1 XXVI Convegno della Società italiana di Scienza politica

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1 XXVI Convegno della Società italiana di Scienza politica
XXVI Convegno della Società italiana di Scienza politica
Università Roma Tre, Facoltà di Scienze Politiche
13-15 settembre 2012
UNA DEMOCRAZIA IN BILICO
Decentramento elusivo e indipendenza dell'Azawad nel Mali della Terza
Repubblica.
dott. Francesco Saraceno
Dipartimento di Scienze politiche e sociali, Università degli studi di Pavia
Abstract
In the early nineties the African continent witnessed an extraordinary wave of democratization. The
resulting debate highlighted the decentralization as an effective strategy to bring about democracy,
tackling issues such as inclusiveness, local development and inter-ethnic divisions. Following this
perspective, Mali has been widely viewed as a relatively successful case of democracy in a low-income
country. In March 1991, the military regime of Moussa Traoré was overturned following extensive
public protests, and a new democratic constitution was promulgated in early 1992. Since then and until
March 2012, the country had undergone regular elections, and at least one president, Alpha Konaré,
peacefully left office after serving two terms. The coup d'état of March 2012 overthrew Amadou
Toumani Touré and raised doubts about the effectiveness of decentralization in achieving the
objectives. Although the compromise of 1992 has ensured a solid framework to the functioning of
democratic procedures, it didn't succeeded to include the Tuareg minority within the national political
arena. As the observation of political system will show, the main reason is based on the weakness of
local elites, powered by two sets of factors. First, the State's withdrawal from the Northern regions
didn't help to consolidate the power over distance and facilitated the emergence of war's entrepreneurs.
Secondly, the persisting ineffectiveness of development policies have exacerbated the tensions up to the
break-up of March 2012.
Articolo presentato nella Sezione I "Democrazie e democratizzazioni" (Marco Almagisti e Giovanni
Carbone), Panel 1.5 "La democrazia e i suoi effetti economici, sociali e politici (II)" (Chairs: Giovanni
Carbone e Davide Grassi).
1 Antefatti
Nel 1960 la Repubblica Sudanese e il Senegal proclamarono l'indipendenza dalla Francia con il nome
di Federazione del Mali. Pochi mesi dopo il Senegal si separò e l'ex Sudan francese divenne la
Repubblica del Mali. All'indomani dell'indipendenza il partito dell'Union Soudanaise - Rassemblement
Démocratique Africain (US-RDA), guidato dal primo ministro Modibo Keita, assorbì ogni altra
formazione facendo del Mali un regime a partito unico (Zolberg, 1966; Camara, 2008). L'insorgenza
della Prima ribellione tuareg nel nord del Paese fu repressa brutalmente e il potere fu gradualmente
concentrato nelle mani dell'esecutivo. Nel giro di pochi anni il socialismo scientifico del presidente
Keita alienò il Mali dalle linee di credito internazionale e la difesa dell'agenda governativa costrinse al
silenzio le opposizioni. Il partito unico perseguì una strategia statalista che impoverì i bilanci statali e
condusse l'economia al collasso. Nel 1968 Keita fu deposto da un colpo di stato militare che instaurò
una giunta guidata dal tenente colonnello Moussa Traoré.1 Il regime si trovò ben presto in difficoltà: la
conduzione neopatrimoniale (Bratton & van de Walle, 1997) della macchina pubblica prosciugò
l'economia del paese e con essa ogni residuo di consenso. I tentativi di riattivare la legittimità del
regime attraverso la promulgazione di una nuova costituzione e la garanzia di un maggiore grado di
competizione interna al partito unico risultarono vani (Chazan, 1982; Camara, 2008).
Quando sul finire degli anni Ottanta le politiche internazionali di condizionalità stimolarono la
liberalizzazione dell'arena politica, il regime fu costretto a tollerare l'emersione di associazioni (molto
ambiguamente il bando ai partiti non fu rimosso) che iniziarono una costante opera di pressione sul
governo. Nel marzo 1990 lo scoppio della Seconda ribellione tuareg aprì un secondo fronte e costrinse
governo e militari a correre rapidamente ai ripari siglando un accordo con i ribelli.2 Sull'onda delle
pressioni internazionali e dei sommovimenti interni, le opposizioni scesero in piazza nella primavera
del 1991.3 Il 26 marzo dello stesso anno, dopo la brutale repressione delle manifestazioni studentesche
e il rifiuto dell'aviazione di bombardare la sede delle opposizioni, il generale Moussa Traoré fu deposto
da un colpo di stato militare.
La giunta guidata dal col. Amadou Toumani Touré (ATT) propose l'immediata devoluzione dei poteri
ai civili i quali, tuttavia, chiesero un governo di transizione misto che nel giro di un anno avrebbe
1
Il colpo di stato fu promosso dai capitani Yoro Diakhité e Mamadou Cissoko, e dai tenenti colonnelli Youssouf
Traoré, Kissima Doukara e Moussa Traoré. Una volta abrogata la Costituzione e sostituita con la nuova Legge
fondamentale, il Comité militaire de libération nationale (CMLN) divenne l'organo supremo presieduto da Moussa
Traoré.
2
Gli Accordi di Tamanrasset furono siglati il 6 gennaio 1991 nella cittadina algerina di Tamanrasset. Il testo
dell'accordo, che in un primo momento rimase segreto, prevedeva: primo, il cessate il fuoco e lo scambio di
prigionieri; secondo, lo smantellamento delle basi ribelli; terzo, la riduzione della presenza dell'esercito nelle
regioni del nord e la rimozione degli avamposti percepiti come "minaccia" per le comunità locali; quarto, la
rimozione dei militari dalla pubblica amministrazione; quarto, l'integrazione dei ribelli nelle fila dell'esercito
regolare secondo condizioni da definirsi; quinto, l'allocazione alle regioni del nord del 47,3% dei fondi destinati
agli investimenti per lo sviluppo. Si promise, inoltre, la concessione di uno Statuto particolare per l'autonomia
delle tre regioni di Gao, Timbuctu e Kidal.
3
I principali gruppi organizzati furono: il sindacato dell'Union Nationale de Travailleurs du Mali (UNTD),
l'Associazione degli avvocati del Mali, l'Associazione maliana per i diritti dell'uomo (AMDH), Association des
élèves et étudiants du Mali (AEEM), il Congrès National d'Initiative Démocratique (CNID), l'Alliance pour la
Démocratie au Mali (ADEMA), l'Associationes des Diplomes Initiateurs et Demandeurs d'Emplois (ADIDE) e la
Jeunesse Libre et Démocratique (JLD).
2 dovuto varare una democrazia multipartitica. Il neocostituito Comité de Transition pour le Salut du
Peuple (CTSP) fu una sorta di presidenza collettiva, composta di 15 civili e 10 militari. Il colonnello
Amadou Toumani Touré fu eletto Presidente e Capo di stato ad interim e l'assegnazione dei dicasteri,
avvenuta per consenso, vide la partecipazione dei separatisti del nord. Il lungo trascorso autoritario e la
crisi separatista convinsero il governo della necessità di un nuovo compromesso nazionale. L'11 aprile
1992 governo e ribelli siglarono il Patto nazionale, con cui fu concesso alle tre regioni interessate uno
Statuto particolare di autogoverno.4 Dal 29 luglio al 13 agosto, inoltre, si tenne la Conferenza nazionale
che vide la partecipazione di tutti i rappresentanti delle società civile - protagonisti degli événements5 compresi i rappresentanti delle fazioni autonomiste del nord. Nel settembre seguente fu promulgata la
Carta dei partiti e il referendum del 12 gennaio 1992 approvò la nuova carta costituzionale.
