei partiti e il referendum del 12 gennaio 1992 approvò la nuova carta costituzionale. Dal 1992 al 2012 si svolsero tre tornate elettorali nazionali (1997, 2002, 2007) e tre subnazionali (1999, 2004, 2009) rispondenti a sufficienti standard procedurali. Alcuni scivoloni non sono tuttavia mancati: nel 1997 la Corte costituzionale, una volta costatate gravi irregolarità, annullò la prima tornata delle legislative, mentre nel 2002 annullò un quarto dei suffragi espressi. Quell'elezione, tuttavia, segnò il termine dei due mandati per il Presidente Alpha Oumar Konaré, il quale cedette il passo ad Amadou Toumani Touré, candidato indipendente e uscito vittorioso da una competizione a 24 grazie anche all'appoggio informale di Konaré. ATT è stato poi riconfermato nel 2007 ed era intenzionato a ritirarsi al termine del secondo mandato. All'inizio del 2012 si sono riaccesi nel nord del Paese gli scontri fra esercito maliano e separatisti del neonato Mouvement National de Libération de l'Azawad (MNLA). Il 22 marzo 2012 un colpo di stato ha rovesciato il governo di ATT causando uno sbandamento tra le fila dell'esercito che ha permesso ai gruppi ribelli di estendere l'offensiva e occupare le città di Gao, Kidal e Timbuctu - assicurandosi de facto il controllo di tutto il nord e proclamando, il 6 aprile 2012, l'indipendenza dell'Azawad.6 Grazie al precipitare della crisi, alla pressione della società civile e alle sanzioni internazionali, il 16 aprile la giunta del capitano Sanogo ha annunciato il trasferimento dei poteri a un'autorità civile e la nomina del presidente del parlamento Dioncounda Traoré a capo di stato ad interim. 7 Nel corso di due decenni la stabilità del sistema politico nazionale non è stata perturbata dalle ripetute insurrezioni armate delle minoranze tuareg e maure, motivate dall'endemica povertà delle tre regioni settentrionali e promosse da imprenditori del potere arricchitisi grazie ai lauti proventi del contrabbando. Con riferimento a queste aree, la previsione di decentramento politico-amministrativo aveva assunto un significato particolare. Se da un lato fu sostenuta con il concorso di tutte le forze politiche al fine di legittimare le neonate istituzioni e garantire nuove arene di consenso locali 4 Il Patto nazionale fu un importante tassello nel processo di pace. Il teso dell'accordo, suddiviso in 86 articoli per 6 titoli, comprendeva: la demilitarizzazione del nord; l'integrazione di miliziani selezionati nelle fila dell'esercito; il rientro dei rifugiati nelle loro case; integrazione fra le economie del nord e del sud. Gli artt. 15-17 istituirono lo Statut Particulier du Nord du Mali che sancì l'autonomia per le regioni del Nord e grazie al quale furono create assemblee elettive per i livelli amministrativi comunali e intermedi; fra le competenze figurarono l'agricoltura, l'allevamento, la protezione dell'ambiente, i trasporti, la salute, l'educazione e cultura, nda. 5 Appellativo in uso in riferimento alle manifestazioni e alla caduta del regime di Traoré, nda. 6 La regione dell'Azawad viene rivendicata come territorio nazionale dai Tuareg. Il termine è storicamente riferito a una vallata asciutta che un tempo ospitava un ramo settentrionale del fiume Niger, chiamato dai geologi Bacino degli Iullemmeden. 7 Quest'annuncio è stato il risultato di un accordo con la Comunità Economica degli Stati dell'Africa Occidentale (ECOWAS) che prevedeva il trasferimento dei poteri ai civili fino a nuove elezioni. 3 (Horowitz, 1985; Sisk, 1996; Reilly, 2001), dall'altro la politica di decentralizzazione era in primo luogo l'esito del compromesso fra governo centrale e le élite del nord. Gli accordi di pace stipulati fra il 1991 e il 1992 avevano messo in agenda uno Statuto particolare per l'autonomia delle regioni VI, VII e VIII (Timbuctu, Gao e Kidal). Alla Conferenza nazionale, tuttavia, gli esponenti del sud si dimostrarono recalcitranti davanti a possibili assetti federali, costringendo il governo a fare marcia indietro. Il largo consenso incontrato dall'assetto decentrato assicurò adeguata legittimità al neonato regime democratico e garantì l'ancoraggio d'istituzioni capaci di regolare la competizione politica in un sistema politico le cui arene (Linz & Stepan, 2001) erano gravate da pesanti deficit di autonomia e sviluppo. La crisi attuale pone tuttavia degli interrogativi a cui questo paper cercherà di dare risposta. L'élite consensus e il processo di state building avviato all'indomani della democratizzazione non hanno saputo fornire le risposte adeguate per far fronte ai limiti alla statualità in eredità sin dall'indipendenza. Le élite del nord, pur cooptate negli ingranaggi istituzionali, non sono state capaci di mantenere il loro ruolo di leadership e garantire così la sostenibilità degli accordi di pace. Nel primo paragrafo sarà esplicitato il framework teorico retrostante all'analisi. Nel secondo paragrafo si entrerà nel vivo del processo di formazione dell'élite consensus, con particolare riguardo al ruolo del decentramento politico amministrativo e ai limiti del nuovo dispositivo istituzionale. Nel terzo paragrafo si ritroverà il filo conduttore con la crisi del nord, evidenziando il ruolo delle élite locali e spiegando le ragioni della loro perdita di leadership. Come si vedrà, i limiti della statualità maliana, largamente insoluti, hanno condizionato gli esiti della transizione democratica e posto le basi della crisi attuale. Democratizzazione, statualità e decentramento: un framework teorico. Fra il 1990 e il 1991 il Mali iniziò la transizione da un regime a partito unico a una democrazia multipartitica, 8 dapprima con una ridotta apertura dello spazio di contestazione pubblica e il mantenimento della partecipazione entro i limiti del partito unico; in seguito, e conseguentemente alla deposizione di Traoré, con il varo di un processo costituente. A fini analitici, un processo di transizione democratica è scomponibile in tre distinte fasi (Morlino, 2003): transizione, instaurazione e consolidamento. La transizione inizia con la cessazione del vecchio regime e la liberalizzazione dell'arena politica; si apre uno spazio di confronto fra vecchi e nuovi attori politici entro cui negoziare il futuro assetto. L'accettazione della pluralità degli interessi e l'adesione al fine democratico sono il presupposto essenziale affinché il negoziato sulle regole del gioco possa definirsi. L'instaurazione si sovrappone alla prima fase, ma è possibile identificarne l'inizio con la definizione delle istituzioni e delle procedure democratiche e il completamento della liberalizzazione; essa si perfeziona con la messa in moto degli ingranaggi elettorali e, più in generale, istituzionali. Durante il processo le élite hanno un ruolo centrale, poiché il gioco è concentrato nelle mani di pochi leader le cui scelte determinano l'esito stesso del processo. La presente analisi si focalizzerà nella prima parte sulla transizione e 8 Il Mali è definito da Bratton & van de Walle (1997) un Competitive one-party system. 