Salute eTerritorio I Servizi per le dipendenze patologiche

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Salute eTerritorio I Servizi per le dipendenze patologiche
Sae l ute
Territorio
Direttore responsabile
Mariella Crocellà
Redazione
Antonio Alfano
Gianni Amunni
Alessandro Bussotti
Francesco Carnevale
Bruno Cravedi
Laura D’Addio
Gian Paolo Donzelli
Claudio Galanti
Marco Geddes
Valtere Giovannini
Carlo Hanau
Gavino Maciocco
Mariella Orsi
Daniela Papini
Paolo Sarti
Luigi Tonelli
Alberto Zanobini
Collaboratori
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Emilia-Romagna
Eva Buiatti, Osservatorio Epidemiologico, Agenzia
Regionale di Sanità della Toscana
Ivan Cavicchi, Università La Sapienza
e di Tor Vergata - Roma
Giuseppe Costa, Epidemiologia - Grugliasco, Torino
Nerina Dirindin, Assessore alla Sanità, Regione Sardegna
Luca Lattuada, Agenzia Regionale della Sanità - Friuli
Pierluigi Morosini, Istituto Superiore di Sanità - Roma
Emanuele Scafato, Istituto Superiore di Sanità - Roma
Comitato Scientifico
Giovanni Berlinguer, Professore Emerito
Facoltà di Scienze - Roma
Giorgio Cosmacini, Centro Italiano di Storia Sanitaria
e Ospitaliera - Reggio Emilia
Silvio Garattini, Istituto Negri - Milano
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della Prevenzione Sanitaria, Ministero della Salute
Elio Guzzanti, Docente di Organizzazione Sanitaria Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” - Roma
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Segreteria informatica
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Questo numero è stato chiuso in redazione
il 15 aprile 2008
167 Rivista bimestrale di politica sociosanitaria fondata da L. Gambassini
FORMAS - Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria
Anno XXIX - Marzo-Aprile 2008
Sommario
66
F. Bianchi, L. Cori, L. Miligi,
A. Seniori Costantini
Monografia
78
G. Zuffa
82
A. Grosso
86
N. Pepino
91
M. Croce, G. Di Loreto
95
G. Bignami
103
107
108
112
118
120
124
F. Prina
C. Favero, R. Rolando
S. Bertoletti, C. Cippitelli
P. Rivaris
M.T. Ninni
P.C. Lenzetti, D. Travaglio
A. Alfano, M. Orsi
Abbonamenti 2008
Italia
€ 41,32
Estero € 46,48
Le questioni ambientali e la salute
I Servizi per le dipendenze patologiche
L’Onu e la geopolitica delle droghe
Il quadro nazionale
Dalla miopia alla diplopia
Dalla disciplina alla tolleranza zero
La pericolosità di sostanze legali
e illegali
Le modificazioni dell’uso di alcol
La cultura d’uso della cocaina
Nuovi stili di consumo
I percorsi di inclusione
L’accesso ai Servizi a bassa soglia
La cura del detenuto tossicodipendente
L’integrazione delle offerte terapeutiche
Fotocomposizione e stampa
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Pagamenti online con carta di credito o PayPal
l ute
Sa
e
66 Territorio
Fabrizio Bianchi*
Liliana Cori**
Lucia Miligi***
Adele Seniori Costantini***
Sezione Epidemiologia, Istituto
di Fisiologia clinica del CNR,
* Pisa, ** Roma
*** UO Epidemiologia
ambientale-occupazionale
Centro per lo studio e la
prevenzione oncologica, Firenze
L
e questioni ambientali
sono diventate in Italia
e nel mondo un tema
centrale nel dibattito scientifico e politico, sia perché un
numero crescente di studi ha
evidenziato che l’ambiente
influisce in modo rilevante
sulla salute, sia per il verificarsi di “emergenze ambientali”, ma più spesso per il
perdurare di situazioni ambientali critiche che hanno
suscitato disagio e preoccupazioni della popolazione.
Nel presente lavoro vogliamo
fare sinteticamente il punto
sullo stato delle conoscenze
su 3 argomenti rilevanti, l’inquinamento urbano, i campi
elettromagnetici e lo smaltimento dei rifiuti che, di recente, hanno attratto l’attenzione di ricercatori e cittadini
e fare alcune riflessioni sulla
comunicazione dei risultati
degli studi e sui processi decisionali che si basano su
questi.
Inquinamento atmosferico
L’inquinamento dell’aria costituisce oggi un problema da
affrontare con priorità dal
momento che sempre maggiori sono le evidenze degli
effetti nocivi per la salute.
Molti sono gli studi condotti
sia negli USA che in Europa e
Le questioni ambientali e la salute
N. 167 - 2008
Le questioni ambientali
e la salute
anche in Italia negli ultimi 20
anni che hanno esaminato gli
effetti dell’inquinamento negli adulti e nei bambini. In
modo coerente tali studi hanno evidenziato che l’inquinamento dell’aria causa malattie
dell’apparato respiratorio,
cardio-circolatorio e tumori.
Sono stati esaminati numerosi inquinanti: l’ossido di carbonio (CO) gli ossidi di azoto
(NOx) l’anidride solforosa
(SO2), l’ozono (O3) e il particolato (PM), in particolare le
polveri “fini” di dimensioni
inferiori a 10 micron (PM10) e
a 2,5 micron (PM2,5). Sono
stati utilizzati diversi disegni
di studio e diversi indicatori.
In particolare sono stati considerati sia effetti acuti, che
Che l’inquinamento dell’aria sia causa di aumenti
della mortalità è un’acquisizione antica. Risale
ai primi decenni del secolo 1900 l’osservazione di
un’aumentata mortalità
in alcune aree europee e
americane (nella valle
della Mosa in Belgio nel
1930, nel 1948 a Donora
in Pennsylvania, a Londra
nel 1952) in concomitanza di gravi episodi di inquinamento atmosferico.
I controversi risultati delle analisi condotte
sulle emissioni prodotte dallo sviluppo
tecnologico. Il problema dei rifiuti
cioè si manifestano a seguito
del verificarsi di “picchi di inquinamento”, sia effetti a distanza nel tempo.
Per quanto riguarda gli effetti acuti, in Italia è stato condotto lo studio MISA “Metanalisi italiana degli studi sugli effetti a breve termine
dell’inquinamento atmosferico” che ha riguardato 15 città
italiane per un totale di 9 milioni di abitanti. È stata valutata la relazione tra livelli
giornalieri degli inquinanti
atmosferici (PM10, biossido
di azoto, anidride solforosa,
ossido di carbonio, ozono) ed
eventi sanitari rilevanti quali
la mortalità (totale, cause
cardiache, cause respiratorie)
e i ricoveri ospedalieri (cause
cardiache e respiratorie) nel
periodo 1996-2002. Da questo studio è emerso che all’aumentare delle concentrazioni degli inquinanti (in
particolare NO2, CO, e PM10)
si registra un aumento di decessi per malattie respiratorie
e cardiocircolatorie e di ricoveri per queste patologie
(Biggeri et al. 2004). Da sottolineare lo studio ha evidenziato che effetti più pronunciati nei mesi più caldi dell’anno e nelle persone anziane. Non si sono evidenziate
differenze tra uomini e donne.
Gli studi “a lungo termine”
hanno esaminato la mortalità
di popolazioni residenti in diverse aree ed hanno evidenziato che nelle popolazioni
esposte a livelli di inquinamento più elevati si registrano eccessi di mortalità per
molte patologie cronico-degenerative rispetto ai residenti in aree ove le concentrazioni di inquinanti erano
più basse. Tra gli studi più significativi, da citare quello di
Dockery, il così detto Six cities study che ha esaminato
la mortalità di 8.111 residenti
in 6 aree urbane seguiti dal
1974 al 1989. Questo studio
ha evidenziato un eccesso di
mortalità per tutte le cause e
in particolare per malattie
cardiocircolatorie e tumori
associati ad elevate concen-
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Le questioni ambientali e la salute
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Territorio 67
molte città e Regioni italiane
per indagare l’associazione tra
inquinanti del traffico veicolare e disturbi respiratori, ha
evidenziato che i bambini che
vivono in aree con traffico pesante hanno una maggiore
probabilità (circa il doppio) di
presentare disturbi come tosse e catarro. Il passaggio di
camion nella strada di residenza sembra essere l’indicatore che meglio correla con
l’aumento delle patologie respiratorie (Ciccone et al.
1998). L’importanza di questo
risultato è anche di tipo metodologico, in quanto mette
in evidenza che indicatori
“indiretti” di intensità di traffico, come il numero di veicoli
circolanti nella strada di residenza, risultano efficaci per
questo tipo di studi sulle patologie respiratorie. Da notare
che tali effetti sembrano essere più evidenti per le fasce
socio-economiche svantaggiate, nelle quali anche altre
condizioni “ambientali” potrebbero favorire lo sviluppo
di malattie.
Nell’insieme gli studi epidemiologici indicano che i livelli di inquinanti (in particolare del PM10) che attualmente
si registrano nella maggior
parte delle città italiane non
preservano dal rischio di malattia e che è urgente mettere
in atto misure adeguate a ridurre tali concentrazioni.
Nel 2006 sono stati pubblicati
i risultati del rapporto che
l’ufficio di Roma dell’Organizzazione mondiale della sanità
ha curato in collaborazione
con APAT (Agenzia nazionale
per la protezione ambientale
e servizi di assistenza tecnica) sull’impatto sanitario delle polveri fini (PM10) e dell’o-
zono in 13 città italiane tra
cui Firenze. Questo rapporto
ha fornito una stima del carico di morti attribuibili agli
inquinanti atmosferici, in
particolare al PM10; le stime
sono state effettuate a partire dai risultati degli studi sia
a breve che a lungo termine,
che hanno fornito la misura
di quanto aumenta la mortalità all’aumentare dei livelli
di inquinamento, tenendo
conto dei livelli degli inquinanti registrati nelle città in
esame nel 2002-2004.
Per quanto riguarda la mortalità a lungo termine, si è stimato che circa il 9% di tutte
le morti per cause naturali
siano attribuibili ai livelli di
concentrazione media annuale di PM10 superiori ai 20
µg/m3, valore che rappresenta il limite che la Comunità
europea aveva indicato come
obiettivo da raggiungere a
partire dal 2010 nella direttiva comunitaria 99/30/CE
(Gazzetta Ufficiale 1999). Le
cause di morte principali sono il tumore del polmone
(circa l’11,6% dei decessi per
questa causa sarebbero da attribuire all’inquinamento dell’aria), l’infarto del miocardio
(il 19,8% di tutti i decessi per
questa causa) e l’ictus cerebrale (il 3,3% dei decessi per
questa causa). Per quanto riguarda la mortalità a breve
termine, si è stimato che il
2,1% delle morti cardiovascolari, il 3,1% di quelle per malattie respiratorie sono da attribuirsi ai livelli di polveri
(PM10) superiori a 20 µg/m3.
Nel complesso l’OMS ha stimato che, nelle 13 città italiane, ai livelli di PM10 rilevati nel 2002-2004 sarebbero da
attribuire annualmente circa
A seguito delle evidenze epidemiologiche si è sviluppata la ricerca di tipo clinico e sperimentale per capire quali sono i
complessi meccanismi biologici che sono alla base dell’effetto
lesivo degli inquinanti, in particolare delle polveri. Si ipotizza,
ad esempio, che gli eventi coronarici possano essere conseguenza di un’aumentata viscosità plasmatica a seguito del rilascio, a livello dell’apparato respiratorio di sostanze (proteine
dell’infiammazione: citochine) che darebbero avvio ad una serie di stimolazioni a livello di organi, come il fegato e il midollo osseo, alla produzione di elementi corpuscolari e ematici e
fattori della coagulazione. Questi potrebbero accelerare il processo aterosclerotico e la comparsa della sindrome coronarica.
Si sono osservati anche disturbi del ritmo cardiaco + frequenti
nei giorni di più elevato inquinamento atmosferico e si ipotizza che gli inquinanti (NOx, CO e PM2,5) possano agire sui meccanismi nervosi che regolano la frequenza del battito cardiaco.
trazioni di alcuni inquinanti,
soprattutto di polveri fini
(PM10) (Dockery et al. 1993).
Lo studio dell’American Cancer Society (Pope 2002) ha
esaminato circa 500.000
adulti di varie aree urbane ed
ha mostrato, in particolare,
un’associazione tra esposizione alle polveri inferiori a 2,5
micron (che sembrerebbero
essere le più pericolose) e tumore del polmone. In quest’ultimo studio è stata presa
in considerazione anche l’abitudine al fumo, principale determinante del tumore polmonare; gli effetti sono quindi depurati dal possibile
confondimento dovuto al fumo. Un’associazione tra tumore del polmone ed inquinamento ambientale è stata
anche evidenziata nell’ambito dello studio Europeo EPIC
(European Prospective Investigation Into Cancer and Nutrition). Questo studio ha
esaminato un campione di
circa 520.000 cittadini europei non fumatori o ex fumatori, e ha mostrato che coloro
che sono maggiormente esposti agli inquinanti prodotti
dal traffico veicolare (l’esposizione era definita come il
vivere in prossimità di strade
ad alto volume di traffico),
hanno un rischio aumentato
di sviluppare un tumore del
polmone e che una quota tra
il 5% e il 7% dei tumori polmonari che si verificano in
non fumatori od ex fumatori
è da attribuirsi agli inquinanti del traffico (Vineis et al.
2007).
Sono stati anche studiati gli
effetti dell’inquinamento sulla salute dei bambini e ragazzi. In particolare sono state
studiate le malattie respiratorie ed allergiche, come eczema, riniti, asma. Lo studio
europeo ISAAC (International
Study of Asthma and Allergies
in Childhood) sulla prevalenza
dell’asma e altre malattie allergiche ha evidenziato che
alcuni disturbi, come la rinite
allergica, sono in aumento e
che ciò potrebbe essere la
conseguenza di peggiorate
condizioni ambientali (Bjorkstén et al. 2008). Lo studio
SIDRIA (Studio italiano sui
disturbi respiratori nell’infanzia e ambiente), condotto in
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Le questioni ambientali e la salute
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8.000 morti in più rispetto a
quelli che si potrebbero verificare se il PM10 non superasse la concentrazione di 20
µg/m3. Per quanto riguarda i
ricoveri ospedalieri, è stato
stimato che lo 0,7% di tutte
le ospedalizzazione per malattie cardiache è attribuibile
ai livelli di PM10 superiori ai
20 µg/m3, l’1,3% dei ricoveri
per malattie respiratorie, il
31,7% dei casi di bronchite
acuta nei bambini e ragazzi
sotto i 15 anni e l’1,7% delle
bronchiti croniche nei soggetti con più di 27 anni (WHO
2006).
In Italia attualmente i limiti
per le polveri fini e gli altri inquinanti (biossido di zolfo, il
biossido di azoto, gli ossidi di
azoto, le particelle e il piombo) sono definiti dalla direttiva comunitaria 99/30/CE, recepita in Italia con il Decreto
ministeriale n° 60/02. Per
quanto riguarda le polveri sono stati individuati due valori, la concentrazione media
annuale e la concentrazione
media giornaliera. Per il primo
indicatore, la media annuale,
è stato fissato il valore 40
µg/m3 mentre per il secondo
indicatore, il numero di giorni
con concentrazione superiori
a 50 µg/m3, è stato fissato il
valore 35 giorni (pari a circa il
10 % dei giorni dell’anno).
Questa direttiva poneva, come
detto, l’obiettivo di non superare, nel 2010, i 20 µg/m3 come media annuale.
Nella maggior parte delle
città italiane, tuttavia, i valori di concentrazioni delle polveri restano superiori ai limiti
stabiliti. Uno studio sulla
qualità dell’aria Euromobility
nel 2005 svolto in 14 città
italiane ha evidenziato che il
numero dei giorni in cui si registra un superamento della
concentrazione media giornaliera consentita è superiore al
limite stabilito e che in molte
città si sono registrate concentrazioni medie annuali
ben al di sopra di 40 µg/m3.
Le concentrazioni più elevate
sono state registrate a Firenze, Torino, Milano (Bertuccio
2005). Dati più recenti prodotti dalle Agenzie per l’ambiente non indicano cambiamenti rilevanti. In Toscana i
dati ARPAT segnalano che, se
in una buona parte dei casi la
qualità dell’aria è definita accettabile (sulla base delle
concentrazioni medie giornaliere di alcuni inquinanti (CO,
NOx, PM10), in pochissime
circostanze è da considerarsi
buona, e spesso cattiva o pessima (http://www.arpat.toscana.it/news).
È rilevante segnalare che
l’Organizzazione mondiale
della sanità ha presentato
nel 2006 nuove linee guida
per migliorare la qualità dell’aria raccomandando di non
superare, come media annuale, la concentrazione di 20
µg/m3 di PM10 e di 10
µg/m3 di PM2,5 (WHO 2006).
Fa invece discutere quanto è
stato recentemente stabilito
dalla nuova direttiva sulla
qualità dell’aria della Ue, che
andrà a sostituire quelle già
esistenti, direttiva che riporta il limite di concentrazione
media annuale a 40 µg/m3
per le polveri PM10 e a 25
µg/m3 per le polveri PM2,5.
Ciò costituisce un passo indietro rispetto alle direttive
precedenti, come è stato sottolineato da molti ricercatori
della materia ed in particolare dall’ERS (European Respi-
condizioni di svantaggio sociale, che comportano esposizione ad altri agenti nocivi
(esposizioni lavorative) ed
abitudini non salutari (maggiore abitudine al fumo). I risultati di questi studi sollecitano quindi la messa in atto di
interventi di contenimento
della mobilità e programmi di
prevenzione mirati a favorire
proprio le fasce di popolazione che ne potrebbero trarne
maggiore vantaggio. Migliorare la qualità dell’aria deve essere quindi considerato un
obiettivo sanitario assolutamente prioritario.
ratory Society) che afferma
che il limite proposto per le
polveri PM2,5 è inadeguato a
proteggere la salute specialmente delle persone più suscettibili, come i bambini e
coloro che soffrono di malattie respiratorie (Annesi-Maesano 2007).
Da sottolineare anche che, in
generale, i tentativi, quando
fatti, di correre ai ripari con
targhe alterne, blocchi parziali o totali della circolazione di automobili e motocicli
non hanno dato risultati soddisfacenti anche perché molto spesso i provvedimenti
hanno una durata di poche
ore e sono limitati ad ambiti
spaziali ridotti e ancora molto
elevato è il numero di esenzioni e deroghe e poco diffusa
la pratica dei controlli; quindi, nonostante tali sforzi,
molte città esauriscono i 35
giorni concessi di superamento già nei soli primi 3 mesi
dell’anno a dimostrazione che
misure isolate ed estemporanee, tipiche di una logica
emergenziale non sono in
grado, da sole, di risolvere il
problema che deve essere affrontato dalle amministrazioni in modo strutturale favorendo l’uso del mezzo pubbico
e l’abbandono dell’automobile
e sperimantando modalità alternative, come il trasporto
collettivo o la bicicletta.
Concludendo, sia dagli studi a
lungo termine, che dagli studi
sugli effetti acuti si desume
che all’inquinamento atmosferico urbano sono attribuibili
una quota di mortalità e morbosità che potrebbe essere
evitata. Emerge inoltre che le
condizioni di maggiore esposizione agli inquinanti atmosferici si associano talvolta a
I campi elettromagnetici
(CEM)
Un effetto della diffusa utilizzazione di nuove tecnologie è la sempre maggiore presenza di sorgenti di campi
elettromagnetici sul territorio e di conseguenza una crescente preoccupazione nella
popolazione per i possibili effetti sulla salute, in particolare quelli cancerogeni, derivanti da questa esposizione.
Nel controverso dibattito sulla cangerogenicità dei campi
elettromagnetici, la prima
cosa da chiarire, anche rispetto alle conoscenze sugli
effetti per l’uomo, è la distinzione tra “campi elettrici e
magnetici statici ed a frequenze estremamente basse
(ELF) ” e i campi magnetici
“ad alta frequenza” e cioè le
radiofrequenze (RF) e le microonde (MO). Gli ELF sono i
campi generati dai sistemi
per la distribuzione dell’energia elettrica, primi fra tutti
gli elettrodotti, e dall’utilizzo
di apparecchiature elettriche
come ad esempio gli elettrodomestici (50 Hz per la rete
N. 167 - 2008
Le questioni ambientali e la salute
La IARC, nella monografia n° 80 del 2002 (IARC 2002) ha così valutato l’associazione tra esposizione a campi elettromagnetici ed insorgenza di tumore:
– limitata evidenza di cancerogenicità per l’uomo per i campi magnetici ELF per quanto riguarda la leucemia infantile
– inadeguata evidenza di cancerogenicità per l’uomo per i campi magnetici ELF per quanto riguarda tutti gli altri tumori
– inadeguata evidenza di cancerogenicità per l’uomo per i campi
elettrici e magnetici statici e per il campo elettrico ELF
Tab. 1
– inadeguata evidenza di cancerogenicità negli studi sperimentali su
animali per i campi magnetici ELF
– non vi sono dati di rilevo sulla cancerogenicità per l’animale in studi sperimentali per il campo elettrico o magnetico statico e campo
elettrico statico ELF
europea). I campi elettromagnetici ad “alta frequenza”
sono generati dalle antenne
per le trasmissioni radio e televisive, dalle stazioni radio
base e dall’utilizzo dei telefoni cellulari, nonché da apparecchiature o dispositivi utilizzati in alcune particolari
situazioni lavorative.
Per quanto riguarda i campi
magnetici ELF, le evidenze
epidemiologiche forniscono
un quadro di conoscenze ampio che si basa su studi che
hanno adottato tecniche e
metodologie progressivamente sempre più adeguate a definire l’esposizione, e che
permettono di affermare che
esiste un’evidenza di associazione tra leucemie infantili
ed esposizione a livelli di
campo di intensità elevata e
non comune – al di sopra degli 0.3-0.4 microtesla (µT) –
anche se la natura causale di
tale associazione non è stata
ancora stabilita con certezza,
soprattutto per la non comprensione dei meccanismi
biologici, per la negatività
degli studi di cancerogenicità
sull’animale. In tal senso si è
espressa l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro
(IARC) di Lione che, sulla base delle evidenze disponibili
al 2001, ha classificato i campi magnetici ELF nel gruppo
2B ovvero “possibili cancerogeni per l’uomo” e nel gruppo
3 ovvero “non classificabili
per la loro cancerogenicità
per l’ uomo” i campi elettrici
e magnetici statici ed il campo elettrico ELF (IARC 2002).
La valutazione della IARC è
stata ripresa e condivisa dalla
Commissione “Cancerogenesi
ambientale” della Lega per la
Lotta contro i tumori (LILT)
che ha pubblicato nel 2004
un rapporto sul rischio cancerogeno derivante dall’esposizione a campi magnetici a
bassa frequenza (LILT 2004).
Ad oggi non sono stati riportati altri dati tali da modificare il quadro di riferimento,
e in tal senso si è espressa
l’Organizzazione mondiale
della sanità (l’OMS) nel recente volume Extremely low
frequency fields pubblicato
nel 2007 (WHO 2007). In questa monografia viene ribadita
la valutazione della IARC di
“evidenza limitata” sulle leucemie infantili e si ribadisce
anche l’inadeguatezza dei dati epidemiologici per la valu-
tazione dell’associazione tra
ELF e altri tumori. Nelle conclusioni di questa monografia
vengono riportate le evidenze disponibili non solo gli effetti cancerogeni ma anche
per altri possibili effetti che
sono stati associati a questa
esposizione.
Per quanto riguarda i tumori
nell’ adulto successivamente
alla monografia IARC sono
stati pubblicati vari studi sul
rischio di tumore alla mammella nelle donne; questi
nuovi studi più ampi dei precedenti e meno sensibili ad effetti di distorsioni, risultano
nel complesso negativi. Per
quanto riguarda i tumori cerebrali e le leucemie dell’ adulto, i nuovi studi condotti dopo il 2002 non hanno modificato la conclusione per cui l’evidenza di un’associazione tra
campi ELF e rischio per questi
tumori rimane inconclusiva.
Per le altre patologie e altre
forme di tumori l’evidenza rimane comunque inadeguata.
Sempre nelle conclusioni del
volume dell’ OMS viene detto
che: “i nuovi studi sull’uomo,
su animale ed in vitro, pubblicati dopo la monografia IARC
del 2002, non cambiano la
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Territorio 69
classificazione complessiva
del campi magnetici ELF come
possibile agente cancerogeno
per l’uomo” (WHO 2007).
Più scarse sono le conoscenze
sulle radiofrequenze. Le conoscenze derivanti da studi
di popolazione residenti in
prossimità di trasmettitori
radio-televisivi e da studi su
esposti a radiofrequenze per
motivi lavorativi non hanno
prodotto risultati univoci
(LILT 2006). Alcuni studi sono in corso da cui ci si augura
che emergano maggiori elementi di comprensione e valutazione. Gli studi recenti si
sono concentrati sul possibile
rischio di tumore, in particolare quello cerebrale, in utilizzatori di telefoni cellulari.
Tra le ricerche attualmente in
corso va ricordato lo studio
internazionale INTERPHONE,
coordinato dalla IARC (Cardis
2007) a cui hanno partecipato ben 13 Nazioni tra cui l’Italia. Questo studio multicentrico si è posto come
obiettivo principale quello di
stimare l’incidenza di neoplasie maligne e benigne cerebrali e delle ghiandole salivari in relazione con l’ uso del
telefono cellulare e con l’intensità di esposizione alle RF
utilizzate nella telefonia mobile. Lo studio ha incluso
2600 gliomi (tumori della
glia, il tessuto di rivestimento del sistema nervoso periferico), 2300 meningiomi (tumori delle meningi), 1100
neurinomi acustici (tumori
del nervo acustico), 400 tumori delle parotidi e un altrettanto numero di controlli.
Recentemente sono stati
pubblicati i primi risultati relativi ad alcuni dei paesi
coinvolti ed è disponibile nel
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70 Territorio
Le questioni ambientali e la salute
N. 167 - 2008
sito della IARC l’ aggiornamento e la valutazioni sui
primi risultati (IARC 2008).
Per quanto riguarda i gliomi,
sia lo studio dei Paesi nordici
che quello inglese mostrano
un rischio aumentato associato all’uso di cellulari per
più di 10 anni (con omolateralità tra uso del telefono e
parte della testa ove il tumore si è sviluppato). Si afferma
che questa associazione potrebbe essere causale, ma non
si esclude che sia dovuta ad
artefatti (problemi di recall
bias). Nello studio giapponese si è cercato di determinare
il massimo quantitativo di RF
assorbita a livello della localizzazione del tumore, tale
analisi ha portato ad un OR di
1.55 (IC 95%, 0.57-4.19) associato al più elevato quartile
di esposizione cumulativa e
basato su 15 esposti.
Per il meningioma e neurinoma acustico, la maggior parte
degli studi forniscono poca
evidenza di aumento di rischio anche se, considerando
il pool dei dati dei Paesi nordici, si osserva un aumento di
rischio di neurinoma acustico
per durata di uso di 10 o più
anni rispetto a dove si è sviluppato il tumore. Anche in
questo caso non si esclude
che il risultato possa dipendere da artefatti (problemi di recall bias).
Per il tumore alle parotidi,
non si è osservato alcun incremento di rischio. In un’analisi combinata dei dati svedesi e danesi un incremento
di tumori benigni, non-significativo statisticamente, é
stato evidenziato, anche in
questo caso omolateralmente, per chi ha dichiarato di
usarlo da più di 10 anni; an-
che in questo caso non viene
escluso un possibile effetto di
recall bias. Anche lo studio
condotto in Israele, suggerisce una possibile relazione
tra uso di cellulari e rischio di
questo tipo di tumore. Sono
in corso approfondimenti dei
singoli studi e l’analisi congiunta dei dati dei diversi
Paesi.
Ogni volta che i risultati delle
ricerche non sono univoci, la
valutazione del rischio (risk
assessment) è esercizio assai
complesso. Per tale motivo la
valutazione del rischio derivante dall’esposizione a ELF e
radiofrequenze è stata materia assai controversa. Innanzi
tutto è necessario fare una
distinzione tra ELF e radiofrequenze, alla luce delle diverse
evidenze disponibili. Per
quanto riguarda l’esposizioni
ad ELF i dati scientifici, come
ricordato nel recente volume
della OMS, suggeriscono che
esposizioni a campi elettromagnetici al di sopra dei 0.30.4 µT possono rappresentare
un rischio per la salute per
un coerente quadro di aumento di leucemie infantili
anche se permangono incertezze sulla causalità delle associazioni evidenziate per
possibili distorsioni e misclassificazione delle esposizioni. Pur in presenza di queste incertezze negli studi epidemiologici e in assenza del
supporto di dati di laboratorio, “ nel complesso l’evidenza, anche se non abbastanza
forte, da far considerare come
causale la relazione, è abbastanza forte da rimanere motivo di attenzione” (WHO
2007). In questa situazione
“l’uso di approcci precauzionali appare quindi giustifica-
fusione di telefoni cellulari in
queste età. Questa preoccupazione del resto era già stata
formulata da Independent Expert Group on Mobile Phones
in UK ed è stata recentemente
condivisa dal Ministere de la
Santè, de la Jeuness et des
Sports francese.
Nelle raccomandazioni della
LILT viene anche esplicitata
la necessità di conoscere quali siano i livelli di esposizioni
delle popolazioni al fine di
favorire il risanamento delle
situazioni peggiori quanto a
esposizione (vicinanza a ripetitori radio TV e a grossi
centri di trasmissione), e infine si auspica che le nuove
istallazioni siano realizzate
in modo da minimizzare l’esposizione.
A questo proposito va ricordata l’intensa attività svolta nella Regione Toscana dall’Agenzia regionale per la protezione
ambientale (ARPAT) e dalle
ASL. Tale attività è stata peraltro presa in rassegna dalla
“Task-force regionale sui campi elettromagnetici”, che ha
operato tra il 2002 ed il 2004
con il compito di effettuare
una rassegna critica delle conoscenze scientifiche disponibili e consolidate, di effettuare un censimento della situazione dei dati sull’esposizione
in Toscana e di esaminare i
dati alla luce delle normative
in materia in modo da fornire
informazioni alla popolazione
e alle amministrazioni (Regione Toscana 2004).
to” (WHO 2007). Nel volume
dell’ OMS vengono esplicitate
alcune raccomandazioni indirizzate tra l’altro a chi ha la
responsabilità delle politiche
sanitarie che tenendo conto
da una parte anche gli effetti
di beneficio della tecnologia
(in questo caso dell’ elettricità) dovrebbero prendere in
considerazione aspetti legislativi e di modifiche di progettazione degli impianti,
anche di quelli esistenti, per
ridurre le esposizioni dovute
ad impianti ed apparecchi. Le
autorità nazionali dovrebbero
inoltre mettere in atto efficaci strategie di comunicazione, affinché le informazioni
sulle decisioni prese siano
fruibili da tutte le parti interessate; per migliorare inoltre
la progettazione di impianti
che creano campi magnetici
dovrebbero essere migliorate
le procedure di consultazione
tra industria, governo locale
e cittadini nelle decisioni sulla collocazione di sorgenti
importanti. Governi ed industria dovrebbero inoltre promuovere programmi di ricerca
per ridurre l’incertezza nella
conoscenza scientifica (WHO
2007).
Per quanto riguarda l’esposizione alle radiofrequenze su
cui gli studi condotti sono ancora relativamente pochi, ricordiamo le raccomandazioni
espresse nel volume sulle radiofrequenze della Commissione oncologica della LILT
(LILT 2006) ove viene ribadita
la necessità di disporre di ulteriori dati in particolare dei
risultati dello studio INTERPHONE e si raccomanda di
estendere la valutazione degli
effetti sui i bambini e adolescenti, data la crescente dif-
Rifiuti
Nonostante l’Unione europea
chieda a gran voce di prevenire, ridurre, riutilizzare, riciclare i rifiuti, l’Italia sembra
impegnata in una gara al rial-
N. 167 - 2008
zo: “La produzione nazionale
di rifiuti urbani si attesta,
nell’anno 2006, a 32,5 milioni
di tonnellate con un incremento, rispetto al 2005, superiore al 2,7% (quasi 860 mila tonnellate). Tra il 2000 ed
il 2006 la produzione nazionale è aumentata, in valore
assoluto, di oltre 3,5 milioni
di tonnellate, corrispondenti
ad una crescita del 12,3% circa” (APAT, 2007). Eppure Germania e Olanda sono riuscite
a “disaccoppiare” la produzione di rifiuti dalla crescita economica, diminuendo la produzione di rifiuti, mentre la
crescita, per quanto contenuta, è proseguita.
Invece in Italia “il prodotto
interno lordo cresce tra il
2003 ed il 2006, del 3,2% circa e le spese delle famiglie
del 2,9%, a fronte di un incremento percentuale della
produzione di RU (rifiuti urbani) dell’8,3% circa.
Nel 2006 ciascun abitante del
centro produce 638 kg, al sud
supera la soglia dei 500, con
509 kg per abitante per anno,
al nord si attesta sui 544 kg.
Il 50% dei rifiuti urbani finisce nelle discariche, il 12% in
inceneritori, e sono le modalità meno consigliate secondo
la “gerarchia dei rifiuti”.
I problemi che stanno dietro
a queste cifre sono difficili da
dipanare, e al momento in
Italia sono occultati dalla crisi della Regione Campania,
che focalizza l’attenzione e
smuove emozioni di ogni tipo. Troppo spesso la reazione, quasi di sollievo, ci fa
pensare “da noi non è così”.
In realtà in diverse occasioni
si sono sollevati i problemi
dietro l’angolo, in particolare
le discariche piene fino all’or-
Le questioni ambientali e la salute
Sae l ute
Territorio 71
Fig. 1. La gerarchia dei rifiuti.
lo, soprattutto nei grandi
centri urbani, e i molti inceneritori di vecchia generazione ancora attivi tra i 50 operanti in Italia, la maggior
parte collocati nel centronord. È da siti di discarica e
inceneritori che possono derivare problemi di salute per
le comunità locali, che sono
sotto controllo da anni in diversi Paesi, e che hanno sollecitato l’attenzione dei ricercatori anche in Italia.
La situazione che si è creata
in Campania effettivamente
non è riconducibile a nessun'altra conosciuta, simbolo
dell'emergenza che si trasforma in routine e che genera
paralisi successive, nella gestione dei rifiuti e nella gestione del territorio. E la
compromissione del territorio
è così pervasiva, come dimo-
stra la mappa delle discariche
illegali - 1224 nelle sole provincia di Napoli e Caserta - da
avere sollecitato una seria attenzione negli ultimi anni,
soprattutto da quando ben 61
Comuni della Campania sono
entrati a far parte nel 2000
del Sito di interesse nazionale – SIN – per le bonifiche
“Agro Aversano e Litorale Domizio-Flegreo”, gestito dal
Ministero dell’ambiente con
l'obiettivo del risanamento,
cresciuti fino agli attuali 75
Comuni nei 4 SIN della Campania. I ricercatori convocati
dall’Organizzazione mondiale
della sanità su richiesta della
Protezione civile nel 2004
hanno cominciato a lavorare
sui dati disponibili, sulle carte dell’illegalità, sulla base
delle denunce e delle ricerche
che le Commissioni parla-
mentari hanno messo insieme
negli ultimi anni, raccogliendo i primi dati sulla salute.
Le autorità responsabili del
controllo dell’ambiente hanno cominciato a fornire dati,
ad accompagnare le attività
dei Commissari che si sono
succeduti dal 1994 per la gestione dei rifiuti e il Ministero dell’ambiente incaricato
delle bonifiche, e si sono moltiplicati i dati a disposizione
per consolidare le osservazioni elaborate fino ad oggi.