Dal 1992 al 2012 si svolsero tre tornate elettorali nazionali (1997, 2002, 2007) e tre subnazionali (1999,
2004, 2009) rispondenti a sufficienti standard procedurali. Alcuni scivoloni non sono tuttavia mancati:
nel 1997 la Corte costituzionale, una volta costatate gravi irregolarità, annullò la prima tornata delle
legislative, mentre nel 2002 annullò un quarto dei suffragi espressi. Quell'elezione, tuttavia, segnò il
termine dei due mandati per il Presidente Alpha Oumar Konaré, il quale cedette il passo ad Amadou
Toumani Touré, candidato indipendente e uscito vittorioso da una competizione a 24 grazie anche
all'appoggio informale di Konaré. ATT è stato poi riconfermato nel 2007 ed era intenzionato a ritirarsi
al termine del secondo mandato. All'inizio del 2012 si sono riaccesi nel nord del Paese gli scontri fra
esercito maliano e separatisti del neonato Mouvement National de Libération de l'Azawad (MNLA). Il
22 marzo 2012 un colpo di stato ha rovesciato il governo di ATT causando uno sbandamento tra le fila
dell'esercito che ha permesso ai gruppi ribelli di estendere l'offensiva e occupare le città di Gao, Kidal e
Timbuctu - assicurandosi de facto il controllo di tutto il nord e proclamando, il 6 aprile 2012,
l'indipendenza dell'Azawad.6 Grazie al precipitare della crisi, alla pressione della società civile e alle
sanzioni internazionali, il 16 aprile la giunta del capitano Sanogo ha annunciato il trasferimento dei
poteri a un'autorità civile e la nomina del presidente del parlamento Dioncounda Traoré a capo di stato
ad interim. 7
Nel corso di due decenni la stabilità del sistema politico nazionale non è stata perturbata dalle ripetute
insurrezioni armate delle minoranze tuareg e maure, motivate dall'endemica povertà delle tre regioni
settentrionali e promosse da imprenditori del potere arricchitisi grazie ai lauti proventi del
contrabbando. Con riferimento a queste aree, la previsione di decentramento politico-amministrativo
aveva assunto un significato particolare. Se da un lato fu sostenuta con il concorso di tutte le forze
politiche al fine di legittimare le neonate istituzioni e garantire nuove arene di consenso locali
4
Il Patto nazionale fu un importante tassello nel processo di pace. Il teso dell'accordo, suddiviso in 86 articoli per
6 titoli, comprendeva: la demilitarizzazione del nord; l'integrazione di miliziani selezionati nelle fila dell'esercito;
il rientro dei rifugiati nelle loro case; integrazione fra le economie del nord e del sud. Gli artt. 15-17 istituirono lo
Statut Particulier du Nord du Mali che sancì l'autonomia per le regioni del Nord e grazie al quale furono create
assemblee elettive per i livelli amministrativi comunali e intermedi; fra le competenze figurarono l'agricoltura,
l'allevamento, la protezione dell'ambiente, i trasporti, la salute, l'educazione e cultura, nda.
5
Appellativo in uso in riferimento alle manifestazioni e alla caduta del regime di Traoré, nda.
6
La regione dell'Azawad viene rivendicata come territorio nazionale dai Tuareg. Il termine è storicamente riferito
a una vallata asciutta che un tempo ospitava un ramo settentrionale del fiume Niger, chiamato dai geologi Bacino
degli Iullemmeden.
7
Quest'annuncio è stato il risultato di un accordo con la Comunità Economica degli Stati dell'Africa Occidentale
(ECOWAS) che prevedeva il trasferimento dei poteri ai civili fino a nuove elezioni.
3 (Horowitz, 1985; Sisk, 1996; Reilly, 2001), dall'altro la politica di decentralizzazione era in primo
luogo l'esito del compromesso fra governo centrale e le élite del nord. Gli accordi di pace stipulati fra il
1991 e il 1992 avevano messo in agenda uno Statuto particolare per l'autonomia delle regioni VI, VII e
VIII (Timbuctu, Gao e Kidal). Alla Conferenza nazionale, tuttavia, gli esponenti del sud si
dimostrarono recalcitranti davanti a possibili assetti federali, costringendo il governo a fare marcia
indietro. Il largo consenso incontrato dall'assetto decentrato assicurò adeguata legittimità al neonato
regime democratico e garantì l'ancoraggio d'istituzioni capaci di regolare la competizione politica in un
sistema politico le cui arene (Linz & Stepan, 2001) erano gravate da pesanti deficit di autonomia e
sviluppo.
La crisi attuale pone tuttavia degli interrogativi a cui questo paper cercherà di dare risposta. L'élite
consensus e il processo di state building avviato all'indomani della democratizzazione non hanno
saputo fornire le risposte adeguate per far fronte ai limiti alla statualità in eredità sin dall'indipendenza.
Le élite del nord, pur cooptate negli ingranaggi istituzionali, non sono state capaci di mantenere il loro
ruolo di leadership e garantire così la sostenibilità degli accordi di pace. Nel primo paragrafo sarà
esplicitato il framework teorico retrostante all'analisi. Nel secondo paragrafo si entrerà nel vivo del
processo di formazione dell'élite consensus, con particolare riguardo al ruolo del decentramento
politico amministrativo e ai limiti del nuovo dispositivo istituzionale. Nel terzo paragrafo si ritroverà il
filo conduttore con la crisi del nord, evidenziando il ruolo delle élite locali e spiegando le ragioni della
loro perdita di leadership. Come si vedrà, i limiti della statualità maliana, largamente insoluti, hanno
condizionato gli esiti della transizione democratica e posto le basi della crisi attuale.
Democratizzazione, statualità e decentramento: un framework teorico.
Fra il 1990 e il 1991 il Mali iniziò la transizione da un regime a partito unico a una democrazia
multipartitica, 8 dapprima con una ridotta apertura dello spazio di contestazione pubblica e il
mantenimento della partecipazione entro i limiti del partito unico; in seguito, e conseguentemente alla
deposizione di Traoré, con il varo di un processo costituente. A fini analitici, un processo di transizione
democratica è scomponibile in tre distinte fasi (Morlino, 2003): transizione, instaurazione e
consolidamento. La transizione inizia con la cessazione del vecchio regime e la liberalizzazione
dell'arena politica; si apre uno spazio di confronto fra vecchi e nuovi attori politici entro cui negoziare
il futuro assetto. L'accettazione della pluralità degli interessi e l'adesione al fine democratico sono il
presupposto essenziale affinché il negoziato sulle regole del gioco possa definirsi. L'instaurazione si
sovrappone alla prima fase, ma è possibile identificarne l'inizio con la definizione delle istituzioni e
delle procedure democratiche e il completamento della liberalizzazione; essa si perfeziona con la messa
in moto degli ingranaggi elettorali e, più in generale, istituzionali. Durante il processo le élite hanno un
ruolo centrale, poiché il gioco è concentrato nelle mani di pochi leader le cui scelte determinano l'esito
stesso del processo. La presente analisi si focalizzerà nella prima parte sulla transizione e
8
Il Mali è definito da Bratton & van de Walle (1997) un Competitive one-party system.
4 l'instaurazione, cercando di isolare i passaggi chiave che hanno determinato la definizione dell'assetto
istituzionale. L'analisi di quest'ultimo, il decentramento, si proietta invece su un orizzonte temporale
più ampio e coinvolge la terza fase della transizione.
Il consolidamento ha una genesi meno circoscritta, poiché incorre nel tempo attraverso un processo di
definizione-fissazione di rapporti stabili e routinizzati fra società civile e l'arena politico-istituzionale.
Questi rapporti si declinano in due direzioni: dal basso verso l'alto, la legittimità, e dall'alto verso il
basso, l'ancoraggio istituzionale (Morlino, 2003). La legittimità del regime, intesa come attitudine
positiva nei confronti delle istituzioni democratiche, implica sostegno da parte delle élite e più in
generale consenso (anche passivo) da parte del demos. Secondo Huntington (1992) un segnale del
consolidamento di un regime democratico è la capacità dei cittadini di distinguere fra la performance
del governo da quella del regime. Nelle esperienze africane, e soprattutto nelle transizioni seguite a
lunghi periodi autoritari, può sorgere confusione nella distinzione fra legittimità del regime e consenso
del governo. I due termini possono sovrapporsi e i destini legarsi indissolubilmente per due ragioni:
una debole cultura democratica, derivante da una mancanza da parte dell'elettorato di esperienza nelle
procedure elettorali e nella partecipazione tout court; una bassa autonomia delle istituzioni dalla
politica, e quindi della loro politicizzazione, retaggio della natura neopatrimoniale dello stato africano
post-indipendenza (Jackson & Rosberg, 1982; Bratton & van de Walle, 1997). (2) L'ancoraggio,
invece, afferisce la capacità delle istituzioni statali di tenere agganciata, se non addirittura controllare,
la società civile. Morlino indentifica quattro ancore principali: organizzazione partitica, clientelismo,
neo-corporativismo e ruolo di gate keeper dei partiti.
La democrazia, intesa come sistema istituzionalizzato di competizione per il potere politico e gestione
dei conflitti, ha bisogno di attori disposti a cooperare entro un quadro di regole e procedure condivise, a
loro volta capaci di assicurare un sufficiente grado di fiducia reciproca (Diamond et al., 1995). In
società divise come quella maliana, infatti, le soluzioni consensuali sottraggono la competizione
politica al dilemma della sicurezza e risolvono, pertanto, il fisiologico paradosso fra consenso e
conflitto (Frempong, 2007). Quando la posta in gioco è la sopravvivenza fisica, l'impiego di risorse
violente è una delle scelte possibili. Onde evitare l'inviluppo in dinamiche centrifughe o a somma zero,
gli attori che emergono sono chiamati al mutuo riconoscimento e a una qualche forma di consenso
circa i fini del processo (O'Donnel et al., 1986; Bratton & van de Walle, 1997; Linz & Stepan, 2000;
Morlino, 2003). In altre parole, una volta accettato il principio della competizione elettorale, l'interesse
di A deve essere percepito da B come legittimo e indipendente dalla sua sopravvivenza fisica e politica.