4 l'instaurazione, cercando di isolare i passaggi chiave che hanno determinato la definizione dell'assetto istituzionale. L'analisi di quest'ultimo, il decentramento, si proietta invece su un orizzonte temporale più ampio e coinvolge la terza fase della transizione. Il consolidamento ha una genesi meno circoscritta, poiché incorre nel tempo attraverso un processo di definizione-fissazione di rapporti stabili e routinizzati fra società civile e l'arena politico-istituzionale. Questi rapporti si declinano in due direzioni: dal basso verso l'alto, la legittimità, e dall'alto verso il basso, l'ancoraggio istituzionale (Morlino, 2003). La legittimità del regime, intesa come attitudine positiva nei confronti delle istituzioni democratiche, implica sostegno da parte delle élite e più in generale consenso (anche passivo) da parte del demos. Secondo Huntington (1992) un segnale del consolidamento di un regime democratico è la capacità dei cittadini di distinguere fra la performance del governo da quella del regime. Nelle esperienze africane, e soprattutto nelle transizioni seguite a lunghi periodi autoritari, può sorgere confusione nella distinzione fra legittimità del regime e consenso del governo. I due termini possono sovrapporsi e i destini legarsi indissolubilmente per due ragioni: una debole cultura democratica, derivante da una mancanza da parte dell'elettorato di esperienza nelle procedure elettorali e nella partecipazione tout court; una bassa autonomia delle istituzioni dalla politica, e quindi della loro politicizzazione, retaggio della natura neopatrimoniale dello stato africano post-indipendenza (Jackson & Rosberg, 1982; Bratton & van de Walle, 1997). (2) L'ancoraggio, invece, afferisce la capacità delle istituzioni statali di tenere agganciata, se non addirittura controllare, la società civile. Morlino indentifica quattro ancore principali: organizzazione partitica, clientelismo, neo-corporativismo e ruolo di gate keeper dei partiti. La democrazia, intesa come sistema istituzionalizzato di competizione per il potere politico e gestione dei conflitti, ha bisogno di attori disposti a cooperare entro un quadro di regole e procedure condivise, a loro volta capaci di assicurare un sufficiente grado di fiducia reciproca (Diamond et al., 1995). In società divise come quella maliana, infatti, le soluzioni consensuali sottraggono la competizione politica al dilemma della sicurezza e risolvono, pertanto, il fisiologico paradosso fra consenso e conflitto (Frempong, 2007). Quando la posta in gioco è la sopravvivenza fisica, l'impiego di risorse violente è una delle scelte possibili. Onde evitare l'inviluppo in dinamiche centrifughe o a somma zero, gli attori che emergono sono chiamati al mutuo riconoscimento e a una qualche forma di consenso circa i fini del processo (O'Donnel et al., 1986; Bratton & van de Walle, 1997; Linz & Stepan, 2000; Morlino, 2003). In altre parole, una volta accettato il principio della competizione elettorale, l'interesse di A deve essere percepito da B come legittimo e indipendente dalla sua sopravvivenza fisica e politica. Pertanto, la condivisione del telos democratico e l'accettazione degli interessi in gioco sono le due condizioni necessarie affinché aumentino le probabilità che si produca un compromesso duraturo. Il contenuto del compromesso riguarda le regole precipue della competizione (partiti politici, legge elettorale) e l'assetto istituzionale. Se le nuove istituzioni hanno il sostegno delle élite, saranno in grado di consolidarsi, poiché è attraverso di esse che avviene l'ancoraggio e la legittimazione attecchiscono. Siano esse in continuità o discontinuità con il passato, quello che più conta è il loro potenziale autoritativo, e cioè la capacità di determinare comportamenti a esse conformi (Stoppino, 1989). 5 In virtù di quanto sopra affermato, il concorso delle volontà dei principali attori in campo, qui definito élite consensus9 (O'Donnel & Schmitter, 1986; Bratton et al., 2005; Frempong, 2007), aumenta la probabilità che l'esito istituzionale sia dotato di legittimità sufficiente ad esercitare il ruolo preposto: regolare la competizione politica. La necessità di privilegiare l'osservazione delle élite deriva da un dato analitico: i comportamenti e le attitudini da esse espresse forniscono non solo la percezione della legittimità del neonato regime, ma anche la bussola per individuare la direzione del processo di transizione in termini di stabilità/instabilità politica. Nella liquidità di preferenze - tipica in una fase di transizione - le élite ricoprono un ruolo di guida decisivo per il futuro assetto costituzionale.10 Il compromesso cui devono dunque pervenire, e che coinvolge non solo i nuovi esponenti, ma anche quelli vecchi nella misura della loro partecipazione/accettazione/passività al cambiamento, si perfeziona nella definizione delle regole del gioco, ma postula il reciproco riconoscimento, su un piano di parità, della democrazia come valore intrinseco (Bratton & Mattes, 2000). La determinazione valoriale della democrazia, infatti, sostanzia il presupposto alla formalizzazione d'istituzioni democratiche che possano definirsi legittime. Com’è stato suesposto, una transizione democratica ha l'obiettivo di porre in essere procedure e istituzioni capaci di regolare la competizione politica nella pratica di tutti i giorni. Queste istituzioni per consolidarsi abbisognano di legittimità e di una qualche forma di ancoraggio alla società civile. La definizione di un assetto istituzionale deve pertanto tener conto della capacità di creare un ambiente legittimato dal basso e favorevole alla formazione di ancore. In un contesto di estrema povertà e di scarsa autonomia dell'arena economica da quella pubblica, l'ancoraggio garantisce alle élite le risorse per mantenere lo status e la preminenza nei processi di socializzazione e di opinion/decision making. L'esito dell'élite consensus sarà più solido quanto più ancorate risulteranno essere le istituzioni e di concerto le élite: la definizione di un ambiente istituzionale favorevole alla formazione di ancore istituzionali è una misura della solidità del compromesso. Maggiore è la solidità dell'accordo, e maggiore sarà la probabilità che, ceteris paribus, si generi stabilità politica. Dove per solidità rinvio alla capacità di creare un ambiente favorevole in termini di legittimazione e ancoraggio. --Si è finora focalizzata l'attenzione sopra le dinamiche intercorrenti fra gli attori rilevanti e le relative condizioni di successo. Un aspetto fondamentale è stato tuttavia tralasciato: la statualità. Com'è stato più volte ricordato, una transizione democratica è incaricata di sostituire le istituzioni e le procedure del vecchio regime con altre volte al funzionamento di un sistema politico di tipo democratico; ma perché di regime si possa parlare, occorre postulare innanzi tutto l'esistenza di un'entità statale. E' un dato che le caratteristiche dello Stato prima della democratizzazione, e i relativi limiti, non possono essere elusi giacché afferiscono il contenuto e l'esito stesso del processo di transizione. In altre parole, l'analisi della democratizzazione deve essere affiancata a una riflessione sulla statualità - sul prima e il dopo - perché la sua genesi condiziona l'output in termini di design istituzionale e di ancoraggio. 9 Le élite sono qui definite come quell'insieme di persone capaci, in virtù dello status e del potere esercitato, di influenzare gli esiti del sistema politico. Cfr. Bayart, 1993; Stoppino 1989; Higley & Burton, 1998. 10 Sul ruolo dei c.d. big men nella mobilitazione del capitale sociale, cfr Bayart, 1993. 