Nelle Regioni italiane, gli sviluppi vanno in direzioni diverse: in Toscana, nel 2004, l’Amministrazione provinciale di
Firenze aveva commissionato
all’Agenzia sanitaria regionale
una Valutazione di impatto
sanitario del proprio Piano di
gestione dei rifiuti, che comprendeva un nuovo impianto
l ute
Sa
e
72 Territorio
Le questioni ambientali e la salute
N. 167 - 2008
di incenerimento a Firenze,
cercando contestualmente il
consenso dei Comuni e il coinvolgimento dei cittadini; ciò
ha consentito un allargamento del dibattito unico nel panorama nazionale. Forti tensioni si segnalano negli ultimi
mesi in aree dove sono in discussione nuovi impianti come a Bolzano ed Acerra, tanto
per fare due esempi diversi e
distanti tra loro ma accomunati da tratti che occorrerà affrontare con attenzione e
competenza. Infatti, si tratta
di andare oltre la sindrome di
NIMBY (“not in my back yard”
o “o non nel retro del mio
giardino”), troppo spesso
semplificata o stereotipata in
modo inaccettabile, senza vedere che molte posizioni non
sono contrarie ad un impianto
nel giardino e favorevoli allo
stesso nel giardino del vicino,
ma sono vogliose di capire i
perché della scelta, la sua collocazione nel ciclo dei rifiuti,
la presenza o meno di garanzie di gestione e controllo: in
una parola la partecipazione.
Per affrontare in modo organico il complesso dei problemi la Regione Emilia-Romagna, che ha otto impianti sul
proprio territorio, ha promosso un ampio studio sugli impatti degli inceneritori su
ambiente e salute (www.arpa.emr.it/moniter). La Regione Sicilia ha dal 2002 un piano per la costruzione di cinque impianti di incenerimento di grande portata, con
controversi iter di approvazione, sia a livello nazionale
che di contestazioni da parte
della Unione europea. Di recente la Regione ha costituito un Comitato scientifico a
garanzia dell’attuazione del
Sistema di gestione integrata
dei rifiuti solidi urbani della
Regione siciliana, che ha suscitato qualche polemica per
le sue uscite in difesa degli
inceneritori, come soluzione
a rischio zero.
Questo del rischio zero è uno
dei problemi più spinosi, perché, se si considerano nozioni
di base di termodinamica e di
biologia la tentazione sarebbe
di liquidarlo con la semplice
asserzione che nessuna macchina termodinamica è priva
di emissioni e quindi non può
esistere il rischio zero ma
semmai un rischio basso. Sul
tema della minimizzazione e
gestione del rischio non possiamo entrare ma vale la pena
di elencare almeno tre elementi con cui non si può fare
a meno di fare i conti:
a) la crescita delle conoscenze produce continui spostamenti delle soglie di
emissione e di concentrazione considerate protettive per la salute, fatto che
ha come conseguenza che
le esposizioni considerate
non a rischio fino ad una
certa data diventano a rischio dal giorno dopo (due
casi eclatanti nella storia
sono quello delle radiazioni ionizzanti e quello dell’asbesto). Questa osservazione dimostra empiricamente l’opportunità di
considerare la rincorsa tra
crescita della conoscenza
scientifica e adeguamenti
normativi, che spesso
stentano ad adeguarsi alle
conoscenze o lo fanno
molto in ritardo, come percorso virtuoso prima che
come obiettivo assoluto a
cui tendere. In questo modo l’opzione di riferimento
ti nel disegno e nella capacità di definire l’esposizione, anzi le esposizioni,
realmente esistenti;
c) il rischio di esposizioni
croniche ad inquinanti
persistenti, anche a basse
concentrazioni, ma che sono per loro natura soggetti
a bassa biodegradazione
ed elevato accumulo in
tessuti e organi, rappresenta un piano ben diverso
e quindi distinto da quello
dell’esposizioni acute ad
inquinanti non persistenti. Per questo motivo sono
di importanza crescente
gli studi basati su misure
di biomarcatori di esposizione che consentono di
stimare l’esposizione attraverso misure di assorbimento di dose interna
(Bianchi 2006).
teorico rimane quello di
portare a zero la massima
concentrazione accettabile
di qualsiasi sostanza cancerogena, il così detto
“MAC zero” di Giulio Maccacaro (Maccacaro 1976),
mentre sul piano operativo
si liberano possibilità ed
energie per utilizzare strumenti nuovi come il principio di precauzione e le valutazioni preventive di impatto, che altrimenti rischiano di rimanere imprigionati in un asfittico dibattito filosofico o peggio
essere respinti sul piano
politico (si usa volutamente la p minuscola);
b) la gestione del rischio è
più complessa e difficile
nel caso di malattie cronico-degenerative ad eziologia multifattoriale, soggette al modello probabilistico. In questo contesto l’uso del modello deterministico è un errore concettuale (riduzionismo) che
produce un quadro completamente distorto: ad
esempio, se in una comunità residente in aree con
siti illegali di smaltimento
di rifiuti pericolosi viene
osservato un eccesso di
mortalità per tumore al
polmone, l’interpretazione
non potrà essere semplicemente che l’eccesso dipende dal fumo, così come
non è consentito chiudere
sui soli rifiuti il nesso causa-effetto al quale parteciperanno con peso diverso
più fattori. La valutazione
del peso dei fattori causali
e di quelli di confondimento e di modificazione
sarà il compito di studi
epidemiologici più avanza-
Stato delle conoscenze
Sul tema degli effetti di discariche e inceneritori sulla
salute umana sono stati pubblicati molti lavori scientifici
ed alcune rassegne bibliografiche che danno un quadro
piuttosto ricco e aggiornato
dello stato delle conoscenze
(Vrijheid 2000, Enviros-Defra
2004, Rushton 2003, Franchini 2004, Linzalone et al.
2007, Linzalone et al. 2004,
Bianchi et al. 2006, Linzalone
e Bianchi 2007).
Discariche
Risultati solidi e suggestivi di
rischio moderato di basso peso alla nascita per gravidanze
di residenti in aree con siti di
rifiuti. Il basso peso è ben rilevato e registrato ma è esposto a diversi potenziali
confondenti. La maggior parte dei lavori scientifici ripor-
N. 167 - 2008
ta eccessi moderati (Vrijheid
2000), a partire da quello su
Love Canal, fino a quello di
Elliott in Inghilterra che ha
mostrato un eccesso di rischio del 5% dopo l’apertura
dei siti di discarica (Elliott et
al. 2001).
Risultati moderatamente
consistenti tra loro sono suggestivi di un rischio di
malformazioni congenite,
specie di alcuni tipi più frequentemente riportati e con
maggiore plausibilità di eziologia multifattoriale con implicazione di una componente ambientale.
In particolare sono da citare
due studi estesi: lo studio su
9.565 siti in Gran Bretagna
(Elliott et al. 2001) e lo studio
EUROHAZCON su 23 siti in Europa (Dolk 1998, Vrijheid et
al. 2002), evidenziano incrementi di rischio di malformazioni congenite totali e specifiche, con stime meno elevate
da parte del primo (< 10% per
le MC totali in nati entro 2 km
dal sito) e stime più elevate
da parte del secondo (> 30%
per le MC totali in nati entro 3
km dal sito), che riporta anche eccessi rilevanti (tra +49%
e +96%) per alcune anomalie
specifiche quali i difetti del
tubo neurale, difetti cardiaci
conotroncali, ipospadia, gastroschisi (ripetutamente riportati nella precedente letteratura) e anche anomalie cromosomiche, eziologicamente
più difficili da interpretare
(Vrijheid et al. 2002). Inoltre,
un recente studio su 196 Comuni della regione Campania
ha evidenziato eccessi statisticamente significativi di rischio di malformazioni del sistema nervoso centrale e dell’apparato urinario, con incre-
Le questioni ambientali e la salute
menti rispettivamente dell’8%
e del 14% al crescere di un indice di rischio da rifiuti categorizzato in 5 classi (Aa.Vv.
2007).
Per quanto attiene la mortalità, in 593 siti negli USA inclusi nella lista nazionale di
priorità erano segnalati eccessi di mortalità per tumori
di polmone, vescica, stomaco
(senza aggiustamento per
confondenti), in contee con e
senza siti (Johnson 1999).
In Campania, in aree ad elevata intensità di discariche
autorizzate e illegali (1240
siti censiti) sono stati evidenziati eccessi di mortalità
per tumore di stomaco, rene,
fegato, polmone e pleura
(Comba et al. 2006). Uno studio più avanzato su 226 siti
di smaltimento di rifiuti in
196 Comuni campani, basato
su un indice di pericolosità
da rifiuti con aggiustamento
per indice di deprivazione, ha
evidenziato diverse criticità:
la mortalità totale in 5 categorie di Comuni con indice
crescente di pressione da rifiuti mostra un incremento
medio significativo del 2% in
entrambi i sessi. Trend di rischio crescente sono emersi
per tutti i tumori (+1% in entrambi i sessi), per il tumore
del fegato (+8% negli uomini
e +7% nelle donne), per il tumore polmonare (+2%) e gastrico (+5%) negli uomini
(Aa.Vv. 2007). Entrambi gli
studi hanno identificato
gruppi di Comuni a maggior
rischio, localizzati tra le province di Caserta e di Napoli, e
inclusi nel sito di bonifica
“Litorale domizio-flegreo,
agro-aversano” e nella penisola sorrentina.
In uno studio condotto in 6
Comuni toscani con altrettante discariche sono emersi
eccessi di mortalità per tumore del fegato (solo maschi)
e mammella, e malattie cerebro e cardio-vascolari (Minchilli 2006) e per tumore di
polmone, pleura, laringe, vescica, fegato, cervello e malattie cardiovascolari in tre
Comuni della Campania con
siti multipli di diverso tipo
(Altavista et al. 2004). Uno
studio condotto in Inghilterra, controllato per alcuni
confondenti, non ha riportato eccessi di rischio per tumori di vescica, cervello, fegato e leucemie (Jarup et al.
2002).
Inceneritori
Sull’impatto ambientale e sanitario degli inceneritori esiste una corposa letteratura
scientifica prodotta in oltre
40 anni, in relazione a microinquinanti indicati come
più pericolosi tra quelli prodotti dalla combustione dei
rifiuti, quali diossine e furani, cadmio, mercurio ed altri
metalli pesanti, IPA oltre a
CO, NOx, e polveri. Sull’argomento ci sono rassegne bibliografiche recenti (Rushton
2003, Franchini et al. 2004,
Enviros-Defra 2004).
Numerosi studi epidemiologici, che hanno esaminato l'impatto di impianti in funzione
negli anni '70 e '80, hanno
segnalato disturbi e patologie
soprattutto dell'apparato respiratorio nonchè alterazioni
di biomarcatori di esposizione nei lavoratori addetti agli
impianti.
Segnalazioni ripetute hanno
riguardato eccessi di mortalità
e d'incidenza per tumori del
polmone, dell'apparato dige-
Sae l ute
Territorio 73
rente, del fegato, dei reni, del
pancreas. Uno studio metanalitico ha segnalato un moderato eccesso di mortalità per
linfoma non-Hodgkin (LNH)
nei maschi in 25 Comuni italiani con inceneritori (Bianchi
2006), uno studio caso-controllo ha riportato un incremento di sarcomi dei tessuti
molli (STM) (Comba 2003) e
uno studio di prevalenza in un
comune con un inceneritore
attivo negli anni ’80 ha segnalato un incremento di LNH e
STM (Biggeri e Catelan 2005).
Sugli inceneritori di vecchia
generazione si dispone di risultati poco confrontabili tra
loro e che hanno dato luogo a
risultati scarsamente consistenti che tuttavia suggeriscono incrementi di rischio
per alcune patologie tumorali
e riproduttive, anche se non è
quantificata la quota attribuibile ad esposizioni specifiche.
Sugli inceneritori più recenti
si dispone di pochi studi epidemiologici, inadatti a valutare il rischio di patologie
con periodi di latenza lunga.
Alcuni degli studi recenti
hanno permesso di apprezzare differenze di impatto tra
vecchi e nuovi impianti ed
anche il contributo relativo
degli impianti in aree gravate
da più fonti di inquinamento.
Da altri lavori recenti, che si
sono avvalsi di biomarcatori
di esposizione (soprattutto in
sangue, urine e latte materno) e/o indicatori di alterata
attività/funzione fisiologica
(funzionalità epatica ed endocrina, espressione genica,
addotti al DNA), emergono
differenze di impatto per i residenti intorno a impianti
vecchi e nuovi, incrementi
dei valori di biomarcatori di
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Sa
e
74 Territorio
Le questioni ambientali e la salute
N. 167 - 2008
diossine in residenti intorno
a vecchi impianti e livelli alterati di biomarcatori di
esposizione a diossine e metalli in lavoratori addetti ad
operazioni di manutenzione
e pulizia in impianti moderni.
Occorre segnalare che diversi
studi non hanno evidenziato
associazioni di rischio.
Il quadro conoscitivo risulta
quindi ricco ma al contempo
frastagliato: l’eterogeneità
delle circostanze oggetto di
indagine, la mancanza o insufficienza di dati tecnici sugli impianti studiati, la povertà di definizione dell’esposizione, la non correzione per
effetti confondenti di primaria importanza, come lo stato
socio-economico, gli effetti
della bassa potenza di studio,
specie in situazioni caratterizzate da popolazioni poco
numerose nelle quali si studiano condizioni rare.
Vogliamo infine sottolineare
che gli studi più recenti si caratterizzano per una maggiore attenzione allo studio dell'esposizione. La valutazione
dell’esposizione si evolve grazie alle procedure di monitoraggio biologico per dosare
diossine, policlorobifenili
(PCB) e metalli pesanti in
sangue, latte materno, capelli, tessuti.
I risultati più importanti sinora raggiunti hanno riguardato soprattutto le esposizioni professionali, anche
documentando i benefici derivanti dalle tecnologie più
evolute e da un appropriato
utilizzo dei dispositivi di
protezione personale.
Sul versante ambientale, è da
segnalare la grande attenzione posta sul tema del nanoparticolato, in considerazio-
ne della pericolosità delle
particelle ultrafini di adsorbire sostanze tossiche e di veicolarle fino agli alveoli polmonari e da qui nel sangue
(Cormier et al. 2006, Linzalone e Bianchi 2007).
In Italia lo studio con disegno epidemiologico più avanzato è stato condotto a Coriano di Forlì (Ranzi et al.
2006), ed ha improntato il
progetto Moniter, relativo
agli otto inceneritori dell’Emilia Romagna (www.arpa.
emr.it/moniter).
Un recente workshop promosso dal Centro europeo ambiente e salute dell’Organizzazione mondiale della sanità
(Population health and waste
management: scientific data
and policy options, Rome, 2930 march 2007) ha fatto il
punto sullo stato delle conoscenze.
Il quadro conoscitivo riguarda in particolare gli inceneritori che hanno operato negli
anni Sessanta e Settanta, caratterizzati dall’eterogeneità
del combustibile usato, dalle
basse temperature di combustioni e dalla scarsa efficienza degli impianti di abbattimento, condizioni favorenti
notevoli emissioni di numerosi agenti tossici con ricadute localizzate in territori circoscritti oltre che a lungo
raggio. Gli studi su popolazioni residenti hanno mostrato la presenza di alcuni effetti avversi, in particolare incrementi di sarcomi dei tessuti molli e di linfomi non
Hodgkin.
Nelle aree limitrofe inceneritori di nuova generazione ci
si avvale oggi dei modelli di
diffusione e ricaduta accoppiati alle misure di emissione
essere in grado di dialogare
con tutti i portatori di interesse (Cori 2006).
Per concludere, poiché molte
situazioni di contaminazione
ambientale sono caratterizzate da una insufficiente conoscenza degli inquinanti, dei
processi di inquinamento,
delle modalità di esposizione
e dei rischi potenziali, è appropriato adottare un approccio multidisciplinare e un sistema di indagine basato su
priorità, da definire sulla base delle evidenze sull’associazione tra effetti sanitari e
fattori di rischio. Poi la sorveglianza in continuo fornirà
nuovi elementi utili per confermare o modificare le priorità di intervento.
e al suolo per valutare l’omogeneità di inquinamento nei
territori adiacenti, come è
stato visto ad es. nel caso del
nuovo inceneritore di Barcellona (Gonzalez et al. 2000).
È comunque fondamentale
che venga implementato un
opportuno piano di monitoraggio ambientale, i cui risultati siano periodicamente illustrati alla popolazione. Accanto a questo è opportuno
attivare sistemi di sorveglianza epidemiologica con la
finalità di cogliere eventuali
problemi imprevisti consentendo di attivare misure correttive (Bianchi 2006).
In questi contesti, si rende
necessaria l’attivazione di un
sistema di Sorveglianza epidemiologica adatto per aree
con pressioni ambientali
(SEAPA), in grado di monitorare l’andamento spaziale e
temporale dello stato di salute delle popolazioni residenti
e di gruppi vulnerabili e suscettibili.
Il SEAPA deve essere dotato di
quattro funzioni per conoscere, interpretare e comunicare
la relazione ambiente-salute:
– deve essere in grado di misurare specifici fattori di pericolo e di rischio, esposizioni
ed esiti sanitari; – deve basarsi su un flusso di dati routinari (diversi da quelli ottenibili dalle indagini ad hoc che
forniscono un diverso contributo rispetto alle attività di
sorveglianza); – deve produrre dati adatti a definire, programmare, valutare le attività
di tutela e promozione della
salute pubblica; – deve dotarsi di strumenti di conoscenza
ed analisi del contesto locale
in materia di percezione dei
rischi e comunicazione, per
Conclusioni
La ricerca epidemiologia sui
rischi ambientali ha prodotto
importanti risultati nonostante le numerose difficoltà
“tecniche” dal momento che
si tratta di studiare gli effetti
di esposizioni composite, diffuse, difficili da quantificare.
Su alcune questioni ambientali il corpo delle conoscenze
disponibili è tale da motivare
interventi urgenti di risanamento per tutelare la salute.
In altri casi è necessario sviluppare ulteriori approfondimenti per definire la natura
I risultati delle ricerche
non sono mai definitivi.
Ai ricercatori il compito di
continuare a studiare, di
approfondire, di misurare
e produrre “evidenze”, ma
anche il compito, arduo,
di comunicare i risultati
del proprio lavoro nel modo più rigoroso possibile.
N. 167 - 2008
causale delle associazioni individuate. In ogni caso appare necessario di tenere attivi
sistemi di monitoraggio ambientale e sorveglianza epidemiologica per valutare le
priorità degli interventi di
prevenzione. Va sottolineato
un ulteriore elemento di criticità, quello della comunicazione dei risultati.
Comunicare i risultati su argomenti non risolti (e in
quanto tali, oggetto di studio) è arduo perché la ricerca
di per sé produce risultati
provvisori, di difficile interpretazione soprattutto quando discordanti. In queste cir-
Le questioni ambientali e la salute
costanze di incertezza scientifica, la valutazione sull’esistenza o meno di un rischio
reale per la popolazione è cosa assai delicata e complessa
e di conseguenza, per molte
tematiche ambientali sono
state fatte valutazioni e prese posizioni molto diversificate, da posizioni che hanno
minimizzato la portata dei risultati (magari per non creare allarmi, che, alla luce dei
dati, non parevano giustificati) a posizioni allarmistiche (talvolta per suscitare
interesse da parte dei mass
media). Gli epidemiologi
hanno tentato di sottolinea-
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Sae l ute
Territorio 75
Alla fine spetta ai politici e agli amministratoori il compito di
prendere decisioni sulla base sia delle conoscenze scientifiche
disponibili sia della conoscenza dei complessivi bisogni dei
cittadini in un processo decisionale in cui scienza e democrazia sono la migliore arma per tutelare la salute della popolazione, specialmente delle fasce più deboli.
re l’esistenza di associazioni
e al tempo stesso, la non certezza dei nessi causali, indicando la necessità di monitorare i fenomeni nel tempo. I
messaggi e le posizioni più
articolate non sempre sono
risultate efficaci e per lo più
il dibattito su temi controversi, quale quello dei campi
magnetici, ha visto contrapporre posizioni “negazioniste” a quelle “sensazionalistiche”. Ciò non ha favorito
né il dibattito scientifico, né
la decisione di interventi di
ambientali e sanitari. Anche
in presenza di incertezza
scientifica è, però, necessario prendere decisioni.
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La cultura e la risposta legislativa
all’uso e all’abuso di droghe
I SERVIZI
PER LE DIPENDENZE
PATOLOGICHE
Il contesto storico in cui il fenomeno si è sviluppato
dagli anni settanta ai giorni nostri
La diffusione della cocaina,
il declino dell’alcol
Una ricerca sulla pericolosità
di sostanze comunemente usate
in campo medico e psichiatrico
Analisi delle risposte dei Servizi
risultate più efficaci
rispetto ai bisogni degli utenti
Monografia a cura di Nanni Pepino
[email protected]
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78 Territorio
Grazia Zuffa
Direttrice di Fuoriluogo
S
hangai 1909 - Vienna
2009: cento anni di controllo mondiale sulle
droghe, dalla prima Commissione internazionale sull’oppio da cui il regime di proibizione prese inizio, al meeting
Onu ad alto livello previsto a
Vienna il prossimo anno,
chiamato a valutare il piano
decennale antidroga varato
nel 1998 dall’Assemblea generale sulle droghe delle Nazioni Unite a New York (Ungass). La celebrazione del
centenario è stata proposta
dalla Cina, sotto forma di risoluzione presentata a Vienna nel marzo 2008 alla riunione della CND (Commission
on Narcotic Drugs), l’organismo delle Nazioni Unite che
ogni anno decide gli indirizzi
politici internazionali. Il documento cinese sottolinea i
“grandi progressi raggiunti
dal 1909 a oggi” e invita a
guardare alle nuove sfide che
attendono la comunità internazionale, con l’obiettivo ultimo di “una società libera
dal consumo di droghe e dal
narcotraffico”. La risoluzione
1
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
L’Onu e la geopolitica
della droghe
è stata votata all’unanimità,
dunque l’Onu celebrerà nel
2009 il centenario del controllo globale della droga. È
un appuntamento che dovrebbe far riflettere: le droghe sono state la prima questione ad essere “globalizzata” quasi un secolo prima che
la parola “globalizzazione”
fosse coniata; così come la
“guerra alla droga” rappresenta l’antecedente storico,
nonché il modello strategico,
della guerra al terrorismo.
Il 2009 sarà dunque un anno
di celebrazioni invece che
l’occasione promessa di valutare con obiettività i risultati
delle strategie adottate sinora1? Prima di addentrarci nel
panorama politico internazionale, è bene ripercorrere il
complesso sistema di governo
della politica delle droghe a
livello delle Nazioni Unite.
Il regime internazionale di
controllo delle droghe
Alla base del sistema sono i
trattati internazionali. Il primo è la Convenzione unica
sulle droghe narcotiche del
Le decisioni politiche a livello internazionale
sul controllo e la repressione del fenomeno
1961, che disegna il quadro
generale di riferimento normativo, ancora attuale: il fine
è di rendere illecito l’uso delle
sostanze narcotiche, permettendone soltanto l’utilizzo a
scopo scientifico e medico.
Non va dimenticato che farmaci come la morfina sono
ancora oggi fondamentali
nella cura del dolore. Se risaliamo al secolo XIX, poco prima del passaggio al proibizionismo, scopriamo che i preparati a base di oppio, cocaina e canapa erano i principali
strumenti terapeutici a disposizione dei medici del
tempo; ma erano anche usati
largamente per automedicazione, sotto forma di preparati leggeri multiuso. Da allora,
solo gli oppiacei sono sopravvissuti come antidolorifici (o
come farmaci agonisti nel
trattamento delle dipendenza
da eroina); quanto alla canapa, le sue proprietà curative
sono state riscoperte negli
anni settanta ma sono ancora
osteggiate in nome del politically correct. La Convenzione
unica del ‘61, all’art. 36 prevede la punibilità di coltivazione, produzione, traffico e
possesso di droghe.
Il secondo trattato, del 1971,
cambia il titolo in “Convenzione sulle sostanze psicotrope”, allo scopo di allargare lo
spettro delle droghe da proibire oltre quelle propriamente narcotiche. In effetti, il
numero delle sostanze bandite è aumentato negli anni:
basti pensare alle amfetamine, ancora usate senza particolari limitazioni fino agli
anni settanta. La Convenzione del 1971 mantiene la classificazione delle sostanze in
quattro tabelle, relative al
grado di “indurre dipendenza” delle stesse. Le previsioni
penali sono simili a quelle
della Convenzione del 1961.
La Dichiarazione politica finale dell’assemblea di New York, all’articolo 19 stabilisce come obiettivo “la eliminazione, o la riduzione significativa, della coltivazione illecita della pianta di coca, della pianta di canapa e del papavero da oppio entro l’anno 2008”. Inoltre, entro lo stesso 2008,
gli Stati membri si impegnano a “eliminare, o significativamente ridurre, la produzione illecita, il commercio e il traffico delle sostanze psicotrope,
incluse le sostanze sintetiche” così come “il raggiungimento di significativi e misurabili risultati nel campo della riduzione della domanda” (traduzione mia) (Political Declaration, General Assembly 20th Special Session, 9th Plenary Meeting, June 10 1998).
N. 167 - 2008
La Convenzione del 1988 introduce un giro di vite repressivo. Il trattato stabilisce una
serie di strumenti di cooperazione fra i Paesi per le azioni
di polizia, come le procedure
per l’estradizione dei trafficanti. Le previsioni penali si
precisano e si ampliano, e,
per la prima volta, si fa esplicito riferimento al possesso
per uso personale, anch’esso
da considerare un reato penale (criminal offence): è una
vera e propria svolta punitiva,
poiché le precedenti convenzioni erano focalizzate sulla
repressione del traffico, più
che dei consumatori.
La criminalizzazione della detenzione ad uso personale è
un punto cruciale, come vedremo. È però opportuno distinguere fra i vincoli giuridici dei trattati (che gli Stati
membri delle Nazioni Unite
hanno l’obbligo di onorare), e
i vincoli politici, che condizionano la lettura e l’interpretazione degli stessi. In
realtà, i testi delle convenzioni sono più flessibili di
quanto non si creda (o di
quanto alcuni vogliano far
credere). Ad esempio, secondo la lettura giuridica più diffusa, la criminalizzazione del
possesso non comporterebbe
necessariamente la criminalizzazione del consumo personale 2 . Inoltre, il trattato
stabilisce che il possesso per
uso personale è “subordinato
ai principi costituzionali e ai
concetti basilari del sistema
I Servizi per le dipendenze patologiche
legale vigente negli Stati”.
Ciò consente una certa autonomia nell’applicazione delle
convenzioni e gli Stati hanno
la possibilità di non applicare
le pene carcerarie, ma di sostituirle con sanzioni amministrative di vario impatto,
tra cui misure molto lievi
quali le multe o gli ammonimenti. Questi margini di flessibilità hanno permesso alla
maggior parte dei Paesi del
vecchio Continente di rinunciare alla punizione dell’uso
personale, rifacendosi al
“principio d’opportunità”
nell’azione penale, che presiede all’ordinamento giuridico di quasi tutti i Paesi dell’Unione europea3. Anche gli
interventi di riduzione del
danno e alcuni trattamenti,
come quelli a base di metadone o eroina, sono ammissibili,
in quanto i trattati prevedono l’approvvigionamento di
droghe a scopo medico.
Quanto agli organismi Onu
preposti all’implementazione
della politica della droga, il
più importante è la CND, come si è già accennato che dal
1946 ha avuto il compito di
preparare i testi degli accordi
internazionali relativi al controllo delle sostanze narcotiche: si deve alla CND la stesura delle convenzioni internazionali e delle dichiarazioni
politiche, compresa quella
dell’Assemblea di New York.
In sostanza, la CND è l’organismo di direzione politica
delle Nazioni Unite, in cui so-
no rappresentati 53 Stati
membri, più altri come “osservatori”, per un totale di
111. L’organo esecutivo è rappresentato dallo UNODC (United Nations Office on Drugs
and Crime), in cui, nel settembre 2002 è confluito lo
UNDCP (United Nations Druc
Control Programme): lo
UNODC è l’Agenzia che sovrintende all’esecuzione dei programmi decisi dalla CND. Ai
tempi dell’assemblea di New
York, l’Agenzia era diretta da
Pino Arlacchi, sostituito poi
da Antonio Costa. L’altro organismo di rilievo è lo INCB
(International Narcotics Control Board), formato da 13
esperti, per lo più farmacologi, medici e giuristi: ogni anno il Board rilascia un rapporto sullo stato di applicazione
delle Convenzioni.
Verso Vienna 2009: chi
canta fuori dal coro?
Torniamo al centenario del
controllo mondiale sulla droga, che sulla carta ha riscosso
il plauso unanime. Sulla carta, appunto: in realtà la Cina
celebrerà l’anniversario coi
propri fondi perché nessun
stato si è fatto avanti per offrire un aiuto di qualsivoglia
tipo. Per di più, le celebrazioni non faranno parte dell’evento politico maggiore che
si sta preparando per il marzo
2009: il meeting di alto livello
della CND, cui parteciperanno
ministri e capi di governo da
tutto il mondo. Dunque l’ap-
Sae l ute
Territorio 79
puntamento del prossimo anno rimane un momento di valutazione politica della strategia decennale sulle droghe
del 1998, come promesso.
La vicenda del centenario è
comunque indicativa della
cornice in cui si svolge il confronto a livello mondiale. Esiste un livello burocratico-formale che prevede un’adesione
senza discussioni degli Stati
membri alle convenzioni e
agli indirizzi politici proposti
dalla Agenzia Onu di Vienna
(UNODC). In questa luce, la
riunione annuale della CND è
poco più di un rito: ne è spia
la modalità stessa di voto delle risoluzioni, che sono approvate per consenso unanime, oppure non sono approvate affatto. Il che in genere
appiattisce i testi su prese di
posizione generiche e scontate: come la celebrazione di
Shangai appunto.
Dietro il formalismo delle assisi internazionali, fa però capolino un livello politico con
posizioni sempre più divergenti. La liturgia Onu non prevede i conflitti aperti, e tuttavia le stecche nel coro celebrativo della “guerra alla droga”
sono sempre più frequenti.
Sono fondamentalmente due i
processi politici che stanno
provocando tensioni sul piano
internazionale:
– l’affermarsi in Europa (ma
anche in Canada e Australia) di un indirizzo riformista, di riequilibrio delle
politiche in direzione di
2 Quando si parla di detenzione sarebbe da intendersi la detenzione a fine di spaccio, e la previsione di questo reato sarebbe da interpretarsi come
uno strumento (squisitamente antigarantista) per invertire l’onere della prova, accollando all’imputato il compito di provare la propria innocenza,
ossia che la sostanza è destinata al proprio consumo.
3 Anche la cosiddetta politica di tolleranza olandese, che non punisce l’uso personale di tutte le droghe e consente la vendita di quantità limitate
di canapa nei coffeeshops, si basa sul principio di opportunità dell’azione penale. Queste condotte sono previste come reati nella legge, ma non sono perseguite perché non sono stabilite come priorità nell’attività di repressione.
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80 Territorio
I Servizi per le dipendenze patologiche
un minore investimento
sulla repressione (la riduzione dell’offerta) a favore
del versante sociosanitario
(la riduzione della domanda); con interventi finalizzati non più solo all’astinenza ma anche al consumo (più) sicuro e (più)
controllato (la riduzione
del danno). È il trend delle
cosiddette mild policies,
caratterizzate dalla rinuncia alla punizione del consumo personale, specie di
canapa, e dallo sviluppo
dei programmi di riduzione del danno: dallo scambio di siringhe al supporto
sociale ai consumatori di
strada, dai programmi con
metadone a mantenimento
a quelli con eroina (a mantenimento), dalle “stanze
del consumo” (safe injecting rooms) all’analisi delle
sostanze (pill testing) per
proteggere i consumatori
dalle insidie del mercato
illegale;
– la crescente insofferenza
dei Paesi produttori dell’America Latina verso la war
on drugs, che ha generato
un conflitto permanente e
violento sui loro territori:
con l’intervento degli eserciti, la distruzione e la fumigazione con pesticidi
delle coltivazioni illegali,
lo sfollamento forzato di
torme di contadini poveri
dai terreni avvelenati. Qui
si coglie la dimensione
geopolitica del regime internazionale di controllo
sulle droghe, che vede gli
Stati Uniti in prima linea,
come principali ispiratori
delle politiche “dure”, sia
a livello Onu che dei singoli Paesi produttori.
Queste spinte centrifughe
hanno cominciato a manifestarsi quasi venti anni fa. Basti rileggere la “risoluzione di
Francoforte”, il documento
conclusivo approvato nel
1990 al termine della Conferenza promossa dalle città di
Amsterdam, Amburgo, Zurigo, Liverpool e Francoforte.
In premessa, è tracciato l’orizzonte del programma d’azione: “Il tentativo di eliminare le droghe e il consumo
di droghe dalle nostre civiltà
è fallito e pertanto dobbiamo
continuare a vivere con le
droghe e con i consumatori di
droghe..”. L’obiettivo di un
mondo drug free cade e con
esso “la criminalizzazione del
consumo che – si afferma nello stesso testo – è in contrasto con l’aiuto e il trattamento terapeutico dei consumatori..” 4 . Proprio dalle città
nordeuropee parte l’impulso
al cambiamento e la parola
d’ordine della riduzione del
danno conquisterà gran parte
4
dell’Europa. Le convenzioni
internazionali non entrano in
discussione, perché la legalizzazione non è all’ordine del
giorno: tuttavia già la risoluzione di Francoforte disegna
una riforma profonda delle
politiche sulle droghe, in
aperto contrasto con l’interpretazione più rigida e restrittiva delle Convenzioni,
sostenuta dall’Agenzia Onu
sulle droghe.
New York 1998: come eliminare le droghe illegali in
dieci anni
Negli stessi anni, entrano in
fermento anche i Paesi produttori, come si è detto. Con
una differenza fondamentale:
gli Stati europei sono in grado di prescindere dagli indirizzi internazionali e di creare il proprio corso in tema di
droghe, avvalendosi del loro
status di Paesi “forti”. Così
l’Europa ha potuto sfruttare i
margini di flessibilità delle
Convenzioni secondo un’autonoma lettura politica delle
stesse. Non sono mancati i richiami ufficiali, come le ripetute denunce dello INCB contro alcuni Stati membri per
“violazioni” delle Convenzioni: contro l’Italia, per la depenalizzazione del consumo
personale in seguito al referendum del 1993; contro la
Germania e la Svizzera (e più
N. 167 - 2008
di recente la Spagna e il Canada) per aver aperto le
“stanze del consumo”; contro
la Gran Bretagna, per avere
“declassificato” nel 2003 la
canapa, spostandola in una
tabella contenente sostanze
meno pericolose. Si potrebbe
continuare con le ammonizioni per i programmi con
eroina medica e perfino per i
rischi di travaso del metadone nel mercato illegale. I governi chiamati in causa hanno sempre risposto allo INCB
a volte pacatamente, a volte
per le rime (come nel caso
della Gran Bretagna); in ogni
caso, hanno proseguito tranquillamente per la propria
strada5.
Al contrario, i Paesi produttori più poveri, con la guerra in
casa e alla mercè di pressioni
politiche ed economiche, non
hanno potuto e non possono
prescindere dagli indirizzi
delle Nazioni Unite.
Ciò appare chiaro guardando
alla storia di Ungass 1998, a
New York. L’Assemblea generale fu indetta dietro la spinta
del Messico e di altri Paesi dei
Caraibi e dell’America Latina,
che speravano di riequilibrare
le politiche antidroga, sottraendosi alla war on drugs6.
Così non avvenne, anzi. Ad
iniziare dallo slogan stesso
dell’Assemblea (A drug free
world, we can do it), la “lotta
Cfr. in M. Brandoli, S. Ronconi, Città, droghe, sicurezza. Uno sguardo europeo fra penalizzazione e welfare, Franco Angeli, Milano 2007, pp.
105 e segg.