Pertanto, la condivisione del telos democratico e l'accettazione degli interessi in gioco sono le due
condizioni necessarie affinché aumentino le probabilità che si produca un compromesso duraturo. Il
contenuto del compromesso riguarda le regole precipue della competizione (partiti politici, legge
elettorale) e l'assetto istituzionale. Se le nuove istituzioni hanno il sostegno delle élite, saranno in grado
di consolidarsi, poiché è attraverso di esse che avviene l'ancoraggio e la legittimazione attecchiscono.
Siano esse in continuità o discontinuità con il passato, quello che più conta è il loro potenziale
autoritativo, e cioè la capacità di determinare comportamenti a esse conformi (Stoppino, 1989).
5 In virtù di quanto sopra affermato, il concorso delle volontà dei principali attori in campo, qui definito
élite consensus9 (O'Donnel & Schmitter, 1986; Bratton et al., 2005; Frempong, 2007), aumenta la
probabilità che l'esito istituzionale sia dotato di legittimità sufficiente ad esercitare il ruolo preposto:
regolare la competizione politica. La necessità di privilegiare l'osservazione delle élite deriva da un
dato analitico: i comportamenti e le attitudini da esse espresse forniscono non solo la percezione della
legittimità del neonato regime, ma anche la bussola per individuare la direzione del processo di
transizione in termini di stabilità/instabilità politica. Nella liquidità di preferenze - tipica in una fase di
transizione - le élite ricoprono un ruolo di guida decisivo per il futuro assetto costituzionale.10 Il
compromesso cui devono dunque pervenire, e che coinvolge non solo i nuovi esponenti, ma anche
quelli vecchi nella misura della loro partecipazione/accettazione/passività al cambiamento, si
perfeziona nella definizione delle regole del gioco, ma postula il reciproco riconoscimento, su un piano
di parità, della democrazia come valore intrinseco (Bratton & Mattes, 2000). La determinazione
valoriale della democrazia, infatti, sostanzia il presupposto alla formalizzazione d'istituzioni
democratiche che possano definirsi legittime.
Com’è stato suesposto, una transizione democratica ha l'obiettivo di porre in essere procedure e
istituzioni capaci di regolare la competizione politica nella pratica di tutti i giorni. Queste istituzioni per
consolidarsi abbisognano di legittimità e di una qualche forma di ancoraggio alla società civile. La
definizione di un assetto istituzionale deve pertanto tener conto della capacità di creare un ambiente
legittimato dal basso e favorevole alla formazione di ancore. In un contesto di estrema povertà e di
scarsa autonomia dell'arena economica da quella pubblica, l'ancoraggio garantisce alle élite le risorse
per mantenere lo status e la preminenza nei processi di socializzazione e di opinion/decision making.
L'esito dell'élite consensus sarà più solido quanto più ancorate risulteranno essere le istituzioni e di
concerto le élite: la definizione di un ambiente istituzionale favorevole alla formazione di ancore
istituzionali è una misura della solidità del compromesso. Maggiore è la solidità dell'accordo, e
maggiore sarà la probabilità che, ceteris paribus, si generi stabilità politica. Dove per solidità rinvio
alla capacità di creare un ambiente favorevole in termini di legittimazione e ancoraggio.
--Si è finora focalizzata l'attenzione sopra le dinamiche intercorrenti fra gli attori rilevanti e le relative
condizioni di successo. Un aspetto fondamentale è stato tuttavia tralasciato: la statualità. Com'è stato
più volte ricordato, una transizione democratica è incaricata di sostituire le istituzioni e le procedure del
vecchio regime con altre volte al funzionamento di un sistema politico di tipo democratico; ma perché
di regime si possa parlare, occorre postulare innanzi tutto l'esistenza di un'entità statale. E' un dato che
le caratteristiche dello Stato prima della democratizzazione, e i relativi limiti, non possono essere elusi
giacché afferiscono il contenuto e l'esito stesso del processo di transizione. In altre parole, l'analisi della
democratizzazione deve essere affiancata a una riflessione sulla statualità - sul prima e il dopo - perché
la sua genesi condiziona l'output in termini di design istituzionale e di ancoraggio.
9
Le élite sono qui definite come quell'insieme di persone capaci, in virtù dello status e del potere esercitato, di
influenzare gli esiti del sistema politico. Cfr. Bayart, 1993; Stoppino 1989; Higley & Burton, 1998.
10
Sul ruolo dei c.d. big men nella mobilitazione del capitale sociale, cfr Bayart, 1993.
6 Uno Stato è per definizione composto di tre elementi essenziali: un territorio, una popolazione stabile e
un governo effettivo.11 Dagli anni Sessanta le analisi sulla statualità africana post-indipendenza hanno
avuto largo spazio nella letteratura politologica, concentrandosi in particolar modo sulle condizioni
della stabilità politica. In un celebre saggio del 1968 riguardo alle società in cambiamento verso la
modernità, Huntington poneva al centro dell'analisi la capacità dei governi di esercitare le proprie
prerogative (Huntington, 1968). L'autore individuava dietro l'hobbesiana domanda governo sì, governo
no? il discrimine fra ordine e caos. La capacità di esercitare il governo solleva un problema operativo.
Analiticamente, i mezzi del governo possono essere considerati in termini di autorità o diritto a
governare (legittimità) e di potere o capacità di governare. In questo senso la ricerca sullo stato
africano post-indipendenza ha evidenziato criticità riguardo alla gestione del potere politico in
entrambe le dimensioni: limiti nella concentrazione dell'autorità (chi governa e in quale misura?) e
nell'ambito di efficacia spaziale del governo (dove governa?).
In particolare, il tema della forza del governo, l'esercizio esclusivo e la sua estensione spaziale
rimangono quesiti a cui il design istituzionale degli stati africani contemporanei a tutt'oggi fatica a
rispondere. Allontanandosi dal centro, infatti, il territorio si de-istituzionalizza seguendo una logica a
cerchi concentrici in cui il quantum di autorità va via via decrescendo (Herbst, 2000). Numerose sono
le criticità ricorrenti alla statualità africana moderna,12 ma ciò che tuttavia preme ricordare è che la
debole presenza dello Stato nelle aree periferiche è un topos ricorrente nella storia del continente,
tradizionalmente caratterizzata da un basso (se non addirittura assente) grado di estensione dell'autorità
politica entro confini mai del tutto definiti. La ragione poggia su una serie di caratteristiche geografiche
e politiche ben individuate da Jackson & Rosberg (1982) e poi integrate da Herbst (2000). Anche
l'osservatore più distratto noterà che la storia del continente è stata interessata prevalentemente da
guerre per il possesso della forza lavoro piuttosto che della terra. La sua abbondanza ha fatto sì che
essa non fosse mai al centro degli obiettivi di conquista. Pertanto anche i confini sono sempre stati
rilevanti nella misura della loro scarsa significatività spaziale. E' ben noto infatti che la loro definizione
fu successiva: coincise con il periodo coloniale e si perfezionò con la risoluzione di Addis Abeba del
1963, quando gli Stati africani indipendenti s'impegnarono al rispetto delle frontiere ereditate dalla
dominazione coloniale. La sicurezza dei confini assicurata dalla comunità internazionale ha
disinnescato il potenziale di competizione inter-statale, disincentivando l'istituzionalizzazione dello
Stato-apparato sulle aree periferiche. I fragili governi post-indipendenza non ebbero sufficienti
incentivi economici e politici per estendere la loro presenza, e di concerto le istituzioni, ad aree
sottopopolate, relativamente prive di risorse e sotto la tutela di sovranità nazionali protette (Jackson &
Rosberg, 1982; Herbst, 2000). Un esercizio non uniforme dell'autorità governativa sull'intero territorio
nazionale postula la presenza di differenziali nell'autorità e nell'esercizio del potere fra le diverse aree
11
In accordo con Jackson & Rosberg (1982) la definizione weberiana di Stato (inteso come quella comunità
umana che entro un determinato territorio pretende per sé [con successo] il monopolio dell'uso della forza
legittima) procede con criteri empirici talmente rigorosi che Stati come il Mali non potrebbero essere considerati
tali. In questo paper, come si vedrà, si attribuisce un ruolo fondamentale alla comunità internazionale nel
riconoscere e garantire la sopravvivenza, aldilà dei limiti, dello Stato africano contemporaneo. Pertanto, gli
elementi costitutivi la nozione di stato rinviano alla definizione offerta dalla Convenzione di Montevideo sui diritti
e doveri degli Stati (1933).
12
Istituzioni deboli e scarsamente autonome, neopatrimonialismo, controllo limitato sulle risorse violente, limitate
capacità estrattive, cfr. Zolberg, 1966; Huntington, 1968; Migdal, 1988; Bratton & van de Walle, 1997 et al.
7 del Paese. E' dunque possibile desumere l'esistenza di zone di serie A, in cui il governo esercita un
effettivo ed esclusivo controllo del territorio, e zone di serie B, in cui l'autorità va via via declinandosi
e dove l'assenza di ordine e l'anarchia regnano sovrane? Aree, pertanto, de-istituzionalizzate e in cui le
istituzioni sono di fatto invisibili?