6 Uno Stato è per definizione composto di tre elementi essenziali: un territorio, una popolazione stabile e un governo effettivo.11 Dagli anni Sessanta le analisi sulla statualità africana post-indipendenza hanno avuto largo spazio nella letteratura politologica, concentrandosi in particolar modo sulle condizioni della stabilità politica. In un celebre saggio del 1968 riguardo alle società in cambiamento verso la modernità, Huntington poneva al centro dell'analisi la capacità dei governi di esercitare le proprie prerogative (Huntington, 1968). L'autore individuava dietro l'hobbesiana domanda governo sì, governo no? il discrimine fra ordine e caos. La capacità di esercitare il governo solleva un problema operativo. Analiticamente, i mezzi del governo possono essere considerati in termini di autorità o diritto a governare (legittimità) e di potere o capacità di governare. In questo senso la ricerca sullo stato africano post-indipendenza ha evidenziato criticità riguardo alla gestione del potere politico in entrambe le dimensioni: limiti nella concentrazione dell'autorità (chi governa e in quale misura?) e nell'ambito di efficacia spaziale del governo (dove governa?). In particolare, il tema della forza del governo, l'esercizio esclusivo e la sua estensione spaziale rimangono quesiti a cui il design istituzionale degli stati africani contemporanei a tutt'oggi fatica a rispondere. Allontanandosi dal centro, infatti, il territorio si de-istituzionalizza seguendo una logica a cerchi concentrici in cui il quantum di autorità va via via decrescendo (Herbst, 2000). Numerose sono le criticità ricorrenti alla statualità africana moderna,12 ma ciò che tuttavia preme ricordare è che la debole presenza dello Stato nelle aree periferiche è un topos ricorrente nella storia del continente, tradizionalmente caratterizzata da un basso (se non addirittura assente) grado di estensione dell'autorità politica entro confini mai del tutto definiti. La ragione poggia su una serie di caratteristiche geografiche e politiche ben individuate da Jackson & Rosberg (1982) e poi integrate da Herbst (2000). Anche l'osservatore più distratto noterà che la storia del continente è stata interessata prevalentemente da guerre per il possesso della forza lavoro piuttosto che della terra. La sua abbondanza ha fatto sì che essa non fosse mai al centro degli obiettivi di conquista. Pertanto anche i confini sono sempre stati rilevanti nella misura della loro scarsa significatività spaziale. E' ben noto infatti che la loro definizione fu successiva: coincise con il periodo coloniale e si perfezionò con la risoluzione di Addis Abeba del 1963, quando gli Stati africani indipendenti s'impegnarono al rispetto delle frontiere ereditate dalla dominazione coloniale. La sicurezza dei confini assicurata dalla comunità internazionale ha disinnescato il potenziale di competizione inter-statale, disincentivando l'istituzionalizzazione dello Stato-apparato sulle aree periferiche. I fragili governi post-indipendenza non ebbero sufficienti incentivi economici e politici per estendere la loro presenza, e di concerto le istituzioni, ad aree sottopopolate, relativamente prive di risorse e sotto la tutela di sovranità nazionali protette (Jackson & Rosberg, 1982; Herbst, 2000). Un esercizio non uniforme dell'autorità governativa sull'intero territorio nazionale postula la presenza di differenziali nell'autorità e nell'esercizio del potere fra le diverse aree 11 In accordo con Jackson & Rosberg (1982) la definizione weberiana di Stato (inteso come quella comunità umana che entro un determinato territorio pretende per sé [con successo] il monopolio dell'uso della forza legittima) procede con criteri empirici talmente rigorosi che Stati come il Mali non potrebbero essere considerati tali. In questo paper, come si vedrà, si attribuisce un ruolo fondamentale alla comunità internazionale nel riconoscere e garantire la sopravvivenza, aldilà dei limiti, dello Stato africano contemporaneo. Pertanto, gli elementi costitutivi la nozione di stato rinviano alla definizione offerta dalla Convenzione di Montevideo sui diritti e doveri degli Stati (1933). 12 Istituzioni deboli e scarsamente autonome, neopatrimonialismo, controllo limitato sulle risorse violente, limitate capacità estrattive, cfr. Zolberg, 1966; Huntington, 1968; Migdal, 1988; Bratton & van de Walle, 1997 et al. 7 del Paese. E' dunque possibile desumere l'esistenza di zone di serie A, in cui il governo esercita un effettivo ed esclusivo controllo del territorio, e zone di serie B, in cui l'autorità va via via declinandosi e dove l'assenza di ordine e l'anarchia regnano sovrane? Aree, pertanto, de-istituzionalizzate e in cui le istituzioni sono di fatto invisibili? Osservando la cartina politica, il Mali possiede un governo centrale e un territorio delimitato da confini certi. Se tuttavia sovrapponiamo a essa una mappa etnica, la domanda sorgerà spontanea: quale demos?13. Se di unità territoriale si può parlare, la cartina geografica del Mali appare frastagliata in vari gruppi e sottogruppi etnico-linguistici, diversi ma funzionalmente interdipendenti. Le istituzioni politiche che nel corso dei secoli hanno variamente occupato l'attuale territorio maliano hanno generato nelle comunità locali uno spirito di appartenenza collettiva, che ha funto da collante per l'unità del Paese. A riprova della solidità della comunità politica e del suo senso di appartenenza, il passaggio dalla politica di élite a quella di massa ha visto la società civile organizzarsi attorno a organizzazioni partitiche e sindacali slegate dall'appartenenza etnica o confessionale (Camara, 2008). Un'unica sola eccezione: le genti del deserto.14 I clan arabi (maure) e le confederazioni tuareg che risiedono nelle aree desertiche del nord, si sono storicamente distinti - sia in ordine politico sia sociale - dalle popolazioni africane del sud del Paese. Nessuna istituzione politica unitaria ha mai veramente regolato stabilmente i due universi - nomadico e sedentario - e dato dunque vita a embrionali processi di nation building. La presenza di più demòi entro i confini di uno Stato è fonte d'instabilità politica; né in letteratura né nella pratica si evincono soluzioni istituzionali ideali a governare la segmentazione della comunità politica.15 All'inizio degli anni Novanta, tuttavia, le politiche di condizionalità in voga fra i donatori internazionali, inclusero il decentramento politico fra le possibili soluzioni a questo problema strutturale. In sintesi, si riteneva che le strategie di decentralizzazione potessero promuovere maggiore democrazia attraverso il miglioramento della governance, in termini di maggior mobilitazione, inclusione e partecipazione (Litvack & Seddon, 1999; Bergh, 2004). La prossimità degli eletti e dei centri decisionali alla società era ritenuta veicolo di sviluppo grazie a una più efficiente (in termini di responsività) allocazione delle risorse. Certamente una devoluzione verso il basso dei poteri e delle competenze politiche non esaurisce il problema della cittadinanza,16e tantomeno della presenza dello stato sul territorio, ma può tuttavia assolvere una funzione importante per lo sviluppo di ancore istituzionali e agevolare l'élite capture (Dutta, 2009). In questo senso, il decentramento ha rappresentato una strategia di consolidamento attraverso l'estensione dell'autorità ad aree de-istituzionalizzate? Rifuggendo da una prospettiva esageratamente funzionalista, non è chiaro il grado di consapevolezza della Conferenza nazionale riguardo ai limiti della statualità; tutto quello che è possibile affermare è che il decentramento sostanziò il contenuto dell'élite consensus nella fase di transizione, rappresentando quindi un importante dispositivo potenzialmente capace di: (1) accrescere il consenso politico del governo Konaré (2) consolidare il neonato regime attraverso legittimità e ancoraggio e (3) pacificare il 13 Nel dialogo a due voci messo in scena in Democracy and Its Critics (1989), Robert A. Dahl si pone l'interrogativo ragionando sulle fondamenta dello stato democratico. 14 Per un'introduzione allo studio delle popolazioni nomadi di etnia tuareg, cfr. Rodd, 1926; Palmer, 1932. 15 Evidenze empiriche suggeriscono che le soluzioni improntate sui sistemi elettorali o su architetture istituzionali di power-sharing vanno calibrate ai casi singoli. 16 La letteratura rileva esiti incerti al riguardo: si registrano casi in cui la suddivisione amministrativa e un certo grado di autonomia politica delle sub-unità locali hanno politicizzato cleavages etnici e comunitari prima depoliticizzati. 