5 Di fronte all’attacco dello INCB, gli inglesi inoltrarono una nota ufficiale di protesta dove si accusava gli esperti Onu di ignorare le evidenze
scientifiche alla base della decisione del governo. La declassificazione della canapa fu definitivamente approvata dal Parlamento pochi mesi dopo
a riconferma dello scarso potere e influenza politica dello INCB. Cfr. G. Zuffa, Rapporto Incb. Il Regno Unito contrattacca, in Fuoriluogo, aprile
2003.
6 Nel 1993, il Messico scrisse una lettera al segretario generale dell’Onu, sottolineando tra l’altro che nonostante gli sforzi il consumo si stava
espandendo e così il peso delle organizzazioni criminali. Si richiedeva perciò nuova attenzione sul versante della domanda, perché “il consumo è la
forza trainante che genera la produzione e il traffico di droga”. Dietro il linguaggio formale e la richiesta di considerare anche il ruolo dei Paesi
“consumatori”, emergeva il disappunto per le operazioni antinarcotici condotte dagli americani in territorio messicano.
N. 167 - 2008
alla droga” ne uscì riconsacrata, come ideologia e come
pratica guerresca. Centrale fu
il ruolo dell’allora direttore
dello UNCDP, Pino Arlacchi,
che presentò il piano SCOPE
(Strategy for Opium and Coca
elimination). Esso prevedeva
un misto di misure alternative di sviluppo e di programmi
di eradicazione forzata, con
l’obiettivo di “eliminare completamente in dieci anni le
coltivazioni illegali”. In realtà
il piano SCOPE non fu mai
adottato, e neppure fu mai
presentato ufficialmente a
New York, sia perché troppo
costoso, sia perché prevedeva
una misura molto controversa: l’avvio di eradicazioni biologiche con l’uso di funghi geneticamente modificati. Tuttavia l’obiettivo di SCOPE, di
eliminare (o “significativamente ridurre”) le coltivazioni entro il 2008, fu inserito
nella dichiarazione politica finale, in tal modo assurgendo
a messaggio chiave dell’evento di New York: il quale ha poi
ispirato lo sviluppo di piani
nazionali antidroga molto aggressivi, come il Plan Dignidad per la Bolivia e il Plan Colombia, nello sforzo di raggiungere gli obiettivi entro la
data indicata del 2008. Da
qui, gli interventi militari in
Chapare e in Bolivia e l’intensificazione delle fumigazioni
con pesticidi in Colombia. Dopo il 2001, il nuovo nesso fra
lotta alla droga e lotta al terrorismo ha portato a nuove limitazioni della sovranità nazionale dei Paesi produttori:
si pensi al Plan Colombia, steso direttamente dal Dipartimento di Stato americano,
I Servizi per le dipendenze patologiche
senza neanche consultare il
Parlamento colombiano: che
ha permesso l’occupazione
militare, diretta o indiretta,
di un Paese strategico per gli
interessi degli Stati Uniti nell’America latina.
E la nave va…
Eppure, il bilancio di New
York 1998 non è stato del
tutto negativo: lì sono stati
varati un piano d’azione da
sottoporre a verifica dopo
dieci anni e, per la prima volta, una dichiarazione politica
sulla riduzione della domanda: un segnale, per quanto timido, verso una nuova considerazione degli aspetti sociosanitari della questione droghe, non solo di quelli repressivi. I dieci anni stanno scadendo adesso e, come previsto, la CND del 2008 ha dato
il via al percorso di valutazione che si concluderà nel marzo 2009, come accennato. È
presto per dire come andrà a
finire, tuttavia all’assise di
Vienna dello scorso marzo si
sono registrati alcuni segnali
di novità:
– in primo luogo, i nuovi
equilibri politici in Sud
America iniziano ad influenzare anche la politica
delle droghe e un numero
sempre più consistente di
Paesi latini sta prendendo
le distanze dalle politiche
“dure”. L’Uruguay, ad
esempio, ha assunto posizioni avanzate, presentando una mozione sui diritti
umani, quale limite invalicabile per le politiche di
repressione sulle droghe;
per non dire della Bolivia
che rivendica la liceità del-
la masticazione della foglia di coca, nel rispetto
degli usi tradizionali della
popolazione indigena. Lo
INCB, nel suo ultimo rapporto, ha ribadito la necessità di punire il possesso della foglia di coca, ma
la Bolivia ha replicato difendendo le proprie ragioni e cercando alleanze coi
Paesi europei: incassando
anche il sostegno del ministro italiano Paolo Ferrero.
Per la prima volta, pare delinearsi un nuovo fronte
riformatore, che cerca di
tenere insieme le problematiche e gli obiettivi dei
paesi produttori e quelli
dei Paesi consumatori;
– il tema droga è finalmente
uscito dalla settorialità e a
ciò hanno contribuito le
Ong, presenti in massa a
Vienna. Così il tema generale dei diritti umani ha
dominato il dibattito, riassumendo sia il diritto alla
salute dei consumatori,
che il diritto a trattamenti
umani in carcere che il diritto a pene “proporzionate al crimine”: il che significa l’esclusione della pena
di morte per reati di droga.
Il vantaggio è stato grande,
perché il tema dei diritti
ha scompigliato lo schieramento dei “duri”, che ha
sempre visto a braccetto
Stati democratici e totalitari in nome della “lotta alla droga”: dagli Stati Uniti
alla Svezia, dalla Russia alla Cina, passando per il
Giappone e gran parte dei
regimi autoritari arabi e
africani. Così la risoluzione
che auspicava “l’integra-
Sae l ute
Territorio 81
zione del sistema dei diritti
umani delle Nazioni Unite
nella politica delle droghe”
e l’abolizione della pena di
morte è stata fieramente
osteggiata dalla Cina, ma
gli Stati Uniti non l’hanno
contrastata;
– il discorso introduttivo del
direttore dello UNODC, Antonio Costa, ha segnato
un’apertura, seppur cauta,
alla riduzione del danno e
più in generale allo Health
Principle, individuato come
bussola dell’intero sistema
di controllo delle droghe. È
un messaggio verso l’auspicato “riequilibrio” delle
politiche delle droghe, che
ha favorevolmente sorpreso i fautori del corso riformista. Nessuno dimentica
che Antonio Maria Costa ha
condotto in prima persona
nel 2003 la campagna contro la canapa “erroneamente considerata una droga
leggera”; è stato un fervido
sostenitore della nuova
normativa del 2006 in Italia, che inasprisce le pene;
a fine 2007 ha scritto una
lettera al sindaco di Torino
per scoraggiare la possibile
apertura di una “stanza del
consumo”. In questa luce,
il discorso di Costa registra
un cambiamento di clima e
prefigura una correzione di
rotta degli indirizzi delle
Nazioni Unite.
La nave della riforma internazionale ha preso l’abbrivio,
sembra. Dove approderà, lo
vedremo a Vienna nel 2009.
(segue a pag. 85)
l ute
Sa
e
82 Territorio
A, Grosso
Vicepresidente “Gruppo Abele”
L
a legge Fini-Giovanardi,
in vigore dal 1990, ha
determinato essenzialmente due questioni.
La prima è che, per almeno 57 anni, con la cannabis nella
stessa “tabella” della cocaina
e dell’eroina, resa “pari” sotto il profilo normativo e sanzionatorio, il numero dei consumatori di hashish e marijuana, che affluirà al sistema penale, è destinato ad aumentare. La mancata abolizione della “ex-Cirielli”, con
l’eliminazione di qualsiasi beneficio in caso di recidiva nel
reato, fa il resto sul versante
detentivo: più restrizione
della libertà. Il tutto viene
giocato su quella sottile linea
di confine tra consumo e
spaccio che è stata definita
per decreto legislativo, riducendo l’autonomia del giudice nel valutare caso per caso.
Il penale prende il posto dell’educativo e l’educativo viene esercitato in funzione del
penale. Da questo punto di
vista anche la coltivazione di
una sola piantina di cannabis
sul proprio balcone, viene
considerato reato secondo la
recente sentenza della Corte
Costituzionale.
La seconda questione riguarda la permanente illegittimità
in Italia di alcuni trattamenti
e di alcuni interventi di riduzione del danno, già ampia-
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
Il quadro nazionale
mente sperimentati e valdati
in molti Paesi dell’Unione.
Ci si riferisce in particolare
alla somministrazione medica
di eroina per persone dipendenti da oppiacei da lunga
data ed invano precedentemente curati con altri metodi. Nei confronti di questo tipo di trattamento, la stessa
UNODC di Costa, che ha sempre contrastato nel passato
un tale approccio ritenendolo
in disaccordo con le convenzioni internazionali, ha oggi
maturato un atteggiamento
molto più possibilista. L’Onu,
e con lui Costa, rimane invece fortemente contrario alle
sale protette di iniezione che
continuano ad essere interpretate non come uno strumento salva-vita, ma come
collusione con il consumo e
lo spaccio di droga.
Bisogna aggiungere inoltre
una terza questione, da non
trascurare anche se di importanza minore. Concerne il
permanere e l’aggravamento
delle sanzioni amministrative, apportate dalla Fini – Giovanardi, per chi è fermato e
trovato in possesso di dosi di
sostanze psicoattive per uso
personale. Quale sia la reale
efficacia della pratica delle
sanzioni e dell’invio, con vincolo, ai Servizi, è oggi oggetto di molte domande dopo
una pratica istituzionale di
I limiti dell’attuale contesto legislativo
e l’inefficacia delle sanzioni penali
ormai quasi 18 anni. A questo
proposito, per sciogliere gli
interrogativi, si è dato il via
ad una ricerca a carattere nazionale. Rimane aperta una
questione di non poco conto,
connessa all’enorme conflittualità che il deferimento alla
Prefettura e la pratica delle
sanzioni ha aperto tra i giovani e le Istituzioni, stante il
dato che l’80% dei fermati è
in possesso di cannabis.
A fronte di una maggiore diffusione del consumo di pressoché tutte le sostanze psicotrope (elevata offerta, diminuzione del prezzario), che
comprende anche il ritorno
dell’eroina (eroina e oppio fumati) ed il crescente consumo
di alcol nella popolazione giovanile, una politica che privilegia la punibilità ed il rimando al sistema penale è destinata a creare pesanti contraddizioni e sofferenze aggiuntive per i consumatori, per le
persone dipendenti e per le
loro famiglie. Inoltre, ne deriva un appesantimento non
secondario ed in parte disfunzionale ai principali compiti
delle Forze dell’Ordine nel
contrasto al narcotraffico, un
carico aggiuntivo ed un allungamento dei tempi per i compiti della Magistratura, ed
una maggiore inflazione detentiva con derivata insostenibilità del regime carcerario.
Le evidenze fino ad oggi riscontrate, sembrano indicare
che non sia questa la strada
efficace praticabile dalle politiche di contrasto ai consumi
e alle dipendenze. Questa
strada rischia piuttosto di aggravare il danno complessivo
anziché ridurlo e contenerlo.
Dalla centralità della dipendenza alla centralità del
consumo
I consumi, le dipendenze ed
in particolare le tossicodipendenze sono passate attraverso molteplici cambiamenti
nel corso degli anni. Nell’ultimo periodo l’immissione competitiva sul mercato delle sostanze da prestazione (cocaina in primis), sostenuta da
una offerta aggressiva e capillare che ha creato un’area
crescente di cocainisti, ben al
di là delle nicchie di consumo
protetto tradizionale (un certo mondo dello spettacolo,
un certo mondo di professio-
N. 167 - 2008
nisti, la criminalità organizzata, e più occasionalmente
le persone dipendenti da
eroina), ha decisamente innovato “la scena della droga”.
La consapevolezza dei danni
dell’eroina, l’innesto dell’AIDS
sul suo consumo endovenoso,
ma soprattutto l’affermarsi,
sull’onda lunga delle culture
degli anni 80, delle sostanze
psicotrope prestazionali, al
servizio di un immaginario
“vincente” in opposizione a
quello “perdente” delle sostanze di estraniazione (eroina in particolare, ma anche
l’alcol come dipendenza e non
come binge-drinking) ha determinato una trasformazione
delle dinamiche dei consumi e
degli stili di vita che li sostengono. Sarebbe colpevole interpretare ancora l’intero fenomeno con le lenti del secolo
passato. La storia naturale
della diffusione e dell’uso di
sostanze psicoattive in Italia
ha ormai quasi 50 anni, e le
macro variabili entro le quali
si è mosso il consumo, da tempo ormai non solo più giovanile, consistono, da una parte,
nelle scelte del narcotraffico
che determinano l’offerta del
mercato, e, dall’altra, nell’evoluzione della domanda che
con questa offerta interagisce.
La “n’drangheta” oggi è sempre meno intermediaria nei
traffici ed assume invece un
ruolo sempre più attivo e diretto nei confronti dell’approvvigionamento. La sua
presenza massiccia, rilevata
in America Latina ed in particolare in Colombia, la sua dislocazione sulle vie del traffico (soprattutto nella tappa
dell’Africa equatoriale occidentale) impegnano pesantemente le Forze dell’Ordine
I Servizi per le dipendenze patologiche
italiane, e non è casuale se
l’Italia è la nazione che, dopo
la DEA statunitense, ha più
operatori di Polizia attivi fuori dai confini nazionali.
Sul versante della domanda la
minore dipendenza, generata
dalle sostanze prestazionali,
e la maggiore compatibilità
d’uso, se paragonata alle sostanze di estraniazione, hanno dimostrato quanto il fenomeno del consumo e dei non
sottovalutabili rischi connessi allo stesso abbia decisamente spodestato di centralità la questione della dipendenza (che pur dal consumo,
anche se in maniera limitata,
ha origine). Sotto questo profilo la questione di quali politiche mettere in atto assume
ancora un maggior rilievo. Le
dipendenze, in quanto problema sanitario, sono tradizionalmente relegate e relegabili al campo della terapia
ed in tal modo più facilmente
confinabili all’interno del sistema dei Servizi. Ciò non è
possibile per il fenomeno del
consumo. Dal consumo non
derivano necessariamente
gravi patologie e non si è intrappolati come invece avviene per la dipendenza. Il consumo interroga alla radice il
contesto socio-culturale che
lo genera e lo sostiene quotidianamente. Il consumo impone di intervenire sul contesto e non sull’individuo. Se, e
sul come, le politiche si dividono prioritariamente nell’interpretazione del fenomeno. Per coloro che si ostinano
a cogliere elementi di continuità anziché quelli di discontinuità il rischio è di una
lettura schiacciata sulla chiave della dipendenza e della
dipendenza patologica. Il
consumo viene considerato
riduttivamente quale uno
stato che precede la dipendenza, col rischio di rifarsi
magari a migliaia di storie
personali, ma perdendo di vista le domande essenziali:
perché questa deriva collettiva? Perché questo enorme bisogno di protesi chimiche a
sostegno della quotidianità?
Per sentirsi adeguati e soddisfatti? Per essere all’altezza,
per reggere e dribblare le fatiche? Per produrre performance soddisfacenti per le aspettative di altri, ma massicciamente interiorizzate?
La prevenzione e la riduzione della domanda
Qual è il senso del ricorso alla
chimica delle sostanze psicoattive che oggi offrono una
variegata multifunzionalità
d’uso e che il mercato psicofarmaceutico legale vive in
competizione e nello stesso
tempo trae stimolo dalla
“concorrenza” del mercato illegale gestito dal narcotraffico, che copre una domanda di
bisogni e desideri ancora in
buona parte inevasa dalle
multinazionali della farmacopea? In questo scenario la
partita della prevenzione del
consumo si svincola completamente da quella della cura e
della riabilitazione. Ugualmente all’interno del capitolo
prevenzione, l’obiettivo del
contenimento del consumo si
slega a sua volta totalmente
dalle pratiche di prevenzione
e minimizzazione dei rischi
connesse al consumo stesso.
La prevenzione dell’uso assume in sé una completa autonomia dal sanitario e si ricolloca pienamente nell’ambito
del sociale, dell’educativo,
Sae l ute
Territorio 83
della formazione ma più ancora nei luoghi della determinazione delle scelte collettive
che condizionano gli assetti
economici e sociali, improntano lo stesso motore dello
sviluppo del Paese e caratterizzano aspetti importanti dei
contesti ambientali. La prevenzione si dovrebbe più propriamente collocare nella
“stanza dei bottoni” la cui definizione ben evidenzia gli
ambiti dove si decide. Se la
prevenzione non assurge a
questi luoghi, se il potere non
è contaminato e partecipato,
significa che l’istanza di attenzione preventiva al dove
stiamo andando rispetto a
uno sviluppo non più sostenibile, non solo in termini ambientali e di giustizia sociale,
ma anche di gestione delle risorse umane del pianeta, non
è ancora collocata dove merita. Bisogna che allora entrino
con forza in agenda le istanze
dei movimenti, il lavoro dal
basso affinché le nuove posizioni culturali incarnate in
nuovi stili di vita siano praticate da minoranze attive che
testimoniano, chiedono e si
organizzano per il cambiamento sociale. Una delle tante teorie sociologiche in tema
di dipendenze intravede nel
consumismo di ogni tipo di
merce la matrice della stessa
deriva delle dipendenze interpretate come ultimo anello di
una catena che porta e lega
alla compulsione del consumo. La parte di verità di queste teorie ci indica che il consumismo non è aggredibile se
non si riapre un ragionamento che arriva fino alle produzioni e che interroghi su quali
priorità, con quali finalità e
quale rispondenza a un’esi-
l ute
Sa
e
84 Territorio
genza di giustizia e di senso.
Sono interrogativi di cui le
comunità locali cercano di
riappropriarsi; le comunità locali hanno bisogno di essere
aiutate per poter riflettere e
ri-ragionare per poter contare, rialzare la testa ed affermare un proprio punto di vista. È in questo risveglio di
attenzione e preoccupazione,
di partecipazione e di assunzione di responsabilità, nella
consapevolezza di elementi di
trasversalità presenti in ogni
decisione, che oggi si colloca
il cuore della prevenzione e
della riduzione della domanda. Tutto il resto è una derivata di cui tecniche specifiche e tecnologia ne costituiscono l’ultima propaggine.
L’attenzione deve convergere
sul volante e non sull’acceleratore, altrimenti le problematiche vengono approcciate
dalla fine anziché dall’inizio e
vengono tutte individualizzate invece che essere rese collettive.
La cura, il trattamento, la
riduzione del danno
Tutto ciò che è connesso con
la cura ha quasi totalmente a
che fare con la dimensione sanitaria e con i Servizi preposti. In realtà, la problematica
delle dipendenze è materia di
sottili confini o di larga area
grigia in cui la dimensione sanitaria e la dimensione sociale si intersecano e si condizionano reciprocamente. La partita interroga l’organizzazione e la dotazione dei Servizi,
ma soprattutto le Amministrazioni regionali da cui dipende la realizzazione e l’erogazione delle prestazioni del
sistema sanitario regionale:
dalla impostazione della pre-
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
venzione selettiva (già secondaria), all’arco delle offerte di
trattamenti, fino ad interventi di riduzione del danno.
All’interno del contesto legislativo descritto quali sono le
proposte praticabili?
Il Piano di azione italiano, il
primo Piano di azione nazionale, Gazzetta ufficiale del
febbraio 2008 quale Atto di
intesa Stato-Regione, delinea
con chiarezza 66 obiettivi
molto precisi, con la conseguente identificazione delle
azioni necessarie per realizzarli e gli indicatori di valutazione utili a comprendere
eventuali scarti e defaillance.
Il Piano d’azione nazionale è
sostenibile, condiviso, largamente partecipato nella sua
costruzione tra le Regioni e i
Ministeri di competenza. È finanziato, monitorato ed oggetto di verifica. In via sperimentale concerne l’intero
2008 e dalla valutazione che
se ne trae dovrebbe avere inizio, come richiede l’Unione
europea a tutti gli stati membri, l’enucleazione del successivo Piano quadriennale
2008-2012. Il Piano d’azione
nazionale stimola e pungola
le Regioni, in particolare
quelle più carenti, nel dotarsi
di un Piano d’azione regionale in modo da ridurre, anche
in questo ambito, le diversità
proprie di un’Italia ad almeno
due differenti velocità.
Si calcola che il sistema dei
Servizi per le dipendenze per
rispondere con adeguatezza ai
vasti compiti a cui è chiamato
ed alle più vaste complessità
che ne derivano, nel tutelare i
diritti dell’utenza e renderli
effettivamente esigibili, deve
poter fruire di circa l’1% del
Bilancio sanitario regionale.
ribile tra chi vive in strada e
nelle schiere dell’emarginazione sociale, rischia di non
beneficiare pienamente dei
trattamenti e delle cure sanitarie oggi pur attivabili anche
in Italia. Un trattamento ampiamente sperimentato e collaudato riguarda i programmi
a mantenimento metadonico
di medio-lungo termine che
coprano notevolmente le esigenze farmacologiche. Tuttavia il rischio è che, per mancanza di risorse, tali trattamenti vengano relegati all’esclusiva dimensione medico
farmacologica di per sé meno
efficace ed in qualche caso totalmente impotente quando si
innestano su dinamiche di sopravvivenza delle persone e le
loro concrete difficoltà di
sbarcare il lunario. È difficile
per una persona senza dimora
sviluppare una buona compliance alla cura, sia per la dipendenza che per le altre malattie correlate (HIV HCV ma
non solo) se non viene data
risposta ai fondamentali bisogni di riparo notturno, di igiene e pulizia personale, di sostentamento e di esigenza di
socialità che esca dal confine
dei pari, mero specchio della
sua condizione. L’intervento
sociale, quasi sempre indispensabile per l’efficacia dello
stesso intervento sanitario, si
configura oggi in Italia come
il “grande assente” nelle dipendenze come in altri ambiti
limitrofi di emarginazione. Se
non si è in grado di offrire casa (almeno un riparo stabile)
e lavoro (almeno una qualche
attività rapportabile a capacità spesso residuali, ma che
consenta un minimo di reddito) non si da’ il via al reinserimento sociale, presupposto
Con la riforma del Titolo V
della Costituzione e lo spostamento dell’intera partita
sanitaria alle Regioni in
realtà non si escludono alcune fondamentali competenze
dello Stato, non solo di legislazione in materia (anche se
non attinente all’organizzazione dei Servizi), ma anche
di indirizzo.
Due questioni, urgenti nel tenere il passo con le richieste
dell’Unione europea, devono
essere risolte:
– i LEA, cioè la definizione
dei Livelli essenziali di assistenza sotto i quali ogni
Regione non può scendere
e che nell’ambito delle dipendenze non sono ancora
stati precisati;
– la costruzione di un sistema nazionale di allerta rapida che preveda l’effettuazione in tempo reale
delle analisi delle sostanze
psicoattive illegali presenti
sul territorio nazionale, in
modo da poter rispondere
immediatamente alle esigenze del Pronto soccorso
e dei Centri antiveleni. Oggi l’analisi delle sostanze si
rende possibile solo dopo il
sequestro, eseguito dalle
Forze dell’Ordine ed autorizzato dal magistrato, che
comporta procedure formali macchinose che non
consentono l’indispensabile raccordo con le esigenze
di tempestività della cura
e di reperimento del rimedio medico.
Reinserimento sociale e sicurezza
L’area della tossicodipendenza, ed in particolare quella
che riguarda l’uso di eroina
per via endovenosa, più repe-
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
per la stabilizzazione della
cura, per l’aggancio più saldo
ai Servizi e per il controllo del
potenziale danno che potrebbe essere arrecato alla comunità nel suo insieme da comportamenti meno responsabili
da parte di persone abbandonate a loro stesse ed avvolte
dalla solitudine.
Il beneficio che l’integrazione
tra interventi sociali e sanitari
produce sul piano della sanità
pubblica e della sicurezza risulta di grande portata, anche
se molto sottovalutata. Un solo esempio: l’epidemia di AIDS
è stata in qualche modo controllata con la presa in carico
individualizzata di gran parte
della popolazione dipendente
da eroina, prevalentemente a
rischio di infezione per lo
scambio di siringhe contaminate, e che ha rappresentato e
rappresenta per la diffusione
della malattia una popolazione aperta dal punto di vista
epidemiologico, potendo propagare l’AIDS per contagio
sessuale al resto della società.
Il risparmio, e non solo in vite
umane (che rimane il primo
obiettivo), ottenuto dall’attenzione specifica svolta dall’intero sistema delle dipendenze e dai Reparti di infettivologia degli Ospedali, non
sembra aver ricevuto nessuna
valorizzazione ed essere di interesse di qualche Amministrazione.
Sull’ordine pubblico vale lo
stesso tipo di ragionamento. I
trattamenti, le cure, gli stessi
interventi di riduzione del
danno sono più efficaci quando accompagnati dagli interventi sociali che consentono
una maggiore stabilità personale, una più sviluppata autonomia, un più elevato senso di responsabilità per sè
stessi e per gli altri. Quando
le persone emarginate, recluse nelle loro storie di dipendenza, di stigmatizzazione e
di isolamento, non vengono
lasciate sole, tendono ad evitare il compimento di reati,
coabitano meglio nei loro territori, spesso riducono anche
la recidiva nel consumo.
Sae l ute
Territorio 85
L’investimento sul sociale come viene testimoniato dalle
statistiche sulla spesa sociale
in Italia in rapporto ad altri
Paesi, è oggi uno dei fanalini
di coda dell’Unione europea;
in particolare, alla voce specifica sulla spesa della classificazione europea “abitazione
ed esclusione sociale” l’Italia
dedica lo 0,1% del PIL, mentre la media europea è 0,9%,
ma la Francia è all’1,3% e
l’Inghilterra all’1,7%. Il Fondo sociale della 328 è irrimediabilmente smunto e l’Italia
è, insieme alla Grecia, l’unico
Stato Ue a non disporre di un
reddito minimo di inserimento, né di adeguati interventi
in sua vece.
(segue da pag. 81):
L’Onu e la geopolitica delle droghe
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l ute
Sa
e
86 Territorio
Nanni Pepino
Medico,
Psichiatra-psicoterapeuta
D
iceva già Maccacaro che
per comprendere la malattia mentale era necessario costruire una epidemiologia descrittiva-valutativa, trattando i Servizi come
virus, responsabili di specifiche epidemie e pandemie.
Proviamo a focalizzare, contestualizzandoli, i consumi e
le istituzioni – in senso lato
– che si occupano di dipendenze.
La L.N. 685 del ’75 nello spirito e nella lettera, costituiva
un mutamento paradigmatico
nella lettura del “fenomeno”
dipendenze da sostanze illegali: da problema criminale a
malattia sociale; non a caso i
Servizi territoriali erano chiamati Centri medici di assistenza sociale.
Si ripeteva quel che Pinel, nel
‘700 aveva determinato per il
disturbo psichico: dalla criminalizzazione alla medicalizzazione, dal carcere, allora,
al manicomio; nel momento
in cui l’aumento della devianza connesso alla rivoluzione
industriale rendeva impervio
un mero controllo repressivo,
una parte della devianza veniva consegnata al braccio
soft della medicina, neonata
scienza degli alienati (Foucault) (1) (Pinel) (2).
Negli anni 70 del 900 il fenomeno dipendenze da problema marginale si estese fino a
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
Dalla miopia
alla diplopia
divenire problema generazionale.
“Nuovi“ alienati, ma da che?
A fine 700, per “i matti”, come nella seconda metà
del‘900 per le tossicodipendenze, l’alienazione era letta
come un “alienarsi da sé”;
tutto interno al malfunzionamento del soggetto, qualunque eziologia si addebitasse
al processo disfunzionale:
malattia morale, vulnus organico, poi ancora problema intrapsichico (F. Basaglia) (3)
(Pinel) (2) (Szasz) (4).
Riduttivismi incapaci di cogliere la complessità del reale
(Morin) (5).
Perciò parlo di “miopia” come
difficoltà nel vedere, mettere
a fuoco, se non da vicino. Incapacità a contestualizzare,
ri-storicizzare, anche correlata alla scotomizzazione di
aspetti del reale, connessa alla iperspecializzazione ed alla
difficoltà di dialogo fra le varie scienze (Morin) (5).
E’sempre più esiziale, culturalmente e per le drammatiche ricadute nella prassi, non
valutare le dinamiche dialettiche tra esterno\ interno dei
soggetti,; (“malati e\o criminali”) rischiando di considerarli come monadi, autonome
dai diversi ecosistemi.
Non si tratta di proporre una
giustapposizione eclettica tra
diverse epistemologie ma di
Il contesto storico in cui si sono sviluppate
le dipendenze e la risposta dei servizi
tentare valutazioni diacroniche e sinottiche che permettano una lettura olistica.
Il contesto
Se si prova ad allargare il campo visivo, possiamo constatare
che l’emergere del consumoabuso di sostanze si inscrive
in un più ampio contesto di
modifica del rapporto con le
merci e di mercificazione dei
processi identitari, a partire
dalla fine degli anni ’50:
1. Diverso significato dei
consumi, (non più finalizzati alla sopravvivenza ma
divenuti status simbol;
senso acquistato-consumato, rispetto al senso donato da esistenze significative) (Arvidsson) (6).
2. Mutato rapporto col tempo
libero (liberato da un lavoro massificato e sempre
più, quello sì, alienante);
non più “otzium”, rigenerazione, riposo, ma ricerca
di gratificazioni riparative,
surrogato di un lavoro,
operaio od impiegatizio,
”alla catena” – deprofessionalizzazione, parcellizzazione dalle mansioni,
sradicamento dai contesti
originari; identità massifi-
cate (G. Toti) (7).
3. Divaricazione/conflittualità tra stili di vita delle diverse generazioni, fenomeno che emerse,negli eventi
che deflagrarono, intercontinentalmente, nel ’68.
“Ci volete mandare a morire in Vietnam; abbiamo
sulla testa la minaccia
apocalittica della bomba
atomica”, “Vogliamo tutto,
lo vogliamo subito”; Diffidenza nei confronti del
mondo adulto, citata da M.
Mead:” Non fidatevi di chi
ha più di 34 anni” (Gorgolini) (8) (Capuzzo) (9).
4. Marketing massiccio, veicolante il messaggio: sei
quel che consumi, più consumi più sei; c’è sempre
una merce,risolutiva, per i
tuoi bisogni, anche quelli
indotti (10) (Arvidsson).
5. Il tempo libero del gioco
infantile: da tempo della
ricerca di autonomia, di
“invenzione di giochi e di
ruoli”, ricerca di identità,
è divenuto un tempo del
consumo, del piacere ottenuto con l’uso di oggetti,
fruizione di un tempo mediatico- passivizzante.
6. Non più: “sei colpevole se
N. 167 - 2008
cerchi il piacere” ma “se
non riesci a provare piacere sei tu ad essere sbagliato”, “se vuoi puoi”. Da una
società normativo-coercitiva ad una società anomica, che prescrive il “successo” (Merton) (11) (Galimberti) (12).
7. Delusione per il crollo di
progetti comuni: “riflusso”
negli anni ’80, dimensioni
tutte private,consumi e
fuga nello yuppismo (13)
(Lombardo Radice) (14)
(Vento).
8. Dalla fine degli anni
70,cultura giovanilistica:
lifting,chirurgia plastica,
trapianto di capelli,abbigliamenti casual… lo stile
di vita caratterizzato dai
consumi giovanili si “cronicizza”, quindi anche gli
stili “altri”.
Inoltre, perché la nuova produttività, deprofessionalizzante potesse essere redditizia, era necessario implementare i consumi, costruirli, indurli, massificarli: il consumo
produce sviluppo, ma per
consumare occorre più salario
che riduce i profitti. Da società di produttori a società
di consumatori.
Lo stesso egualitarismo, che
appare come una utopia sessantottina, non è forse, anche, un portato dell’appiattimento dei ruoli e delle professionalità che una società fordista produsse e che contiene
in sé un livellamento identitario, depersonalizzante, antitetico ai processi di individuazione (Junganamente intesa),
che differenziano i progetti
individuali dall’essere “personae” (maschere) su una scena
e con ruoli che altri determinano? Sono le diverse merci
I Servizi per le dipendenze patologiche
consumate che “costruiscono”
identità, individuali e gruppali, solo apparentemente differenzianti: le clark e le timberland, l’eskimo e il chiodo, i
rayban e la kefia, i Lewis, il
bomber, l’ero e la coca…
In questo quadro, nasce e
cresce il consumo di una merce “altra”: “la droga”, “la
merce delle merci”, come la
definì un mio utente, capace
di segnare la differenza generazionale, di riempire il tempo vuoto, di dare tutto subito, di indurre una compulsività, anche, farmacologicamente favorita, che “fidelizza” il consumatore senza bisogno di card magnetiche e di
gadget premio. In più, merce
alternativa, differenziante
dai consumi degli adulti.
Uno dei percorsi individuali
possibili in un società del disagio e del consumo o risposta ad un disagio intrapsichico/ deficit neuro-bioumorale? Le strategie di marketing
delle molecole legali si differenziano molto dalle strategie di capillarizzazione dello
spaccio illegale? (Croce; Di
Loreto) (15).
Quali intrecci fra i due mercati? (Saviano) (16).
L’Arcipelago droga
Responsabilità della comunità
scientifica, latitanza delle
istituzioni
Il fenomeno “droghe” come
realtà omogenea è un artefatto di tecnica: in uno studio in
corso, con interviste mirate a
protagonisti, utenti, ex utenti e primi operatori, emerge
che sarebbe più corretto parlare di isolotti corallini, mobili, separati, che fluttuano
accostandosi e distanziandosi, allontanandosi ed aggre-
gandosi, in un atollo “consumo sostanze- merci”.
Esistevano, prima dell’omologazione indotta dalla nascita
dei servizi e a cavallo di questi, ancora ora nel vasto consumo sommerso, diversi
“mondi drogati”:
1. Gruppi elitari, i viaggi in
Tailandia, provenienti da
classi sociali medio alte,
intellettualizzate; la cultura on the road Kerouak,
Ginsberg, Bukowski: l’uso
di sostanze alternative,
come ricerca individuale di
andare oltre il sistema, di
sperimentare stati di coscienza altri-i movimenti
hippy. Sostanza poca ma
buona. Marijuana, eroina
bianca, lsd, peyotle.
2. Gruppi delusi del passaggio dal ‘68, movimento
collettivo (“il privato è politico”), al ‘77, movimento
di individui nel collettivo
(vedi contenuti del Congresso di scioglimento di
Lotta continua – Rimini):
alla diaspora individualista yuppie o la disperazione delle “bande armate”,
tutti soggetti orfani della
“rivoluzione mancata”; figli del consumismo, i bimbi del boom: dalla musica
rock all’heavy metal, dagli
hippy ai “punk a bestia”;
dal collettivo extraparlamentare, il confronto
scontro in assemblea, all’agitarsi solipsistico delle discoteche, nel fracasso acustico che impedisce comunicazioni verbalizzate, solleticando l’esibizione narcisistica del proprio corpo;
i viaggi ad Amsterdam. Sostanza ancora di buona
qualità, mercato più vasto
ma ancora “autogestito”.
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Territorio 87
3. Modifica del mercato e sua
capillarizzazione con intervento e monopolizzazione nella sua gestione
della malavita organizzata: sostanza più tagliata,
comparsa della brown.
Consumo diffuso nelle
classi più svantaggiate,
dalla piccola borghesia, al
proletariato e sottoproletariato ai quartieri ghetto,
estensione del mercato alla provincia. Impennata di
overdose\sbalzi di qualità
della merce da una piazza
all’altra. Minori strumenti
culturali, dei singoli, per
gestire il rapporto con le
sostanze.
4. Anni 80: dal “rifiuto del
lavoro” alla precarizzazione del lavoro, da uso autoescludente- alternativo
ad uso inclusivo; comparsa
dell’epatite C, poi HIV,
crollo dei progetti di gruppo, fine delle comuni. Le
“riserve dei centri sociali”
e il ritiro in un isolamento
privato, che amplifica la
drammatizzazione del conflitto di genere. Isolamento nella coppia in crisi.
Progressivo passaggio dall’ero alla coca, alle “nuove
sostanze”.
Le istituzioni
In questo contesto, nonostante la legge 685 fosse del
‘75, praticamente nessuna
realtà locale aveva attivato i
Servizi; le Amministrazioni
più virtuose avevano attivato
gli CMAS, ma più come uffici
burocratici che come servizi
alla popolazione.