Osservando la cartina politica, il Mali possiede un governo centrale e un territorio delimitato da confini
certi. Se tuttavia sovrapponiamo a essa una mappa etnica, la domanda sorgerà spontanea: quale
demos?13. Se di unità territoriale si può parlare, la cartina geografica del Mali appare frastagliata in vari
gruppi e sottogruppi etnico-linguistici, diversi ma funzionalmente interdipendenti. Le istituzioni
politiche che nel corso dei secoli hanno variamente occupato l'attuale territorio maliano hanno generato
nelle comunità locali uno spirito di appartenenza collettiva, che ha funto da collante per l'unità del
Paese. A riprova della solidità della comunità politica e del suo senso di appartenenza, il passaggio
dalla politica di élite a quella di massa ha visto la società civile organizzarsi attorno a organizzazioni
partitiche e sindacali slegate dall'appartenenza etnica o confessionale (Camara, 2008). Un'unica sola
eccezione: le genti del deserto.14 I clan arabi (maure) e le confederazioni tuareg che risiedono nelle aree
desertiche del nord, si sono storicamente distinti - sia in ordine politico sia sociale - dalle popolazioni
africane del sud del Paese. Nessuna istituzione politica unitaria ha mai veramente regolato stabilmente i
due universi - nomadico e sedentario - e dato dunque vita a embrionali processi di nation building. La
presenza di più demòi entro i confini di uno Stato è fonte d'instabilità politica; né in letteratura né nella
pratica si evincono soluzioni istituzionali ideali a governare la segmentazione della comunità politica.15
All'inizio degli anni Novanta, tuttavia, le politiche di condizionalità in voga fra i donatori internazionali,
inclusero il decentramento politico fra le possibili soluzioni a questo problema strutturale. In sintesi, si
riteneva che le strategie di decentralizzazione potessero promuovere maggiore democrazia attraverso il
miglioramento della governance, in termini di maggior mobilitazione, inclusione e partecipazione
(Litvack & Seddon, 1999; Bergh, 2004). La prossimità degli eletti e dei centri decisionali alla società
era ritenuta veicolo di sviluppo grazie a una più efficiente (in termini di responsività) allocazione delle
risorse. Certamente una devoluzione verso il basso dei poteri e delle competenze politiche non
esaurisce il problema della cittadinanza,16e tantomeno della presenza dello stato sul territorio, ma può
tuttavia assolvere una funzione importante per lo sviluppo di ancore istituzionali e agevolare l'élite
capture (Dutta, 2009). In questo senso, il decentramento ha rappresentato una strategia di
consolidamento attraverso l'estensione dell'autorità ad aree de-istituzionalizzate? Rifuggendo da una
prospettiva esageratamente funzionalista, non è chiaro il grado di consapevolezza della Conferenza
nazionale riguardo ai limiti della statualità; tutto quello che è possibile affermare è che il
decentramento sostanziò il contenuto dell'élite consensus nella fase di transizione, rappresentando
quindi un importante dispositivo potenzialmente capace di: (1) accrescere il consenso politico del
governo Konaré (2) consolidare il neonato regime attraverso legittimità e ancoraggio e (3) pacificare il
13
Nel dialogo a due voci messo in scena in Democracy and Its Critics (1989), Robert A. Dahl si pone
l'interrogativo ragionando sulle fondamenta dello stato democratico.
14
Per un'introduzione allo studio delle popolazioni nomadi di etnia tuareg, cfr. Rodd, 1926; Palmer, 1932.
15
Evidenze empiriche suggeriscono che le soluzioni improntate sui sistemi elettorali o su architetture istituzionali
di power-sharing vanno calibrate ai casi singoli.
16
La letteratura rileva esiti incerti al riguardo: si registrano casi in cui la suddivisione amministrativa e un certo
grado di autonomia politica delle sub-unità locali hanno politicizzato cleavages etnici e comunitari prima
depoliticizzati.
8 Nord - attraverso quello che Seely (2001) ha definito un meccanismo per la cooptazione delle élite.
L'applicazione della strategia ha tuttavia dovuto fare i conti con i due limiti strutturali individuati sopra:
(1) differenziale nell'estensione dell'autorità sul territorio statale e (2) assenza di sviluppo.
Élite consensus e decentramento
Nella primavera del 1991, una volta deposto il governo di Traoré, il CTSP diede avvio alla transizione
democratica con la promulgazione dell'Atto fondamentale 17 che abrogò la costituzione degli anni
Settanta e varò una nuova legge fondamentale. I militari, rifiutando il bombardamento della sede delle
opposizioni e deponendo Traoré, si erano accreditati agli occhi delle forze di opposizione; la
composizione mista del governo investì la transizione di adeguata legittimità agli occhi della società
civile e internazionale, responsabilizzando ciascun attore collettivo e placando le iniziali diffidenze fra
le parti. L'esclusione dei vecchi membri dell'UDPM rassicurò le prospettive, disinnescando i timori di
un possibile riflusso contro-rivoluzionario. La liberalizzazione del sistema politico accompagnò la
riattivazione della società civile nel passaggio dall'autoritarismo al pluralismo, garantendo l'ingresso
nell'arena pubblica di nuovi attori: partiti, sindacati, gruppi d'interesse, radio e carta stampata
indipendente. Il mosaico d'interessi e identità rappresentava una sfida per la tenuta della coalizione
fondante e il rischio che l'unità d'intenti si frantumasse alla caduta di Traoré richiamava l'esigenza di
stabilire un solido compromesso riguardo alle procedure e alle istituzioni democratiche, fondato su un
adeguato senso di appartenenza nazionale.
L'articolo 28 dell'Atto fondamentale previde l'indizione di una Conferenza nazionale costituente per
affrontare tre questioni urgenti: il codice elettorale, la carta dei partiti e la nuova costituzione.
L'assemblea fu composta di tre rappresentanti per ogni forza politica, inclusi i movimenti separatisti
arabi e tuareg. L'assemblea ebbe un'autonomia parziale giacché i lavori furono guidati, e le proposte
materialmente redatte, dagli stessi ministri competenti. La nuova architettura costituzionale ricalcava
quella francese del 1958: esecutivo duale con un Presidente della repubblica a elezione diretta,
designante un Primo ministro responsabile di fronte all'Assemblea nazionale. Fu adottato il
maggioritario a doppio turno per l'elezione dell'esecutivo e del legislativo (quest'ultimo con liste
bloccate); mentre la formula proporzionale fu preferita per le unità sub-nazionali. Il sistema elettorale
fu materia lungamente dibattuta: sebbene il proporzionale incontrasse il favore di molti, lo spettro
dell'ingovernabilità fece propendere per la soluzione maggioritaria a livello nazionale e proporzionale
per i livelli intermedi. La carta dei partiti18definì le finalità generali, i requisiti e i criteri organizzativi
delle nuove formazioni. Fra i vari obblighi figurava il divieto di formazioni partitiche su base etnica,
confessionale o professionale. La carta sancì inoltre l'autofinanziamento e il controllo sui bilanci da
parte della Corte suprema.19
La Conferenza nazionale assicurò alla transizione un'arena di consensus building entro cui formulare il
futuro assetto istituzionale (Nzouankeu, 1993). L'elemento portante dell'ordinamento fu il
17
Acte fondamental n° 1 / CTSP del 31 marzo 1991.
Promulgata il 10 ottobre dello stesso anno.
19
Il finanziamento pubblico ai partiti fu introdotto con la legge n° 05-047 del 18 agosto 2005 di modifica alla
Carta dei partiti.
18
9 decentramento politico amministrativo, basato su tre sotto-livelli rappresentativi e amministrativi
(region, cercle e commune), e sul trasferimento a questi ultimi di competenze fiscali e in materia di
servizi. L'assetto decentrato fu discusso a seguito della proposta di concessione dello Statuto
particolare 20 alle regioni di Timbuctu, Gao e Kidal. La Conferenza rigettò la soluzione federale
suggerita dal Comitato per il Nord, preferendo un decentramento simmetrico, esteso quindi all'intero
corpo nazionale. La decentralizzazione sostanziò l'oggetto dell'élite consensus, giacché rappresentò
l'architrave istituzionale del sistema politico. Alpha Konaré concentrò con successo la campagna
elettorale sulle promesse di devoluzione dei poteri agli enti locali. Nel 1993 promulgò la legge n.
008/93 recante le linee guida del processo e nello stesso anno fu avviata la Mission de Décentralisation,
un programma di consultazioni locali volto alla sensibilizzazione e alla definizione dei confini delle
comunità rurali. Questa fase si protrasse per almeno tre anni, cui fece seguito il pacchetto delle
Réformes Istitutionnelles che implementarono la normativa. Il decentramento politico previde la
devoluzione delle competenze in materia fiscale e incaricati dell'erogazione dei principali servizi al
cittadino quali educazione, sanità e acqua. La definizione dei confini amministrativi, concertata con gli
attori locali, era finalizzata all'individuazione e alla valorizzazione dei rapporti solidaristici interni alle
comunità. Il processo partecipato investì le istituzioni di legittimità e fornì le premesse per l'ancoraggio
delle élite locali al sistema politico.