8 Nord - attraverso quello che Seely (2001) ha definito un meccanismo per la cooptazione delle élite. L'applicazione della strategia ha tuttavia dovuto fare i conti con i due limiti strutturali individuati sopra: (1) differenziale nell'estensione dell'autorità sul territorio statale e (2) assenza di sviluppo. Élite consensus e decentramento Nella primavera del 1991, una volta deposto il governo di Traoré, il CTSP diede avvio alla transizione democratica con la promulgazione dell'Atto fondamentale 17 che abrogò la costituzione degli anni Settanta e varò una nuova legge fondamentale. I militari, rifiutando il bombardamento della sede delle opposizioni e deponendo Traoré, si erano accreditati agli occhi delle forze di opposizione; la composizione mista del governo investì la transizione di adeguata legittimità agli occhi della società civile e internazionale, responsabilizzando ciascun attore collettivo e placando le iniziali diffidenze fra le parti. L'esclusione dei vecchi membri dell'UDPM rassicurò le prospettive, disinnescando i timori di un possibile riflusso contro-rivoluzionario. La liberalizzazione del sistema politico accompagnò la riattivazione della società civile nel passaggio dall'autoritarismo al pluralismo, garantendo l'ingresso nell'arena pubblica di nuovi attori: partiti, sindacati, gruppi d'interesse, radio e carta stampata indipendente. Il mosaico d'interessi e identità rappresentava una sfida per la tenuta della coalizione fondante e il rischio che l'unità d'intenti si frantumasse alla caduta di Traoré richiamava l'esigenza di stabilire un solido compromesso riguardo alle procedure e alle istituzioni democratiche, fondato su un adeguato senso di appartenenza nazionale. L'articolo 28 dell'Atto fondamentale previde l'indizione di una Conferenza nazionale costituente per affrontare tre questioni urgenti: il codice elettorale, la carta dei partiti e la nuova costituzione. L'assemblea fu composta di tre rappresentanti per ogni forza politica, inclusi i movimenti separatisti arabi e tuareg. L'assemblea ebbe un'autonomia parziale giacché i lavori furono guidati, e le proposte materialmente redatte, dagli stessi ministri competenti. La nuova architettura costituzionale ricalcava quella francese del 1958: esecutivo duale con un Presidente della repubblica a elezione diretta, designante un Primo ministro responsabile di fronte all'Assemblea nazionale. Fu adottato il maggioritario a doppio turno per l'elezione dell'esecutivo e del legislativo (quest'ultimo con liste bloccate); mentre la formula proporzionale fu preferita per le unità sub-nazionali. Il sistema elettorale fu materia lungamente dibattuta: sebbene il proporzionale incontrasse il favore di molti, lo spettro dell'ingovernabilità fece propendere per la soluzione maggioritaria a livello nazionale e proporzionale per i livelli intermedi. La carta dei partiti18definì le finalità generali, i requisiti e i criteri organizzativi delle nuove formazioni. Fra i vari obblighi figurava il divieto di formazioni partitiche su base etnica, confessionale o professionale. La carta sancì inoltre l'autofinanziamento e il controllo sui bilanci da parte della Corte suprema.19 La Conferenza nazionale assicurò alla transizione un'arena di consensus building entro cui formulare il futuro assetto istituzionale (Nzouankeu, 1993). L'elemento portante dell'ordinamento fu il 17 Acte fondamental n° 1 / CTSP del 31 marzo 1991. Promulgata il 10 ottobre dello stesso anno. 19 Il finanziamento pubblico ai partiti fu introdotto con la legge n° 05-047 del 18 agosto 2005 di modifica alla Carta dei partiti. 18 9 decentramento politico amministrativo, basato su tre sotto-livelli rappresentativi e amministrativi (region, cercle e commune), e sul trasferimento a questi ultimi di competenze fiscali e in materia di servizi. L'assetto decentrato fu discusso a seguito della proposta di concessione dello Statuto particolare 20 alle regioni di Timbuctu, Gao e Kidal. La Conferenza rigettò la soluzione federale suggerita dal Comitato per il Nord, preferendo un decentramento simmetrico, esteso quindi all'intero corpo nazionale. La decentralizzazione sostanziò l'oggetto dell'élite consensus, giacché rappresentò l'architrave istituzionale del sistema politico. Alpha Konaré concentrò con successo la campagna elettorale sulle promesse di devoluzione dei poteri agli enti locali. Nel 1993 promulgò la legge n. 008/93 recante le linee guida del processo e nello stesso anno fu avviata la Mission de Décentralisation, un programma di consultazioni locali volto alla sensibilizzazione e alla definizione dei confini delle comunità rurali. Questa fase si protrasse per almeno tre anni, cui fece seguito il pacchetto delle Réformes Istitutionnelles che implementarono la normativa. Il decentramento politico previde la devoluzione delle competenze in materia fiscale e incaricati dell'erogazione dei principali servizi al cittadino quali educazione, sanità e acqua. La definizione dei confini amministrativi, concertata con gli attori locali, era finalizzata all'individuazione e alla valorizzazione dei rapporti solidaristici interni alle comunità. Il processo partecipato investì le istituzioni di legittimità e fornì le premesse per l'ancoraggio delle élite locali al sistema politico. La strategia rispondeva a un calcolo politico finalizzato a (i) accrescere il consenso di politico dell'ADEMA di Konaré, (ii) consolidare la legittimità del neonato regime democratico e (iii) pacificare il nord. (i) Con riferimento al consenso, un decentramento politico è incoraggiato da due ordini di fattori: esterni e interni. Il primo gruppo riguarda le pressioni internazionali attraverso le clausole di condizionalità previste dagli accordi internazionali. Con i bilanci statali in rosso e le esigenze di sviluppo pressanti, le linee di credito internazionale costituivano la priorità per Bamako. I fattori interni, invece, pongono l'accento sul lato della domanda politica. In uno scenario di crescente partecipazione un governo responsivo e in cerca di consenso, se sollecitato, si vede incoraggiato a devolvere quote anche significative di potere a beneficio delle sub-unità in cambio di sostegno e quindi di stabilità politica. Quando il regime autoritario di Traoré implose, i network clientelari s'incepparono e la devoluzione dei poteri verso il basso rappresentò uno strumento volto a rafforzare il consenso e, come vedremo, la legittimità e l'ancoraggio delle istituzioni. Il referendum costituzionale del 6 gennaio 1992, pur registrando una bassissima affluenza, raccolse una percentuale di Sì attorno al 99% (tab. 1). Nelle successive consultazioni elettorali ADEMA uscì vittorioso nella maggioranza delle circoscrizioni del Paese - comprese nelle regioni di Timbuctu, Gao e Kidal. Il trend fu riconfermato alle elezioni nazionali del 1997 nonostante il boicottaggio delle opposizioni. L'implementazione del decentramento politico-amministrativo si perfezionò nel 1999, quando i maliani furono chiamati alle urne per l'elezione dei membri dei consigli locali. Anche in quell'occasione, ADEMA vinse tutte le communes urbane e si aggiudicò il 59% dei seggi rurali. 20 Lo Statuto particolare era previsto dagli Accordi di Tamanrasset. La proposta fu avanzata alla Conferenza nazionale dal Comitato per il Nord presieduto da Baba Akhib Haidara (esperto dell'UNESCO per i programmi di educazione) e incaricato dal governo di transizione della gestione dello stato di perdurante crisi. 