La frammentaria nascita dei
primi Servizi risale al ‘78, con
caratteristiche affatto omogenee nelle diverse realtà.
l ute
Sa
e
88 Territorio
Nonostante la 685 definisse
con chiarezza compiti istituzionali, organici dei servizi e
modalità operative, i servizi
nascono da spinte individuali, più legate ai contesti locali-socioculturali dei diversi
ambienti, dalla volontà soggettiva di singoli volontari
pubblici o privati, non programmati sulla base di una
lettura epidemiologica dei fenomeni e senza una omogeneità scientifica o culturale.
In alcune realtà all’interno
delle istituzioni (Torino, Genova, Firenze) in altre connesse alla realtà dei centri sociali (Milano) in altre (nell’ambito del volontariato cattolico o laico (Roma, Veneto),
o anche, “per strada” (Napoli). Le Università sono totalmente assenti, sia operativamente che culturalmente; il
testo di psichiatria del prof
Torre (Università di Torino)
fine anni 70, affrontava droghe illegali ed alcolismo in
una sola pagina e proponeva,
come unico intervento risolutivo, “la distruzione delle coltivazioni di oppio e cocaina e
lo sradicamento delle vigne”!
Più tardi l’Università delegò
ai farmacologi (Gessa a Cagliari e Mannaioni a Firenze)
che, sposando le teorie americane di Dole, impostavano
la lettura del problema e le
conseguenti proposte di cura
derivandole dai loro studi in
laboratorio, su cavie e topolini. I medici, anche quelli progressisti e laici,per lo più non
connettevano l’uso di sostanze con la ricerca del piacere,
non pensarono ad usare, “ab
inizio”, i sostitutivi: la morfina era “il male”, bisognava
guarire, disintossicare. Il mito era il drugs free, nonostan-
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
te in altri campi, vedi l’alcolismo, il concetto di scalare,
per evitare il “Tremens” da
astinenza, era un abitudine
storica ed esisteva già il Fyseptone fiale, usato però solo
da anestesisti e oncologi (poco) in base al concetto che “il
dolore va affrontato”. Fino all’estate ’78 i punti di riferimento per chi era stato “uncinato” dalle sostanze, erano
differenziati a seconda dello
status sociale:
a) per i ragazzi “bene”; cliniche di lusso, psicanalisti e
medici privati, o viaggi in
India a cercare il Buddha;
b) per le classi medie/proletariato: cliniche convenzionate, medici volonterosi che prescrivevano gratis
l’eptadone fiale o con un
approccio cattolico del tipo “aiutare gli ultimi” o
per venire incontro ai
“compagni che sbagliano”;
c) per il sottoproletariato, il
cosiddetto “sbattimento”:
la “rivoluzione” nelle regole della piccola delinquenza di quartiere, le rapine
nelle farmacie, la “cura”
del carcere. Per tutti, finchè funziona, c’è il piccolo
spaccio, le autoradio, i furti in casa, la prostituzione
– maschile e femminile.
Szasz ’74 e La droga demistificata (rapporto Unesco, Helen
Nowlis ’75).
I testi italiani a disposizione
erano pochissimi; Cancrini,
Droga che fare, V. Andreoli, Il
ciclo della droga, ’78; Eroina di
G. Blunir ’76. Solo diversi anni
dopo comparvero, nell’’80, La
droga fra noi di G. Berlinguer,
nell’82 Quei temerari sulle
macchine volanti di L. Cancrini e Le destin du toxicomane
di C. Olievenstein nell’83. Riviste come Ombre Rosse, Quaderni Piacentini, Aut aut, Re
Nudo, con un approccio socio
politico con taglio più raffinato o più rozzo oscillavano tra
“la droga come strumento della CIA per distruggere i movimenti” (sic!), alla “droga, come libera scelta alternativa da
non controllare”; gli operatori
attaccati “da sinistra” come
servi delle istituzioni” e “da
destra” come spacciatori di
Stato, in quanto sostenevamo
l’uso mirato, anche, dei sostitutivi.
La prima rivista scientifica,
che, fin dai primi anni 80,
aprì un lungo, articolato, dibattito, fu Sapere, vicina a
Medicina democratica, finché
durò la gestione di G. Maccacaro. Con un taglio più attento ai problemi istituzionali,
fu Salute e Territorio, diretto
da M. Crocellà, periodico della Regione Toscana, che divenne una sorta di referente
del neonato CNOT Coordinamento spontaneo tra gli operatori delle TD, nato a Firenze
alla fine del 79, con l’intento
di costruire un ambito di confronto interprofessionale, a
carattere nazionale.
Le iniziative di prevenzione
oscillavano tra continue richieste, da parte delle scuole,
La nascita dei Servizi
In alcune realtà è la Magistratura che solleva il problema: in
base dell’art. 10 della 685 era
tenuta a disporre il ricovero in
Ospedale di chi, detentore della “modica quantità”, aleatoriamente interpretata, evitava
il carcere ma, se non accettava
trattamenti alternativi,il magistrato era tenuto a disporrne
ricovero in Ospedale.
Però, gli Ospedali non ricove-
ravano e le strutture per la
presa in carico non esistevano. A Torino la Magistratura
denunciò Regione e Comune
per inosservanza della legge.
Nell’estate ’78, il repentino
Decreto Anselmi, motivando
il provvedimento col crescere
di un “mercato grigio” di
morfina e metadone, vieta la
prescrizione del sostitutivo e
della morfina, se non agli
Ospedali autorizzati dalla Regione; ma non ce n’erano.
Da un giorno all’altro nelle
città si trovano di colpo privati del trattamento sostitutivo, centinaia di ragazzi caratterizzati da un uso più
compulsivo delle sostanze
fuorilegge. In primis, eroina.
In alcune città – fra queste
Firenze, Torino, Genova, istituzionalmente; in altro modo, più legato al volontariato
di vario tipo, Roma e Milano
– si approntano interventi
tampone urgenti.
Si attivano operatori, giovani, quasi sempre con un retroterra culturale cattolico
e/o legato alla “sinistra extraparlamentare”. I “baroni”
della medicina, ospedalieri ed
universitari, continuavano,
tranne rarissime eccezioni, a
guardare al “drogato” più come un “vizioso” che non come un” malato”.
Fu una fase pionieristica: si
trattava di affrontare una situazione, almeno in Italia,
poco studiata, con una bibliografia internazionale
scarsa, quasi tutta statunitense, caratterizzata da un
forte riduzionismo organicista (Dole e La fame di eroina,
la teoria della saturazione dei
recettori), tranne Il gioco
proibito di Bian Inglis ’75, Il
mito della droga di Thomas
N. 167 - 2008
di esperti per far lezione
“contro le droghe” dimenticando appunto Berkeley e
l’urlo:” non fidatevi di nessuno con più di 34 anni” e i
“Generali” che, in un periodo
in cui i giovani sul chiodo,
nero, portavano un evidentissimo teschio bianco, si inventarono una campagna basata
su grandi manifesti neri in
cui capeggiava un enorme teschio e la scritta “la droga uccide… lentamente”. Si arrivò
alla campagna ministeriale
“la droga ti spegne” mentre i
giovani erano spenti da mancanze di prospettive, da una
scuola vetusta, dal precariato
sempre più imperante.
Con fatica si convinsero i Ministeri ed i Provveditorati a
sostituire le estemporanee lezioni a scuola con corsi di
formazione regolari per insegnanti e presidi.
Lo CNOT, inizialmente, vedeva
coinvolti (volontaristicamente) i responsabili dei servizi
di poche città – Firenze, Torino, Milano, Genova,Perugia,
Roma, Napoli, Bari – ma la
solitudine istituzionale, le
scarse possibilità di confronto scientifico, culturale e politico, portò il neonato Coordinamento ad essere un punto di riferimento fondamentale che univa operatori pubblici e del privato sociale del
neonato CNCA (Coordinamento nazionale comunità di assistenza), riuscendo ad essere
riconosciuto come primo interlocutore dalle istituzioni:
dal Ministero dell’interno che
in allora era il titolare della
responsabilità,al Ministero
della sanità, alle Amministrazioni regionali e locali, fino
alla collaborazione con istituti di ricerca quali il Censis,
I Servizi per le dipendenze patologiche
il Labos, l’Istituto superiore
di sanità, il CNR ed l’Istituto
Mario Negri.
Veniva riconosciuta una expertise, teorico pratica, maturata sul campo, in una dialettica continua tra gli strumenti teorici, che andavano
affinandosi, ed una dialettica
costante con gli utenti,spesso portatori, oltre che “del
problema”, anche di possibili
percorsi di cura, sperimentati
sulla loro pelle (vedi la vasta
pubblicistica prodotta dal
CNOT e dal CNCA).
Aspri e approfonditi dibattiti
giunsero alla definizione di
linee comuni, per riuscire a
tradurre le domande, spesso
stereotipate, ma che nascondevano bisogni impliciti e,
spesso, contradditori, molto
caratterizzati dai diversi contesti e dalle mille storie individuali: non esisteva “il tossico”, ma soggetti che, in un
contesto di più generale massificazione dei consumi, usavano, abusavano di sostanze
con modalità assolutamente
individuali.
Fu fin da subito evidente che
non esisteva una unica eziologia bio, o psico, o socio che
spiegasse “la causa”, né una
unica modalità statica di rapporto con le sostanze. Si intrecciavano, nei gruppi e nello stesso individuo, modalità
diverse, plastiche, mutanti e
variegate di rapporto con le
diverse sostanze, legali ed illegali. Uso, abuso,dipendenza, coinvolgimento monomaniaco; dipendevano da diversi
elementi sinergici, interni al
soggetto, di interazioni con
le relazioni famigliari, col
gruppo dei pari, con il mercato, con la reazione sociale.
Certo apparivano tutti, chi più
chi meno, fortemente disturbati, gravemente patologici,
ma, come scrisse nel ‘80 P.
Cohen, sociologo e responsabile dei Servizi di Amsterdam:
“Considerare la tossicodipendenza/tossicomania come
portato di una fragilità del sé,
costituisce una rozza ‘falsificazione retrospettiva’, in
quando scambia per patogenesi quello che invece è un
portato delle condizioni, culturali, psichiche e sociali in
cui la marginalizzazione del
mercato nero costringe il consumatore”. Sarebbe come sostenere che la passività, l’apatia, la depersonalizzazione
che ormai tutti gli studi riscontrano in chi è stato detenuto per più di 7 anni (5 negli
USA), non sia una sequela delle condizioni di vita del carcere ma un “vulnus” pregresso
del soggetto, anzi, causa della
sua condizione di carcerato.
Anche la recente epidemiologia psichiatria ha strettamente connesso l’evoluzione
delle singole psicopatologie,
la loro espressività, il loro
stesso esito, alla situazione,
socioculturale e trattamentale, tanto da far scrivere a diversi autori (Bleuler, Wing,
Ernst, Ciompi, Borgna) che,
persino per la schizofrenia, la
cronicità sia più un portato
di errori iatrogeni, di reazioni
sociali, che non un destino
determinato dalla psicopatologia in sé. Si vedano tra l’altro gli studi di Spek ed Atthenaie sulla incidenza e prevalenza della schizofrenia in diverse coorti di popolazioni: a
fronte di una sovrapponibile
incidenza nei diversi contesti, la prevalenza sale esponenzialmente col crescere
dello sviluppo societario. Mi-
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Territorio 89
nima nei contesti “primitivi”
massima in società complesse, anomiche e solipsistiche
quali ad es. New York.
Nella stessa considerazione
andrebbero presi gli studi epidemiologici USA, ma anche
italiani, in cui tutte le malattie, l’incidenza e soprattutto
la prevalenza e la mortalità
sono direttamente correlate
allo status sociale dei quartieri di residenza (G. Costa).
Abbiamo visto che il cambio di
ambito di cura, dal manicomio
al territorio, se, ovviamente
non ha influito sull’emergere
del disturbo psichico, ne ha
modificato l’espressività sindromica, fino a richiedere una
nuova psicopatologia.
Sulla base di queste evidenze
scientifiche, nel dialogo costante e nell’ascolto rispettoso di quanto portavano gli
utenti, si giunse a definire alcuni punti fermi.
1. Primo compito di un Servizio pubblico, non selezionare l’utenza, privilegiando innanzitutto il “proteggere” dalla violenza addizionale, che la condizione
di illegalità e delle leggi
feroci del mercato nero inducono: prostituzione,
malattie veneree, epatite
C, HIV, carcere, disoccupazione. Che senso ha “salvarne” alcuni, quelli più
motivati, lasciando gli altri all’arena della strada?
Sappiamo quante sono
le”guarigioni spontanee”,
sia nell’alcolismo che nelle
dipendenze; non viene in
mente che i nostri successi
potrebbero essere tra quelli che comunque ce l’avrebbero fatta da soli?
2. Conseguente attenzione a
decodificare la domanda,
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I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
utilizzando anche i sostitutivi come momento di
aggancio, non demonizzandone alcuni e santificandone altri, ma potendoli scegliere, senza veti,
in base alle caratteristiche
del soggetto, del suo contesto, del suo precipuo
rapporto con le sostanze;
non usandoli come succedaneo da spendersi sul
mercato grigio,solo perchè
i Servizi non sono in grado
di porre alle Amministrazioni il problema della miseria reale.
3. Il sostitutivo come una delle risposte,non sempre utile, non solo scalare o solo
mantenimento, ai dosaggi
minimi necessari,articolando l’offerta del Servizio,
psicoterapico, relazionale,
semiredisenziale; diversi tipi di residenzialità – non
esiste, in assoluto, la comunità buona e quella non
buona – di supporto sociale; , non assistenzialistico,
per progetti che minimizzino l’esclusione e stimolino i
processi inclusivi.
4. Estrema attenzione alla
accessibilità dei Servizi,
sia nel senso di allocazione
e di dignità degli spazi, sia
di accoglienza pronta ed
elastica,di setting soli.
Non in spazi ghettizzati e
separati, per non creare la
barriera cronici/curabili.
5. Non Servizi “specializzati“
e totalizzanti ma integrati
nella rete dei Servizi “normali” psichiatrici, sociali,
medico-specialistici, del
privato sociale, onde, con
la continua collaborazione, demistificare i preconcetti rigidi sulla nostra
utenza.
L’ideologizzazione del confronto
Scotomizzazione,-riduzionismo- negazione
Nei primi anni 80 “il vento
comincia a cambiare”.
Anche a causa di una certa
rigidità di molti Servizi che,
più che considerare le famiglie come parte del dramma,
finivano per colpevolizzarle,
ponendosi come difensori
degli utenti dalla “famiglia
che uccide”, parte un attacco forte al sistema Servizi.
Ricordo l’articolo di Natalia
Aspesi su “La Repubblica”,
dicembre 81, ispirato alle tesi della LENAD, neonata associazione di genitori che
chiedeva il ricovero coatto,
accusava i Servizi di essere
“spacciatori di metadone” e
affermava che l’unica soluzione erano Comunità alla S.
Patrignano.
Le alleanze politiche furono
ampie, dal Partito socialista a
settori del PCI, fino al MSI,
passando per il Partito repubblicano; la chiesa “ufficiale”
col CEIS proponeva le sue rigide comunità neo-cognitiviste, in aperto contrasto con
le Comunità di accoglienza e
di vita di don Gallo, Don Ciotti e di altri “sacerdoti scalzi”.
I Servizi passavano dai Comuni alle USL, ed erano diretti
quasi sempre da ex dirigenti
dell’INAM che portarono una
forte spinta alla burocratizzazine e medicalizzazione del
problema: anche quelli più
intelligenti ed in buona fede
facevano fatica a comprendere le specificità dei bisogni
dei nostri utenti, che portavano disordine e scompiglio.
Bisognava normalizzarli ed i
Servizi dovevano divenir più
simili ad un ambulatorio dia-
anche corporativa: SIDT E
FEDERSERD. Essendo le professioni forti presenti, medici e psicologi, con spruzzate
di psichiatri, non pare strano
che assumano il paradigma
organicistico “ malattia cronica recidivante” con annessa psicopatologizzazione
dell’utente.
Ma i Ser.T, non hanno alle
spalle una epistemologia forte come la Psichiatria, non
hanno strumenti di intervento come i TSO, non hanno
Ospedali di appoggio. Eccoli
allora bussare alla Psichiatria
che, oberata e sofferente anche lei, comincia il ping
pong “il paziente è tuo, è
mio”; la mediazione è la
doppia diagnosi.
Un assurdo semantico e
scientifico: se diagnosi etimologicamente significa “attraversamento della conoscenza” per ricercare un senso condiviso nel percorso in
divenire di un soggetto e delle sue modalità esistenziali e
relazionali, come è possibile
una “doppia storia”? È più facile che lo sdoppiamento dell’espressività sintomatica sia
frutto di una diplopia istituzionale. Si è mai parlato di
doppia diagnosi per gli alcolisti? Certo la doppia diagnosi
è incrementata dal nosografismo imperate, un nosografismo statico che pretende di
cogliere l’essere e l’esserci di
un soggetto con un fermo immagine su uno spezzone di
una pellicola, rinunciando a
considerare il messaggio complessivo di un film dai titoli
di testa a quelli di coda.
betologico, incrociato con un
Centro prelievi.
Il DM Craxi, separando nettamente competenze e finanziamenti, tra sanità ed assistenza implementò la scissione tra bisogni complessivi
dell’utenza e possibilità di risposte articolate e non settoriali dei Servizi.
L’intreccio di questi elementi,
il clima di restaurazione che
si configurò anche in varie
proposte di legge di “revisione” della 180, il quadro internazionale – Reagan, Thatcher,
– il rampantismo e l’efficientismo produttivo, la diversità
sempre più criminalizzata,
condussero, dopo il viaggio
“americano” di Craxi all’assunzione della “tolleranza zero”; produssero la 162 che
reimplementò la criminalizzazione dei consumi, potenziando nel contempo i Servizi
che, rimpolpati di strumenti
ed operatori, medicalizzati,
diventarono Ser.T (Servizi per
le tossico-dipendenze), accettando lo pseudo obiettivo della “guarigione” ma divenendo
sempre più il braccio (pseudo)scientifico della legge.
La situazione peggiora ancora
con la 309, che pare “comprare” i servizi con fondi specifici, facendoli diventare spesso
i passacarte delle Comunità
che potevano certificare e
sceglier progetti che i Servizi
“timbravano” e alle quali, nei
fatti, veniva vieppiù delegata
la gestione dello “scarto”.
Viene il sospetto che, accerchiati dalle accuse di essere
solo spacciatori di Stato, non
vedendo riconosciuta la propria professionalità, gli operatori costituiscano 2 “Comunità” scientifiche”, “specialistiche” come difesa –
(segue a pag. 102)
N. 167 - 2008
Mauro Croce
Gianpaolo Di Loreto*
Psicologo, Criminologo,
Verbania, Scuola universitaria
professionale della Svizzera
italiana, Lugano CH
* Criminologo, Terni
L’
opera di Foucault evidenzia come sia stato
necessario introdurre
un dispositivo disciplinante
ed eticizzante per stigmatizzare la perdizione morale del
vagabondaggio, del crimine,
della devianza e del disordine
sociale in genere al fine di
produrre e mantenere quell’ordine costante e routinario
funzionale al binomio moralità-produzione indispensabile all’affermazione della borghesia ed al successivo
espandersi dell’accumulazione del capitale. Tutto ciò ha
implicato non solo processi di
sorveglianza e controllo, ma
anche una conseguente ed
attiva “costruzione” delle
soggettività degli individui
coinvolti nel – o forse sarebbe
meglio dire “catturati dal” –
meccanismo stesso. Ora i processi e le strategie tendenti a
regolare, organizzare e monitorare il comportamento
umano sembrano muoversi su
registri diversi. Da una parte
il controllo non è più solo il
portato diretto di una sorveglianza occhiuta ed invasiva,
ma la conseguenza dell’espressione di volontà del potenziale fruitore di certi benefici o servizi a determinate
condizioni e della scia di dati
che lascia nelle varie reti. In
altre parole, interessa meno il
soggetto disciplinato lavora-
I Servizi per le dipendenze patologiche
Sae l ute
Territorio 91
Dalla disciplina
alla tolleranza zero
tore quanto cogliere e monitorare il cambiamento dei bisogni, dei consumi, degli interessi. (Lianos e Douglas,
2000; Lianos, 2003; Lyon,
2002).
Ma anche là dove la sorveglianza sembra comunque occhiuta, come negli spazi urbani videosorvegliati, pare difficoltoso configurare quel connubio assoggettamento morale-induzione comportamentale, vuoi per la struttura e
complessità degli spazi urbani
stessi, vuoi per la molteplicità
delle interazioni e dei percorsi
psicosociali in cui sono impegnati i suoi occupanti (Koskela, 2003; Yar, 2003). “Non è
questione di socializzare e disciplinare il soggetto ‘ab initio’. Non è questione di istituire un regime nel quale ciascuna persona è permanentemente sotto lo sguardo alieno
dell’occhio del potere che
esercita sorveglianza individualizzata. Non è questione
di istruire e normalizzare l’offendere ‘ex post facto’. La condotta è continuamente monitorata e ridefinita da logiche
immanenti all’interno di reti
di pratica. La sorveglianza è
configurata dal flusso dell’esistenza quotidiana. In questi
circuiti di inclusione, la modulazione calcolata della condotta conforme ai principi di
ottimizzazione degli impulsi
La tendenza dei Servizi al trattamento
prevalentemente di tipo medico
benigni e minimizzazione di
quelli maligni, è dispersa attraverso lo spazio ed il tempo
della vita ordinaria” (Rose,
2000, p. 325). Si pensi poi alla trasformazione dei centri
urbani da luoghi di socializzazione a luoghi di mero consumo del tutto affini a spazi privati, ridisegnati per il business, il commercio ed il tempo
libero, nei quali appare essenziale diminuire i rischi ed aumentare il senso di sicurezza
per quei frequentatori “desiderabili”, concretizzando però
al tempo stesso un impulso rigorosamente escludente verso
tutto ciò che possa essere
considerato come fonte di
“sporcizia”, di “fastidio”, di
“disordine urbano” o sia tradito da abitudini comportamentali ed aspetto esteriore
non omologati al cliché: non
solo tossicomani e prostitute,
ma anche marginali, appartenenti a minoranze ed etnie
non troppo gradite, o gruppi
di giovani disturbanti per la
loro mera presenza, tanto più
se non consumano le merci
prescritte. Per questi esistono
“altri luoghi”, sono i drop-in,
sono i tossic-park, ma soprat-
tutto è la “tolleranza zero”.
Un modello di facile appeal il
cui assioma decreta come il
degrado urbano e le inciviltà
siano dei propellenti diretti e
lineari per lo sviluppo e l’affermazione della grande criminalità e l’uso di sostanze
psicotrope sia di per sé atto
non solo moralmente ripugnante e criminalmente pregnante ma vada sradicato fin
dalla sue prime ed “apparentemente innocue” manifestazioni che sono l’anticamera
per tutto ciò che di indesiderabile si possa pensare. In
questa chiave, la spasmodica
ricerca del consenso del cittadino medio e dei suoi modelli
di morale, decoro e ordine, ormai considerati moneta elettorale sonante hanno la loro
soddisfazione e risposta. Ma
quali sono i risultati di questa
“politica” auspicata, propagandata, promessa (o minacciata) e comunque presentata
come “l’unica soluzione” a
più problemi, a più minacce?
Che ne è stato di questa “forma di pulizia” dei (e dai) disorderly people (i vari indesiderabili) laddove è stata applicata con grande dispiego di
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92 Territorio
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
mezzi ed ostentazione di risultati attraverso strategie
speculative di dubbia scientificità? Il risultato sembra essere paradossale: i vari “indesiderabili”, non solo non sarebbero stati “sradicati” ma
addirittura “creati” dal processo messo in atto dalla “tolleranza zero” “non tanto attraverso l’attribuzione all’individuo di un qualche precedente, e non tanto condannandolo. Essa crea il soggetto
attraverso la trasformazione
dell’individuo in qualcuno che
può essere oggetto di attenzione poliziesca, sorvegliato,
osservato, individuato, controllato” (Hancourt, cit., pp.
364-5, Wacquant, 2000).
L’affermazione della “tolleranza zero” rappresenta tuttavia
una delle manifestazioni di
un mutamento culturale e
scientifico (oltreché politico)
sempre più incline allo sviluppo ed all’affermazione di un
approccio preventivo al crimine e alla devianza teso ad
operare essenzialmente in
due direzioni. Da una parte,
verso quelle modifiche dell’ambiente fisico – soprattutto
urbano – di quelle condizioni
cosiddette “oggettive”, volte
a rendere più difficile l’esecuzione dei reati stessi quali la
presenza costante sul territorio di apparati o persone in
grado di impedire il compimento del delitto e gli stili di
vita personali collegabili al
concreto rischio di vittimizzazione. Dall’altra ponendo l’attenzione sulle “categorie” più
che sui “soggetti”. Più su “cosa si è” piuttosto che “cosa si
fa”: a discapito di una attenzione alle caratteristiche dei
soggetti stessi, delle loro storie di vita, dei contesti a cui
appartengono e delle disugualianze sociali che possono
avere sperimentato. E non è
un caso che le tendenze nel
crime control e nel contrasto
alla devianza degli ultimi
trenta anni abbiano via via
spostato l’attenzione dalle caratteristiche cliniche e sociali
dell’autore del delitto (che interessano sempre meno quanto più quest’ultimo viene considerato razionale e calcolatore) alle concrete modalità di
commissione dei reati, e alle
situazioni ed al contesto fisico ove il reato viene perpetrato. Così come non è casuale
l’emersione di un approccio
preventivo definito attuariale,
volto ad operare su una base
quantitativa e probabilistica e
tendente al controllo della devianza tramite una valutazione anticipata del rischio della
stessa, rinvenibile sia nelle
specifiche caratteristiche individuali del singolo soggetto,
quanto in quelle generali della classe o del gruppo di cui fa
parte, secondo un criterio
preventivo, astratto e statistico che non ha più alcun bisogno di presentare una finalità
trattamentale o risocializzante. Ecco così che il potere disciplinare sembra essere sostituito da un modello di regolazione più spietato, che si riferisce agli individui solo nei
termini della valutazione del
rischio che essi possono costituire, o del fastidio che possono produrre, all’interno di
spazi “normalizzati” secondo
ben precise modalità di utilizzo. Tutto ciò ci pone di fronte
ad uno scenario tardo-moderno per molti versi frastagliato
che vede forme di controllo
sociale agenti in modo fluido,
adattabile e diversificato. Un
questionario compilato, ricordando come una corretta
diagnosi sia il primo passo
per la cura e il trattamento
del disordine bipolare. Come
commentare questa pubblicità? Certamente può essere
vista come uno strumento per
sensibilizzare ed aiutare le
persone a riconoscere i propri
problemi di salute e chiedere
aiuto. Ma potrebbe anche essere un ottimo esempio di ciò
che viene definito come disease mongering: ovvero la
strategia utilizzata dall’Industria farmaceutica per incrementare gli utili attraverso
una serie di specifiche azioni.
Ad esempio indirizzare l’attenzione clinica e di ricerca
su patologie croniche e di
forte diffusione (con buona
pace delle persone affette da
malattie rare il cui scarso
“poco mercato” non merita
grandi attenzioni ed investimenti sul piano della ricerca), abbassando i livelli-soglia di rischio, ma alzando
quelli di redditività di farmaci che non devono essere
somministrati ai fini della
guarigione, ma per mantenere gli assuntori “sotto cura e
sotto controllo” praticamente
per tutta la vita. Non è però
sufficiente abbassare le soglie di rischio. Ecco che allora
ciò che sino a qualche anno
fa era considerato normale
ora viene considerato patologico, e pertanto vengono individuate “nuove malattie”.
La lista è lunghissima, sino a
contemplare “la sindrome
delle gambe irrequiete”, sindrome che necessita prima di
essere “scoperta”, quindi di
essere combattuta tramite
l’individuazione un farmaco
“ad hoc” ed infine, inevitabil-
controllo che, se non va troppo per il sottile con i devianti
indesiderati (od indesiderabili) per i quali forse non vale la
pena indugiare in strategie
più raffinate dell’individuazione, della valutazione del rischio prodotto e dell’esclusione, si presenta in forma diversa utilizzando per i soggetti
maggiormente “inclusi”, come
si vedrà oltre, strategie suadenti o striscianti all’interno
di analisi e risposte su un piano riduzionista che si declina
prevalentemente secondo una
prospettiva biologico-individuale, riconducendo cioè l’essere umano ad una “semplice
questione somatica”.
Da devianti a malati
Uno spot televisivo presenta
una scena a notte fonda con
una donna che danza commentata da una voce in sottofondo: “Probabilmente il
tuo medico non ti ha mai vista quando ti senti così”. L’inquadratura si sposta quindi
su una persona depressa con
un commento fuoricampo:
“Questo è cosa vede il tuo
medico abitualmente”. Nuova
scena: la donna ora fa shopping e nuovo commento: “Ecco perché tante persone con
disordini bipolari trattate per
la depressione non si sentono
meglio, perché la depressione
è solo la metà della storia”.
Gli spettatori a questo punto
sono invitati a collegarsi ad
un sito sponsorizzato da una
nota casa farmaceutica che
contiene un questionario di
autovalutazione, la presentazione di storie cliniche, l’invito ad approfondire il problema ed a trovare supporto. Lo
spot incoraggia quindi a presentare al proprio medico il
N. 167 - 2008
mente, richiede di trovare
“pazienti” affetti da tale sindrome. Non è un caso considerare poi come gli investimenti in marketing da parte
delle Aziende farmaceutiche
si rivelino di molto superiori
a quelli in ricerca (Angeli,
2004). Come commentare poi
la recente notizia di una ricerca che dimostrerebbe come, un farmaco come il Prozac, non risulterebbe efficace
nei casi di depressione lieve,
dopo anni di ricerche e campagne che ne evidenziavano
l’efficacia? Certo che la concomitanza della scadenza del
brevetto della molecola appare sospetta e non ci sarebbe
da stupirsi se arrivassero tra
poco in commercio nuovi farmaci più efficaci della precedente molecola naturalmente
con un nuovo brevetto. Fatto
sta che, leggendo come patologiche numerose manifestazioni della vita normale, si
incentiva un senso di inadeguatezza, di timore di malattia e di minaccia costanti la
cui soluzione non può che essere quella del ricorso alla
Medicina. Anche certi comportamenti e scelte (o forse
non scelte…) soggettive ben
si prestano a suscitare un certo interesse da parte della
Medicina e delle Aziende farmaceutiche: eccessi o inibizioni sul piano sessuale;
troppo impegno nel lavoro
(workaddiction) o poco (Sindrome demotivazionale? Depressione? Sindrome della fatica cronica?); dipendenza da
Internet, da gioco d’azzardo,
da relazioni, affetti, sesso, da
acquisti ed anche da sport diventano sempre più punto di
osservazione, di studio, di interesse da parte della Medici-
I Servizi per le dipendenze patologiche
na. Ecco quindi la scoperta di
“nuove patologie” – e nello
specifico di “nuove sindromi
da addiction” – sempre più
consone ad inglobare, in una
retorica di “malattia”, momenti ed eccessi tipici della
vita di ognuno di noi anche
grazie all’azione di quelli che
Becker (Becker, 1987) definiva come “imprenditori morali”. Si pensi ad esempio a come un’organizzazione inglese
– Action on Addiction – ci
renda consapevoli e preoccupati del fatto che «quasi tutti
hanno sperimentato una
qualche forma di dipendenza
(…) e un adulto su tre soffre
di una qualche variante»
mentre test e questionari sono a disposizione anche nel
web per verificare se si è
“normali” “problematici” o
“patologici”. L’operazione è
semplice. Il primo passo sta
nel creare un allarme sociale
ed una preoccupazione individuale (nuove malattie, nuove sindromi di cui ognuno
potenzialmente è a rischio);
in secondo luogo, ci si appropria di questo campo (questi
comportamenti sono individuati, spiegati e di dominio
della medicina), in terzo luogo vengono catalogati (inserimento nei manuali diagnostici) e finalmente giunge la
rassicurazione che sono in
corso ricerche, sono o saranno a disposizione farmaci, linee guida. Ciò non significa
che tali problemi non esistano, non debbano creare
preoccupazione e non debbano essere compresi. Tuttavia
queste condotte con le indiscutibili derive problematiche
che talvolta presentano e che
non possono che interrogare
– e con inquietudine – il no-
stro vivere sociale sempre più
sono spiegati all’interno di
un quadro in chiave prevalentemente di tipo biologicoindividuale e riduzionista.
Del resto, da tempo la tossicodipendenza è ormai stata
rubricata come eroinopatia
con un crescere di ricerche
sulle spiegazioni di ordine
biologico e sulle – ovvie – soluzioni di ordine farmacologico. Ed anche i luoghi della
cura del tossicomane non potevano non trasformarsi. I
“tossici”, i “ragazzi”; gli
“utenti”, i “clienti”, ora sono
“i pazienti” ed i Servizi deputati alla loro cura sono sempre più luoghi ove il modello
medico ha il sopravvento o
l’ultima parola. Le Comunità
stesse da luoghi di condivisione, di “rinascita” di “apprendimento di regole di vita,
di valori” sempre più sono “di
doppia diagnosi”. Da luoghi
ove si riapprendeva il contatto con sé, con la natura, con
il lavoro, con gli altri, con la
regola (intesa anche nel senso monacale della divisione
ordinata del tempo quale
contrapposizione al tempo
“spezzato ed indifferenziato”
per il tossicodipendente)
sembrano avere ora avere ceduto il passo a luoghi dove
non sono più il gruppo, l’altro, la relazione che rappresentano il perno dell’intervento spingendoti a fare i
conti con le tue inadeguatezze, con le tue fatiche. Ora
queste sono “lette”, “interpretate” e “risolte” dallo psichiatra “consulente” a cui
competerà la diagnosi ed il
farmaco appropriato per il disturbo: termine dal doppio
inquietante significato. Certamente l’appropriazione da
Sae l ute
Territorio 93
parte della Medicina dei comportamenti devianti, disturbanti, diversi non è nuova.
Essi sono stati nel passato
dominio della Chiesa (è peccato); quindi del Diritto (è
reato) per diventare gradualmente dominio della Medicina (è malattia). Già nel 1961
Rieff infatti osservava come
l’Ospedale stesse prendendo il
posto della Chiesa e del Parlamento come istituzione archetipa della cultura occidentale. Tutto ciò comporta che
“dal momento che il medico è
convinto d agire per il bene
del suo cliente, egli parte dal
presupposto che sia meglio
diagnosticare una malattia
piuttosto che negarla, rischiando di sottovalutarla o
di non individuarla”. In questo senso la Medicina è diversa dalla legge la quale presume sia meglio lasciare libero
un colpevole che condannare
un innocente (Scheff, 1974).
Ad essa – aggiungiamo noi –
viene poi lasciato un nuovo e
grande “spazio di manovra e
di giurisdizione”: quello di
appropriarsi di “indizi” di rischi potenziali che vanno appunto pre-venuti prima che
diventino distruttivi. Tale
operazione è ancora più subdola in quanto non si presenta come dettata da concetti
morali, da desideri di stigmatizzazione o di controllo sociale, anzi: “Una volta rimosse etichette come crimine e
peccato, ciò che viene fatto
al deviante è per il suo bene,
per aiutarlo invece che punirlo, anche se il trattamento
può, in alcune circostanze,
rappresentare una pratica restrittiva. Le opinioni del deviante non vengono tenute in
considerazione perché egli è
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e
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I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
considerato un profano inesperto, privo della conoscenza specializzata o del distacco che gli darebbero il diritto
di fare sentire la sua voce”
(Freidson 2002, p. 45). Tuttavia va riflettuto sul fatto che
per J.R. Pitts (1968, p. 391)
“l’annullamento della devianza avrebbe come conseguenza l’annullamento dei diritti
politici del deviante.” D’altro
canto uno studioso come Jellinek, pioniere negli studi
sull’alcolismo e noto per la
curva di Jellinek come descrizione della carriera dell’alcolista, osserva come nonostante non si sia riusciti ad individuare le cause e la possibile
cura dell’alcolismo – se si
tratti di un unico fattore o di
parecchi con cause diverse –
nondimeno esso non viene
considerato come malattia:
essendo una malattia ciò che
la professione medica riconosce come tale.