La strategia rispondeva a un calcolo politico finalizzato a (i) accrescere il consenso di politico
dell'ADEMA di Konaré, (ii) consolidare la legittimità del neonato regime democratico e (iii) pacificare
il nord.
(i) Con riferimento al consenso, un decentramento politico è incoraggiato da due ordini di fattori:
esterni e interni. Il primo gruppo riguarda le pressioni internazionali attraverso le clausole di
condizionalità previste dagli accordi internazionali. Con i bilanci statali in rosso e le esigenze di
sviluppo pressanti, le linee di credito internazionale costituivano la priorità per Bamako. I fattori interni,
invece, pongono l'accento sul lato della domanda politica. In uno scenario di crescente partecipazione
un governo responsivo e in cerca di consenso, se sollecitato, si vede incoraggiato a devolvere quote
anche significative di potere a beneficio delle sub-unità in cambio di sostegno e quindi di stabilità
politica. Quando il regime autoritario di Traoré implose, i network clientelari s'incepparono e la
devoluzione dei poteri verso il basso rappresentò uno strumento volto a rafforzare il consenso e, come
vedremo, la legittimità e l'ancoraggio delle istituzioni.
Il referendum costituzionale del 6 gennaio 1992, pur registrando una bassissima affluenza, raccolse una
percentuale di Sì attorno al 99% (tab. 1). Nelle successive consultazioni elettorali ADEMA uscì
vittorioso nella maggioranza delle circoscrizioni del Paese - comprese nelle regioni di Timbuctu, Gao e
Kidal. Il trend fu riconfermato alle elezioni nazionali del 1997 nonostante il boicottaggio delle
opposizioni. L'implementazione del decentramento politico-amministrativo si perfezionò nel 1999,
quando i maliani furono chiamati alle urne per l'elezione dei membri dei consigli locali. Anche in
quell'occasione, ADEMA vinse tutte le communes urbane e si aggiudicò il 59% dei seggi rurali.
20
Lo Statuto particolare era previsto dagli Accordi di Tamanrasset. La proposta fu avanzata alla Conferenza
nazionale dal Comitato per il Nord presieduto da Baba Akhib Haidara (esperto dell'UNESCO per i programmi di
educazione) e incaricato dal governo di transizione della gestione dello stato di perdurante crisi.
10 Referendum costituzionale, 19 gennaio 1992. Risultati disaggregati per regioni e distretto di Bamako. (tab.
1)
Regioni
Kayes
Koulikoro
Sikasso
Ségou
Mopti
Timbuctu
Gao
Kidal
Bamako
Residenti estero
SI (%)
98,39
98,6
98,4
97,8
99,4
99,7
99,37
99,01
96,48
97,72
NO (%)
1,26
0,9
0,79
1,2
0,27
0,08
0,29
0,83
2,43
0,12
Affluenza
45,55
56,4
39,4
38,4
41,5
41,8
16,29
16,53
38,29
69,62
Referendum costituzionale, 19 gennaio 1992. Risultati nazionali.
Iscritti
Affluenza
SI
NO
5.233.432
2.276.291
2.238.804
17.736
43,58%
98,35%
0,78%
(ii) Il supporto al decentramento espresso dall'assemblea costituente e il risultato plebiscitario del
referendum costituzionale furono un chiaro indicatore della legittimità delle nuove istituzioni. Fra il
1992 e il 1997 più di sessanta partiti furono creati e nel 2004 il numero lievitò a 94. Cinque partiti
dimostrarono un radicamento nazionale (ADEMA, URD, RPM, CNID, MPR) e solo i primi 3 erano
dotati di capacità organizzative sufficienti a eleggere rappresentati da Kidal a Kayes. Se ciò suggerisce
un certo grado di adesione alle procedure democratiche, partiti politici poco istituzionalizzati riescono
difficilmente a farsi promotori di good governance (Vengroff, 1993). Cionondimeno essi hanno
ugualmente garantito una qualche forma di ancoraggio, attraverso la distribuzione clientelare di risorse
e la mediazione. Il sistema elettorale, infatti, maggioritario a doppio turno per l'arena nazionale e
proporzionale per i livelli subnazionali, ha mantenuto un sistema multipartitico segmentato: il sostegno
ai cinque partiti maggiori è insidiato da una moltitudine di piccole formazioni, espressione di clan e
notabilati locali, la cui rilevanza è proporzionale al potenziale di coalizione. I due sistemi elettorali
hanno prodotto degli effetti positivi per la stabilità del sistema: il maggioritario, attraverso
l'aggregazione e la formazione di ampie coalizioni a sostegno del Presidente, ha garantito la
governabilità; mentre quello proporzionale ha permesso l'accesso ai centri decisionali (e pertanto alle
risorse pubbliche) ad attori minoritari ed esclusi dalla torta nazionale (Cfr. Horowitz, 1985; Sisk, 1996;
Reilly, 2001). In sintesi, la decentralizzazione politica ha permesso un migliore flusso delle risorse
dall'alto verso il basso; ha inoltre funto da banco di prova per l'esercizio del compromesso e della
mediazione, logiche d'azioni essenziali al consolidamento di qualsiasi arena politica democratica.
Su quest'ultimo aspetto è bene soffermarsi ulteriormente. L'osservazione delle dinamiche interpartitiche
rivela un'elevata predisposizione alle alleanze soprattutto da parte delle piccole formazioni (Vengroff &
Kone, 1995; Diarrah, 1996; Camara, 2008). Il primo mandato di Alpha Konaré fu segnato dal conflitto
11 sociale e i contraccolpi non si fecero attendere: nel 1994 l'alleanza ADEMA/PASJ si frantumò e nel
giro dei due anni successivi anche gli altri partiti maggiori conobbero la fuoriuscita di microformazioni politiche. Dalle elezioni del 1997 in poi le competizioni elettorali furono contraddistinte
dalla formazione di macro-alleanze di cui i partiti maggiori si fecero promotori. Due considerazioni si
possono fare nell'immediato: il carattere marcatamente elettorale di questi cartelli ha reso queste
alleanze molto fluide e poco ancorate ad agende politiche condivise; ciò a sua volta evidenzia una
bassa distanza ideologica fra le formazioni e una buona coesione delle élite, disposte a cooperare pur di
non rimanere escluse dal power-sharing.
Alleanze alle elezioni del 1997 (tab. 2)
Alleanze
Convergence Nationale pour la Démocratie et le Progrès
(CNDP)
Composizione
ADEMA, PARENA, ADES, CDS, MCCDR, RAMAT e il PDJ
Rassemblement des Forces Patriotiques (RFP)
BDIA, PDP, UDD (poi passato
all'FCD), PMDR, CNID, PSP, MPR,
l’UFDP
Front pour le Changement et la démocratie (FCD)
MIRIA, US-RDA, RDP, UDD, PRDT,
PMPS
A seguito delle legislative, RFP e FCD
confluirono nel COPPO, che boicottò le
presidenziali Collectif des partis de l’opposition (COPPO)
Ciò testimonia ancora una volta la capacità di dialogo e compromesso che ha influenzato positivamente
l'accordo sulle regole del gioco, e che ora afferisce positivamente il consolidamento. Il corretto
funzionamento delle procedure democratiche e il disimpiego di risorse violente non devono tuttavia
distrarre dai limiti: l'opportunismo delle alleanze, finalizzate a sostenere le clientele e le pratiche di
spoil system, distrae la competizione dal principio delle reazioni previste. Questo non può che sollevare
dubbi sulla bontà delle agende politiche dei singoli partiti, sull'autonomia dell'arena politica ed
economica e, in generale, sulla qualità stessa del sistema politico in termini di responsività dell'output.
Ciononostante è bene ricordare come l'assetto istituzionale uscito dal compromesso nazionale del 1991
abbia svolto la funzione preposta: ha permesso, aldilà dei grossi limiti qualitativi, la nascita di un
sistema politico dotato di un adeguato grado di legittimità e di governi stabili. Almeno su una parte
rilevante del territorio nazionale.
(iii) La strategia di decentramento mirava a consolidare lo Stato nelle tre regioni settentrionali per
garantire la pacificazione del conflitto autonomista. I termini dello scambio possono essere così
riassunti: unità territoriale in cambio di autogoverno. Anche qui ritroviamo nei due processi di
ancoraggio e legittimazione una chiave interpretativa per spiegarne il meccanismo. In accordo con
Seely (2001), l'obiettivo fu di cooptare le élite nordiste nel meccanismo politico istituzionale, dove per
cooptazione mi riferisco a quella situazione politica in cui chi detiene il potere, sceglie di includere nel caso particolare attraverso l'estensione dell'autonomia politico-amministrativa - gli attori o i gruppi
di attori che rappresentano una potenziale minaccia. L'ancoraggio sarebbe avvenuto attraverso il
sistema partitico e le leve clientelari, con un meccanismo di élite capture analogo a tutte le altre aree
12 del Paese. Se tuttavia l'ancoraggio è un processo meccanico, legato in misura variabile al trasferimento
di risorse dall'alto verso il basso, la legittimazione, invece, attecchisce gradualmente ed è difficilmente
attivabile da mere soluzioni istituzionali.