10 Referendum costituzionale, 19 gennaio 1992. Risultati disaggregati per regioni e distretto di Bamako. (tab. 1) Regioni Kayes Koulikoro Sikasso Ségou Mopti Timbuctu Gao Kidal Bamako Residenti estero SI (%) 98,39 98,6 98,4 97,8 99,4 99,7 99,37 99,01 96,48 97,72 NO (%) 1,26 0,9 0,79 1,2 0,27 0,08 0,29 0,83 2,43 0,12 Affluenza 45,55 56,4 39,4 38,4 41,5 41,8 16,29 16,53 38,29 69,62 Referendum costituzionale, 19 gennaio 1992. Risultati nazionali. Iscritti Affluenza SI NO 5.233.432 2.276.291 2.238.804 17.736 43,58% 98,35% 0,78% (ii) Il supporto al decentramento espresso dall'assemblea costituente e il risultato plebiscitario del referendum costituzionale furono un chiaro indicatore della legittimità delle nuove istituzioni. Fra il 1992 e il 1997 più di sessanta partiti furono creati e nel 2004 il numero lievitò a 94. Cinque partiti dimostrarono un radicamento nazionale (ADEMA, URD, RPM, CNID, MPR) e solo i primi 3 erano dotati di capacità organizzative sufficienti a eleggere rappresentati da Kidal a Kayes. Se ciò suggerisce un certo grado di adesione alle procedure democratiche, partiti politici poco istituzionalizzati riescono difficilmente a farsi promotori di good governance (Vengroff, 1993). Cionondimeno essi hanno ugualmente garantito una qualche forma di ancoraggio, attraverso la distribuzione clientelare di risorse e la mediazione. Il sistema elettorale, infatti, maggioritario a doppio turno per l'arena nazionale e proporzionale per i livelli subnazionali, ha mantenuto un sistema multipartitico segmentato: il sostegno ai cinque partiti maggiori è insidiato da una moltitudine di piccole formazioni, espressione di clan e notabilati locali, la cui rilevanza è proporzionale al potenziale di coalizione. I due sistemi elettorali hanno prodotto degli effetti positivi per la stabilità del sistema: il maggioritario, attraverso l'aggregazione e la formazione di ampie coalizioni a sostegno del Presidente, ha garantito la governabilità; mentre quello proporzionale ha permesso l'accesso ai centri decisionali (e pertanto alle risorse pubbliche) ad attori minoritari ed esclusi dalla torta nazionale (Cfr. Horowitz, 1985; Sisk, 1996; Reilly, 2001). In sintesi, la decentralizzazione politica ha permesso un migliore flusso delle risorse dall'alto verso il basso; ha inoltre funto da banco di prova per l'esercizio del compromesso e della mediazione, logiche d'azioni essenziali al consolidamento di qualsiasi arena politica democratica. Su quest'ultimo aspetto è bene soffermarsi ulteriormente. L'osservazione delle dinamiche interpartitiche rivela un'elevata predisposizione alle alleanze soprattutto da parte delle piccole formazioni (Vengroff & Kone, 1995; Diarrah, 1996; Camara, 2008). Il primo mandato di Alpha Konaré fu segnato dal conflitto 11 sociale e i contraccolpi non si fecero attendere: nel 1994 l'alleanza ADEMA/PASJ si frantumò e nel giro dei due anni successivi anche gli altri partiti maggiori conobbero la fuoriuscita di microformazioni politiche. Dalle elezioni del 1997 in poi le competizioni elettorali furono contraddistinte dalla formazione di macro-alleanze di cui i partiti maggiori si fecero promotori. Due considerazioni si possono fare nell'immediato: il carattere marcatamente elettorale di questi cartelli ha reso queste alleanze molto fluide e poco ancorate ad agende politiche condivise; ciò a sua volta evidenzia una bassa distanza ideologica fra le formazioni e una buona coesione delle élite, disposte a cooperare pur di non rimanere escluse dal power-sharing. Alleanze alle elezioni del 1997 (tab. 2) Alleanze Convergence Nationale pour la Démocratie et le Progrès (CNDP) Composizione ADEMA, PARENA, ADES, CDS, MCCDR, RAMAT e il PDJ Rassemblement des Forces Patriotiques (RFP) BDIA, PDP, UDD (poi passato all'FCD), PMDR, CNID, PSP, MPR, l’UFDP Front pour le Changement et la démocratie (FCD) MIRIA, US-RDA, RDP, UDD, PRDT, PMPS A seguito delle legislative, RFP e FCD confluirono nel COPPO, che boicottò le presidenziali Collectif des partis de l’opposition (COPPO) Ciò testimonia ancora una volta la capacità di dialogo e compromesso che ha influenzato positivamente l'accordo sulle regole del gioco, e che ora afferisce positivamente il consolidamento. Il corretto funzionamento delle procedure democratiche e il disimpiego di risorse violente non devono tuttavia distrarre dai limiti: l'opportunismo delle alleanze, finalizzate a sostenere le clientele e le pratiche di spoil system, distrae la competizione dal principio delle reazioni previste. Questo non può che sollevare dubbi sulla bontà delle agende politiche dei singoli partiti, sull'autonomia dell'arena politica ed economica e, in generale, sulla qualità stessa del sistema politico in termini di responsività dell'output. Ciononostante è bene ricordare come l'assetto istituzionale uscito dal compromesso nazionale del 1991 abbia svolto la funzione preposta: ha permesso, aldilà dei grossi limiti qualitativi, la nascita di un sistema politico dotato di un adeguato grado di legittimità e di governi stabili. Almeno su una parte rilevante del territorio nazionale. (iii) La strategia di decentramento mirava a consolidare lo Stato nelle tre regioni settentrionali per garantire la pacificazione del conflitto autonomista. I termini dello scambio possono essere così riassunti: unità territoriale in cambio di autogoverno. Anche qui ritroviamo nei due processi di ancoraggio e legittimazione una chiave interpretativa per spiegarne il meccanismo. In accordo con Seely (2001), l'obiettivo fu di cooptare le élite nordiste nel meccanismo politico istituzionale, dove per cooptazione mi riferisco a quella situazione politica in cui chi detiene il potere, sceglie di includere nel caso particolare attraverso l'estensione dell'autonomia politico-amministrativa - gli attori o i gruppi di attori che rappresentano una potenziale minaccia. L'ancoraggio sarebbe avvenuto attraverso il sistema partitico e le leve clientelari, con un meccanismo di élite capture analogo a tutte le altre aree 12 del Paese. Se tuttavia l'ancoraggio è un processo meccanico, legato in misura variabile al trasferimento di risorse dall'alto verso il basso, la legittimazione, invece, attecchisce gradualmente ed è difficilmente attivabile da mere soluzioni istituzionali. L'élite consensus consentì la formulazione di istituzioni e regole condivise che permisero il funzionamento del sistema democratico su larga parte del territorio. Nelle tornate del 1992 e del 1997 l'affluenza media nelle tre regioni del nord fu bassa e poco sopra quella nazionale,21 con ADEMA in testa in quasi tutte le circoscrizioni (Camara, 2008); nel 2002 le regioni del nord furono protagoniste di un'affluenza molto superiore rispetto alla media del Paese. A dimostrazione del trend positivo, coincidente con un periodo di relativa pace al nord, le amministrative del 2004 registrarono un'affluenza media del 43% nelle regioni di Timbuctu, Gao e Kidal. Non sorprende quindi che nelle circoscrizioni di Timbuctu e Gao, ADEMA abbia portato a casa più seggi rispetto a tutte le altre circoscrizioni del Paese. Nel 2006, tuttavia, una nuova ribellione devastò il nord riproponendo il rischio di una deriva civile del conflitto. La presenza di aspettative crescenti, desumibile dalla crescita nella partecipazione fra il 1997 e il 2004, solleva molteplici interrogativi su quella che sembrava una definitiva soluzione al problema del nord. L'ipotesi è che le élite tradizionali, pur cooptate, abbiano perso il ruolo di leadership. Dietro alla fragilità delle élite s'ipotizzano due ragioni: (1) la scarsa presenza dello stato, e quindi la deistituzionalizzazione delle aree periferiche, derivante dal differenziale nella diffusione dell'autorità fra centro e periferia; (2) e il perdurante sottosviluppo che ha frantumato la comunità al suo stesso interno. Il decentramento può rappresentare un dispositivo capace di estendere l'autorità delle istituzioni sul territorio, rendendole più visibili e favorendo la partecipazione e la responsività. All'iniziale domanda quale demos? la risposta non può che essere non uno, ma più demòi. Se ritorniamo al dato elettorale, la constatazione del predominio 22 di ADEMA e l'assenza di formazioni politiche portatrici d'istanze autonomiste o identitarie è sì un segnale incoraggiante, ma deve essere affiancata all'affluenza elettorale: più della metà degli