Sarebbe ingenuo però pensare
che la diffusione della medicalizzazione, anche di quella
della devianza, sia rimasta
ancorata ad un mero presupposto disciplinare ed organizzativo. Prova ne è che sul versante collettivo vi è ormai la
stabile acquisizione che il
processo di medicalizzazione
della vita (ben prima che della devianza!) sia un processo
necessario ed ineluttabile attraverso l’elogio del cittadino
sano, previdente ed attento
alla propria salute ed ai rischi
getti da controllare: su alcuni
di essi può essere più efficace
medicalizzare e “trattare”,
oppure indurre e stimolare; su
altri rimane preferibile valutare il rischio ed escludere.
In altre parole, ciò che sembra stia avvenendo per “gli
inclusi “non è tanto un focalizzarsi su pratiche costrittive, né su espressioni e comportamenti oppressivi, ma
nell’organizzazione e nella
contestualizzazione di ciò
che è spesso progettato o addirittura desiderato da un libero soggetto: nell’indicargli
modelli di vita, di consumo,
di prestazione. Salvo poi ritenerlo malato se “non riesce a
controllarsi” nei consumi e
negli eccessi.
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1
conseguenti. L’individuo tardo-moderno, differenziato,
autonomizzato ed isolato,
rappresenta poi un “oggetto”
sensibile e reattivo ai controlli disciplinari e sanzionatori,
ma quanto mai attratto dal
mirato stimolo di desideri ed
alla incessante proposizione
di modelli, all’interno dei
quali l’input alla salute ed al
benessere diviene generale,
inevitabile e doveroso fondamento del principio di successo individuale1. Sembrerebbe
pertanto configurarsi uno
scenario tardo-moderno nel
quale il biopotere sa muoversi
ed agire in modo fluido ed
adattabile, utilizzando strumenti diversi in base alle diverse caratteristiche dei sog-
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In questo contesto la medicalizzazione assume pertanto un ruolo dominante e, dati i presupposti, “conseguenza logica (e desiderata) è stata
quella di un processo di colonizzazione del corpo, della sua progressiva modernizzazione e estrinsecazione sociale, della sua rappresentazione e
delle sue forme di relazione nelle quali quel corpo doveva raggiungere (individualmente) le condizioni che lo avrebbero fatto sociale” (Cersosimo,
Rauty, 2000, p. 3).
N. 167 - 2008
Giorgio Bignami
Già ricercatore presso l’Istituto
superiore di sanità, Roma
L
unga e tormentata è la
storia dei confronti tra i
pericoli creati dai vari
tipi di droghe e di farmaci,
una storia che non dovrebbe
limitarsi agli aspetti medicoscientifici e alle strumentalizzazioni ideologiche e politiche, ma che andrebbe estesa alle analisi condotte dai
punti di vista di molte diverse discipline: dalla psicologia
alla sociologia, dalla storia
delle religioni alla antropologia culturale (per l’importanza delle analisi antropologiche e storico-antropologiche
v. per es (1,2), riguardanti le
tossicodipendenze soprattutto da oppiacei, e (3) per l’alcolismo). Una tale ampiezza
di trattazione ovviamente
non è possibile in questa sede, non solo per motivi di
spazio, ma anche a causa dei
limiti di competenza di chi
scrive.
Per alcune parti più antiche e
ampiamente note di questa
storia possono bastare alcuni
rapidi cenni. È noto, per
esempio, che le due sostanze
in assoluto di gran lunga più
rischiose sono l’alcol e il fumo di tabacco, sia per la gravità, varietà e frequenza delle patologie che essi provocano, sia per il carattere particolarmente “duro” delle dipendenze che creano: il che
rende particolarmente arduo
I Servizi per le dipendenze patologiche
Sae l ute
Territorio 95
La pericolosità
di sostanze legali
e illegali
il percorso dello svezzamento, anche per quei soggetti
che ritengono di aver deciso
irremovibilmente di smettere
di bere e/o di fumare dopo
un infarto, un ictus, una grave epatopatia. Così pure è
noto come gli interessi economici e politici abbiano
contribuito a dilatare e a incancrenire sia il problema
dell’alcolismo che quello del
tabagismo. Nel caso dell’alcol, le abitudini innocue, o
addirittura benefiche – sul
piano sia psichico che somatico (soprattutto riguardo al
sistema cardiovascolare) –
sviluppate nelle diverse culture, cioè l’uso moderato di
bevande a tasso alcolico basso o relativamente basso (vino, birra), sono state stravolte dalle strategie dei produttori (soprattutto di superalcolici) e dei beneficiari delle
loro elargizioni promozionali; e forse ancor di più dagli
interventi politici, come quel
proibizionismo negli Stati
Uniti che tra l’altro ha dato
una spinta decisiva allo sviluppo dell’economia criminale. Per contro non è mai stata
negata la patogenicità dell’assunzione eccessiva di alcolici, soprattutto quella di
prodotti di bassa qualità (casi limite sono la nostra grappa fatta in casa, ricca di alcol
metilico, mentre i vecchi
Criminalizzazione, tolleranza, promozione
di prodotti e farmaci in contrasto con il rischio
d’uso valutato scientificamente
americani ricordano il micidiale whisky clandestino Old
Tennis Shoe – vecchia scarpa
da tennis – termine sarcasticamente derivato dal classico
Bourbon Old Tennessee – Vecchio Tennessee); l’alcolismo è
stato piuttosto sfruttato per
legittimare gli interventi,
polizieschi e altri, mirati al
controllo di soggetti di basso
ceto, spesso etichettati come
“classi pericolose”.
La storia del fumo di tabacco,
anche questo con origini culturali connotate da un uso
moderato e selettivo, ha in
comune con quella dell’alcol
il ruolo dello strapotere economico e politico dei produttori e dei loro beneficiati; e
questo, soprattutto dopo il
dilagare della più redditizia
sigaretta in sostituzione del
sigaro, della pipa e del tabacco da annusare o masticare.
In luogo dell’impiego come
strumento di controllo sociale, che è stato nel caso del
tabacco assente o trascurabile, troviamo invece un lungo
(pluridecennale) periodo di
accanita resistenza dei produttori e dei loro complici –
non di rado ricercatori e me-
dici al di sopra di ogni sospetto – contro chiunque
osasse esibire prove della
grave patogenicità del fumo
di sigaretta, soprattutto ma
non soltanto come causa di
cancro polmonare (4). E una
volta ridotta e poi cessata
questa resistenza, di fronte
alle massicce evidenze tardivamente accettate non solo
dalla scienza medica, ma anche da parte dei laici e dei
politici, la battaglia è continuata su altri fronti: per negare la patogenicità del fumo
passivo; per creare la massima dipendenza possibile nel
maggior numero possibile di
soggetti, a partire da bambini e adolescenti, attraverso
l’aggiunta al tabacco delle sigarette di notevoli quantità
di nicotina; con messaggi
promozionali diretti e soprattutto indiretti e occulti,
mirati a neutralizzare gli avvertimenti prescritti dalla
normativa, come “Il fumo uccide”; infine con la promozione indiscriminata dei prodotti in quei Paesi meno sviluppati dove i consumi erano
relativamente ridotti, ma dove un incremento percentua-
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le pur limitato delle vendite,
verificandosi a fronte di un
“denominatore” costituito da
miliardi di potenziali utenti,
rappresenta una sorta di
evangelica moltiplicazione
dei pani e dei pesci a fronte
delle perdite subite nei Paesi
sviluppati.
Giudizi di pericolosità tra
l’800 e il ‘900
Tre esempi ormai storici si
possono rapidamente riportare per illustrare come si sono
sviluppate, dal tardo ‘800 in
poi, le mistificazioni dei giudizi di pericolosità. Il primo
riguarda il noto caso del lancio dell’acetilmorfina (eroina)
da parte della Bayer nel 1898,
come prodotto che avrebbe
consentito di massimizzare
gli effetti benefici della morfina eliminando quelli malefici, e, in particolare, la creazione di dipendenza (5). Le
caratteristiche dell’eroina –
oggi, per incidens, rivalutata
per alcuni usi medici nei quali si mostra più efficace della
morfina – e in particolare la
rapida induzione di high dopo somministrazione endovenosa, ne hanno fatto per lungo tempo la droga ideale per
gli interessi dell’ economia
criminale, soprattutto dopo
la fine del proibizionismo negli USA (1).
Qui si inserisce la seconda
grave mistificazione, avvenuta guarda caso proprio dopo
la fine del proibizionismo e
con ogni verosimiglianza favorita dagli intrecci tra politica ed economia criminale,
intrecci mirati a procurare un
“equo indennizzo” per il
“danno emergente” e il “lucro
cessante” sofferti da Al Capone, Lucky Luciano e altri ca-
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
pi-bastone con il brusco azzeramento dei profitti sugli alcolici clandestini: cioè la
classificazione della cannabis
da parte delle autorità americane come droga di elevata
pericolosità, accompagnata
da massicce campagne mediatiche, compresa la collaborazione di Hollywood con
film come Reefer madness,
letteralmente “follia da canne” (v. più oltre per il recente
rilancio della presunta psicopatogenicità della sostanza
come pretesto per l’escalation
proibizionista).
Passati gli anni della seconda
guerra mondiale e del dopoguerra, inizia la terza grande
offensiva per affermare la pericolosità di droghe relativamente innocue, come la cannabis, sostenendo nel contempo con giudizi di scarsa
pericolosità la diffusione di
alcuni nuovi tipi di psicofarmaci: cioè sia quelli destinati
a sostituire i vecchi (e certamente pericolosi) ipnoticosedativi, soprattutto ma non
soltanto barbiturici, sia soprattutto quelli destinati a
espandere il nuovo mercato
dei “tranquillanti minori” o
ansiolitici (6); un’analisi minuziosamente documentata e
aggiornata dei mille modi e
meccanismi con cui produttori, ricercatori e clinici fanno
passare lucciole per lanterne
è quella di Bobbio (7), a ogni
piè sospinto confermata da
specifiche indagini, come
quella che aggiorna i dati sui
rapporti tra medici e Industria negli Stati Uniti (8)).
L’introduzione verso la fine
degli anni ‘50 del secolo scorso delle prime benzodiazepine – il clordiazepossido (nome di marchio Librium), poi il
e meccanismi dell’enorme aumento delle vendite di psicofarmaci in tempi più recenti,
si veda l’analisi dei dati statunitensi per gli anni ‘80 e
‘90 (10)).
In Italia, l’aumento cominciò
a verificarsi solo qualche anno più tardi, soprattutto a
causa della perdurante e redditizia diffusione di pseudofarmaci come i “ricostituenti”, prodotti da aziende locali che avevano all’epoca un
forte peso contrattuale economico e politico. Ma essendo anno dopo anno notevolmente cresciuto il potere
delle multinazionali rispetto
a quello dei produttori nostrani, dopo la promulgazione della legge 1975/685 –
cioè quando una applicazione rigorosa di detta legge
avrebbe potuto ancora impedire l’escalation dei consumi
– le massime autorità sanitarie, contro un documentato
parere dell’Istituto superiore
di sanità (ISS), decisero di
collocare le benzodiazepine
tranquillanti-ansioltiche in
una categoria che comportava controlli puramente nominali (per un rendiconto con
più orribili dettagli sia di
questa vicenda che di alcuni
suoi strascichi in tempi successivi v. (11, 12)). Così per
molti anni non è stato difficile procurarsi i prodotti anche senza ricetta medica,
quasi fossero farmaci da banco; mentre molti medici, sotto la triplice pressione dei
luminari accademici e ospedalieri, dei promotori aziendali e dei pazienti che rischiavano di perdere in caso
di diniego (comparaggio a
parte), non hanno esitato a
farsi prescrittori à go go, il
diazepam (nome di marchio
Valium), poi molte altre – è
subito seguita dall’emergere
di forti evidenze della loro
capacità di produrre tolleranza e dipendenza: ed è la diffusione della consapevolezza
di questi rischi, quindi la
tempestiva adozione di adeguate misure di controllo prima che un gran numero di
soggetti siano diventati dipendenti e difficilmente
svezzabili, che vanno a tutti i
costi impedite.
A questi interessanti obiettivi è prevalentemente mirata
la Convenzione ONU sulle sostanze stupefacenti e psicotrope varata nel 1961 dalla
Conferenza di Vienna (9). Nel
1961 a Vienna, infatti, si
scontrarono gli interessi dei
Paesi più sviluppati, sedi della maggiori multinazionali
farmaceutiche (soprattutto
svizzere, statunitensi e britanniche), con quelli dei Paesi meno sviluppati, i maggiori produttori di sostanze naturali. I secondi, naturalmente, ebbero la peggio, e in
particolare la cannabis si ritrovò a essere gravemente
penalizzata, poco meno delle
sostanze più dure come l’amfetamina o l’eroina. Per contro, tutte le benzodiazepine
recanti l’ indicazione come
tranquillanti-ansiolitici vennero collocate in una delle
categorie meno rigorosamente controllate: e così dai primi anni ‘60 i volumi delle
vendite al livello mondiale,
quindi il numero dei soggetti
diventati assuntori cronici,
grazie al circolo vizioso tolleranza-dipendenza-difficoltà
di svezzamento, aumentarono di parecchi ordini di grandezza (per un’analisi di cause
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sistema tra l’altro più “economico” per togliersi dai piedi i postulanti rompiscatole.
E in breve volgere di tempo
questo concorso di diverse
cause ha consentito un aumento di parecchi ordini di
grandezza dei consumi,
quindi del numero di soggetti con marcata tolleranza e
forte dipendenza, nei quali i
tentativi di svezzamento per
lo più falliscono; e nei pochi
casi in cui sono coronati da
successo, ciò avviene solo
dopo prove di eroismo non
meno drammatiche di quelle
sostenute da Papageno nel
Flauto magico.
I problemi attuali
Passiamo ora a esaminare i
problemi attuali di maggior
rilievo che emergono sia dai
confronti tra droghe lecite e
illecite, sia da quelli tra droghe e psicofarmaci di uso
medico. In questo campo, tra
le analisi più aggiornate e
affidabili si trova quella condotta da un gruppo di ricercatori inglesi, i quali hanno
interpellato esperti particolarmente qualificati in vari
campi – medici psichiatri,
sociologi, ufficiali di polizia
– affinché si pronunciassero
su tre tipi di pericolosità:
danno fisico, dipendenza fisica e/o psicologica, danno
sociale, compresi i costi per
la sanità (13); un’ottima sintesi in italiano si trova in
(14). Ovviamente le varie
droghe lecite e illecite e i vari farmaci non sono stati posti dagli esperti nello stesso
ordine di pericolosità sotto i
tre aspetti appena citati, né
potremmo in questa sede
fornire tutti i dettagli, i
principali dei quali si trova-
I Servizi per le dipendenze patologiche
no in (14). Ma nell’insieme le
risposte sono state chiare: al
vertice della pericolosità
complessiva si trovano eroina e cocaina, seguono l’alcol, le benzodiazepine, le
amfetamine e il tabacco i
quali, a loro volta, precedono nella scala di pericolosità
varie altre sostanze, tra le
quali la cannabis e l’LSD.
Ciò, ovviamente, mette seriamente in questione le
classificazioni sia delle normative internazionali, sia
quelle vigenti nei singoli
Paesi, più o meno proibizioniste che siano.
A questo punto colpiscono in
modo sempre più clamoroso
due opposti tipi di fenomeni:
cioè da un lato il persistente
(o addirittura crescente) accanimento repressivo contro
alcune droghe illecite a bassa
pericolosità, tale da richiedere in casi estremi come quello della cannabis la chiamata
in causa di una “sacralità del
divieto”, che pone il bando
“oltre il confine di ciò che
chiamiamo discorso scientifico” (15); dall’altro, nel caso
di droghe lecite ad alta pericolosità e di molti psicofarmaci, la minimizzazione dei
rischi, accompagnata nel caso dei farmaci da una esaltazione dei supposti benefici
terapeutici, una esaltazione
basata in buona parte su modelli neurobiologici di patologie psichiche e di meccanismi d’azione dei prodotti
tanto poco convalidati da essere soggetti a quotidiane
trasmutazioni (16,17). E anche quando si ammette l’esistenza di gravi rischi, questo
raramente si accompagna ad
appropriate misure di controllo e prevenzione, date le
forti resistenze economiche e
politiche.
Giudizi di pericolosità delle
droghe
Il caso più noto è quello del
recente inasprirsi dell’offensiva contro la cannabis, sostanza che da noi, dopo le
sanzioni imposte dalla Convenzione di Vienna e dopo
una prima escalation con la
legge Jervolino-Vassalli, grazie alla legge Fini-Giovanardi
è finita nella Tabella unica,
cioè in un’unica ammucchiata con le droghe più pesanti,
senza deroghe per eventuali
usi terapeutici. Dopo le innumerevoli indagini condotte
decennio dopo decennio anche da commissioni ufficiali
di esperti di vari Paesi, che
hanno sostenuto la relativa
innocuità della cannabis (1820), e inoltre (21) per una
delle più recenti prese di un
prestigioso organo collegiale,
The Advisory Council on the
Misuse of Drugs, ACMD, che
fornisce consulenza sulle droghe al Governo britannico,
sono ripartiti all’attacco sia
medici e scienziati che media
e politici, anche in Paesi come il Regno Unito che, a differenza di molti altri, dietro
consiglio appunto dell’ACMD,
avevano qualche anno fa cautamente fatto marcia indietro
rispetto al proibizionismo più
spinto.
I ricercatori biomedici e i clinici, oltre che ad insistere
sulla maggiore pericolosità di
prodotti come il cosiddetto
skunk, ottenuti con vari artifizi e caratterizzati da tassi di
principi attivi (cannabinoidi)
assai più elevati dei prodotti
tradizionali (ma sulla cui effettiva diffusione sussistono
Sae l ute
Territorio 97
dubbi consistenti), hanno ripetutamente indagato sul
possibile legame fra assunzione di cannabis e patologia
mentale, trovando a più riprese correlazioni statisticamente significative (22-26).
Tuttavia nelle sedi mediatiche e politiche si sono per lo
più intenzionalmente ignorate o minimizzate quelle riserve sulle quali insistono gli
stessi ricercatori, le quali riguardano le difficoltà di interpretazione dei dati. Per
definizione, infatti, correlazione e causazione spesso
non coincidono; e se causazione esiste, una correlazione
non può indicare se A è causa
di B, o viceversa, o se un terzo incomodo C è causa sia di
A che di B.
La riserva più ovvia è, che
ammesso e non concesso che
esista un reale rapporto causa-effetto, è estremamente
difficile la verifica della sua
direzione; in altre parole, è il
consumo di cannabis la causa
di patologia mentale, o è vero
piuttosto che molti soggetti
con sofferenza psichica non
ancora dichiarata, o comunque non ancora diagnosticata
al livello clinico, ricorrono
con maggior frequenza e intensità al consumo di cannabis come automedicazione
per i loro problemi? Questa
seconda ipotesi è tra l’altro
rafforzata da quegli studi nei
quali si è esercitato un controllo pur soltanto parziale
sui fattori cosiddetti di
confondimento: il che ha
prodotto una riduzione notevole dei valori delle correlazioni, pur non annullandone
la significatività statistica
(26). Pertanto ci si deve chiedere cosa accadrebbe se si
l ute
Sa
e
98 Territorio
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
trovassero i modi e metodi,
oggi non disponibili, di pervenire a un controllo completo sui fattori di confondimento. Per tale controllo si
richiedono in genere studi
prospettivi randomizzati in
doppio cieco, cioè nel caso in
questione, si dovrebbe: assegnare a caso soggetti che non
hanno mai assunto cannabis
a uno o più gruppi “cannabis” e a un gruppo “placebo”,
senza che né gli sperimentatori, né i soggetti sappiano a
quale gruppo appartenga un
dato soggetto; valutare, al
termine del periodo sperimentale prestabilito, le condizioni psichiche di tutti i
soggetti, avendo strada facendo raccolto tutte le informazioni su eventi o situazioni che potrebbero inquinare i
risultati, ma senza ancora sapere a quale gruppo ognuno
di essi appartiene; infine,
scoprire i codici segreti di appartenenza ai gruppi, per poi
valutare con appropriati metodi statistici se esistano differenze significative tra veri
e falsi assuntori.
Ora è chiaro che un tale esperimento è impossibile, sia per
motivi etici, sia per motivi
tecnici (cioè quale potrebbe
essere il placebo che, assunto
invece della cannabis, produce effetti soggettivi e oggettivi indistinguibili da quelli
della droga, da parte sia degli sperimentatori che dei
soggetti dell’esperimento?)
Esistono, è vero, metodi approssimati assai complessi
per verificare ipotesi opposte, come quelle qui in ballo,
in casi in cui per motivi etici
e/o tecnici la via del “prospettivo randomizzato in
doppio cieco” non è percorri-
bile: ma ciò non è stato sinora fatto per la cannabis (e
probabilmente non è fattibile, a parte il fatto che in molti casi i “doppio cieco” hanno
smentito gli altri condotti in
alternativa); e come si è già
detto, quel poco che si è potuto fare per attenuare il
ruolo dei fattori di confondimento ha subito ridotto la
probabilità di un rapporto tra
consumo di cannabis e patologia mentale.
Un altro aspetto negativo
dell’accanimento contro la
cannabis è quello dei gravi
ostacoli che seguitano a opporsi a studi rigorosamente
controllati sulla sua efficacia
terapeutica almeno di tipo
palliativo, un’efficacia ampiamente documentata dall’esperienza clinica e da studi
osservazionali che riguarda
un’ampia varietà di patologie
neurologiche (soprattutto
ma non soltanto la sclerosi
multipla), oculari (soprattutto il glaucoma) e altre che
producono gravi sofferenze
somatiche e psichiche di vario genere, come l’AIDS
(27,28). I soloni della farmacologia ufficiale, infatti, seguitano anno dopo anno a
sentenziare che non esistono
prove sufficienti per formalizzare una serie di indicazioni terapeutiche della cannabis, così impedendo che questa faccia concorrenza ai più
lucrosi farmaci industriali.
Apparentemente essi confidano nel fatto che sinché resteranno in vigore i regimi
proibizionisti, gli studi necessari, salvo alcune rare e
lodevoli eccezioni, non potranno essere condotti.
Altri esempi si potrebbero
addurre di accanimento con-
nizio del trattamento) – sono
emerse ampie prove di altri
tipi di danni causati dalle
benzodiazepine, come le disfunzioni cognitive (disturbi
della memoria a breve termine, stati confusionali) e vari
fenomeni di disinibizione
(agitazione psicomotoria,
perdita di controllo sugli impulsi aggressivi, paranoia)
(30).
Anche le benzodiazepine sono invecchiate e quindi sfuggite poco a poco ai vincoli
brevettutali, con una conseguente riduzione dei relativi
margini di profitto. Quindi
molti tentativi sono stati fatti per mettere a punto successive generazioni di ipnotico-sedativi e ansiolitici di diverse classi chimico-farmaceutiche. Questi tuttavia non
hanno avuto il successo sperato, per un motivo molto
semplice: cioè, il loro assai
minore effetto gratificante,
quella “valenza edonica” che
insieme alla necessità di combattere i sintomi di astinenza
dopo assunzioni prolungate,
ha fatto continuamente crescere la domanda di prodotti
benzodiazepinici.
A parte il fatto che anche a
prezzi ridotti le benzodiazepine, vendute in quantità
sempre più massicce, seguitano a rappresentare un ottimo affare – in Italia, si noti,
la irresistibilità della domanda è particolarmente evidente: salvo alcune indicazioni
minoritarie, infatti, come
quella antiepilettica, le benzodiazepine si pagano di tasca propria, non essendo a
carico del Servizio sanitario
nazionale (SSN) – l’ingegno
degli esperti di cambio della
guardia tra prodotti vecchi e
tro prodotti naturali a bassa
pericolosità, come quelle foglie di coca diventate pericolose solo a seguito del loro
impiego per la produzione e
il successivo commercio criminale di enormi quantitativi del principio attivo puro,
la cocaina. La penalizzazione
della foglia di coca serve ovviamente anche scopi politici, come quello di legittimare
gli interventi statunitensi
nel Sud del continente, le politiche del regime colombiano, le scorrettezze con le
quali si tenta di mettere in
condizioni di non nuocere lo
scomodo cocalero Evo Morales. Ma a questo punto, possiamo rinviare alla nota opera di Saviano (29): meglio di
tanti studi scientifici e documenti ufficiali, essa infatti
spiega fuori dai denti come
in tanti settori, oltre a quello
della droga, siano sempre più
stretti i rapporti tra le economie legali e criminali “globalizzate” e tra queste e molte
forze politiche nazionali e
sovranazionali.
Giudizi sui rischi e benefici
degli psicofarmaci di uso medico-psichiatrico
Già si è fatto cenno, parlando
di ipnotico sedativi e ansiolitici di successive generazioni, ai meccanismi che sin da
tempi ormai remoti sono serviti a favorire i “cambi della
guardia” tra farmaci vecchi e
nuovi. Da allora, oltre alle
evidenze sempre più forti sui
fenomeni di tolleranza e dipendenza – e quindi sulla
gravità delle sindromi da
astinenza, anche con “sintomi da rimbalzo” (ansietà, insonnia e disturbi emotivi più
intensi che non prima dell’i-
N. 167 - 2008
nuovi non ha cessato di
aguzzarsi, allo scopo di dirottare almeno una parte degli assuntori di benzodiazepine verso prodotti di altre
classi, più redditizi in quanto di generazioni più recenti.
Così, per esempio, si è “scoperto” che molti soggetti con
sindromi d’ansia e altre sintomatologie tradizionalmente trattate con benzodiazepine potevano esser meglio
curati con antidepressivi, soprattutto quelli più nuovi e
costosi. Siamo così arrivati
allo scottante e attualissimo
problema della reale efficacia
degli antidepressivi, del reale rapporto beneficio/rischio
in rapporto agli effetti collaterali, infine a quello dei reali vantaggi dei successivi
passaggi da una generazione
all’altra dei prodotti. E su
questo territorio è passato
negli ultimi tempi più di uno
tsunami.
Qui va preliminarmente ricordato che sin dalla prima
introduzione degli antidepressivi negli anni ‘50, tutte
le valutazioni più affidabili
avevano dovuto riconoscere
che la loro efficacia era
tutt’altro che uniforme, rispondendo alla regola cosiddetta dei “tre terzi”: cioè un
terzo dei pazienti trattati,
così come un terzo dei trattati con placebo, non miglioravano; un altro terzo dei pazienti miglioravano ugualmente sia col farmaco che col
placebo; e infine in un ultimo terzo si riscontrava con il
farmaco un miglioramento
superiore a quello del gruppo
placebo. Inoltre molto si è
discusso sugli effettivi benefici del passaggio dalle prime
generazioni di prodotti, so-
I Servizi per le dipendenze patologiche
prattutto i cosiddetti triciclici, alle generazioni successive e in particolare ai prodotti
inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina
(SSRI), come il Prozac. Infatti da un lato non sembra si
sia mai modificata in senso
favorevole la succitata regola
dei tre terzi, mentre in luogo
degli effetti collaterali spesso appariscenti, ma per lo
più non pericolosi (salvo le
aritmie cardiache), dei vecchi prodotti (a causa della loro azione anticolinergica
causavano secchezza delle
mucose, disturbi della urinazione, riduzione della potenza sessuale) si andavano via
via dimostrando effetti collaterali meno appariscenti, ma
a volte assai pericolosi, sino
all’aumentato rischio di suicidio (31).
Malgrado questi problemi, è
proseguita senza soste una
massiccia azione promozionale mirata a far crescere le
prescrizioni e i consumi di
antidepressivi. Si è così arrivati a inventare giustificazioni per includere tra i trattati non soltanto i soggetti
clinicamente ammalati – giustificata o meno che fosse la
diagnosi di depressione: con
i criteri della “Bibbia diagnostica” più ampiamente diffusa, il DSM-IV dell’associazione degli psichiatri americani,
è facile dichiarare depressa
una persona che soffre solo
di un transitorio salto dell’umore, con conseguenti alterazioni dei suoi ritmi di attività, a causa di qualche
evento negativo nel suo percorso di vita – ma anche soggetti clinicamente sani: sani,
sì, ma aspiranti a un senso
“sopranormale” di benessere,
a una maggiore efficienza e
quindi a un maggior successo
nel lavoro, a una più elevata
facilità di socializzazione,
ecc. ecc. Tale escalation, tuttavia, è incappata negli ultimi anni in una serie di ostacoli creati da nuovi studi e
da più accurate analisi dei risultati più vecchi. In particolare:
1. L’efficacia dei prodotti è
stata ulteriormente ridotta
in base a un esame congiunto sia dei risultati
pubblicati, per lo più ottenuti in studi sponsorizzati
dalle Ditte, sia di quelli
non pubblicati e stanati
dai depositi della FDA (l’Agenzia statunitense per
farmaci e alimenti), dopo
lunghe battaglie legali in
base alla legge americana
che esige di fornire, a particolari condizioni, i documenti in possesso delle
pubbliche Amministrazioni (32-34). Ancora di più si
è ridotto il rapporto beneficio/rischio, a causa del
già citato graduale affioramento di effetti collaterali
più gravi di quelli originariamente svelati.
2. Analisi ancor più approfondite hanno mostrato
come antidepressivi e placebo abbiano pari efficacia
nella grande maggioranza
dei pazienti con depressione lieve e di media gravità,
mentre è solo nei pazienti
con depressione più grave
che resta un piccolo vantaggio del trattamento farmacologico, in quanto il
placebo perde parte della
sua efficacia (35). Per un
altro spinoso problema
tecnicamente più complesso, quello della effettiva
Sae l ute
Territorio 99
validità di studi tutti condotti senza sapere se gli
effetti dei farmaci e quelli
del placebo rispondano a
un modello additivo o a un
modello interattivo (nella
seconda eventualità sarebbero tutti invalidi) dobbiamo rinviare a uno degli
studi già citati (32).
I problemi non finiscono
mai
Non possiamo estendere oltre
questo campionamento dei
problemi sia remoti che attuali. Nel campo delle valutazioni sulle droghe, si dovrebbe per esempio ancora discutere perché i ricercatori inglesi abbiano assegnato un
così basso livello di pericolosità a una sostanza così universalmente demonizzata come l’allucinogeno LSD. Brevemente: in base al fatto che
esso non viene praticamente
mai iniettato in vena, che la
dipendenza fisica che esso
può produrre è minima o nulla, che dato il tipo di effetto,
di per sé scevro di “valenze
edoniche”, il numero degli
assuntori e potenziali assuntori è assai ridotto (13,14). E
come tale basso rischio renda
assurdo il blocco oramai pluridecennale di ogni sperimentazione pur condotta col
massimo di garanzie scientifico-professionali, etiche e
altre.
Nel campo delle valutazioni
sui farmaci, non possiamo
estendere l’analisi ad altre
classi di prodotti: come gli
antipsicotici o neurolettici,
per i quali sono ampiamente
dimostrati livelli di efficacia
terapeutica assai meno brillanti di quelli generalmente
propagandati, livelli di ri-
l ute
Sa
e
100 Territorio
schio assai maggiori di quelli
generalmente ammessi e notevoli storture nella maggioranza delle sperimentazioni
miranti a dimostrare la superiorità di ciascuna nuova generazione di nuovi e più costosi prodotti rispetto alle
precedenti (per una analisi
aggiornata ai primi anni ‘90,
v. (36); per analisi più recenti, v. (37, 38); o come i vari
psicostimolanti e altri farmaci (soprattutto ma non soltanto gli antidepressivi e i
cosiddetti stabilizzatori dell’umore, come il va,proato),
di cui si vantano gli effetti
terapeutici in bambini e ragazzi con diagnosi di ipercinesia, deficit di attenzione o
depressione precoce.
Su due ultimi punti, tuttavia, vorremmo richiamare
l’attenzione del lettore. Il
primo riguarda i dati sempre
più preoccupanti sull’assunzione di bevande alcoliche da
parte di soggetti particolarmente vulnerabili come gli
adolescenti, i giovani adulti
e le donne. Per esempio, una
recente indagine sui consumi
in discoteca (Progetto “Il pilota” dell’Osservatorio nazionale Alcol dell’Istituto superiore di sanità, in collaborazione con la Società italiana
di alcologia), i cui risultati
sono stati presentati all’ Alcol Prevention Day ISS il
17.04.08, ha mostrato che in
una serata i ragazzi bevono
in media 4 bicchieri (1,5 di
breezer o aperitivo alcolico,
1,5 di birra e 1 di superalcolico), le ragazze in media 3; e
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
che per buona giunta, una
quota consistente di tali consumi è attribuibile a soggetti
al di sotto dell’età legale.
Il secondo punto riguarda dati statunitensii che dimostrano un progressivo spostamento dei consumi adolescenziali e giovanili, in gran
parte per timore delle gravi
sanzioni penali, da droghe illecite per lo più innocue o
poco rischiose, per tipo e per
quantità assunte (il caso più
frequente e ovvio è quello degli spinelli fumati con moderazione) a farmaci di uso medico, procurati in modo ora
lecito ora illecito e in genere
assai più pericolosi: soprattutto sedativi, narcoticoanalgesici (in particolare l’
oxycodone, un oppiaceo di
sintesi) e psicostimolanti
(39-41). Un tale effetto perverso di un proibizionismo
estremista e forsennato non
ha bisogno di commenti, né a
nostra conoscenza sono disponibili dati per valutare se
un analogo fenomeno si stia
verificando anche in Italia.
sono per lo più dotati di sano
buon senso; e magari anche
di un pizzico di senso del ridicolo, che li trattiene dall’intervenire in forze, nel cuore della notte, per sradicare
tre piantine di Cannabis indica da un vasetto sul balcone
o da un angolo dell’orticello
domestico, e poi condurre in
cella a sirene spiegate, se ancora vivi dopo i pestaggi, i
“rei” ammanettati, quasi fossero rapinatori armati sino ai
denti pronti alla strage, o serial killer di prostitute extracomunitarie minorenni.
Insomma, la correttezza, o
viceversa la mistificazione,
delle valutazioni scientifiche
sono certamente importanti;
e così pure sono importanti
le normative più o meno
proibizioniste e repressive di
cui sono responsabili i politici, che condizionano pesantemente il modo come vengono trattati i problemi della
droga. Ma forse ancora più
importanti sono il clima, la
cultura, gli atteggiamenti
dell’uomo della strada, dai
quali dipendono in buona
misura i comportamenti dei
singoli appartenenti alle forze dell’ordine e alla magistratura. Questi ricevono deleghe
il cui corretto esercizio è
spesso delicato e difficile:
deleghe di vigilare, ciascuno
nei limiti delle proprie competenze, sul rispetto dei diritti civili e sulla sicurezza di
tutti, senza ricorrere ai metodi dell’Inquisizione, ai roghi di streghe e ai loro moderni equivalenti.
Considerazioni conclusive
I fenomeni sin qui analizzati
in modo pur selettivo e sommario vanno visti nel contesto del grave deterioramento
della situazione italiana nel
mutato quadro politico-culturale. Qui va anche ricordato
come a forza di veti incrociati
e di eccessivo rispetto per i
medesimi, praticamente nulla
è stato applicato del programma del centrosinistra in
materia di tossicodipenden-
ze: la Fini-Giovanardi, in particolare, è uscita senza un
graffio dalla legislatura appena conclusa. Tutto ciò non
consente neanche il più cauto ottimismo sugli sviluppi
dei prossimi anni, quindi sui
destini di innumerevoli soggetti, per lo più di categorie
deboli, i quali subiscono le
conseguenze non solo di una
normativa tendente alla tolleranza zero, rigida e repressiva, ma anche di un atteggiamento ideologico e operativo di buona parte delle forze dell’ordine e di non piccola
parte della magistratura, che
tende a inasprire al massimo
le conseguenze negative di
tale normativa.