L'élite consensus consentì la formulazione di istituzioni e regole condivise che permisero il
funzionamento del sistema democratico su larga parte del territorio. Nelle tornate del 1992 e del 1997
l'affluenza media nelle tre regioni del nord fu bassa e poco sopra quella nazionale,21 con ADEMA in
testa in quasi tutte le circoscrizioni (Camara, 2008); nel 2002 le regioni del nord furono protagoniste di
un'affluenza molto superiore rispetto alla media del Paese. A dimostrazione del trend positivo,
coincidente con un periodo di relativa pace al nord, le amministrative del 2004 registrarono
un'affluenza media del 43% nelle regioni di Timbuctu, Gao e Kidal. Non sorprende quindi che nelle
circoscrizioni di Timbuctu e Gao, ADEMA abbia portato a casa più seggi rispetto a tutte le altre
circoscrizioni del Paese. Nel 2006, tuttavia, una nuova ribellione devastò il nord riproponendo il rischio
di una deriva civile del conflitto. La presenza di aspettative crescenti, desumibile dalla crescita nella
partecipazione fra il 1997 e il 2004, solleva molteplici interrogativi su quella che sembrava una
definitiva soluzione al problema del nord.
L'ipotesi è che le élite tradizionali, pur cooptate, abbiano perso il ruolo di leadership. Dietro alla
fragilità delle élite s'ipotizzano due ragioni: (1) la scarsa presenza dello stato, e quindi la deistituzionalizzazione delle aree periferiche, derivante dal differenziale nella diffusione dell'autorità fra
centro e periferia; (2) e il perdurante sottosviluppo che ha frantumato la comunità al suo stesso interno.
Il decentramento può rappresentare un dispositivo capace di estendere l'autorità delle istituzioni sul
territorio, rendendole più visibili e favorendo la partecipazione e la responsività. All'iniziale domanda
quale demos? la risposta non può che essere non uno, ma più demòi. Se ritorniamo al dato elettorale, la
constatazione del predominio 22 di ADEMA e l'assenza di formazioni politiche portatrici d'istanze
autonomiste o identitarie è sì un segnale incoraggiante, ma deve essere affiancata all'affluenza
elettorale: più della metà degli aventi diritto non partecipa, segnando una profonda divisione fra chi
partecipa (insiders) e invece chi è escluso o si auto-esclude (outsiders). Gli anni di conflitto, la povertà,
l'analfabetismo, la naturale marginalizzazione delle popolazioni residenti nelle aree desertiche e la
conseguente non visibilità delle istituzioni in queste zone segna il discriminante in e out fra chi è
esposto alle istituzioni e chi invece no. E' possibile individuare in questa frattura il bacino d'influenza
delle élite, circoscritto pertanto a molto meno della metà della popolazione regionale. E il restante 60 o,
addirittura, 70%?
Prima di rispondere a questo interrogativo, oggetto del paragrafo successivo, è il caso di soffermarsi
ulteriormente. A livello nazionale la bassa partecipazione elettorale è motivata da una generale
indifferenza
e/o
scarsa
fiducia
nella
responsività
degli
eletti.
Infatti,
i
sondaggi
di
23
Afrobarometer isolano la cattiva reputazione dei governanti e allo stesso tempo rilevano un'attitudine
positiva diffusa nei riguardi delle istituzioni democratiche. Sul campione nazionale, pertanto, la scelta
21
Partecipazione media alle legislative del 1992: nazionale 21,3%, regioni nord 29,1%. Fonte: African Election
Database.
22
La dominanza non si è mai realizzata a pieno a causa delle scissioni susseguitesi fra 1994 e 2002 e delle macroalleanze delle opposizioni.
23
I dati di Afrobarometer sono reperibili all'indirizzo: http://www.afrobarometer.org/results/results-by-country-am/mali. Si cfr. inoltre Bratton & Mattes, 2000;
13 dell'outsider può essere interpretata come indifferenza o sfiducia all'interno di una generale legittimità
delle istituzioni democratiche, percepite come the only game in town.24 Nelle regioni del Nord, al
contrario, le radici dell'astensionismo non sono chiaramente identificabili, ma solo ipotizzabili una
volta desunto il contesto generale. Al riguardo bisogna contare che la grave instabilità dell'area ha
impedito lo svolgimento di ricerche estensive capaci di sondare l'opinione delle comunità. I limiti nella
disponibilità di dati disaggregati non impedisce tuttavia la formulazione di ipotesi. Le élite tradizionali
hanno smarrito il controllo sulle comunità a causa della perdita di autorità. La perdita di autorità deriva
dalla combinata azione di istituzioni assenti e dalla perdurante povertà dell'area che ha destabilizzato la
struttura sociale tuareg e generato domande a cui le élite politiche non hanno saputo rispondere.
Decentramento elusivo
Il governo di transizione ristabilì condizioni favorevoli a traghettare il Paese alla democrazia e fra
queste, l'inclusione delle comunità nomadiche del nord rappresentava la sfida principale. L'obiettivo
esigeva però una riflessione sulle basi della statualità e una chiara comprensione dei processi sociopolitici degli ultimi cinquant'anni.
Il Mali è uno degli stati più vasti del continente25comprendente tre fasce climatiche distinte: la regione
sudanese del sud coltivata, il Sahel nella zona centrale semiarida e il nord arido in pieno Sahara.26 Le
regioni meridionali sono prevalentemente coperte da savane e il terreno è pianeggiante. Nel nord
diviene leggermente ondulato e l'altipiano si snoda tra i 200 e i 500 metri di altezza sul livello del mare
con rilievi montuosi sino a 1000 metri. Il deserto e le regioni semi-aride coprono circa il 65 per cento
della superficie del Paese. A causa di condizioni ambientali e storiche, ampie porzioni di territorio delle
regioni di Timbuctu, Gao e Kidal risultano de-istituzionalizzate e marginalizzate sotto il profilo politico
ed economico. Queste aree - la cui densità abitativa può scendere sino agli 0,1 abitanti per km² - sono
popolate da comunità nomadiche e sedentarie. Le comunità sedentarie, appartenenti principalmente a
etnie africane, hanno da sempre convissuto - fra conflitto a cooperazione - con le comunità nomadiche
di origine araba e berbera. Queste ultime costituiscono gruppi autonomi e segmentati, solo in parte
integrati nella comunità politica nazionale. L'assenza dello Stato - percepito distante dai bisogni delle
24
In particolar modo nelle aree rurali, la convivenza dei poteri dello Stato e quelli della tradizione può risultare
problematica. Si cfr. Marie & Idelman, 2010.
25
Il Mali si estende per 1.241.300 mq, 7.243 km di frontiere su sette Stati e una densità abitativa di 10 unità per
km² attorno al Niger, mentre al Nord la densità è sull'ordine dello 0,1 per km². La società maliana è basata su clan
divisi in etnie la cui definizione, o per meglio dire la percezione, si ascrive principalmente alla dimensione
linguistica. Più del 50% della popolazione parla Mandé (Bambara, Soninké, Malinké), lingua diffusa nella parte
meridionale e occidentale del Mali. Fulani e Peul parlano Fulfuldé e costituiscono il secondo maggiore gruppo del
Paese (circa il 17%); dediti alla pastorizia e all'allevamento abitano principalmente l'area centrale del Mali, attorno
al fiume Niger. Le regioni settentrionali sono popolate da Songhai, Tuareg, Maure e Bozo. Songhai e Tuareg sono
localizzati principalmente nel nord ovest, mentre verso confine mauritano s'individuano i clan arabi Maure. I
Songhai sono coltivatori stanziati prevalentemente lungo il corso del Niger assieme ai pescatori Bozo. I Tuareg,
popolo berbero di lingua Tamacheq tradizionalmente, dedito alla pastorizia e ai commerci, fino all'età coloniale
dominava assieme agli arabi maure i deserti del Sahara centrale.
26
Cfr. appendice - cartine geografiche. 14 comunità e fisicamente assente dal territorio - è stata più volte fonte di malcontento sfociato in violenza
organizzata.