aventi diritto non partecipa, segnando una profonda divisione fra chi partecipa (insiders) e invece chi è escluso o si auto-esclude (outsiders). Gli anni di conflitto, la povertà, l'analfabetismo, la naturale marginalizzazione delle popolazioni residenti nelle aree desertiche e la conseguente non visibilità delle istituzioni in queste zone segna il discriminante in e out fra chi è esposto alle istituzioni e chi invece no. E' possibile individuare in questa frattura il bacino d'influenza delle élite, circoscritto pertanto a molto meno della metà della popolazione regionale. E il restante 60 o, addirittura, 70%? Prima di rispondere a questo interrogativo, oggetto del paragrafo successivo, è il caso di soffermarsi ulteriormente. A livello nazionale la bassa partecipazione elettorale è motivata da una generale indifferenza e/o scarsa fiducia nella responsività degli eletti. Infatti, i sondaggi di 23 Afrobarometer isolano la cattiva reputazione dei governanti e allo stesso tempo rilevano un'attitudine positiva diffusa nei riguardi delle istituzioni democratiche. Sul campione nazionale, pertanto, la scelta 21 Partecipazione media alle legislative del 1992: nazionale 21,3%, regioni nord 29,1%. Fonte: African Election Database. 22 La dominanza non si è mai realizzata a pieno a causa delle scissioni susseguitesi fra 1994 e 2002 e delle macroalleanze delle opposizioni. 23 I dati di Afrobarometer sono reperibili all'indirizzo: http://www.afrobarometer.org/results/results-by-country-am/mali. Si cfr. inoltre Bratton & Mattes, 2000; 13 dell'outsider può essere interpretata come indifferenza o sfiducia all'interno di una generale legittimità delle istituzioni democratiche, percepite come the only game in town.24 Nelle regioni del Nord, al contrario, le radici dell'astensionismo non sono chiaramente identificabili, ma solo ipotizzabili una volta desunto il contesto generale. Al riguardo bisogna contare che la grave instabilità dell'area ha impedito lo svolgimento di ricerche estensive capaci di sondare l'opinione delle comunità. I limiti nella disponibilità di dati disaggregati non impedisce tuttavia la formulazione di ipotesi. Le élite tradizionali hanno smarrito il controllo sulle comunità a causa della perdita di autorità. La perdita di autorità deriva dalla combinata azione di istituzioni assenti e dalla perdurante povertà dell'area che ha destabilizzato la struttura sociale tuareg e generato domande a cui le élite politiche non hanno saputo rispondere. Decentramento elusivo Il governo di transizione ristabilì condizioni favorevoli a traghettare il Paese alla democrazia e fra queste, l'inclusione delle comunità nomadiche del nord rappresentava la sfida principale. L'obiettivo esigeva però una riflessione sulle basi della statualità e una chiara comprensione dei processi sociopolitici degli ultimi cinquant'anni. Il Mali è uno degli stati più vasti del continente25comprendente tre fasce climatiche distinte: la regione sudanese del sud coltivata, il Sahel nella zona centrale semiarida e il nord arido in pieno Sahara.26 Le regioni meridionali sono prevalentemente coperte da savane e il terreno è pianeggiante. Nel nord diviene leggermente ondulato e l'altipiano si snoda tra i 200 e i 500 metri di altezza sul livello del mare con rilievi montuosi sino a 1000 metri. Il deserto e le regioni semi-aride coprono circa il 65 per cento della superficie del Paese. A causa di condizioni ambientali e storiche, ampie porzioni di territorio delle regioni di Timbuctu, Gao e Kidal risultano de-istituzionalizzate e marginalizzate sotto il profilo politico ed economico. Queste aree - la cui densità abitativa può scendere sino agli 0,1 abitanti per km² - sono popolate da comunità nomadiche e sedentarie. Le comunità sedentarie, appartenenti principalmente a etnie africane, hanno da sempre convissuto - fra conflitto a cooperazione - con le comunità nomadiche di origine araba e berbera. Queste ultime costituiscono gruppi autonomi e segmentati, solo in parte integrati nella comunità politica nazionale. L'assenza dello Stato - percepito distante dai bisogni delle 24 In particolar modo nelle aree rurali, la convivenza dei poteri dello Stato e quelli della tradizione può risultare problematica. Si cfr. Marie & Idelman, 2010. 25 Il Mali si estende per 1.241.300 mq, 7.243 km di frontiere su sette Stati e una densità abitativa di 10 unità per km² attorno al Niger, mentre al Nord la densità è sull'ordine dello 0,1 per km². La società maliana è basata su clan divisi in etnie la cui definizione, o per meglio dire la percezione, si ascrive principalmente alla dimensione linguistica. Più del 50% della popolazione parla Mandé (Bambara, Soninké, Malinké), lingua diffusa nella parte meridionale e occidentale del Mali. Fulani e Peul parlano Fulfuldé e costituiscono il secondo maggiore gruppo del Paese (circa il 17%); dediti alla pastorizia e all'allevamento abitano principalmente l'area centrale del Mali, attorno al fiume Niger. Le regioni settentrionali sono popolate da Songhai, Tuareg, Maure e Bozo. Songhai e Tuareg sono localizzati principalmente nel nord ovest, mentre verso confine mauritano s'individuano i clan arabi Maure. I Songhai sono coltivatori stanziati prevalentemente lungo il corso del Niger assieme ai pescatori Bozo. I Tuareg, popolo berbero di lingua Tamacheq tradizionalmente, dedito alla pastorizia e ai commerci, fino all'età coloniale dominava assieme agli arabi maure i deserti del Sahara centrale. 26 Cfr. appendice - cartine geografiche. 14 comunità e fisicamente assente dal territorio - è stata più volte fonte di malcontento sfociato in violenza organizzata. Nel corso del Novecento, il ri-orientamento dei rapporti di forza nell'area ha visto i tuareg gradualmente marginalizzati dal potere politico e conseguentemente discriminati nell'accesso alle risorse divenute sempre più ridotte. Sin dall'indipendenza, infatti, le popolazioni nomadiche manifestarono insofferenza nei confronti del governo africano di Bamako, percepito come il nuovo colonizzatore dopo l'uscita di scena della Francia. Dall'età coloniale in avanti il potere politico si era gradualmente spostato in mano alle etnie nere del meridione, lasciando il nord sempre più marginalizzato (Morgenthaus, 1964; Seely, 2001). Le aspettative crescenti ingenerate dalla fine del dominio coloniale cozzarono poi con la tendenza, variamente diffusa a tutti i regimi dell'Africa postcoloniale, all'instaurazione di forme statali centralizzate (Zolberg, 1966; Diamond et al., 1995; Gentili, 2008), in cui la piccola scala delle comunità nomadiche e pastorizie era considerata in larga misura irrilevante. In società in così rapida trasformazione, l'ordine politico e i modelli di crescita fondati su un ideale di progresso e modernizzazione misero in secondo piano gli interessi dei nomadi del nord, definiti spregiativamente le Mali inutile. La desertificazione incorsa a partire dalla prima metà del XX secolo ha impoverito l'economia locale - tradizionalmente fondata su pastorizia e allevamento causando disoccupazione e frustrazione sociale (Poulton & ag Youssouf, 1998; Benjaminsen, 2008). Le conseguenze più immediate sono state due: da una parte si è assistito alla caduta delle caste nobiliari e, dall'altra, alla migrazione dei pastori verso sud e dei giovani verso le città o l'estero. Lo spostamento a sud dei pastori si è riverberato sul rapporto fra il mondo pastorale e agricolo, da sempre conflittuale a causa delle cicliche criticità ambientali. In Africa la questione della terra è sempre stata al centro di continue mediazioni il cui esito, non sempre in equilibrio, è dipeso dagli equilibri politici del momento. I giovani emigrati all'estero (i c.d. ishumar), invece, si diressero in Libia e Algeria, dove entrarono in contatto con le ideologie rivoluzionarie e l'addestramento