Nel Regno Unito oggi molto si
discute delle pressioni esercitate sul prestigioso organo
consultivo competente (il già
citato ACMD) dal governo
Brown e dai media che lo sostengono, perché si rimangi il
precedente parere sulla cannabis, aprendo la strada alla
sua risalita verso una classe
di droghe più “dure” (la B anziché la C). Ora, se andiamo a
vedere la normativa attualmente in vigore in Gran Bretagna per le sostanze in C,
constateremo che essa consente condanne sino a ben
due anni di galera per semplice possesso. Tuttavia tale
“reato” – un reato, appunto,
tra molte virgolette – raramente è bersagliato dalle
azioni delle forze dell’ordine
e raramente conduce a una
condanna penale. Poliziotti e
magistrati britannici, infatti,
N. 167 - 2008
I Servizi per le dipendenze patologiche
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(segue da pag. 90):
Dalla miopia alla diplopia
Non stupisce il moltiplicarsi
della “doppia diagnosi”; secondo lo spezzone esaminato
quel film è ora un trhiller, ora
una commedia rosa, ora un
erotico, ora un noir.
Ignorano, gli amanti della
diagnosi situazionale-sintomatologica, tipo DSM IV TR,
che la task force dell’APA, che
sta predisponendo il futuro
DSMV, pare fare, dai documenti preliminari (17), un
passo indietro rispetto all’inquadramento sindromico delle psicosi, ritornando all’ultimo Bleuler che considera l’espressività sintomatica un
“continuum”, suggerendo
quindi che la diagnosi è una
metafora semplificante che,
se aiuta i tecnici a sveltire la
comunicazione, è appunto un
codice metaforico, non la descrizione geografica-matema-
tica della realtà: un canovaccio approssimativo, non una
mappa satellitare.
Il “furor diagnosticandi” diploico inoltre non sembra tener conto che se, su una generica diagnosi di disturbo di
personalità, c’è una discreta
concordanza tra psichiatri
USA ed europei, quando si articola la diagnosi in cluster o
sottotipi la concordanza scema decisamente a valori incompatibili col rigore scientifico, rendendo aleatoria la
confrontabilità del dato diagnostico. Certo, come scriveva
la Siani 20 anni fa “il compito
assegnato ai Servizi è il controllo sociale, la scelta di curare è un optional il cui prezzo
è a carico degli operatori”;
ma, rivolgendomi soprattutto
agli aspiranti guaritori, pongo
alcune domande senza risposta Qual è il target atteso dalla “tolleranza zero”?
1. Medico-salutista?Allora
N. 167 - 2008
The trend toward prescription drugs, The New England Journal of Medicine, 354, pp. 1448-50.
(41) Boyd C.J., McCabe S.E., Cranford J.A., Young A. (2007), Prescription drug abuse and diversion among adolescents in a Southeast Michigan school district, Archives of Pediatrics and Adolescent Medicine,
161, pp. 276-81.
perchè non proibire le sostanze, a seconda della loro reale tossicità?
2. Di ordine pubblico?Allora
perché delegare al “mercato
nero” la gestione di sostanze anche a bassa tossicità?
Questo sì implementa la micro e macro criminalità.
Viene il dubbio che la scelta
della criminalizzazione possa
essere connesso al fatto che i
consumi di sostanze “altre”
sottraggano liquidità al mercato “legale” di altre merci.
Ma se così fosse dovremmo riflettere sul fatto che tutte le
sostanze importate dai Paesi
colonizzati (attuale “terzo
mondo”) hanno avuto il medesimo percorso:
1. Criminalizzazione – ca
‘400/’600;
2. Monopolio – ca ‘600/’800;
3. Libero mercato ‘800/oggi.
Si pensi al the, al cacao, al tabacco ed alle pene cruente
comminate ai consumato-
ri, nella prima fase di consumo, dall’Inghilterra alla
Turchia.
È ancora troppo presto perché
lo Stato pensi ad un monopolio, nonostante che fino agli
inizi del ‘900 marijuana, cocaina ed eroina fossero legali
(dall’uso personale di Freud
alla produzione dell’eroina
Schiapparelli).
Qual’è in questa prospettiva il
senso della criminalizzazione
delle “nuove sostanze” prodotte in Occidente in laboratori molto simili a quelli delle
lobbies farmaceutiche?
Qual’è la commistione tra
mercato legale (desease mongering) ed illegale? Si pensi
alla buprenorfina, legale in
Italia e vietata in Francia perché diventata la prima droga
d’abuso (18). Non rischiamo
noi operatori di costituirci
come” coloro che valicano i
postulati preconcetti del senso comune”? (19)
Bibliografia
(10) Arvidsson A. (1971), Consumi, media e identità nel lungo dopoguerra.
(1) Foucoult M., Storia della follia nell’età classica-Panopticon-Io Pier
Riviere.
(11) Merton R. (1974), Teoria e struttura sociale, Il Mulino, Bologna.
(12) Galimberti, L’Ospite inquietante.
(2) Pinel P. (1800), La Mania.
(13) Lombardo Radice M., Giovani senza rivoluzione.
(3) Basaglia F. (2000), Scritti; Conferenze Brasiliane.
(14) Vento N., I giovani proletari, l’ideologia e il tempo libero.
(4) Sasz T. (1974) Il mito della droga.
(5) Morin E. (1977-2004), La méthode.
(15) Croce G.P. Di Loreto; Sani e malati, Liberazione 19/03/08;
www.ilsemesottolaneve.
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(16) Saviano (2007) Gomorra.
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(17) American Psychiatric Associaton: Decostructing Psycosis,
www.dsm.org/conference5.cfn
(8) Gorgolini L. (2006), Pratiche e luoghi comuni dei consumi giovanili
negli anni ‘60.
(18) Valleur M. (2004), Rapporto annuale, www.marmotan.fr
(9) Capuzzo P. (2006), Culture del consumo.
(19) Khun, Storia delle rivoluzioni scientifiche, Ed. Einaudi.
N. 167 - 2008
Franco Prina
Dipartimento di Scienze sociali,
Università di Torino
D
a qualche decennio
nelle società dell’Europa meridionale, in particolare in Italia, si va delineando una trasformazione
nei modelli del bere, caratterizzata – nonostante una
scarsa percezione di ciò a livello di senso comune – da
una forte contrazione della
quantità di bevande alcoliche
consumate.
L’Italia, negli ultimi trent’anni, ha avuto la più alta riduzione dei consumi alcolici tra
i Paesi europei: dai 15,9 litri
di alcol puro pro-capite del
1970 ai 6,9 del 2005, con una
continua, costante discesa.
Tale tendenza è soprattutto
attribuibile alla drastica riduzione del consumo di vino
(più che dimezzato, poiché si
passa dai 113,7 litri pro-capite annui del 1970 ai 48,8 litri
del 2006), non compensata
dalla birra, pur passata dagli
11,3 litri del 1970 ai 29,7 del
2005.
Contemporaneamente alla riduzione, si è assistito a una
lenta trasformazione delle
modalità del bere, con un apparente avvicinamento ai
modelli di consumo nord-europei, soprattutto da parte
delle più giovani generazioni.
Venuto meno il valore nutrizionale ed alimentare, si è verificato un incremento dell’uso di alcol legato alla socia-
I Servizi per le dipendenze patologiche
Sae l ute
Territorio 103
Le modificazioni
dell’uso di alcol
lità e, in parte, alla sua valenza di sostanza psicoattiva.
È dunque di grande interesse
interrogarsi su quali fenomeni siano all’origine della
profonda modificazione che
ha investito il rapporto tra
individui e bevande alcoliche,
in particolare il vino, nel nostro contesto e su quali siano
le tendenze in atto. Un interesse accresciuto dal fatto
che proprio in questo periodo, a livello dell’Unione europea, si è aperta la discussione
sull’opportunità di rendere
più omogenee le politiche dei
singoli Stati in molti campi.
Ciò investe anche la materia
“alcol”, con riflessioni che riguardano sia gli aspetti di rilevanza economica, sia le
preoccupazioni inerenti la salute e l’ordine pubblico. In
questo contesto, il caso italiano della significativa riduzione dei consumi in assenza
di politiche di controllo di tipo formale e istituzionale,
appare tanto interessante
quanto poco esplorato. Si è
parlato, al proposito, di “paradosso italiano”: nel nostro
Paese è stato possibile un decremento dei consumi di alcol
nella sostanziale assenza di
politiche di prevenzione e
controllo, mentre – nello
stesso periodo di tempo – i
consumi alcolici sono aumentati proprio laddove, nell’Eu-
La controtendenza italiana della diminuzione
del consumo. Le ragioni culturali del fenomeno
ropa “proibizionista” del
nord, tali politiche sono intense e pervasive.
Ecco dunque le ragioni per la
ricerca di risposte a domande
di grande rilievo: perché gli
italiani, dall’inizio degli anni
’70, dopo un periodo di forte
crescita che ha attraversato
gli anni ’50 e ’60, hanno cominciato a ridurre il consumo
di vino passando da valori
molto elevati a valori moderati, che approssimano i livelli
raccomandati dagli organismi
internazionali per la protezione della salute? Quali fattori sono stati capaci di influenzare le scelte in ordine
al quanto, al come e al perché
bere nel contesto di una cultura così permeata della dimensione sociale e alimentare del vino? Possiamo parlare
di meccanismi di “autoregolazione” che hanno permesso
agli individui di adattare
spontaneamente le loro modalità di rapporto con le bevande alcoliche alle nuove
esigenze imposte dalle trasformazioni sociali? Infine: si
tratta di una tendenza –
quella della diminuzione dei
consumi – che proseguirà nel
tempo, oppure assisteremo
presto ad una inversione del
trend, come sembrano lasciare intravedere i consumi delle
giovani generazioni?
Intorno a queste domande si
è sviluppato un ampio lavoro
di ricerca, di cui qui richiamiamo alcuni elementi, soprattutto conclusivi, rimandando (in particolare per i
dati che sostanziano le affermazioni qui svolte) ai lavori
che più compiutamente li
espongono: il primo dedicato
alle trasformazioni del bere
in Italia nel periodo 19702005 (Allamani A., Cipriani
F., Prina F., 2006); il secondo
ad una compiuta ricognizione
delle ricerche e dei dati disponibili sul bere giovanile
(Beccaria F., 2007; Beccaria
F., Prina F., 2008).
I fattori all’origine della diminuzione dei consumi di
alcol in Italia
Perché dunque gli italiani,
dall’inizio degli anni ’70, in
assenza di politiche di controllo del bere, hanno cominciato a ridurre il consumo di
alcol? Per formulare una risposta esauriente si è scelto,
l ute
Sa
e
104 Territorio
in primo luogo, di descrivere i
mutamenti nei consumi alcolici in Italia dal 1970 e di porli in relazione con una serie
di indicatori dei mutamenti
nei consumi alimentari e negli stili di vita. Si è poi andati
alla ricerca dei meccanismi
generatori del cambiamento,
a livello delle scelte individuali, esplorando, con l’aiuto
di una metodologia di tipo
qualitativo, i nessi tra mutamenti nei modi di pensare e
negli stili di vita degli individui e la diminuzione nel consumo di alcolici.
I risultati cui si è pervenuti –
relativamente alla ricerca
quantitativa – possono essere
così riassunti (Cipriani F., Prina F., 2006).
Il consumo di vino ed alcol in
Italia è coerente con la tendenza internazionale alla
convergenza dei consumi alcolici, con riduzione della bevanda tradizionale ed incremento, per sostituzione o sovrapposizione, delle nuove
bevande, soprattutto nelle
generazioni più giovani. Di
qui una tendenza alla convergenza del consumo di bevande alcoliche nelle differenti
aree del Paese, sostenuto da
una maggiore riduzione del
vino nelle Regioni storicamente a più elevato consumo.
La diminuzione del consumo
non si è manifestata omogeneamente in tutte le categorie: osserviamo una riduzione
dei non bevitori e un incremento relativo dei modici bevitori; cresce il numero di bevitori soprattutto tra i giovani e le femmine. La diminuzione è dunque sostenuta soprattutto dalla riduzione del
numero dei forti bevitori (oltre mezzo litro di vino al
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
giorno), nella categoria che
più contribuiva a determinare il livello del consumo medio: i maschi adulti.
Il profilo del maggior consumatore di vino in Italia era
intensamente legato alla tradizione rurale: parte dell’alimentazione, il vino era ritenuto bevanda priva di rischi,
legata a valori positivi, sia
nutrizionali che relazionali.
Non poteva dunque essere
senza conseguenze sui consumi il distacco di molta parte della popolazione da quella tradizione, nel passaggio di
grandi masse alle città.
La crescita del consumo di vino tra gli anni ’50 e ’60 è coerente con l’aumento del potere d’acquisto degli italiani:
dopo gli anni di grande povertà, nelle tasche degli italiani c’erano risorse, tra altri
beni di consumo, anche per
quantità maggiori di vino. Al
punto di saturazione degli acquisti alimentari della fine
degli anni ’60, fattori diversi
dal reddito e potere d’acquisto, prezzi e mercato devono
essere considerati per spiegare la riduzione della domanda
di vino.
L’analisi dei trend temporali
di consumo di alimenti e bevande, conferma che il vino
segue l’andamento in diminuzione di altri alimenti tradizionali della cultura rurale,
tra cui pane, pasta, legumi
secchi, riso, pesce secco, a
testimonianza che si tratta di
bevanda associata allo stile di
vita rurale, che richiama vissuti di miseria e carenza nutrizionale. Comincia a farsi
strada negli anni ’70, come in
altri paesi, la domanda di
prodotti di qualità, a scapito
della quantità, anche se la
della curva trova spiegazioni
plausibili, nella sua fase
ascendente (anni ‘50 e ’60)
soprattutto con i meccanismi
dei redditi e dei prezzi, mentre la fase discendente può
essere spiegata da più fattori.
Alcuni di essi (inurbamento,
lavoro nelle fabbriche e nel
terziario), pur manifestandosi in modo intenso ancora
nella fase ascendente del
consumo di alcolici, hanno
prodotto effetti evidenti sui
consumi negli anni ‘70. Altri
fattori (mobilità sociale, ridefinizione delle modalità di
fruizione del tempo libero,
cambiamenti della struttura
familiare e del ruolo femminile, destrutturazione dei pasti,
cura di sé e salutismo), si affermano e si consolidano a livello di massa solo negli anni
‘80 e ‘90, durante il continuare della fase discendente della curva e giocano un importante ruolo nel mantenimento dell’andamento decrescente del consumo, piuttosto che
nella sua iniziazione.
Tutti questi elementi desumibili dall’analisi di trend di carattere quantitativo, sono
confermati nella parte della
ricerca che ha interpellato i
protagonisti del cambiamento, attraverso interviste e
storie di vita a individui che
hanno vissuto queste trasformazioni, distinti in due coorti, l’una di 40-45enni, l’altra
di 65-70enni. Le interviste e
le storie di vita, ricostruendo
le esperienze e il modo in cui
gli individui hanno vissuto i
processi di cambiamento, mostrano come i meccanismi “situazionali”, strutturando i
contesti sociali e culturali in
cui gli intervistati hanno vissuto, hanno influenzato il lo-
maggiore forza di questa tendenza si afferma negli anni
successivi (’80 e ’90). Sono gli
anni di espansione del vino
DOC e DOCG, favoriti anche da
decisioni europee che incentivano la riduzione della produzione a favore dei prodotti
di qualità.
Poco o nulla della diminuzione del consumo di vino, dopo
gli anni ’70, è attribuibile a
cambiamenti della struttura
demografica della popolazione, in particolare all’invecchiamento. Più rilevanti sono
fattori come il tipo di lavoro
(il lavoro in fabbrica e soprattutto quello nel settore terziario, implicano minor dispendio calorico e richiedono
maggiore attenzione rispetto
a quanto richiesto dal lavoro
nei campi); il cambiamento
della condizione femminile
con l’ingresso nel mondo del
lavoro (con le evidenti ripercussioni sulla vita domestica,
destrutturazione dei pasti,
allentano il vincolo tradizionale tra vino e pranzo); la
mobilità sociale ascendente
(che spinge in direzione di
modelli di riferimento nuovi,
che investono i consumi e gli
stili di vita, con l’abbandono
delle abitudini popolari, ordinarie, considerate volgari,
verso modelli più sofisticati);
la progressiva crescita della
domanda di prodotti, beni e
servizi con forte impronta salutistica (il benessere fisico e
la cura del sé appaiono componenti essenziali dell’edonismo degli anni ’80 e ’90).
In conclusione, dalla ricognizione emerge che la curva del
vino tra gli anni ‘50 e 2000 è
ben inserita nei cambiamenti
socio economici che connotano il periodo: l’andamento
N. 167 - 2008
ro corso d’azione. Confermando quanto emerso nella parte
di ricostruzione dei grandi
mutamenti sociali, dalla ricerca si può evincere che:
– i processi di industrializzazione e terziarizzazione
della struttura occupazionale del nostro Paese hanno determinato mutamenti rilevanti nell’organizzazione del lavoro, modificando i contesti, i tempi e
i ritmi di produzione; la
richiesta di maggiore efficienza e produttività sul
lavoro e la diversa strutturazione dei tempi di vita
(tempo lavorativo, tempo
costretto, tempo libero,
tempo del loisir) hanno ridefinito gli stili di vita ed
hanno influenzato, di
conseguenza, gli stili di
consumo, con un ridimensionamento del ruolo dell’alcol nella quotidianità;
– l’inversione di tendenza
nell’andamento dei consumi alcolici avviene nel periodo in cui prende avvio
un processo di modernizzazione consumistica ed
investe in particolare i
membri della coorte più
giovane (40-45enni), che
sono protagonisti di rotture, innovazioni ed integrazioni rispetto ai modelli di
consumo tradizionale. Al
tempo stesso, avendo appreso in famiglia le norme
del modello tradizionale,
quando hanno dovuto affrontare nel loro corso di
vita determinate transizioni (cambiando status tra la
fase giovanile e la fase
adulta), sono stati in grado di modificare il loro stile di consumo, evitandone
l’impatto negativo sui fun-
I Servizi per le dipendenze patologiche
zionamenti sociali e ricercando non più il valore
psicoattivo dell’alcol, ma
quello alimentare e socializzante/conviviale;
– anche i mutamenti nella
struttura familiare e nelle
relazioni di coppia, a partire dalla metà degli anni
‘70, influenzando gli stili
relazionali degli uomini e
delle donne, con l’indebolimento dei modelli patriarcali di relazione familiare e la crescente partecipazione delle donne al
mercato del lavoro, hanno
condizionato indirettamente i modelli di consumo: il riferimento ricorrente è alla “responsabilità”
acquisita nel matrimonio o
nella convivenza e a seguito della nascita di un figlio, ma anche all’importanza di una condivisione
del tempo libero con la
moglie/compagna e con i
figli;
– su questo processo si è innestata, in tempi più recenti, la sempre più diffusa sensibilità per la salute,
con una maggiore attenzione ai consumi alimentari e una riduzione della
quantità di alcol assunta,
sia per gli intervistati della coorte più giovane (in
nome dell’efficienza fisica), sia in quelli della
coorte più anziana, per i
quali ha ricoperto un ruolo
di crescente importanza
l’informazione salutistica
(per la prevenzione delle
malattie legate all’invecchiamento) ed il ricorso
frequente a controlli sanitari a scopo di benessere e
prevenzione.
Nelle traiettorie di vita e di
consumo degli individui intervistati, la socializzazione
familiare all’alcol, ossia il
processo attraverso il quale
essi hanno acquisito un sistema di norme e di sanzioni sociali informali (positive e negative) che regolano non soltanto l’uso di bevande alcoliche, ma anche l’abuso, si è rivelata decisiva. L’apprendimento di regole per un uso
alimentare/dissetante e socializzante/conviviale (soprattutto del vino), avvenuto
in ambito familiare, ha rappresentato un utile riferimento anche per gli intervistati della coorte più giovane.
Essi, pur adottando in gioventù modelli d’uso e abuso
estranei alla cultura mediterranea (per l’esposizione ai
modelli di consumo internazionali), hanno anche appreso dalle generazioni precedenti (padri e nonni) le norme tradizionali ed i relativi
meccanismi di controllo dei
comportamenti alcolici. Tali
riferimenti interiorizzati sono “riemersi” e ne hanno
orientato le scelte quando si
sono affacciati a fasi diverse
della loro traiettoria di vita.
Peraltro, se si guarda al consumo attuale degli adulti intervistati si evince che sono
cambiati i luoghi, le situazioni e gli attori dell’uso dell’alcol. Si beve ancora in casa ai
pasti (la sera soprattutto)
con coniuge e familiari, ma si
beve di meno al bar con amici
e soprattutto nel tempo di lavoro. Si beve frequentemente
in contesti ritualizzati e
standardizzati come ristoranti, feste e occasioni speciali,
situazioni in cui l’abuso saltuario è tollerato, ma regolato. In questi contesti è dimi-
Sae l ute
Territorio 105
nuita la segregazione di genere, che segnava il consumo
di alcol nelle culture mediterranee. Complessivamente si
può dunque affermare che
permane centrale l’uso alimentare di vino ai pasti, si è
consolidato un utilizzo dissetante e in parte socializzante
della birra, mentre tende a
perdere di rilevanza il consumo con finalità intossicante e
diminuiscono gli abusi.
Si comprende, in questo contesto, perché la maggior parte
degli intervistati attribuisca
molta importanza all’“autocontrollo”, capacità che si acquisisce e che consente di distinguere l’uso “controllato”,
“equilibrato”, “giusto” dall’uso improprio. Si conferma,
tuttavia, che non è l’abuso in
sé ad essere stigmatizzato,
poiché è tollerato in determinate situazioni e momenti
della giornata e/o della settimana, soprattutto nella misura in cui non ha un impatto
negativo sui “funzionamenti”
e sulle relazioni sociali.
Alcune riflessioni sui consumi giovanili
L’allarme sul rapporto tra giovani e alcol, recentemente
espresso con insistenza sui
media e sostenuto da alcuni
ricercatori e soprattutto dai
decisori politici in Italia, è in
genere correlato dal presunto
abbandono dei valori propri
della cultura “bagnata” del
bere – caratterizzata da una
completa integrazione delle
bevande alcoliche nella vita
quotidiana – in favore di una
adesione a stili di consumo tipici delle culture “asciutte”,
in cui il valore prevalente è
quello dell’intossicazione, ottenuta con l’assunzione di
l ute
Sa
e
106 Territorio
grandi quantità di alcolici
concentrate in poche occasioni (Beccaria F., Prina F.,
1996). Le giovani generazioni
assumerebbero l’alcol per ricercarne gli effetti psicoattivi, con l’obiettivo di provare
un’alterazione psicosensoriale simile a quella procurata da
altre sostanze illegali. In
virtù di questo mutamento di
prospettiva, i giovani italiani
andrebbero perdendo la capacità, tipica della cultura del
bere mediterranea, di gestire
l’ambivalenza della sostanza,
con il rischio di una estensione dei problemi alcolcorrelati.
I dati che è possibile reperire
sui consumi delle giovani generazioni (ricordando che in
Italia non è possibile fare
molti confronti con il passato, non essendovi indagini
sui consumi giovanili anteriori al 1983) mettono in
guardia da una lettura schematica di questo tipo, confermando invece la complessità
del quadro dei consumi alcolici giovanili. Pur in presenza
di una tendenziale omogeneizzazione degli stili di consumo, dovuta ai processi di
globalizzazione della società
contemporanea, in Europa
sembrano ancora persistere,
anche tra i giovani, elementi
tipici delle culture del bere
che tradizionalmente caratterizzano gli specifici contesti
sociali e culturali. Nel caso
italiano, i tratti della la “cultura mediterranea”: si inizia
a bere precocemente, il tasso
di ubriachezza è relativamente basso, mentre è alto quello
del consumo regolare di tutti
gli alcolici.
Osservando i dati comparati
(Beccaria F., 2007; Beccaria
F., Prina F., 2008), si può af-
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
fermare che il livello di rischio dei giovani italiani appare più contenuto rispetto
ad altri Paesi. Se è vero, infatti, che il numero di bevitori è
in (leggera) crescita negli ultimi anni e che i ragazzi italiani hanno più occasioni di
consumo, anche regolare, rispetto ai coetanei stranieri, è
altrettanto vero che ciò non
implica necessariamente una
tendenza alla reiterazione dei
consumi eccessivi. L’aumento
della platea dei bevitori di vino e di birra, in presenza di
una riduzione del consumo
globale, può avere il significato di una riduzione del consumo pro-capite e dunque di
una crescente moderazione.
A questa considerazione si
obietta che saremmo invece
in presenza di un mutamento
nello stile del bere tale per
cui cresce la concentrazione
in poche occasioni del consumo in precedenza praticato
nella quotidianità, con un
aumento dei rischi che caratterizzano le culture “asciutte”. Due osservazioni consigliano cautela nel sostenere
questa posizione. La prima è
che, seppure in assenza di
dati precisi sui contesti di
consumo, ancora molto diffuse paiono le opportunità di
bere a casa e durante i pasti,
con modalità dunque informalmente “controllate”. La
seconda si basa sui dati relativi all’incidenza dell’ubriachezza: tutte le ricerche concordano nel rilevare una frequenza decisamente al di sotto della media europea e soprattutto molto lontana dai
dati relativi ai coetanei inglesi, danesi o finlandesi. Tutte
le indagini evidenziano cioè
che le abitudini alcoliche dei
mente alle prospettive di vita
e di consumo che caratterizzeranno l’età adulta. Se per
alcuni giovani il rapporto con
l’alcol, così come con altre sostanze o comportamenti rischiosi, può ostacolare o rendere arduo il cammino verso
la maturità, resta fondata –
sulla scorta di molte osservazioni soprattutto di taglio
qualitativo – la convinzione
che la grande maggioranza di
essi attraversi ancora queste
esperienze, come in passato,
alla stregua di altre esperienze “situate”, circoscritte cioè
alle specificità della condizione adolescenziale e giovanile.
Ma per meglio fondare queste
convenzioni sarebbe tempo,
anche in Italia, di pervenire
ad un sistema di monitoraggio rigoroso dei dati e delle
conoscenze, finalizzato alla
descrizione ed alla comprensione delle persistenze e dei
cambiamenti delle modalità
di consumo, con ricerche ripetute e/o di tipo longitudinale, integrate con ricerche
qualitative. Questo implica
disponibilità ad un vero lavoro interdisciplinare, dove all’impegno di raccolta ed elaborazione di dati epidemiologici si associ la ricerca di buone spiegazioni sociologiche
dei mutamenti sociali – in
questo caso relativi ai comportamenti alcolici ed ai significati attribuiti a consumo
ed abuso dagli attori sociali –
fondate sulla ricerca di quei
meccanismi sociali (Barbera,
2004) che regolano i comportamenti delle persone (essenzialmente in termini di desideri, credenze, opportunità).
giovani italiani differiscono
ancora in misura rilevante da
quelle dei loro coetanei che
vivono in Danimarca o in
Gran Bretagna (dove il 60%
dei 15enni si è ubriacato più
di una volta nella vita, mentre tale evidenza si ha solo
per il 20% degli italiani).
Resta dunque persistente la
complessità della cultura del
bere dei giovani italiani. Tra
di loro non è oggi rilevabile la
predominanza di un modello
piuttosto che di un altro,
bensì l’affiancarsi a quello
tradizionale di aspetti dei
modelli tipici di altre culture.
Ne consegue che non è semplice definire quali scenari si
vanno prospettando. Come
non è facile rispondere ad un
interrogativo centrale in questo periodo di cambiamento:
questi modelli di consumo innovativi verranno mantenuti
nell’età adulta (dando luogo
a crescenti problematicità)
oppure verranno abbandonati
con il passare degli anni, per
effetto della persistenza della
cultura del bere tradizionale?
Nulla ci consente di rifiutare
l’idea che, oggi come in passato, per la maggior parte dei
giovani il consumo e l’abuso
di bevande alcoliche presentino connotazioni peculiari
proprio in quanto situati nel
percorso di crescita dell’adolescenza, caratterizzato dall’orientamento alla sperimentazione ed alla trasgressione
o almeno alla forzatura di limiti percepiti come imposti
dagli adulti. Nulla sostiene il
fatto che, in presenza di
esperienze giovanili di abuso,
il rapporto con l’alcol assuma
necessariamente carattere di
problematicità, né che sia
elemento rilevante relativa-
(segue a pag. 117)
N. 167 - 2008
Carlo Favero
Renzo Rolando*
Educatore-animatore
consulente Ser.T - ASL TO 4
*Psicologo DSM - ASL TO 4
I
l presente testo è il risultato di un lavoro, impostato su criteri antropologici
e psicosociologici, che ha permesso l’osservazione diretta di
comportamenti d’uso ed il dialogo fiduciario con gli usatori
di cocaina nei luoghi di aggregazione e socializzazione in
Settimo Torinese.
L’illegalità del comportamento
non sembra costituire una
grossa barriera alla discussione pubblica sull’argomento,
purchè affrontato nell’informalità e negli incontri casuali.
Questo ha favorito la raccolta
di esperienze ed opinioni da
parte degli usatori, che sembrano delineare una vera e
propria “cultura d’uso”.
La novità qualitativa del contenuto rilevato attraverso
questa metodologia dialogica
sembra essere l’uso della cocaina all’interno di riti generazionali di passaggio, tanto
quanto questo un tempo avveniva con l’hashish.
In questo, l’uso della cocaina
sembra sovrapporsi nelle modalità e nella significazione
alla cultura dell’uso dei derivati della cannabis, dove la
discriminante percepita sulla
gravità dei comportamenti
non sta più nella differenziazione tra droghe leggere e
droghe pesanti, ma nella distinzione tra uso inalatorio
ed uso endovenoso.
I Servizi per le dipendenze patologiche
Sae l ute
Territorio 107
La cultura d’uso
della cocaina
Non è stato rilevato spaccio
di strada
La modalità di smercio della
sostanza non avviene tramite
“offerta pubblica” al cliente
anonimo in luoghi stigmatizzati: appare accertato quindi
che i consumatori abituali sono in relazione tra loro e con
le fonti in maniera strutturata
e continuativa.
Appare quindi diffusa la modalità di acquisto e di consumo in gruppo, ed in qualche
misura l’accreditamento individuale presso le fonti sulla
base di un riconoscimento reciproco dentro una relazione
di appartenenza.
Il consumatore sociale
Si va quindi a definire una
prima fascia di consumatori
il cui uso è abituale, ma sostanzialmente controllato,
ricreazionale e vissuto come
una tra le opzioni del tempo
libero, sullo stesso identico
piano di altri comportamenti
ed abitudini del tempo libero, senza particolare considerazione per la pericolosità o
l’illegalità.
Definiamo sociale questa categoria di usatori, perché
compatibile con un ruolo sociale integrato, ma anche
ampiamente accreditata e
tollerata in una certa fascia
sociale e di età: il comportamento è connesso ad una
Una ricerca “sul campo” condotta da operatori
accreditati come “adulti competenti”
identità debole, in quanto
non concorre ad uno specifico etichettamento, nè appare
particolarmente criminogeno, se non sotto il profilo
della cosiddetta induzione
all’uso quando l’acquisto viene effettuato in modalità
collettiva.
Il consumatore problematico
Il consumatore problematico
va a costituire una seconda
fascia difficilmente quantificabile, che viene formata
principalmente da quegli
usatori che probabilmente
già in origine mostravano
una certa vulnerabilità agli
effetti della cocaina, e che
anche nella fase più o meno
sociale hanno sviluppato una
modalità di uso come “autocura” in senso neurotico, in
particolare verso insicurezze
e inibizioni di tipo relazionale e personologico.
Presso questa fascia l’uso si
fa più individuale, e può portare al rapido incremento di
posologia ed a doversi confrontare con problemi economici e possibile perdita di
ruolo.
La domanda rivolta in questo
caso agli operatori è spesso
quella di sostegno per ricondurre l’uso ad una misura più
compatibile, ma valgono allo
stesso modo una serie di
strategie di copying socialmente sostenute per riprendere il controllo ed interrompere l’uso.
È comunque lontana dall’orizzonte di questi consumatori problematici l’eventuale
presentazione ad un Servizio
per le dipendenze patologiche, proprio perchè sancirebbe la temuta perdita di ruolo
e stigmatizzerebbe la crisi.
Il consumatore dipendente
La fascia della dipendenza in
senso classico mette in atto
più visibilmente tutti i comportamenti consueti a quelle
categorie, è quasi interamente composta dagli ex-eroinomani che sono passati alla
cocaina con le stesse modalità con cui vivevano la dipendenza dall’eroina o dalla
sostanza sostitutiva, restano
nel loro “menù” per un uso
saltuario, o vengono anche
totalmente sostituiti.
(segue a pag. 117)
l ute
Sa
e
108 Territorio
S. Bertoletti
C. Cippitelli*
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
Nuovi stili di consumo
Responsabile area prevenzione
Coop CAT Centro animazione
tricche ballacche
* Presidente nazionale
“Nuove droghe”
S
ono passati oltre due lustri da quando alcune
équipe di operatori della
prevenzione muovevano i primi passi in quello straordinario fenomeno rappresentato
dalla discoteca degli anni ’90.
Le motivazioni che spingevano a cimentarsi con contesti
inediti, in larga misura poco
conosciuti dal mondo adulto
(e proprio per questo da esso
fatti oggetto di stigma e pregiudizio), sono da rintracciare nella convinzione che si
fosse in presenza di cambiamenti significativi nei desiderata e nei comportamenti di
una vasta fascia del mondo
giovanile. La notte, il ballo,
gli stati alterati di coscienza,
le sostanze psicotrope, assumevano significati nuovi, poco esplorati dalla ricerca e
dall’intervento sociale, ridefinendo l’idea stessa di piacere,
e non solo per la generazione
direttamente coinvolta ma –
ritematizzandola – per l’intera società. Allievi consapevoli
(e a volte inconsapevoli) di
Maria Teresa Torti 1 , quegli
operatori hanno cominciato
ad abitare la notte, in modo
professionale, ridefinendo
1
completamente metodologie,
approcci, stili, obiettivi dell’intervento, spesso con grande fatica 2 , sempre senza la
rete di sicurezza costituita
dal consolidato e dal consueto: fuori dai facili schemi
(prevenzione primaria, secondaria e terziaria), sprovvisti delle semantiche legate
agli oppiacei (buco, tunnel,
dolore, sofferenza, emarginazione, malattia e morte), nudi delle forme comunicative e
degli strumenti abituali.
Quelle équipe e quegli operatori hanno osato frequentare
contesti che non li prevedevano, rischiando l’incongruità,
tornando a riflettere in maniera originale sul loro ruolo,
abbandonando le rassicuranti
pareti dei servizi tradizionali
(anche di quelli mobili, come
i camper) per varcare il limen
della nuova notte, delle nuove sonorità, dei nuovi consumi di sostanze psicoattive.
Oggi, possiamo dire che da
quelle esperienze pionieristiche è nata un’intera filiera di
intervento, che ha profondamente modificato i saperi e le
pratiche delle attività di prevenzione, connettendoli alle
Fenomeni e interventi imprevisti.
Un’occasione per rinnovare il sistema.
I luoghi del loisir notturno
politiche di riduzione del
danno, alla ricerca sociale3 e
più in generale alle pratiche
di mediazione e sicurezza nel
sociale.
Varcare questi confini ha significato molte cose, ma soprattutto ha voluto dire immettersi in un flusso di cambiamenti continui e progressivi superando via via la soglia di ambienti che venivano
conosciuti e che, come la discoteca, diventavano obsoleti, inventandosi soluzioni
nuove per riuscire a stare e a
venire accettati su un percorso sempre più frammentato e
complesso.