Nel corso del Novecento, il ri-orientamento dei rapporti di forza nell'area ha visto i tuareg
gradualmente marginalizzati dal potere politico e conseguentemente discriminati nell'accesso alle
risorse divenute sempre più ridotte. Sin dall'indipendenza, infatti, le popolazioni nomadiche
manifestarono insofferenza nei confronti del governo africano di Bamako, percepito come il nuovo
colonizzatore dopo l'uscita di scena della Francia. Dall'età coloniale in avanti il potere politico si era
gradualmente spostato in mano alle etnie nere del meridione, lasciando il nord sempre più
marginalizzato (Morgenthaus, 1964; Seely, 2001). Le aspettative crescenti ingenerate dalla fine del
dominio coloniale cozzarono poi con la tendenza, variamente diffusa a tutti i regimi dell'Africa postcoloniale, all'instaurazione di forme statali centralizzate (Zolberg, 1966; Diamond et al., 1995; Gentili,
2008), in cui la piccola scala delle comunità nomadiche e pastorizie era considerata in larga misura
irrilevante. In società in così rapida trasformazione, l'ordine politico e i modelli di crescita fondati su
un ideale di progresso e modernizzazione misero in secondo piano gli interessi dei nomadi del nord,
definiti spregiativamente le Mali inutile. La desertificazione incorsa a partire dalla prima metà del XX
secolo ha impoverito l'economia locale - tradizionalmente fondata su pastorizia e allevamento causando disoccupazione e frustrazione sociale (Poulton & ag Youssouf, 1998; Benjaminsen, 2008).
Le conseguenze più immediate sono state due: da una parte si è assistito alla caduta delle caste
nobiliari e, dall'altra, alla migrazione dei pastori verso sud e dei giovani verso le città o l'estero. Lo
spostamento a sud dei pastori si è riverberato sul rapporto fra il mondo pastorale e agricolo, da sempre
conflittuale a causa delle cicliche criticità ambientali. In Africa la questione della terra è sempre stata al
centro di continue mediazioni il cui esito, non sempre in equilibrio, è dipeso dagli equilibri politici del
momento. I giovani emigrati all'estero (i c.d. ishumar), invece, si diressero in Libia e Algeria, dove
entrarono in contatto con le ideologie rivoluzionarie e l'addestramento militare della Legione araba. I
problemi causati dalla desertificazione, dall'esclusione politica ed economica si sono quindi
ribverberati sulle gerarchie tradizionali, erodendone l'autorità e il prestigio derivante da uno status
ormai solo nominale. La povertà ha pertanto disarticolato le comunità tradizionali, erodendo la
leadership e alimentando una doppia divisione: rispetto al corpo nazionale e all'interno delle stesse
comunità nomadi. Il profondo malessere, tuttavia, non ha tardato a manifestarsi.
Dall'indipendenza le regioni di Timbuctu, Gao e Kidal sono state protagoniste di almeno quattro
ribellioni armate (1961-63; 1990-1996; 2006-2009; 2012 - in corso) che nel corso del tempo hanno
sfaldato il tessuto relazione fra le comunità dell'area e in modo particolare i rapporti fra popolazioni
sedentarie e nomadiche (Poulton & ag Youssouf, 1998, Randall, 2005). Le precedenti rivolte si erano
concluse con la stipula di accordi che insistevano su tre principi: autogoverno, inclusione e sviluppo.
La Conferenza nazionale accolse il principio dell'autogoverno, ma ne ridimensionò l'asimmetria
originaria per venire incontro alle richieste di tutto il corpo nazionale. Nel corso degli anni Novanta la
leadership dei ribelli non fu in grado di sostenere i termini degli accordi di Tamanrasset e del Patto
nazionale e il movimento autonomista si spaccò fra maure e tuareg; lotte intestine coinvolsero inoltre le
stesse formazioni tuareg divise su linee tribali e generazionali. Il conflitto subì a più riprese delle
15 escalation che rischiarono di sfociare in guerra civile.27 Il permanere di uno stato di emergenza inficiò
ogni tentativo di sviluppo, fiaccando il morale e il mutuo riconoscimento delle parti. In sede negoziale
il governo centrale, sempre più in difficoltà, si vide costretto a cedere alle pressioni dei capi ribelli tese
ad ampliare i margini di autonomia del nord. Le insurrezioni armate testimoniano la profonda frattura
fra Nord e Sud e sollevano una questione di estrema importanza su cui finora si è taciuto: l'insorgenza
di gruppi armati autonomi e concorrenti all'autorità di Bamako.
Gli accordi di Tamanrasset, il Patto nazionale e quelli di Algeri concessero la demilitarizzazione delle
tre regioni, confinando il dispositivo militare regolare alle sole basi principali. Le trattative seguite
all'accordo di Tamanrasset e al Patto nazionale sancirono inoltre il principio dell'integrazione delle
forze regolari all'interno dei corpi militari:28nell'aprile del 1993 furono integrate 610 unità e nell'ottobre
del 1996 ben 1.200, ripartite fra Esercito, Gendarmeria e Guardia nazionale. Il processo d'integrazione
ha interessato anche la Pubblica amministrazione e i reparti di polizia, i quali si sono gradualmente
aperti ai non-africani un tempo esclusi; nell'ottobre del 1996, 120 unità furono inquadrate fra le fila
della P.A. e 300 unità fra le forze di polizia (Polizia, Polizia di frontiera e Polizia forestale).
L'arruolamento dei ribelli nelle truppe regolari ha indebolito le gerarchie dell'esercito, strumento
principale del monopolio della violenza. Confrontando i dati con il numero di effettivi dei singoli corpi
(tab. 3) si evince la problematicità del loro inquadramento. Le difficoltà nell'assorbimento si sono
tradotte in perdita di efficienza e indebolimento della gerarchia (Grémont, 2010). Inoltre, il ricorso a
pattuglie miste per il controllo delle aree desertiche - sancito dal Patto nazionale e riaffermato dagli
Accordi di Algeri - ha rappresentato una soluzione di compromesso che nei fatti ha significato il
subappalto del controllo del territorio ai capi ribelli.
27
A partire dal 1994 le popolazioni sedentarie si sono organizzate in bande paramilitari di autodifesa, al fine di
contrastare le scorrerie e il monopolio dei commerci di tuareg e arabi - che gli accordi di pace avevano favorito.
Nello specifico si segnala:
1) il Mouvement Patriotique Ganda Koy (MPGK). Fondato a metà anni Novanta dal disertore dell'esercito maliano,
capitano Abdoulaye Hamadahamane Maiga, l'MPGK poteva contare sul supporto di Songhai, il grosso del
movimento, e di pescatori Bozo, pastori Fulani (Peul), lavoratori Bella (ex schiavi tuareg) e qualche tuareg
residente sulle rive del Niger.
2) Ganda Izo comparve invece in concomitanza all'insorgenza del 2006 e fu anch'esso composto in prevalenza da
pastori Fulani (Peul) e Songhai.
28
E' qui riportato un estratto dell'articolo 7A, Titolo II del Patto nazionale: «Dans le cadre des mesures de
restauration de la confiance, de l’élimination de facteurs d’insécurité et d’instauration d’une sécurité définitive, il
sera:
- procédé à l’intégration totale, sur une base individuelle et volontaire et selon les critères de compétence, des
combattants des Mouvements et Fronts Unifiés de l’Azawad (MFUA) dans les différents corps en uniforme de
l’État29,
- mis sur pied pour une année, des unités spéciales des forces armées composées majoritairement des combattants
intégrés des MFUA,
- institué un corps de sécurité intérieure (Gendarmerie nationale, Garde-Goum, Police) comprenant toutes les
composantes des populations locales, y compris des combattants des MFUA, mis à la disposition des Autorités
locales dans le cadre de leurs pouvoirs de police,
- créé des unités spéciales de l’Armée largement ouvertes à toutes les composantes des populations locales, dont la
mission se limitera à la préservation de l’intégrité et de la sécurité extérieures du territoire national.
16 Prospetto delle integrazioni del 1993 e del 1996 (Fonte dati: Keita, 1998) (tab. 3)
Servizio
Esercito
Marina
Aviazione
Gendarmeria
Finalità
Difesa del
territorio
Sicurezza del
delta del fiume
Niger
Difesa dello
spazio aereo
Sicurezza delle
aree rurali
Personale totale
Personale
integrato
Personale
integrato (%)
7.000
1.311
18,73%
70
0
0
450
0
0
1.500
151
10%
Guardia nazionale
Difesa del
territorio
700
348
50%
Polizia
Sicurezza
1.000
150
15%
L'indebolimento delle gerarchie militari e il pattugliamento congiunto hanno fiaccato le già deboli
capacità di controllo del territorio, assicurando un vantaggio agli imprenditori del potere e della guerra
che con il conflitto e il contrabbando avevano prosperato nell'area. Questi gruppi armati, generalmente
organizzati attorno ad un ex-capo militare, si rafforzano proporzionalmente alla de-istituzionalizzazione
del territorio e alla povertà della regione. Queste due condizioni garantiscono la presenza di un bacino
di forza lavoro e un ambiente favorevole alla proliferazione delle bande armate.