militare della Legione araba. I problemi causati dalla desertificazione, dall'esclusione politica ed economica si sono quindi ribverberati sulle gerarchie tradizionali, erodendone l'autorità e il prestigio derivante da uno status ormai solo nominale. La povertà ha pertanto disarticolato le comunità tradizionali, erodendo la leadership e alimentando una doppia divisione: rispetto al corpo nazionale e all'interno delle stesse comunità nomadi. Il profondo malessere, tuttavia, non ha tardato a manifestarsi. Dall'indipendenza le regioni di Timbuctu, Gao e Kidal sono state protagoniste di almeno quattro ribellioni armate (1961-63; 1990-1996; 2006-2009; 2012 - in corso) che nel corso del tempo hanno sfaldato il tessuto relazione fra le comunità dell'area e in modo particolare i rapporti fra popolazioni sedentarie e nomadiche (Poulton & ag Youssouf, 1998, Randall, 2005). Le precedenti rivolte si erano concluse con la stipula di accordi che insistevano su tre principi: autogoverno, inclusione e sviluppo. La Conferenza nazionale accolse il principio dell'autogoverno, ma ne ridimensionò l'asimmetria originaria per venire incontro alle richieste di tutto il corpo nazionale. Nel corso degli anni Novanta la leadership dei ribelli non fu in grado di sostenere i termini degli accordi di Tamanrasset e del Patto nazionale e il movimento autonomista si spaccò fra maure e tuareg; lotte intestine coinvolsero inoltre le stesse formazioni tuareg divise su linee tribali e generazionali. Il conflitto subì a più riprese delle 15 escalation che rischiarono di sfociare in guerra civile.27 Il permanere di uno stato di emergenza inficiò ogni tentativo di sviluppo, fiaccando il morale e il mutuo riconoscimento delle parti. In sede negoziale il governo centrale, sempre più in difficoltà, si vide costretto a cedere alle pressioni dei capi ribelli tese ad ampliare i margini di autonomia del nord. Le insurrezioni armate testimoniano la profonda frattura fra Nord e Sud e sollevano una questione di estrema importanza su cui finora si è taciuto: l'insorgenza di gruppi armati autonomi e concorrenti all'autorità di Bamako. Gli accordi di Tamanrasset, il Patto nazionale e quelli di Algeri concessero la demilitarizzazione delle tre regioni, confinando il dispositivo militare regolare alle sole basi principali. Le trattative seguite all'accordo di Tamanrasset e al Patto nazionale sancirono inoltre il principio dell'integrazione delle forze regolari all'interno dei corpi militari:28nell'aprile del 1993 furono integrate 610 unità e nell'ottobre del 1996 ben 1.200, ripartite fra Esercito, Gendarmeria e Guardia nazionale. Il processo d'integrazione ha interessato anche la Pubblica amministrazione e i reparti di polizia, i quali si sono gradualmente aperti ai non-africani un tempo esclusi; nell'ottobre del 1996, 120 unità furono inquadrate fra le fila della P.A. e 300 unità fra le forze di polizia (Polizia, Polizia di frontiera e Polizia forestale). L'arruolamento dei ribelli nelle truppe regolari ha indebolito le gerarchie dell'esercito, strumento principale del monopolio della violenza. Confrontando i dati con il numero di effettivi dei singoli corpi (tab. 3) si evince la problematicità del loro inquadramento. Le difficoltà nell'assorbimento si sono tradotte in perdita di efficienza e indebolimento della gerarchia (Grémont, 2010). Inoltre, il ricorso a pattuglie miste per il controllo delle aree desertiche - sancito dal Patto nazionale e riaffermato dagli Accordi di Algeri - ha rappresentato una soluzione di compromesso che nei fatti ha significato il subappalto del controllo del territorio ai capi ribelli. 27 A partire dal 1994 le popolazioni sedentarie si sono organizzate in bande paramilitari di autodifesa, al fine di contrastare le scorrerie e il monopolio dei commerci di tuareg e arabi - che gli accordi di pace avevano favorito. Nello specifico si segnala: 1) il Mouvement Patriotique Ganda Koy (MPGK). Fondato a metà anni Novanta dal disertore dell'esercito maliano, capitano Abdoulaye Hamadahamane Maiga, l'MPGK poteva contare sul supporto di Songhai, il grosso del movimento, e di pescatori Bozo, pastori Fulani (Peul), lavoratori Bella (ex schiavi tuareg) e qualche tuareg residente sulle rive del Niger. 2) Ganda Izo comparve invece in concomitanza all'insorgenza del 2006 e fu anch'esso composto in prevalenza da pastori Fulani (Peul) e Songhai. 28 E' qui riportato un estratto dell'articolo 7A, Titolo II del Patto nazionale: «Dans le cadre des mesures de restauration de la confiance, de l’élimination de facteurs d’insécurité et d’instauration d’une sécurité définitive, il sera: - procédé à l’intégration totale, sur une base individuelle et volontaire et selon les critères de compétence, des combattants des Mouvements et Fronts Unifiés de l’Azawad (MFUA) dans les différents corps en uniforme de l’État29, - mis sur pied pour une année, des unités spéciales des forces armées composées majoritairement des combattants intégrés des MFUA, - institué un corps de sécurité intérieure (Gendarmerie nationale, Garde-Goum, Police) comprenant toutes les composantes des populations locales, y compris des combattants des MFUA, mis à la disposition des Autorités locales dans le cadre de leurs pouvoirs de police, - créé des unités spéciales de l’Armée largement ouvertes à toutes les composantes des populations locales, dont la mission se limitera à la préservation de l’intégrité et de la sécurité extérieures du territoire national. 16 Prospetto delle integrazioni del 1993 e del 1996 (Fonte dati: Keita, 1998) (tab. 3) Servizio Esercito Marina Aviazione Gendarmeria Finalità Difesa del territorio Sicurezza del delta del fiume Niger Difesa dello spazio aereo Sicurezza delle aree rurali Personale totale Personale integrato Personale integrato (%) 7.000 1.311 18,73% 70 0 0 450 0 0 1.500 151 10% Guardia nazionale Difesa del territorio 700 348 50% Polizia Sicurezza 1.000 150 15% L'indebolimento delle gerarchie militari e il pattugliamento congiunto hanno fiaccato le già deboli capacità di controllo del territorio, assicurando un vantaggio agli imprenditori del potere e della guerra che con il conflitto e il contrabbando avevano prosperato nell'area. Questi gruppi armati, generalmente organizzati attorno ad un ex-capo militare, si rafforzano proporzionalmente alla de-istituzionalizzazione del territorio e alla povertà della regione. Queste due condizioni garantiscono la presenza di un bacino di forza lavoro e un ambiente favorevole alla proliferazione delle bande armate. La decentralizzazione non ha portato i risultati desiderati riguardo al rafforzamento istituzionale e allo sviluppo economico. La letteratura in materia segnala tre criticità: assenza di personale con adeguata expertise, povertà di risorse economico-finanziarie e sovrapposizione delle competenze fra livelli di governo (Hesseling & van Dijk, 2005; Gottlieb, 2010; Kirkby & Murray, 2010; Wing & Kassibo, 2010). In aggiunta, tassi molto elevati di corruzione29 e condotte neopatrimoniali hanno condannato gli enti locali a una condizione di povertà cronica e ridotto le risorse disponibili alle leadership locali, privandole così di un'importante risorsa di consensus building. Il più immediato segnale della bassa autonomia dell'arena economica da quella politica è appunto la dipendenza dall'accesso alle risorse pubbliche. In Mali l'accesso alle risorse è regolato dal sistema partitico ed è dunque ad esclusivo appannaggio delle élite cooptate; se queste risorse vengono a mancare, o diminuiscono, le élite cooptate si indeboliscono.30 Inoltre, capi tradizionali e leader militari si sono esposti in prima persona nella firma dei trattati di pace recanti gli impegni di sviluppo. Il loro sistematico fallimento ha eroso ulteriormente l'autorità fra la comunità. Negli ultimi vent'anni, inoltre, si è autonomamente rafforzata una fonte di finanziamento concorrente a quella pubblica: il contrabbando. Quest'attività, eredità del fiorente passato commerciale, per sua stessa natura prolifera in contesti de-istituzionalizzati e autonomi dalla longa manus del controllo statale. E', infatti, su questi interessi che il continuo riaccendersi degli scontri si è alimentato, trovando consenso e mano d'opera nelle sacche di povertà e esclusione 29 Dal 2003, data d'inizio delle rilevazioni di Transparency International, l'indice di percezione della corruzione oscilla attorno al valore 3. Fonte: Transparency International: http://archive.transparency.org/. 