Policonsumi e contesti
frammentati
I luoghi del loisir notturno si
sono trasformati e moltiplicati in pochi anni, e anche l’uso
di sostanze psicotrope è cambiato velocemente; ormai non
ha quasi più senso parlare di
“droghe da discoteca”, intendendo con ciò sostanze che
vengono usate prevalentemente o esclusivamente in
quel contesto: vediamo invece come molte di esse vengono sperimentate e usate con
modalità più trasversali, in
luoghi diversi, fino ad arrivare ad un uso privato in casa
propria.
Va certamente compreso che
stiamo parlando di modalità
di uso e di sperimentazioni
che si sono diffuse in modo
orizzontale nella popolazione
giovanile, tenendo ben presente che non si parla necessariamente di abuso o di dipendenza. Una distinzione
che a qualcuno può apparire
superflua, ma che risulta
centrale nel panorama dei
consumi, e segna un passaggio culturale importante.
La dipendenza non può più
rappresentare la chiave di
lettura principale per ap-
M.T. Torti, Abitare la notte, Costa & Nolan, 1997.
A tale proposito, si veda l’articolo di Claudio Cippitelli Mai prima di mezzanotte, in Se mi tingo i capelli di verde è solo perché ne ho voglia, Castelvecchi, Bologna 1999.
3 Una per tutte, si veda la ricerca intervento pubblicata in: F. Bagozzi, C. Cippitelli, Giovani e nuove droghe: 6 città a confronto, Franco Angeli,
Milano 2003.
2
N. 167 - 2008
procciare il fenomeno in oggetto e, soprattutto, per organizzare gli interventi di
prevenzione. Sono necessari
modelli più sofisticati, che
possano aiutarci a calibrare
messaggi, posizioni e proposte. Questo non significa negare l’esistenza di rischi e
danni connessi anche al consumo, ma piuttosto tentare
di comprendere meglio la loro natura, le diverse specificità. Spesso, nelle situazioni
in cui si trovano a lavorare
gli operatori la dimensione
della dipendenza appare secondaria, anche se negli ultimi anni si è osservato un incremento dell’uso di oppiacei, quasi sempre all’interno
di stili connotati dal policonsumo.
Gli approcci utili per entrare
in contatto con le persone in
difficoltà, a causa del loro
consumo di sostanze, devono
tenere conto del contesto
ambientale, della situazione
specifica della persona, delle
caratteristiche delle sostanze
assunte e del tipo di mix sperimentato. La scelta è quella
di intervenire sui rischi emergenti nel breve-medio termine: rischi legati all’incidentalità stradale e sul lavoro, ai
malesseri o alle crisi con conseguenze psichiche, e ora più
di prima, a problemi di natura legale.
4
I Servizi per le dipendenze patologiche
Specializzazioni e trasversalità degli interventi
Nel complesso, siamo di fronte a due tendenze generali
che definiscono la prospettiva che vogliamo illustrare.
La prima tendenza sottolinea
la necessità di andare oltre la
classica tripartizione degli
ambiti della prevenzione
(prevenzione primaria, secondaria e terziaria), superando
inoltre le distinzioni tra le tipologie di consumatori, che
oggi presentano caratteri di
contiguità sempre maggiori.
Non è più così agevole scegliere la metodologia di intervento esclusivamente in base
al contesto: capita frequentemente di dover fare interventi
nelle scuole adottando messaggi finalizzati alla riduzione dei rischi, sia perché la
scuola è tutt’altro che estranea al consumo di sostanze,
sia perché gli studenti con cui
si entra in contatto spesso
fanno riferimento ad esperienze di policonsumo. Vi è
quindi una continuità in termini di contenuti e di messaggi che va tenuta ben presente e che in un certo senso
avvicina molto le varie modalità di fare prevenzione.
L’altra tendenza generale, solo apparentemente in contrasto con la precedente, si riferisce alla necessità di specializzare gli interventi rispetto
ai contesti in cui si lavora. Si
tratta di una tendenza messa
in atto da molte équipe che,
in questi anni, si sono trovate a lavorare nei luoghi del
divertimento notturno, ad
esempio allestendo postazioni complesse con aree chillout, in grado di integrare interventi sanitari di primo
soccorso e interventi di accoglienza e animativi. Vanno in
questa direzione lo sviluppo
delle unità mobili che promuovono attività di animazione territoriale organizzando eventi, concerti, attività
sportive, iniziative di valorizzazione degli spazi pubblici.
Un fiorire di progetti rivolti
ai diversi contesti aggregativi: pub, discoteche, grandi
eventi musicali, piazze e muretti, scuole, palestre; progetti con finalità e metodologie specifiche.
Sistemi e integrazioni: oltre la dimensione locale
Appare sempre più necessario
promuovere l’integrazione tra
interventi locali diversi, componendo e sostenendo un sistema di progetti che metta
in rete soggetti operanti in
aree territoriali vicine e connesse. Le committenze pubbliche, ai diversi livelli, dovrebbero favorire la costituzione di tali network, superando una visione meramente
Sae l ute
Territorio 109
amministrativa del territorio.
Gli Enti locali devono prendere coscienza del normale nomadismo dei gruppi giovanili
rispetto ad occasioni ed eventi che si realizzano fuori del
loro territorio e, parallelamente, il potere di attrazione
extralocale degli eventi che si
realizzano nei loro confini
amministrativi4.
La necessità di promuovere
un maggiore livello di integrazione tra équipe e servizi
diversi risulta evidente quando si parla di interventi specializzati sugli eventi di loisir
giovanile, specialmente se si
tratta di grandi eventi.
In questo ambito, in Toscana,
nel Lazio, in Emilia Romagna
e in altre Regioni sono nati
progetti5 che hanno l’obiettivo di sviluppare interventi di
prevenzione e riduzione dei
rischi nei grandi eventi (Festival musicali, rave party, raduni giovanili); progetti che da
anni sperimentano una forte
integrazione sia metodologica
che operativa. I vantaggi di
questo orientamento sono numerosi: permettono la continuità e la coerenza dei messaggi preventivi; la riconoscibilità di servizi anche come
network; la possibilità di condividere e sperimentare pratiche innovative rispetto all’accoglienza, al contatto e alla
gestione di situazioni critiche;
In molti casi verrebbe da citare Zigmunt Bauman, quando sostiene che non esistono soluzioni locali a problemi locali: si può risolvere, ma anche solamente fronteggiare il problema della prostituzione e della tratta di esseri umani che coinvolge un territorio avendo come unità amministrativa di riferimento una circoscrizione? E quale sarà la risposta che in via prioritaria reclameranno i cittadini (o almeno una buona e rumorosa parte
di essi) di un quartiere adiacente ad un’area di sosta per nomadi?
5 Progetto “Extreme”, intervento nei grandi eventi giovanili finanziato dalla Regione Toscana dal 2001 alla Coop. CAT e al Comune di Firenze;
attualmente (2006) intergrato nel Progetto IRMA2, finanziato dalla Regione Toscana a CNCA Toscana.
Progetto “Nautilus”, finanziato dalla Regione Lazio, implementato dalle Cooperative romane Il Cammino, Parsec, Magliana 80, e dall’Associazione
La Tenda; il progetto si occupa in modo specifico di interventi nei rave parties e nei grandi eventi giovanili.
“Coordinamento regionale Unità di strada Regione Emilia Romagna”, coordinamento delle Unità di strada regionali finanziato da Regione Emilia
Romagna; si occupa anche di grandi eventi giovanili e realizza attività in eventi importanti come la Street Parade di Bologna.
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110 Territorio
l’attivazione di prese in carico
anche di persone residenti
nella Regione o nel Comune
adiacente, colmando così quel
gap che spesso si crea tra l’intervento di emergenza su un
episodio critico e una presa in
carico più complessiva nell’ambiente di vita ordinario
della persona soccorsa.
Allo stesso tempo si tratta di
una prospettiva che consente
di sviluppare ambiti di ricerca
sul fenomeno con strumenti
comuni confrontabili.
Oltre la peer education
L’educazione tra pari ha avuto un discreto sviluppo in
Italia, in particolare nei progetti di prevenzione rivolti ai
giovani, soprattutto in ambito scolastico. Vi sono diverse
modalità di intendere la figura del peer educator e di disegnarne il ruolo; alcune, derivanti dai lavori di Bandura6 e
successori, limitano questa
figura ad un ruolo di “agente
di diffusione” di messaggi; altre, vedono tale figura come
un attore che si muove con
autonomia e significatività
all’interno della “subcultura”
6
I Servizi per le dipendenze patologiche
di appartenenza, rielaborando messaggi ricevuti e creandone di propri.
Nella nostra esperienza, la
peer education è stata declinata come una strategia di
potenziamento della capacità
elaborativa e di comunicazione dei giovani attori coinvolti, mantenendo un pieno rispetto della loro autonomia di
pensiero, dei ruoli rivestiti
nei diversi contesti e delle
culture che tali aggregazioni
giovanili esprimono. In tal
senso, la peer education diviene una strategia di empowerment che, nel potenziare l’autonomia dei soggetti
coinvolti, non affranca gli
adulti dai loro compiti e responsabilità, in un rapporto
dialettico con le realtà giovanili con le quali operano. In
questa logica, si è dimostrato
molto produttivo lavorare sulla costruzione di autentiche
partnership con gruppi (o singoli) coinvolti nella realizzazione di eventi di loisir giovanile; essi rappresentano una
risorsa strategica nel promuovere cambiamenti culturali
profondi in tema di aggrega-
zione e intrattenimento giovanile; l’obiettivo è favorire
maggiore partecipazione tra i
frequentatori di eventi (spesso consumatori di sostanze) e
di rinforzarne le forme di autotutela7. Ci siamo resi conto,
lavorando a stretto contatto
con chi riusciva ad avere uno
sguardo “interno” ai contesti
di loisir, che il numero e l’incidenza degli episodi critici e
dei comportamenti a rischio
risultavano strettamente correlati alle modalità di concepire l’ambiente, alla qualità
delle offerte culturali, alla
presenza di servizi adeguati e
al coinvolgimento attivo dei
partecipanti sulle pratiche di
safeness. Nel tempo, le esperienze nell’area fiorentina e
laziale hanno dato luogo ad
una nuova modalità di interpretare il lavoro con gruppi di
pari, passando da un ambito
squisitamente educativo ad
un panorama più ampio, nel
quale si promuove la nascita
di imprese giovanili in grado
di gestire in sicurezza gli
eventi, offrendo professionalità nuove sul mercato dell’intrattenimento8.
N. 167 - 2008
Basse soglie diffuse
Se l’intervento nei contesti di
consumo ha visto uno sviluppo inedito in termini di modelli e strumenti operativi,
non sono mancate le esperienze che hanno tentato di
creare un più ampio sistema
di connessione tra i servizi
“classici” e altri luoghi di
trattamento delle domande di
aiuto. Tali esperienze possono rappresentare uno stimolo
per aggiornare il sistema dei
Servizi, dotandolo di “basse
soglie diffuse” in grado di
realizzare quella presa in carico precoce che, da tempo,
propone Renato Bricolo. L’evoluzione dei progetti, capillarmente diffusi nei territori,
insieme alla diffusione di attività di peer support, potrebbero favorire la nascita di luoghi dove accogliere con maggiore adeguatezza le domande portate dai giovani consumatori, al di là dei tradizionali Servizi specialistici (Ser.T,
Psichiatria, Consultori). I modelli a cui ispirarsi sono vari,
non certo numerosi specialmente in Italia, ma sufficienti
per individuare dei riferimen-
A. Bandura, H.W. Richard, Social learning and personality development, Holt, New York 1963; A. Bandura, Social learning Theory, General
Learning Press, New York 1986.
7 Secondo questo approccio, quelli che una volta erano tematizzati come possibili fruitori dell’azione sociale (utenti, destinatari finali, …) divengono partner di un reticolo operativo tanto quanto gli altri Servizi presenti sul terreno di intervento. I questo senso, la partecipazione ad un rave, ad
un tecknival, ad un free festival non è mai pensato solo come azione di diffusione di messaggi preventivi, ma come occasione di concertazione (con
gli organizzatori in primo luogo, e con tutti i partecipanti) per la realizzazione di un evento safe, dove la progettazione di una sicurezza possibile
deve essere responsabilità di tutti i soggetti che promuovono o che semplicemente partecipano alla festa. In questo senso, i Centri sociali, le tribe,
gli organizzatori di rave party, rappresentano altrettanti nodi del network nel quale è collocata l’azione sociale; buona parte dell’attività dell’Unità
di strada è dedicata alla cura delle connessioni con tali nodi, senza i quali è impensabile condurre, nei contesti in oggetto, una qualsiasi attività dotata di senso.
8 Questo aspetto ha trovato espressione nel Progetto EQUAL “Social entertainment service”, diretto da Consorzio NOVA, Consorzio nazionale
per l’innovazione sociale – con un partenariato costitituito da: Comune di Firenze, Provincia di Arezzo, Università di Firenze, Fondazione Arezzo
Wave, Cooperativa sociale CAT, Cooperativa “Al Plurale”, ASA (Associazione studentesca autogestita). Il progetto ha promosso l’avvio di un sistema integrato di collaborazione tra enti pubblici, imprese sociali, associazionismo giovanile e imprenditoria profit finalizzato alla costituzione di
un impresa sociale (SWITCH: Social creative network) che sia in grado di: intervenire nell’ambito di grandi eventi musicali diretti ad un pubblico
giovanile con la finalità di prevenire situazioni di rischio, promuovere prassi di salute e di sicurezza per i partecipanti e per i contesti sociali, curare
forme di mediazione sociale tra l’evento e le Comunità territoriali. Promuovere eventi e gestire spazi all’interno del territorio regionale volti alla
socializzazione, alla facilitazione della partecipazione giovanile, alla promozione delle competenze culturali e artistiche di gruppi e singoli.
N. 167 - 2008
ti da sviluppare. Le caratteristiche comuni tra loro sono:
la bassa soglia di accesso, lo
stretto lavoro in rete con gli
altri Servizi (di prevenzione,
specialistici ecc.), l’informalità dell’approccio, la leggerezza organizzativa, ambientazioni e orari adeguati.
Infoshop
Sulla scorta di esperienze di
eccellenza maturate in ambito
europeo (uno fra tutti il negozio della prevenzione di Crew
2000 a Edimburgo), alcune
realtà italiane impegnate in
progetti di prevenzione e riduzione dei rischi si sono dotati di un infoshop, vale a dire
negozi su strada, facilmente
accessibili e a bassa soglia, nei
quali accogliere singoli ragazzi e gruppi. Non si tratta di locali dove vengono distribuiti
gli strumenti di profilassi specifici dei programmi di riduzione del danno (siringhe, acqua distillata…), quanto
piuttosto luoghi di sosta o di
transito dove trovare informazioni sugli eventi musicali,
sulle attività in città e anche
materiale informativo sulle
sostanze psicotrope. Gli infoshop sono anche luoghi dove
trovare consulenze di vario tipo (psicologiche, legali, ecc.),
9
I Servizi per le dipendenze patologiche
dove organizzare la formazione e programmare le attività
dei gruppi di peer education,
dove poter accedere ai siti web
specifici.
Gli infoshop 9 nella nostra
esperienza non vogliono assomigliare ad altre realtà indoor
da tempo presenti sui territori, come i “Centri giovani” o
gli spazi aperti con i fondi
della legge 285. Il loro compito non è quello di offrire un
ulteriore luogo di animazione
o di accoglienza aspecifica:
loro obiettivo è quello di collegare idealmente i contesti
di intrattenimento notturno
(la festa, l’extraordinario, i
consumi…) con il giorno e la
dimensione dell’ordinario. Sono un luogo dove orientarsi
anche rispetto ai nuovi scenari di consumo, dove progettare e proporre azioni alternative, autonome, autogestite, un
luogo dove trovare idee e portarne di proprie10.
Creare un sistema di risposte accessibili
Lavorare con l’appoggio di
strutture territoriali non vuole intendere un ritorno alla
rassicurante chiusura nelle
mura dei Servizi, ma cercare
di creare un sistema capillare
di risposte integrate, che
contempli attività outdoor e
indoor. Questo è uno degli
obiettivi più importanti da
perseguire, alla luce dei cambiamenti prodotti dai nuovi
stili di consumo e dagli attuali livelli dei consumi di cocaina ed eroina. Si tratta di
avere coraggio e resistere alla
tentazione di rimanere immobili nelle sedi tradizionali
dei Servizi, pensando che in
fondo tutto tornerà lì dentro,
che la popolazione “dipendente” prima o poi arriverà a
varcare quella soglia. Siamo
convinti che sarebbe un errore grave e che invece la strada sia un’altra. Questa prevede il mantenimento del lavoro outdoor nelle sue varie articolazioni, mirando a rafforzare i vantaggi guadagnati: la
conoscenza dei fenomeni e la
possibilità di seguirne l’evoluzione in tempo reale, la fiducia e il riconoscimento da
parte delle utenze, la possibilità di fornire risposte concrete in contesti che altrimenti rimarrebbero completamente irraggiungibili.
Per procedere in questa direzione c’è bisogno di ampliare
il sistema delle risposte che
integrano il lavoro mobile delle Unità di strada, attivando
iniziative che si pongano in
Sae l ute
Territorio 111
una posizione intermedia rispetto ai Servizi istituzionali.
Sarà utile attivare altri punti
in grado di accogliere bisogni
specifici di utenze identificabili e definite. Il caso del
mondo del lavoro vale per tutti: l’esperienza e la ricerca avvertono che una buona parte
dei consumatori sono lavoratori che rischiano di essere intercettati, anche se in modo
sporadico, solo dalle unità
mobili presenti negli eventi
notturni. La grande diffusione della cocaina nei posti di
lavoro pone nuove domande,
alle quali non è possibile rispondere senza l’attivazione
di quelle strutture intermedie
di cui si è detto, in grado di
accogliere le domande in modo adeguato ai bisogni di chi
ha una professione e, spesso,
una famiglia.
Esiste, nelle istituzioni, la
consapevolezza della sfida
che dovremo affrontare e della complessità organizzativa
che la realtà imporrebbe? Forse; per ora, i tentativi di integrazione tra progetti e Servizi, alcune volte disperati,
vengono operati quasi esclusivamente dal basso. Esclusivo patrimonio di chi, con fatica e scarso riconoscimento,
li gestisce.
Progetto Infoshop - centro Java - Comune di Firenze Coop. CAT; Centro Infoshop -progetto “Oltre il Muro” Coop PARSEC - Roma.
L’esperienza del centro Java a Firenze, ci fornisce, soprattutto in questi ultimi due anni, buoni risultati nel lavoro con gruppi a forte rischio di
marginalizzazione, come i punkabbestia. Giovani e giovanissimi consumatori problematici alcuni con problemi di dipendenza da eroina, che hanno riconosciuto il centro Java come uno spazio dove far riferimento abituale nei loro giri, e in molti casi uno luogo dove entrare in rapporto di consulenza con una psicologa.
10
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112 Territorio
Paola Rivaris
Ed. Prof. - Ser.T.
Settimo T.se - ASL TO4
P
er inclusione sociale si
intende quel complesso
di promozione di pari
opportunità nell’accesso all’istruzione, alla formazione,
all’occupazione, utilizzando
strumenti finalizzati allo
sviluppo di empowerment sociale, sia individuale che collettivo.
Molte sono le pratiche del lavoro sociale tese ad abilitare
o a ri-abilitare persone che
vivono processi di esclusione
sociale poco sostenibili, o
temporanee situazioni di
svantaggio sociale.
Il tema lavoro, inserimento al
lavoro, risulta spesso centrale
e di vitale importanza.
Il lavoro permette un rinforzo identitario per la persona,
la inscrive naturalmente all’interno di relazioni e scambi
umani, è una risorsa fondamentale nel favorire riconoscimento sociale, modifica lo
stigma sociale, rafforza quel
bisogno di appartenenza e
quella sperimentazione di un
sé sociale, nodale in ogni percorso di cambiamento.
Volutamente non parlo di inserimenti lavorativi, bensì di
percorsi di inserimento al lavoro in quanto quest’ultimo è
e resta una delle molte variabili in campo, in un processo
di riabilitazione. Il lavoro è
solo uno dei tanti dispositivi
utili.
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
I percorsi di inclusione
Come così bene descrive
L.Ciompi, gli assi centrali di
un processo riabilitativo devono comprendere contesti
multipli quali casa, lavoro, gli
affetti e competenze.
Vi è una costante e circolare
interdipendenza tra questi
temi, appartengono tutti al
mondo vitale di ciascun individuo ed è drammaticamente
parziale enfatizzarne uno di
essi a scapito degli altri.
L’inserimento al lavoro va necessariamente inscritto all’interno di una progettualità sociale ed individuale dove la
persona è soggetto e non mero oggetto di un intervento.
Questo atteggiamento di
ascolto, coinvolgimento, coprogettazione, non attiene
ovviamente al solo campo
preso in esame, bensì attraversa coerentemente ogni attività dei servizi di aiuto alla
persona, sia in ambito sociale
che sanitario.
La necessità di formulare e
condividere “progetti personalizzati” richiama inequivocabilmente quel delicato processo di ricerca di equilibri di
vita possibili per l’individuo,
propri di ogni intervento di
cura.
Il lavoro non può essere considerato un mero punto d’arrivo del processo riabilitativo-terapeutico, deve anch’esso inscriversi in una circola-
Reinserimento sociale: reti formali
ed informali
rità di interventi, di momenti
di vita, all’interno dello stesso percorso di cura. Non esiste un chiaro” prima e dopo”
ma un costante “durante”,
dimensione questa, spazio
temporale, utile a definire e a
ridefinire continuamente un
senso a ciò che avviene, a
quello che la persona scopre e
sperimenta, alle relazioni che
si sviluppano e che mutano,
alle difficoltà che si incontrano, alle “ricadute” che possono diventare momenti di
svolta significative, se trattate con la pratica della consapevolezza. Centrale diviene
l’attribuzione di un senso e
significato per la persona.
Quello che sino ad alcuni anni fa era il campo delle tossicodipendenze oggi si è inevitabilmente trasformato e risulta più complesso da comprendere per le molteplici
forme che lo vanno a rappresentare.
Oggi il focus degli interventi,
nei Servizi adibiti alla prevenzione, cura e alla riabilitazione dei soggetti con problemi di tossicodipendenza,
si è ampliato. Si parla di dipendenze patologiche da sostanze legali e non, di dipen-
denze patologiche non da sostanze,ma da comportamenti
diventati disfunzionali per
l’individuo.
Al vecchio eroinomane di alcuni anni fa, si sono aggiunti nuovi personaggi e scenari, sia per quanto concerne
l’uso/abuso, oramai prevalente, di altre sostanze(principalmente cocaina e alcol),
sia per quanto riguarda l’insorgere di comportamenti
caratterizzati dalla compulsività e dalla forte dipendenza non necessariamente da
sostanze (ad esempio il gioco patologico).
Quale nuovo significato può
oggi assumere un processo di
inclusione sociale?
Se la sostanza eroina era
principalmente utilizzata in
modo autoescludente, questi
nuovi scenari, quali la diffusione di massa di altre sostanze e di comportamenti,
sono sicuramente più inclusivi e portatori di un potenziale uso egosintonico per i soggetti, nella società attuale.
Come ridefinire i concetti di
abilitazione e ri-abilitazione
con soggetti che quando arrivano ai Servizi, portando diversificate richieste d’aiuto, è
N. 167 - 2008
perché “qualcosa non ha funzionato, per l’insorgere di incidenti di percorso”?
Anche negli attuali scenari
delle politiche sociali e sanitarie si parla di “nuove povertà”, laddove fasce di popolazione non appartenenti alle
classiche categorie sociali
della multiproblematicità,
evidenziano grosse difficoltà
ad accedere a quei bisogni
primari quali casa, lavoro,
istruzione, sanità o da essi
vengono estromessi per le diverse contingenze e contraddizioni delle società attuali?
Come coniugare politiche di
maggiore protezione sociale
con la necessità di garantire
sistemi di tutela, affinché
soggetti socialmente ed individualmente più deboli non
incorrano in percorsi di cronicizzazione della loro condizione di difficoltà, a volte
temporanea, preludio di un
possibile isolamento sociale?
Sono questi temi aperti e
complessi che non possono
essere affrontati se non all’interno di una rivisitazione
più ampia del concetto stesso di welfare e di sviluppo
sostenibile.
Sin dal 2000 con la Strategia
di Lisbona, cioè quel programma di indirizzo di riforme economiche, approvato dai capi
di stato e di governo dei paesi
della Ue, rivisitata e rafforzata
negli anni successivi, si parla
chiaramente di migliore qualità della vita, di necessità di
maggiore coesione sociale, di
opportunità di sviluppare politiche complementari in grado di fronteggiare le nuove
fragilità sociali, promuovendo
progresso sociale, occupazionale e sostenibilità ambientale e del territorio.
I Servizi per le dipendenze patologiche
Viene fatta specifica menzione alla preponderante necessità di tutelare e garantire
l’accesso ai servizi, alle risorse
ed ai diritti con particolare attenzione alle fasce di popolazione più debole e marginale.
Il tentativo di gettare un
ponte, tra il mondo economico e quello sociale, tra l’area
dell’esclusione e dell’emarginazione e quello dell’integrazione, non può non confrontarsi con le concrete pratiche
sociali, sanitarie e di lavoro
dei singoli territori.
Tuttavia, per chi lavora nei
servizi alla persona, sembra
che i due mondi, quello economico e di sviluppo e quello
che si occupa di politiche sociali e sanitarie, paiono non
parlarsi. Sembrano essere
complementari solo nell’ occuparsi l’uno dello scarto dell’altro.
È evidente l’interdipendenza
di questi due campi, solo apparentemente distanti.
Molti degli interventi progettati e realizzati dai Servizi si
collocano e attengono al
campo degli inserimenti al
lavoro. Sarebbe logico e naturale pensare ad uno stretto
e naturale rapporto di collaborazione tra le organizzazione del mondo produttivo e
i Servizi.
Così non è. I rapporti vanno
costruiti, istituiti i tavoli di
collaborazione reciproca.
È necessario uscire dalle reciproche stereotipie di visione
e di linguaggio.
Tuttavia oggi si parla sempre
più diffusamente di” responsabilità sociale” delle aziende
anche nel settore del profit,
in quanto la consapevolezza
di come sia forte l’interdipendenza tra lo sviluppo eco-
nomico e lo sviluppo sociale
di un territorio è cresciuta.
Esistono “contenitori” locali
di programmazione e di richiesta di finanziamenti per
progettualità comuni. È necessario, per i Servizi, partecipare non con una presenza
puramente formale e di facciata, ad esempio ai Piani di
zona, che sono l’occasione
offerta alle comunità locali
per leggere, valutare, programmare e guidare il proprio sviluppo. Il Piano di zona va visto e realizzato come
piano regolatore del funzionamento dei servizi alle persone. In particolare, il Piano
di zona è lo strumento promosso dai diversi soggetti
istituzionali e comunitari per
sinergizzare le iniziative dei
diversi soggetti, istituzionali, del volontariato e profit, al
fine di implementare il benessere della popolazione.
Presidiare questi spazi, con
contenuti progettuali, significa anche farsi portatori di
quei bisogni che gli “abitanti” dei nostri Servizi portano
sovente adattandoli a domande predefinite o indotte (come ad esempio la richiesta di
forte medicalizzazione), costituendo così la possibilità
di trasformarli in domande
vere che tendano ad attivare
possibili risposte concrete.
Spetta anche ai Servizi sociosanitari uscire dagli ambiti ritenuti di storica competenza,
utilizzare questi luoghi altri
di programmazione e di progettazione e sviluppare azioni di forte partnerariato a livello locale, volte a realizzare
programmi e progetti di reale
inclusione sociale, partendo
dai nuovi e vecchi bisogni
della propria utenza.
Sae l ute
Territorio 113
L’elemento unificante è rappresentato dal “territorio”,
quel ricco microcosmo di relazioni di reciprocità.
Un territorio non è solo uno
spazio fisico, una mappa, un
luogo con caratteristiche di
staticità, bensì si avvicina
più ad un habitat ricco di intrecci, di relazioni tra singoli
e tra diverse “tribù” d’appartenenza. È fatto di scambi, di
scontri, di emozioni, di identità, di abitudini, di attribuzioni di senso e significato.
Non si vuole con ciò riproporre una mitizzazione, ormai
superata, del territorio come
di per sé “terapeutico”. Non
dimentichiamo che la comunità è anche luogo di legami
rigidi, di identità fossilizzate
e di ostracismo del “diverso”.
È quindi compito dell’operatore assumere anche il territorio e le sue complesse relazioni come ambito di intervento. Solo assumendo anche
il contesto come campo di intervento è possibile operare
affinché interessi particolari,
invece di confliggere possano
costituirsi in inter-essi.
Per cogliere il senso ed i significati di un territorio è necessario incrociare le diverse
mappe di tutti coloro che lo
abitano, abbandonare le rigidità dei singoli, mettendosi
nella condizione di fare nuove
esperienze, perdersi, uscire
dalle certezze per entrare nel
campo dell’ascolto, della possibile ridefinizione di un significato comune e condiviso.
Il delicato tema della globalizzazione, della comparsa di
“non luoghi” neutri ed impersonali, impone a tutti,
operatori sociali e sanitari
compresi, l’imperante necessità di tessere o ritessere le-
l ute
Sa
e
114 Territorio
gami sociali forti, di recuperare anche quell’informale,
quelle reti di relazioni famigliari, personali, di vicinato,
di “comunità” che possono
diventare tecnica di lavoro in
campo sociale.
Nel campo delle dipendenze
patologiche, in una società
che sviluppa, per sua necessità di sopravvivenza, la dipendenza come valore, la
scommessa possibile diventa
quella di sviluppare e sostenere quei legami, quel fare
“rete” tra territori del formale e territori dell’informale
permettendo all’individuo di
sperimentarsi con modalità
di interdipendenza. Quello
che in altri termini viene oggi definito come clinica del
legame (Benasayag, Schmit –
L’epoca delle passioni tristi).
La cura non è così solo la cura del singolo individuo ma
anche quella dei suoi nodi relazionali possibili, dello sviluppo di quel senso di appartenenza che contempla anche i “legami deboli” come
valore della tessitura di una
rete umana e sociale, che
consenta di sentirsi sostenuto anche nei momenti di difficoltà, che richiama alla
possibilità di sviluppare competenze di relazione umana e
sociale, che tenta di superare
la dicotomia mente-corpo attraverso la sperimentazione
della possibilità di emanciparsi da reti soffocanti o
troppo vincolanti costruendo
nuove possibilità di relazioni
e di legami evolutivi.
Gli utenti dei nostri Servizi
sono spesso soggetti fragili
che diventano “stranieri” nel
proprio territorio, che ci mostrano le contraddizioni presenti con la drammatica evi-
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
denza dei loro agiti. Sono
soggetti che non stanno alle
regole implicite ed esplicite,
che interpretano e sperimentano, anche in virtù delle loro
singole e personali storie,
modalità disfunzionali per
stare al passo coi tempi.
Se “il far serata”, il dictat delle prestazioni in campo sociale, lavorativo, interpersonale
si coniuga con l’uso di additivi leciti e non, se, per l’imperativo del divertimento, dello
stare “nel gruppo”,è necessario adeguarsi alle leggi del
branco, chi non possiede o chi
padroneggia a fatica una cultura della complessità, si trova spiazzato,ricorre inevitabilmente alle semplificazioni
proposte dal mercato delle sostanze legali e non, rimanendovi, spesso, intrappolato.
Gli operatori dei Servizi entrano così nel delicato campo
dell’interculturalità, della
multiculturalità come unica
chance possibile per tradurre
i significati dei comportamenti dei singoli soggetti.
Onde poter progettare percorsi inclusivi è fondamentale che gli operatori posseggano strumenti per rileggere
il comportamento agito in
relazione alla multiculturalità che esprime. Le mappe
culturali, sociali, emotive,
personali che entrano in gioco e di cui il singolo soggetto
si fa portatore con i suoi
comportamenti, sono molteplici e attengono sia alla storia del singolo ma anche e
soprattutto ai cortocircuiti
dei tentativi di integrazione
singoli e collettivi, che vengono utilizzati.
Gli abitanti dei nostri luoghi
di ascolto e di cura spesso ci
portano forti contenuti di
te la stessa relazione d’aiuto
che si mette in campo.
I Servizi e gli operatori diventano “laboratori” di incontro
umano, relazionale, affettivo,
di dialogo. Si attrezza l’individuo alla possibilità di scoprirne il valore ed il profondo
significato di crescita.
In questo quadro anche le
esperienze che si propongono
divengono novità per la persona che chiede aiuto. Da qui
inizia il possibile percorso di
inclusione.
Per la persona che ha sperimentato l’uso di sostanze
quale surrogato, stampella
nel suo personale tentativo di
inclusione, l’abbandono della
stessa evidenzia sofferenze
non sopite, limiti negati, onnipotenze artificiali.
Ci si trova dinanzi ad un
vuoto, anche, emotivo da
riempire.
Il Servizio è così chiamato a
svolgere un delicato compito
di costruzione di riletture e
connessioni che non possono
essere unidirezionali: dal
soggetto al contesto, senza
che questo, almeno, si interroghi sui suoi propri limiti,
senza delegare ai tecnici,
supposti onnipotenti, una
normalizzazione che non riconosca l’espressione di alterità emozionali e culturali.
La normalità proposta è spesso vissuta dal soggetto come
deprivazione, come mancanza, come assenza; anche se,
apparente paradosso, è lo
stesso “ ex” ad autorichiedersi una ipernormalizzazione a
volte persino caricaturale.
La colpevolizzqzione, interiorizzata, fa si che la persona
non riesca a ridare senso al
suo percorso, “criminalizzandolo” lui stesso e con ciò ne-
isolamento intra ed extra familiare. Hanno sostituito le
relazioni, intese come scambio, come reciprocità, con
una miriade di “contatti”.
Possono anche essere “inseriti” dal punto di vista sociale
ma si sentono e vivono da
monadi in un arcipelago di
pseudo relazioni. Manca lo
scambio delle emozioni e dei
sentimenti, ingrediente fondamentale per uno sviluppo
armonico dell’individuo.
Non possono più fare appello
a movimenti collettivi esterni
alla cerchia familiare, perché
inesistenti o ridotti anch’essi
a merce di scambio. Il senso
di appartenenza si esplica all’interno di locali alla moda,
con l’abbigliamento, con l’uso, più o meno consapevole di
“sostanze di ogni tipo”, ma la
logica sottesa è e resta quella
del mercato,laddove si compra qualcosa in cambio di
qualcos’altro,si soddisfano
necessità momentanee “acquistandole” in un mercato
coartato.
I nuovi consumatori sembrano non conoscere l’esperienza
dell’ incontro relazionale che
presuppone la propria messa
in gioco in nome della possibilità di un cambiamento,
della scoperta della ricchezza
delle relazioni interpersonali
che produce crescita.
Gli operatori si ritrovano di
fronte a persone i cui comportamenti, proprio perché
disfunzionali e portatori di
malessere, si sono irrigiditi
ed allora il compito diviene
quello di permettere a queste
persone di scoprire un campo
relazionale nuovo, anche se
antico come il mondo, quello
della relazione come scambio,
utilizzando sperimentalmen-
N. 167 - 2008
gandosi la comprensione del
significato, anche, positivo,
della sua ricerca di contenuto, seppur sfuggita al suo
stesso controllo.
Il tentativo, tra cura e riabilitazione, diviene quello di colmare progettualmente questo
iatus reale e percepito.
Compito, questo, impossibile
per un unico Servizio, per i
singoli operatori.
La domanda a specchio dello
stesso soggetto e della società diviene così totalizzante, attribuendo ai tecnici una
supposta onnipotenza,tale da
contenere sin dall’origine il
presupposto di un fallimento
possibile.
Quello che è fattibile realisticamente mettere in atto è accompagnare gli individui,
nelle loro nuove sperimentazioni nel sociale e non solo
nell’intrapsichico.
Per farlo è necessario che il
Servizio sia connesso con le
reti che caratterizzano gli
specifici spazi di inclusione,
di cui per altro è uno dei
punti di snodo, affinché le
mappe d’incontro risultino
possibili.