La decentralizzazione non ha portato i risultati desiderati riguardo al rafforzamento istituzionale e allo
sviluppo economico. La letteratura in materia segnala tre criticità: assenza di personale con adeguata
expertise, povertà di risorse economico-finanziarie e sovrapposizione delle competenze fra livelli di
governo (Hesseling & van Dijk, 2005; Gottlieb, 2010; Kirkby & Murray, 2010; Wing & Kassibo,
2010). In aggiunta, tassi molto elevati di corruzione29 e condotte neopatrimoniali hanno condannato gli
enti locali a una condizione di povertà cronica e ridotto le risorse disponibili alle leadership locali,
privandole così di un'importante risorsa di consensus building. Il più immediato segnale della bassa
autonomia dell'arena economica da quella politica è appunto la dipendenza dall'accesso alle risorse
pubbliche. In Mali l'accesso alle risorse è regolato dal sistema partitico ed è dunque ad esclusivo
appannaggio delle élite cooptate; se queste risorse vengono a mancare, o diminuiscono, le élite
cooptate si indeboliscono.30 Inoltre, capi tradizionali e leader militari si sono esposti in prima persona
nella firma dei trattati di pace recanti gli impegni di sviluppo. Il loro sistematico fallimento ha eroso
ulteriormente l'autorità fra la comunità. Negli ultimi vent'anni, inoltre, si è autonomamente rafforzata
una fonte di finanziamento concorrente a quella pubblica: il contrabbando. Quest'attività, eredità del
fiorente passato commerciale, per sua stessa natura prolifera in contesti de-istituzionalizzati e autonomi
dalla longa manus del controllo statale. E', infatti, su questi interessi che il continuo riaccendersi degli
scontri si è alimentato, trovando consenso e mano d'opera nelle sacche di povertà e esclusione
29
Dal 2003, data d'inizio delle rilevazioni di Transparency International, l'indice di percezione della corruzione
oscilla attorno al valore 3. Fonte: Transparency International: http://archive.transparency.org/.
30
Si segnalano communes rurali in cui le entrate fiscali non sono sufficienti a pagare lo stipendio del sindaco, nda.
17 disoccupazione che pervadono le fasce più deboli (in maggioranza giovani ed ex-ribelli non integrati
nell'esercito regolare).31
L'instabilità intra- e inter-comunitaria ha pertanto ridotto l'autorità delle élite, in difficoltà a causa
anche della natura della società tuareg. La segmentazione in clan, raggruppati in confederazioni
autonome, si è storicamente sempre mal conciliata con l'individuazione di autorità capaci di governare
sui membri di altri clan (Fortes & Pritchard, 1940). Se il comando non trova delle fonti di
legittimazione simbolica, non può che fondarsi su risorse materiali - tipicamente la violenza e la
ricchezza. Le guerre e il contrabbando hanno permesso l'emersione d'imprenditori del potere capaci di
accumulare forza armata e ricchezza materiale in misura superiore alle vecchie gerarchie di notabili,
molte delle quali, fra l'altro, si sono ritrovate delegittimate dalla connivenza con il passato regime
autoritario, mentre altre hanno perso la faccia in accordi per lo sviluppo mai decollati.
Schema concettuale riassuntivo.
Transizione
democratica
Élite consensus
Decentramento
Perché elusivo?
1) Mancato consolidamento
dell'autorità sul territorio
nazionale;
2) Mancato sviluppo.
31
Al riguardo, la ribellione del 2006 rappresenta un episodio significativo del malumore serpeggiante fra le fila
degli integrati. Nel 2006 un gruppo di 50 soldati di origine tuareg, guidati dal tenente colonnello Hassane Fagaga,
disertarono da una base nel sud-ovest del Paese per rifugiatisi nell'Adagh (zona montagnosa della regione di Kidal,
popolata da tuareg della confederazione dei Ked Adagh). La mattina del 23 maggio 2006 diedero l'assalto agli
avamposti militari di Kidal occupando la città e dando avvio alla Terza ribellione tuareg. Sotto la sigla Alliance
Démocratique du 23 mai pour le Changement (ACD), gli insorti acconsentirono alla mediazione algerina e
siglarono, il 4 luglio 2006, gli Accordi di Algeri per la restaurazione della pace, della sicurezza e lo sviluppo della
regione di Kidal, nda.
18 Conclusioni
La democratizzazione del 1991-92 ha prodotto un'architettura istituzionale decentrata in grado di
assicurare al Paese stabilità politica, governabilità e competizione in accordo agli standard procedurali.
La democrazia del Mali ha infatti rappresentato un caso di successo per tutto il continente africano:
elezioni libere e competitive, stabilità dei governi, competizione centripeta e non violenta. La
decentralizzazione aveva assicurato alle istituzioni democratiche ampia legittimazione e ancoraggio
attraverso il sistema partitico (gate keeping e clientelismo). Il colpo di stato del marzo 2012, tuttavia,
ha sollevato perplessità sulla tenuta del compromesso nazionale e sull'efficacia del decentramento nel
raggiungimento degli obiettivi prefissati. I dubbi però non devono distrarre dalla buona performance
democratica di parte del Paese; le ragioni della crisi, infatti, riguardano criticità di lungo corso che
afferiscono un'area specifica del Mali: il nord desertico, de-istituzionalizzato e abitato da comunità
nomadiche marginalizzate.
Il compromesso nazionale del 1991 ha garantito un solido framework per il funzionamento e
l'ancoraggio delle istituzioni democratiche, ma non è stato sufficiente a risolvere, come si riteneva
possibile, le criticità che gravitano attorno al problema del nord. Perché il decentramento è stato
elusivo? 1) La decentralizzazione non è riuscita consolidare l'autorità statale sul territorio. Le élite
tradizionali, pur cooptate, non sono state in grado di esercitare la loro leadership a causa dell'assenza di
un'arena di rule of law funzionante. La presenza di aree de-istituzionalizzate e fuori dal controllo statale
ha prodotto un differenziale nell'esercizio dell'autorità che ha facilitato la formazione di centri di potere
autonomi rispetto al governo centrale e in aperta concorrenza alle élite locali. Questo differenziale è
stato esasperato dall'indebolimento del monopolio della forza, conseguente all'integrazione dei gruppi
ribelli nei dispositivi di sicurezza. 2) La decentralizzazione non ha rappresentato un vettore di sviluppo.
La debolezza dell'arena economica non è stata sopperita dagli enti locali, privando le élite delle
necessarie risorse per l'estensione dei legami patronali. L'ancoraggio della società civile è dunque
riuscito solo in parte. Inoltre, l'endemica povertà e la condizione di sottosviluppo hanno impoverito e
diviso la società civile, lasciandola facile preda di signori della guerra forti di risorse autonome.
In definitiva, le élite tradizionali erano troppo deboli perché la loro cooptazione portasse i risultati
desiderati. Insidiate dall'emergere di nuove élite autonome (i signori della guerra), non sono state
protette da un'adeguata arena di rule of law. Inoltre, non hanno potuto disporre di sufficienti risorse per
rafforzare la propria autorità a causa di uno sviluppo mai veramente innescato. La perdita di legittimità
si è ripercossa sull'incapacità di tenere unite le componenti di una comunità tradizionalmente
segmentata e destrutturata da decenni di declino socio-economico. La fine della preminenza delle
popolazioni nomadi sulle genti africane era stata fonte d'impoverimento e disagio sociale. Gli effetti
della decadenza avevano eroso le stesse leadership tradizionali, per le quali la devoluzione del potere
politico aveva rappresentato un'importante opportunità di rilancio.
Allo stato attuale la democrazia maliana è in bilico sull'orlo del precipizio. La parte centro-meridionale
del Paese ha portato a termine con successo la transizione democratica e dato prova di un ben avviato
19 processo di consolidamento. Nonostante alcune voci si siano levate a favore del colpo di stato,32il
Paese nel suo complesso sta dimostrando coesione nazionale di fronte alla crisi. Il nord del Paese è
invece una culla d'instabilità politica: appare sempre più diviso a livello inter-comunitario, fra sedentari
e nomadi, e intra-comunitario, fra le comunità nomadiche lealiste e no. L'indipendenza dell'Azawad,
promossa da fazioni di ribelli autonome dal resto della comunità, è l'epilogo finale di un problema
rimasto insoluto perché considerato marginale e circoscrivibile ad aree periferiche (Antil & Touati,
2011). Sul bilancio finale della transizione grava pertanto il problema del nord, dimostratosi nei mesi
scorsi una fonte d'instabilità non più estranea al sistema politico nazionale e tale da mettere a
repentaglio l'esistenza stessa dello Stato.33
32
33
Sul sostegno alla giunta militare, cfr. County & Peterson, 2012; Mann, 2012.
Sull'evoluzione dello scenario nel Nord, cfr Delcroze, 2012.
20 21 Appendice - Cartine
Carta del Mali raffigurante la densità di popolazione. Le aree più scure indicano una più
alta densità. (Fonte: Herbst, 2000)
Carta del Mali raffigurante la divisione su base regionale.
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