30 Si segnalano communes rurali in cui le entrate fiscali non sono sufficienti a pagare lo stipendio del sindaco, nda. 17 disoccupazione che pervadono le fasce più deboli (in maggioranza giovani ed ex-ribelli non integrati nell'esercito regolare).31 L'instabilità intra- e inter-comunitaria ha pertanto ridotto l'autorità delle élite, in difficoltà a causa anche della natura della società tuareg. La segmentazione in clan, raggruppati in confederazioni autonome, si è storicamente sempre mal conciliata con l'individuazione di autorità capaci di governare sui membri di altri clan (Fortes & Pritchard, 1940). Se il comando non trova delle fonti di legittimazione simbolica, non può che fondarsi su risorse materiali - tipicamente la violenza e la ricchezza. Le guerre e il contrabbando hanno permesso l'emersione d'imprenditori del potere capaci di accumulare forza armata e ricchezza materiale in misura superiore alle vecchie gerarchie di notabili, molte delle quali, fra l'altro, si sono ritrovate delegittimate dalla connivenza con il passato regime autoritario, mentre altre hanno perso la faccia in accordi per lo sviluppo mai decollati. Schema concettuale riassuntivo. Transizione democratica Élite consensus Decentramento Perché elusivo? 1) Mancato consolidamento dell'autorità sul territorio nazionale; 2) Mancato sviluppo. 31 Al riguardo, la ribellione del 2006 rappresenta un episodio significativo del malumore serpeggiante fra le fila degli integrati. Nel 2006 un gruppo di 50 soldati di origine tuareg, guidati dal tenente colonnello Hassane Fagaga, disertarono da una base nel sud-ovest del Paese per rifugiatisi nell'Adagh (zona montagnosa della regione di Kidal, popolata da tuareg della confederazione dei Ked Adagh). La mattina del 23 maggio 2006 diedero l'assalto agli avamposti militari di Kidal occupando la città e dando avvio alla Terza ribellione tuareg. Sotto la sigla Alliance Démocratique du 23 mai pour le Changement (ACD), gli insorti acconsentirono alla mediazione algerina e siglarono, il 4 luglio 2006, gli Accordi di Algeri per la restaurazione della pace, della sicurezza e lo sviluppo della regione di Kidal, nda. 18 Conclusioni La democratizzazione del 1991-92 ha prodotto un'architettura istituzionale decentrata in grado di assicurare al Paese stabilità politica, governabilità e competizione in accordo agli standard procedurali. La democrazia del Mali ha infatti rappresentato un caso di successo per tutto il continente africano: elezioni libere e competitive, stabilità dei governi, competizione centripeta e non violenta. La decentralizzazione aveva assicurato alle istituzioni democratiche ampia legittimazione e ancoraggio attraverso il sistema partitico (gate keeping e clientelismo). Il colpo di stato del marzo 2012, tuttavia, ha sollevato perplessità sulla tenuta del compromesso nazionale e sull'efficacia del decentramento nel raggiungimento degli obiettivi prefissati. I dubbi però non devono distrarre dalla buona performance democratica di parte del Paese; le ragioni della crisi, infatti, riguardano criticità di lungo corso che afferiscono un'area specifica del Mali: il nord desertico, de-istituzionalizzato e abitato da comunità nomadiche marginalizzate. Il compromesso nazionale del 1991 ha garantito un solido framework per il funzionamento e l'ancoraggio delle istituzioni democratiche, ma non è stato sufficiente a risolvere, come si riteneva possibile, le criticità che gravitano attorno al problema del nord. Perché il decentramento è stato elusivo? 1) La decentralizzazione non è riuscita consolidare l'autorità statale sul territorio. Le élite tradizionali, pur cooptate, non sono state in grado di esercitare la loro leadership a causa dell'assenza di un'arena di rule of law funzionante. La presenza di aree de-istituzionalizzate e fuori dal controllo statale ha prodotto un differenziale nell'esercizio dell'autorità che ha facilitato la formazione di centri di potere autonomi rispetto al governo centrale e in aperta concorrenza alle élite locali. Questo differenziale è stato esasperato dall'indebolimento del monopolio della forza, conseguente all'integrazione dei gruppi ribelli nei dispositivi di sicurezza. 2) La decentralizzazione non ha rappresentato un vettore di sviluppo. La debolezza dell'arena economica non è stata sopperita dagli enti locali, privando le élite delle necessarie risorse per l'estensione dei legami patronali. L'ancoraggio della società civile è dunque riuscito solo in parte. Inoltre, l'endemica povertà e la condizione di sottosviluppo hanno impoverito e diviso la società civile, lasciandola facile preda di signori della guerra forti di risorse autonome. In definitiva, le élite tradizionali erano troppo deboli perché la loro cooptazione portasse i risultati desiderati. Insidiate dall'emergere di nuove élite autonome (i signori della guerra), non sono state protette da un'adeguata arena di rule of law. Inoltre, non hanno potuto disporre di sufficienti risorse per rafforzare la propria autorità a causa di uno sviluppo mai veramente innescato. La perdita di legittimità si è ripercossa sull'incapacità di tenere unite le componenti di una comunità tradizionalmente segmentata e destrutturata da decenni di declino socio-economico. La fine della preminenza delle popolazioni nomadi sulle genti africane era stata fonte d'impoverimento e disagio sociale. Gli effetti della decadenza avevano eroso le stesse leadership tradizionali, per le quali la devoluzione del potere politico aveva rappresentato un'importante opportunità di rilancio. Allo stato attuale la democrazia maliana è in bilico sull'orlo del precipizio. La parte centro-meridionale del Paese ha portato a termine con successo la transizione democratica e dato prova di un ben avviato 19 processo di consolidamento. Nonostante alcune voci si siano levate a favore del colpo di stato,32il Paese nel suo complesso sta dimostrando coesione nazionale di fronte alla crisi. Il nord del Paese è invece una culla d'instabilità politica: appare sempre più diviso a livello inter-comunitario, fra sedentari e nomadi, e intra-comunitario, fra le comunità nomadiche lealiste e no. L'indipendenza dell'Azawad, promossa da fazioni di ribelli autonome dal resto della comunità, è l'epilogo finale di un problema rimasto insoluto perché considerato marginale e circoscrivibile ad aree periferiche (Antil & Touati, 2011). Sul bilancio finale della transizione grava pertanto il problema del nord, dimostratosi nei mesi scorsi una fonte d'instabilità non più estranea al sistema politico nazionale e tale da mettere a repentaglio l'esistenza stessa dello Stato.33 32 33 Sul sostegno alla giunta militare, cfr. County & Peterson, 2012; Mann, 2012. Sull'evoluzione dello scenario nel Nord, cfr Delcroze, 2012. 20 21 Appendice - Cartine Carta del Mali raffigurante la densità di popolazione. Le aree più scure indicano una più alta densità. (Fonte: Herbst, 2000) Carta del Mali raffigurante la divisione su base regionale. 22 Bibliografia Abdalla, M.A., 2009. Understanding Natural Resource Conflict Dynamics: The Case of the Tuareg in North Africa and the Sahel. Paper, 194. ISS. 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