Si torna così alla necessità di
costruire, attivare, mantenere in vita, prendersi cura, anche,di quello stesso territorio
di cui sopra.
La trasformazione ed il cambiamento dell’identità personale è strettamente connessa
con la ridefinizione di una
nuova o più funzionale identità sociale,la quale non può
che essere il risultato di un
precipuo incontro di “quel”
soggetto, con la sua unicità,
in “quel” territorio con le sue
specifiche peculiarità.
Solo all’interno di una costante operazione di metic-
I Servizi per le dipendenze patologiche
ciato reciproco tra i diversi
attori di una comunità locale,
che diviene così essa stesso
“laboratorio”, nella sperimentazione di nuove forme di
convivenza, è possibile inscrivere e riscrivere le nuove
forme dei percorsi d’aiuto anche per i singoli.
È però indispensabile che il
Servizio possegga, l’ umanità
e le professionalità in grado
di decodificare e connettere i
bisogni del soggetto e del
contesto ri-leggendo ed articolandone la rigidità e la stereotipia delle domande.
I bisogni sottesi di una persona che ha abusato di eroina
dagli anni ‘70\’80 ad oggi, e
quelli di un cocainomane del
2000 sono del tutto diversi.
Due casi di percorsi paradigmatici possono esplicitare
questa differenza e quindi la
necessità di diversificazione
dei processi di inclusione.
– Miriam, quasi, quarantenne: primi contatti con l’eroina in adolescenza, con
alle spalle un nucleo d’origine multiproblematico,
bassa scolarità, intelligenza pronta e vivace,. L’eroina come strumento di affrancamenteo/esclusione.
“ Non posso essere normale: allora sono fuori dalle
regole, dal sistema, da me
stessa”.Utente storica,
problematica, ha dato del
filo da torcere a più di un
operatore: lei ed il suo
compagno, anche lui coinvolto con modalità analoghe, “giravano letteralmente i tavoli dei Servizi”.
Poliabustrice, eroina, psico-
Sae l ute
Territorio 115
farmaci, sostitutivi. Poi percorso di “Operatrice pari”,
anche se fatica a riconoscersi
in una “professionalizzazione” della sua storia deviante.
Due anni fa, rimane incinta.
Questo evento, una bimba,
nascitura, per la quale non
vuole ipotizzare la ripetizione del suo percorso di esclusa, diventa l’occasione per un
salto di qualità che, dentro,
la disconnette dalla identità
coatta, coartata, di “ex”.
Fase conflittuale, di ambivalenze, di progressivo sgancio
dalla sostanza illegale pur
necessitando del costante
supporto del sostitutivo. La
bimba nasce in SAN e questo
ovviamente porta all’intervento del Tribunale dei minori che affida la coppia ai Servizi, con tutti i controlli di
Noi, c’eravamo… dentro
Geppa* e Cori*
Ho iniziato con l’eroina che avevo 15 anni. Arrivavo a casa fusa,ma mia madre si occupava di suo fratello che
era tossicodipendente. Io andavo a vomitare in bagno ma lei sembrava non vedermi, era gelosa per via del fatto che mio padre abusava di me, e lei era convinta che fosse colpa mia.
Sono poi andata a casa di una ragazza. Avevo quasi smesso. Conobbi un ragazzo che si faceva ogni tanto che mi
offrì l’eroina come “cura” per i miei dolori articolari (ho sviluppato un lupus eritematosus), e da lì ricominciai.
A 25 anni, ho conosciuto il mio attuale compagno, Poi sono finita in carcere per spaccio. Sono entrata al venerdì, si vedeva che ero in carenza in più ero piena di buchi. Non mi ha vista nessun medico del Ser.T, il sabato
mattino stavo malissimo, mi hanno portato in infermeria, Niente esami delle urine e quindi niente metadone.
Sono stata dentro 2mesi e ho continuato a farmi… lì non mi sono sentita discriminata come tossica, gli agenti
carcerari sono meno escludenti della gente di fuori perché loro ci convivono., Battere, non l’ho mai fatto, io lavoravo. Usavo l’eroina come antidolorifico fisico e mentale. Non usavo la droga per stare “fuori” ma per “rientrare, per starci dentro”.
Ho fatto la bidella, ho guardato gli anziani, e nessuno se ne è mai accorto che mi facevo. Il mercato è cambiato 10-11 anni fa. Prima era in mano ai calabresi poi è passato ai marocchini che però erano la manovalanza.
Non mi vergognavo della merce che vendevo, non mi sono mai sentita in colpa, vendevo una merce, mi occupavo che fosse di buona qualità, come un barista che non frega i clienti. Non eravamo spacciatori di strada ma
“professionisti” che cercavano di vendere a clienti selezionati. Mica andavamo ad adescare chi non usava.
Quando abbiamo smesso di vendere, ci siamo trovati fuori casa perché non pagavamo più affitto e bollette. Il
“drop in” è stato quello che ci ha impedito di diventare barboni. Lì ti danno una possibilità. Ti fanno un mucchio di proposte. Sarà anche una versione “garantita” del tossik park, ma non c’è nessuno che ti rompe.., è un
abbraccio che ti danno.
Gli operatori del Ser.T sono più “spacca coglioni”. Poi dipende nel primo Ser.T mi sentivo tranquilla, in un altro
li sentivo troppo “professionali”.
A volte, durante la gravidanza, ho sentito il Ser.T come gli esecutori del Tribunale. Non era quello che mi serviva,
La svolta è stata il cominciare a sentirmi mamma, il pensare che con mia figlia non potevo essere “appannata”.
Quando sarà il tempo le parlerò della mia storia.
* nota del curatore: i nomi sono quelli di “battaglia” del periodo dello sbattimento, lo stigma persiste anche per gli ex… anche se “risocializzati”.
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e
116 Territorio
monitorizzazione di routine.
Entrambi i membri della coppia disoccupati, iniziano un
percorso di inclusione; vengono alla luce, doti e capacita, progettuali e di abilità
pratiche ed elasticità di adattamento. Il compagno riesce
a piccoli passi a attivare una
attività in proprio sufficientemente rimunerativa.
Per Miriam, donna, non più
giovane, madre,le possibilità
di un suo autonomo spazio
lavorativo sono decisamente
più problematiche.
La domanda al Servizio è
esplicita” aiutatemi ad essere
donna e madre, uscendo da
dipendenze non solo da sostanze”.
Si attiva la rete dei Servizi:
Ser.T, Psicoterapeuta, Servizio sociale, Età evolutiva,
Servizi per la prima infanzia.
La connessione e le sinergie
fra questa prima rete terziaria, permette, non solo di
giungere ad un qualche inserimento lavorativo purchessia, ma a tutt’oggi M. è in
preassunzione c/o un’azienda di una grossa rete commerciale essendo divenuta
elemento portante di un progetto integrato tra diversi Enti pubblici, privato sociale,
settore profit, per l’implementazione di reti solidali
verso le nuove povertà.
Questo percorso è stato possibile perché il Servizio, storicamente,ha sia, mantenuto
una alta accessibilità senza
delegare la “cronicità” a spazi
altri, sia perchè il Ser.t era lui
stesso incluso in una rete locale e si è da sempre posto
come punto attivo, interagente con le diverse agenzie
del territorio.
– Davide, 28 anni, diploma
I Servizi per le dipendenze patologiche
superiore, iscritto, all’università, aveva un lavoro
brillante e ben remunerato,con richieste notevoli
di efficienza e performance
sociale. Immagine di sè
grandiosa. L’approccio con
la cocaina come additivo
per potenziare la resa. Famiglia operaia, religiosa,
ipernormale.
Lo conosciamo in carcere,
dov’era era ristretto per
una serie infinita di rapine in tutto il nord. Reati
evidentemente connessi al
crescente e massiccio
coinvolgimento nell’uso
della sostanza. Colpisce lo
iatus tra ricchezza di mezzi economici e povertà del
retroterra culturale. D.
presenta una notevole
scaltrezza che però, sospinta dalla sostanza ne
inficia le capacità per un
corretto esame di realtà.
Traspare una onnipotenza
dereistica ed una grandiosità nella ipervalutazione
di se stesso.
Accettiamo l’affidamento
anche se appare evidente
fin dai primi incontri la
“strumentalità” delle richieste che D. pone agli
operatori. Non pare “pentito”, in colpa, piuttosto,
sconfitto, con desideri di
rivincita.
L’intreccio tra le sue doti
professionali e l’abilità del
suo legale gli permetto di
essere autorizzato a lavorare presso una prestigiosa ditta nel suo settore,
con possibilità di operare,
contrariamente alla normale prassi,persino fuori
Regione.
Nel frattempo i numerosi
incontri, con lui e la fami-
glia, confermano che quest’ultima considera il figlio malato in quanto
“avendo sbagliato non
può che essere malato”. La
richiesta di questi è quindi di “guarirlo”.
Nuova carcerazione e nuove richieste, evidentemente strumentali, questa volta di affidamento in comunità.
Scarcerato, seppur in attesa di ulteriori espiazioni,
per procedimenti ancora in
corso, nei vari gradi di giudizio, né lui né la famiglia
portano al Servizio domanda alcuna.
I casi di Miriam e di Davide
paiono paradigmatici di
come non sia possibile parlare di univocità dei percorsi di presa in carico, cura e riabilitazione,solo superficialmente omologati
dall’abuso di sostanze, ma
che sottendono, in soggetti ed in tempi storici, con
sostanze diverse, un intreccio di problematicità,
bisogni, domande e ricerca
di soluzioni che necessitano di una pluralità di letture e di strumenti.
Se per Miriam si può parlare
di un problema connesso con
le difficoltà di inclusione, Davide rappresenta la problematicità di un uso di sostanze
iper includente.
Come scrive R. Gatti: “Comprimendo” in Per una prevenzione efficace, “non si può
non considerare che…” la
droga, oggi, è un fenomeno
diverso dalla droga anni ’70
perché si è inserita nel contesto in cui i desideri e gli
istinti si appagano attraverso
N. 167 - 2008
l’adesione a format di consumo dove come si comunica, ci
si veste, si interagisce, si vive, è già, in qualche modo
pre-codificato. Poiché spazi e
tempi sono compressi, le droghe diventano normalmente
una sorta di doping della vita
quotidiana e, talvolta, un sostitutivo di ciò che è irraggiungibile per definizione:
l’appagamento definitivo degli istinti (di consumo). La
droga anni ’70 quella che
“viene a riempire un vuoto
causato appunto dal desiderio di morte e che è dunque
un vuoto di cultura” (P.P. Pasolini) esiste, sempre meno
nei paesi occidentali (sebbene ancora esista), perché è
proprio dei processi di compressione il comprimere, prima di tutto, gli spazi vuoti.
Anche la droga sta diventando totalmente un fenomeno
di consumo mascherato (dal
marketing) in modo che sembri un bisogno, il giusto appagamento di un istinto primario… (omissis)... se in
passato la droga poteva essere un modo per rallentare e
per morire oggi diventa un
modo di vivere e di essere cittadini. Non importa che sia
legale o illegale”.
È sempre più evidente che
non si danno processi inclusivi, scindendo i percorsi terapeuti da quelli riabilitativi,
prescindendo dalla necessita
di lavorare sulle reti complesse, prassico comunicative
del territorio in cui si opera.
Soggetto “inserendo” e spazi
inclusivi richiedono che i
Servizi e gli operatori implementino le capacità di un lavoro approfondito su diversi
piani, individuali, relazionali
e sociali.
N. 167 - 2008
I Servizi per le dipendenze patologiche
Sae l ute
Territorio 117
Bibliografia
(3) Barone R., Licari G, et al. (a cura di) (2006), Sviluppo locale partecipato e sostenibile, Cleup.
(1) Aa.Vv. (1982), Atti del convegno “Le cooperative contro l’esclusione”, Fogli di Informazione.
(4) Barone R., Bellia V. (2000), Il volo dell’airone, Franco Angeli.
(5) Ciompi L. (1994), Logica affettiva, Feltrinelli.
(2) Aa.Vv. (2000), L’integrazione socio lavorativa, Quaderni di Animazione e formazione, Gruppo Abele.
(6) Leone L., Celata C. (a cura di) (2006), Per una prevenzione efficace,
Il sole 24 ore.
(segue da pag. 106):
Le modificazioni dell’uso di
alcol
Sono infatti questi meccanismi che consentono di comprendere come gli attori agiscano in relazione ad una sostanza come l’alcol connotata
in modo peculiare quanto a
desiderabilità, quale sia il
senso che danno alle loro
azioni in rapporto alle credenze che hanno maturato
culturalmente, quale ruolo
essa possa assumere in circostanze date e di fronte alle
opportunità di azione che ad
essi si presentano.
Solo questa comprensione
profonda può consentire di
evidenziare possibili tenden-
Bibliografia
Allamani A., Cipriani F. e Prina F. (a cura di) (2006), I cambiamenti
nei consumi di bevande alcoliche in Italia: uno studio esplorativo sul
decremento dei consumi negli anni 1970-2000, Quaderno dell’Osservatorio Permanente Giovani e Alcol n. 17, Casa Editrice Litos, Roma.
Barbera F. (2004), Meccanismi sociali, Il Mulino, Bologna.
Beccaria F. (2007), Giovani e alcol: un rapporto in evoluzione, La salute umana, 207, pp. 13-8.
(segue da pag. 107):
La cultura d’uso della cocaina
La partecipazione, pur se
marginalizzata, alla cultura
d’uso prevalente della cocaina costituisce paradossalmente quasi un autoelevazione sociale, una sorta di
“patente di normalità” rispetto alla conoscenza ed alla integrazione con i nuovi
soggetti.
Il consumatore sommerso
Pur se scarsamente visibile
sul territorio, ipotizziamo
una possibile quarta fascia di
consumatori, non rilevabile
perchè fa riferimento a luoghi di aggregazione e ricerca
della sostanza esterni al territorio, o comunque a fonti
extra-territoriali: ambienti
di lavoro di fascia “alta” i cui
consumi, per qualità e quantità, sfuggono all’osservazione diretta. Ne viene riferita
l’esistenza, ma proprio l’elusione del controllo costituisce la dinamica di questa
cultura d’uso nel mondo
adulto, che emerge drammaticamente negli esiti delle
ze e, soprattutto, di porre in
essere politiche efficaci di
prevenzione delle conseguenze problematiche di tali
comportamenti, valorizzando gli effetti “protettivi”
della cultura tradizionale del
bere (con particolare riferimento alle componenti di
autocontrollo di cui è comunque portatrice), ma so-
prattutto agendo su elementi quali la desiderabilità, le
credenze, le opzioni disponibili, così evitando un duplice
rischio: da un lato, il rischio
di eccessivi e controproducenti allarmismi e, dall’altro,
quello di altrettanto pericolosi ridimensionamenti e
sottovalutazioni dei mutamenti in atto.
Beccaria F., Prina F. (1996), Le dimensioni culturali e sociali dell’alcol,
in A. Ruggenini Moiraghi (a cura di), Alcologia, Masson, Milano, pp.
17-57.
Beccaria F., Prina F. (2008), Young people and alcohol in Italy: an evolving relationship, Drugs: education, prevention and policy (in corso di
pubblicazione).
Cipriani F., Prina F. (2006), I risultati della ricerca: sintesi finale e conclusioni, in A. Allamani, F. Cipriani, F. Prina, op. cit., pp. 273-90.
intossicazioni acute per l’intervento del 118 o delle Forze dell’Ordine.
Conclusioni
Appare inefficace in questa
fase definire a priori protocolli di accoglienza o offerte
terapeutiche inseguendo il
cocainomane come oggetto
mancante alla cura.
È forse necessario sospendere i criteri diagnostici tradizionali dei Ser.T, perseguendo e rilanciando invece una
politica dialogica di interazione più dialettica con gli
usatori, utilizzando quella
pratica di lavoro definita “
fiduciaria informale”, per la
conoscenza della situazione
e degli attori.
Solo in un secondo momento
questa conoscenza permetterà la costruzione di possibili percorsi di decodifica dei
bisogni che, a nostro parere,
dovrà implicare necessariamente l’ammodernamento
dell’architettura dei servizi;
intesa questa non tanto in
senso “murario” quanto come
elasticizzazione dei criteri di
accessibilità.
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e
118 Territorio
Maria Teresa Ninni
Educatrice
Una strana cosa ci è cresciuta dentro
all’anima, in fondo a sinistra.
Prima ci hanno detto che si trattava
di una scimmia che ci stava appollaiata sulla schiena.
Non ci dispiaceva, le scimmie ci sono
sempre piaciute.
Poi ci hanno detto che era un tumore,
una malignità dello spirito e del corpo.
E ci ha dato fastidio, perché di malignità ce n’è già abbastanza e poi, diciamo la verità, tenercela dentro proprio noi, è mica uno scherzo.
Poi ci hanno spiegato che era il drago,
gli occhi spiritati, le lingue di fuoco, i
micidiali artigli, ma niente di che
preoccuparsi, si conosceva il rimedio.
(Si sa i draghi non esistono, se li inventa il demonio e se in giro nascono
dei buoni esorcisti tutto va a posto
per forza).
Solo che ci spostavamo sempre più
spesso e, davvero, dava un po’ fastidio.
Dai bar del centro a quelli della periferia, dalle strade alle prigioni o agli
ospedali, dalle serate in tanti a quelle
solitarie che vien voglia di piangere,
dalle case con il cesso ai cessi senza
casa.
Ci dava un po’ fastidio...
da Goffredo Firmin, Ci è cresciuta
dentro, in Intorno al drago. La droga
e il suo spettacolo sociale, a cura di
R. D’Este, Nautilus, Torino 1990)
H
o pensato di iniziare il
mio pezzo con la poesia di un amico che
ben rappresenta i vari paradigmi con cui le persone della
mia generazione, che hanno
vissuto l’esperienza droga, si
sono dovute confrontare. Dove una scienza carente di dati
ed esperienze cercava di dare
una lettura del fenomeno at-
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
L’accesso ai Servizi
a bassa soglia
traverso costruzioni ideologiche piene di pregiudizi e moralismi e dove la dimensione
di ricerca-ribellione corale di
una generazione diventava
malattia e/o devianza rinchiusa in una dimensione individuale, dove la valenza sociale e politica veniva completamente rimossa.
Che cos’è un Servizio a bassa soglia?
I concetti di bassa, media o alta soglia si riferiscono al grado
di accessibilità del Servizio.
Tanto più le persone devono
avere requisiti specifici ed osservare determinate regole
e/o vincoli per afferire al Servizio, tanto più la soglia si alza. Un’Agenzia di bassa soglia
offre risposte facilmente fruibili ai bisogni dell’utenza. I limiti più rigidi, ed evidentemente più significativi, sono
legati all’orario di apertura e
all’osservanza di minime regole di civile convivenza. Non
vengono richiesti documenti
di riconoscimento e quindi si
lavora su presupposti di anonimato (anche nei confronti
degli stessi operatori del Servizio). Ovviamente le persone
che la frequentano con una
certa regolarità, se instaurano
relazioni fiduciarie con gli
operatori o con altri frequentatori, decidono autonomamente se raccontare delle cose
Unità di strada e “drop in” direttamente
a contatto con la trasformazione dei bisogni
degli utenti
di sé oppure mantenere una
posizione più anonima.
Un’Agenzia di bassa soglia è,
generalmente, sovrazonale,
sia per quanto riguarda la
provenienza degli utenti, sia
per quanto riguarda il lavoro
di rete.
Per capire perché nascono i
Servizi a bassa soglia non si
può prescindere dal fare un
breve “excursus” storico degli
interventi sulle droghe messe
in atto in questo Paese. Prenderò come data di riferimento
il 1990 e l’approvazione della
legge sulle tossicodipendenze
n. 162/90 Vassalli-Jervolino
che modificherà profondamente l’approccio rispetto alle dipendenze e ai consumatori di droghe illegali. Legge
fortemente voluta dall’allora
capo del Governo Craxi che si
allineò alla politica di repressione intrapresa dal presidente degli Stati Uniti, Ronald
Reagan.
La legge precedente, la 685
del 1975 (figlia di una stagione che vede il fiorire di molte
norme fortemente innovative,
dalla legge 180/78 che prevede l’abolizione dei Manicomi
alla legge 194/78 sull’aborto
ecc…) anche se contraddittoria, cercava di far convivere il
concetto dell’uso di sostanze
come atto deviante, ma considerava la dipendenza come
malattia, a cui dare risposte di
tipo assistenziale e terapeutico; per la prima volta si sancisce la non punibilità dell’uso
personale e si prevede un’articolazione territoriale dei Servizi preposti alla cura.
Sulle ceneri di una norma mai
veramente attuata e comunque con una profonda contraddizione di fondo, dove a
lato di un intervento di cura
spesso si inserisce un approccio di controllo, questa ambiguità resterà uno dei problemi non risolti ancora oggi nei
Servizi sulle dipendenze.
Si arriva così alla legge n. 162
del 1990, “legge manifesto”
(inclusa nel Testo unico n.
309/90), ricca di affermazioni di principio, che esalta il
credo del “divieto di drogarsi”. Una legge che mette al
centro il controllo e che prevede un’ampia gamma di sanzioni sia amministrative che
penali. Siamo di fronte alla
N. 167 - 2008
criminalizzazione del tossicodipendente che viene, spesso, coattivamente spinto alla
cura quale unica alternativa
praticabile alla detenzione.
Sono anni di forte propaganda che tende ad isolare e a
ghettizzare il tossicodipendente, la parola d’ordine sarà
il “toccare il fondo”: solo così
le persone riusciranno ad
emergere dalla condizione di
abbrutimento morale a cui la
droga li ha condotti.
La modifica della legge e il
grande rilievo mediatico dato,
tra le varie ricadute ebbero
anche quella di ingessare anche le forme della cura. Sono
gli anni in cui il metadone diventa “droga di Stato” e viene prescritto in modo decisamente insufficiente, quando
addirittura negato; la modalità di trattamento previsto è
solo a scalare, e, cosa alquanto curiosa, vengono stabilite
le quantità prescrivibili e i cicli permessi in un anno. Gli
unici interventi considerati
validi sono i percorsi in Comunità terapeutiche.
A fianco delle modifiche legislative e alla repressione di
quegli anni appare una nuova variabile che inciderà fortemente nelle politiche sulle
dipendenze: l’AIDS fa la sua
comparsa in Europa verso la
metà degli anni ’80 e contribuirà a rendere la qualità
della vita dei consumatori di
sostanze ancora più compromessa.
Sarà grazie al prezioso lavoro
di denuncia fatto dai gruppi
di persone sieropositive che
si inizierà a ragionare su altri
modelli di intervento, quali
appunto la riduzione del
danno.
I Servizi a bassa soglia sono
I Servizi per le dipendenze patologiche
gli strumenti di questo approccio.
Le Unità di strada prima e i
drop-in center poi, sono stati
il mezzo con cui entrare in
contatto con una popolazione, il cosiddetto sommerso
e/o risommerso, che non trovava più nei Servizi formali di
cura le risposte al proprio
malessere.
I Servizi a bassa soglia e la filosofia della riduzione del
danno accanto all’utilizzo di
nuove figure professionali
quali i peers supporters e gli
operatori pari contribuiranno
a portare all’interno dei Servizi lo sguardo del consumatore, non più come utente e malato, ma come “collega” portatore di un sapere non ancora conosciuto e riconosciuto.
Inoltre, questi Servizi, hanno,
a parer mio, un’altra specificità particolarmente significativa: gli interventi di bassa
soglia si sviluppano quasi
sempre in contesti gruppali
recuperando di fatto uno
sguardo di tipo sociale, politico e antropologico mettendo
un po’ in crisi l’approccio più
strettamente sanitario.
Sono passati ormai più di dieci anni dalla nascita dei primi
progetti di riduzione del danno nel nostro Paese ed è naturale fare una sorta di bilancio di quella che è stata l’esperienza di questi Servizi e
che cosa hanno modificato…
In Piemonte, Regione in cui
vivo e lavoro, quasi tutti i
progetti di riduzione del danno sono stati realizzati dal
Servizio pubblico, che è stato
in grado di accettare la sfida
che i tempi imponevano.
Ma la domanda a cui rispondere rimane: l’attivazione di
questi Servizi ha contribuito a
modificare l’approccio verso il
consumatore? O ha significato
solo creare un ambito in cui i
cosiddetti “irrecuperabili” o
“refrattari alla cura” potessero
spendere il proprio tempo
creando meno “disturbo” sociale possibile? Cos’è che fa sì
che un drop-in non sia un ulteriore ghetto dove nascondere i brutti, sporchi e cattivi?
Mi verrebbe da dire che alcune
cose sono state fatte, in questi anni. Il sistema dei Servizi,
grazie ad una storia di 30 anni
di interventi, mi sembra, nella
maggioranza dei casi, essere
uscito dalle pericolose semplificazioni dei tempi passati, ha
imparato a fare i conti con
una complessità che non deve
mai smettere di interrogarsi:
troppo spesso il bisogno dell’operatore di classificare, incasellare per placare l’ansia
che provoca la sofferenza altrui è una deriva accattivante,
ma sappiamo anche quanto
pericolosa.
La bassa soglia è la porta sulla strada, è l’accesso facilitato
al mondo dei Servizi, ma affinché questa non sia solo
porta di entrata senza uscita
il percorso è ancora lungo. Se
non si instaura una dialettica
e riconoscimento tra le diverse soglie rischiamo di riprodurre nuove e più pesanti
emarginazioni.
Se il consumatore che si rivolge ai nostri drop-in o
Unità di strada (Servizi di
prossimità) non riesce ad intraprendere percorsi di empowerment e di autonomia, se
il sistema dei Servizi non riesce ad offrire opportunità di
cambiamento per questi nuovi utenti vuol dire che la bassa soglia ha fallito il mandato
che si era data. Rischia di es-
Sae l ute
Territorio 119
sere solo un’Agenzia assistenziale in più!
La bassa soglia deve reinvestire con forza sul lavoro di
empowerment e di advocacy,
deve avere la forza di interrogare i Servizi con soglie differenti per creare percorsi di inclusione anche per quei soggetti che non hanno maturato la scelta dell’astinenza, ma
ciò nonostante sono in grado
di avere una vita “normale”,
di svolgere un lavoro, di mantenere relazioni ecc…
Abbiamo da sempre cercato di
interpretare la filosofia della
riduzione del danno, non solo come intervento sanitario
per contrastare infezioni ed
epidemie, ma anche come impegno sociale che restituisse
protagonismo e cittadinanza
al consumatore di sostanze.
In questi ultimi dieci anni,
inoltre, abbiamo dovuto confrontarci con non poche difficoltà: una sperimentazione
che sembrava non dover mai
finire (solo nell’ultimo anno si
è iniziato a parlare di Servizi e
non più di progetti), un precariato che non solo riguarda
gli operatori che in questi Servizi lavorano, ma che investe
tutti gli interventi di riduzione del danno; un sistema dei
Servizi che per molto tempo
non ha riconosciuto professionalità ai nostri interventi,
confinando e classificando la
nostre azioni come “connivenza” con l’utenza; il fenomeno del consumo di sostanze
in continuo e rapido mutamento che ci porta continuamente a fare i conti con la
mancanza di strumenti e conoscenze in questo campo.
(segue a pag. 128)
l ute
Sa
e
120 Territorio
Paola Clelia Lenzetti
Dimitri Travaglio*
Psicologa-psicoterapeuta
Cons Ser.T ASL TO 4 Ivrea
Cons. Ministero di giustizia
CC Ivrea
*Educatore professionale
Ser.T Intramurario ASL TO
I
l Ser.T d’Ivrea collabora
dal 1991 con la Casa circondariale del territorio.
Dal 1996 è stata stesa una
Convenzione tra Casa circondariale d’Ivrea e ASL 9, con
relativo protocollo operativo
e varie revisioni, in riferimento alle linee d’indirizzo
nazionale.
Nel mese di aprile 2002 è stata steso un nuovo protocollo
operativo, che, tra l’altro, definisce la prescrizione, l’approvvigionamento, lo stoccaggio e la somministrazione
della terapia sostitutiva.
L’operatività del Ser.T all’interno dell’Istituto penitenziario d’Ivrea
Si articola all’interno della revisione e superamento del
protocollo operativo, attualmente in vigore e allegato alla
Convenzione stesa tra il Ser.T
e la Casa circondariale, secondo lo schema di convenzione
tra il Ministero di giustizia e le
ASL, nell’attuazione delle “Linee d’indirizzo in materia di
prevenzione, cura e riabilitazione dei detenuti tossicodipendenti e/o alcoldipendenti
coinvolti nell’area penale”,
emanate in data 11/12/92 e
ratificate in data 10/03/94, e
in riferimento alla legge 309.
Finalità del Ser.T penitenziario
– Diagnosi di tossicodipen-
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
La cura del detenuto
tossicodipendente
denza e alcoldipendenza.
– Presa in carico.
– Offerta di assistenza e cure
specialistiche.
– Supporto psicologico-riabilitativo.
– Definizione di programmi
individualizzati intra-extramurari, in integrazione
con Servizi del territorio e
il personale penitenziario.
Attività ambulatoriale
L’attuale organizzazione del
Servizio ha come metodologia
il lavoro di rete, l’équipe multiprofessionale e la costruzione di programmi terapeutici
integrati e individualizzati.
Vengono svolte:
– Attività medica.
– Attività psicologica.
– Attività dell’educatore
professionale e dell’assistente sociale.
– Attività medica, caratterizzata da:
• Valutazione clinico diagnostica.
• Visita medica.
• Colloquio medico.
• Studio del diario clinico.
• Consulenze tossicologiche.
• Compilazione cartella
clinica sanitaria.
• Prelievo per esecuzione
eventuali esami tossicologici su matrici pelifere.
La specificità degli interventi dei Servizi
operativi nelle carceri
• Somministrazione terapia sostitutiva con metadone.
• Attività di counseling
sanitario.
• Counseling sanitario rivolto alla popolazione
detenuta tossicodipendente.
• Azione di informazione
e prevenzione rivolta ai
soggetti detenuti non
diagnosticabili come
farmaco-tossico-alcoldipendenti, che vengono a contatto con il Servizio per le tossicodipendenze su segnalazione o su richiesta e
che si trovano in situazioni potenzialmente
rischiose per quanto riguarda il consumo di
sostanze.
• Attività di consulenza
rivolta ai medici SIAS
(medici penitenziari).
• Attività di raccordo
con:
1. Operatori Ser.T esterni, ASL.
2. Medici SIAS (Servizio
interno assistenza
sanitaria-Ministero
giustizia).
3. Operatori UEPE (Uffi-
cio espiazione pene
esterne-Ministero
giustizia).
4. Operatori penitenziari (Corpo di polizia
penitenziaria ed educatori, Area trattamentale).
5. Operatori équipe sezione primo livello
ASL.
Attività psicologica
caratterizzata da
1. Colloqui
– di accoglienza,
– psicodiagnostici,
– di sostegno,
– strutturati,
– orientamento psicoterapici.
2. Laboratori e gruppi psico/
educativi
3. Attività di raccordo con
– operatori Ser.T
– Comunità,
– UEPE,
– operatori penitenziari.
Attività dell’educatore professionale e dell’assistente sociale
caratterizzata da
Colloqui
– di prima accoglienza,
– di sostegno,
– di verifica,
N. 167 - 2008
I Servizi per le dipendenze patologiche
Sae l ute
Territorio 121
Case management
Progetti terapeutici specifici
come arte terapia
contatti con
– Ser.T esterni,
– Servizi sul territorio,
– avvocati,
– famigliari.
raccordo con
– Servizi all’interno del carcere,
– operatori della sezione di
primo livello.
Il percorso di cura penitenziario del tossicodipendente
Il percorso di cura penitenziario del tossicodipendente
detenuto presso la Casa circondariale d’Ivrea offerto dal
Ser.T dell’ASL TO 4 è il seguente:
– Fase di informazione
– Fase di detossicazione
– Fase di presa in carico integrata
– Fase di programma terapeutico trattamentale
presso la sezione di 1° livello o avanzato.
Fase di informazione
Il detenuto nuovo, proveniente dalla libertà o trasferito da altro Istituto penitenziario, che si dichiara tossicodipendente o alcoldipendente, viene segnalato al Ser.T
attraverso
– una scheda informativa
dall’educatore ministeriale,
– oppure, una richiesta di
consulenza e/o una segnalazione dal medico SIAS.
Gli operatori penitenziari
forniscono al detenuto tossicodipendente e/o alcoldipendente ogni notizia utile
concernente gli interventi
relativi alla cura ed alla riabilitazione degli stati di dipendenza disponibili nell’I-
stituto, i compiti assegnati
all’ambulatorio Ser.T sede
carcere e le relative modalità
di accesso. Qualora il detenuto nel corso della visita
medica si riveli tossicodipendente e/o alcoldipendente e
rifiuti l’accertamento o l’intervento terapeutico e socioriabilitativo o il programma
farmacologico con impiego
di farmaci sostitutivi, rimane in carico al Servizio sanitario penitenziario che, per
una idonea tutela della salute del detenuto, può avvalersi della consulenza plurispecialistica dell’ambulatorio
Ser.T, anche nella prospettiva di una successiva presa in
carico della persona tossicodipendente ai fini terapeuti-
ci e socio-riabilitativi attualmente presso la sezione di
1° livello o avanzato.
Fase di detossicazione
Nel caso in cui all’ingresso in
Casa circondariale il detenuto
si sia dichiarato tossicodipendente e/o alcoldipendente e
il medico SIAS abbia rilevato
una sintomatologia astinenziale, il soggetto viene segnalato al medico dell’ambulatorio Ser.T sede carcere: in attesa, il medico SIAS imposterà
una terapia sintomatica. Nel
caso in cui il paziente sia in
terapia sostitutiva, il medico
dell’ambulatorio Ser.T sede
carcere, informato, verificherà con il Ser.T di appartenenza il dosaggio attuale e
visiterà, in un momento successivo, il paziente per impostare la prosecuzione del programma terapeutico.
Fase di presa in carico integrata
Qualora il detenuto tossicodipendente e/o alcoldipendente dichiari la propria disponibilità ad essere preso in carico e seguito dal Ser.T per sottoporsi ad un eventuale programma terapeutico e socioriabilitativo individualizzato,
viene diagnosticato dal medico dell’ambulatorio Ser.T sede
carcere secondo il D.M.
186/90 e,
– se risiede nell’ASL sede
carcere e risulta conosciuto, viene segnalato agli
l ute
Sa
e
122 Territorio
operatori dell’ambulatorio
di riferimento, che proseguiranno, con la collaborazione dell’ambulatorio
Ser.T interno al carcere, la
presa in carico anche in
ambito penitenziario;
– se risiede nell’ASL sede
carcere e risulta non conosciuto, prende contatto
con l’ambulatorio Ser.T sede carcere, che decodifica
la sua domanda prima di
chiedere che gli operatori
dell’ambulatorio di riferimento lo prendano in carico (verifica che la richiesta
sia di essere seguito non
solo in ambito penitenziario, di competenza dell’ambulatorio Ser.T sede
carcere, ma anche per un
percorso terapeutico extramurario);
– se non risiede nell’ASL sede carcere, viene accolto
all’ambulatorio Ser.T sede
carcere, che invia comunicazione al Servizio tossicodipendenze di riferimento per concordare la
presa in carico e, contestualmente, per elaborare
un eventuale progetto terapeutico individualizzato
(la temporanea titolarità
del trattamento terapeutico-riabilitativo intramurario da parte dell’ambulatorio Ser.T sede carcere è attuata per garantire una
continuità terapeutica al
soggetto, attiva durante
tutta la sua permanenza
in Casa circondariale e ha
una funzione di integrazione alla vera e propria
titolarità da parte degli
operatori del Ser.T di residenza, anche nel caso in
cui il soggetto risulti sconosciuto).
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
Fase di programma terapeutico trattamentale presso la sezione di 1° livello o avanzato
Successivamente, se il detenuto tossicodipendente preso
in carico mostri una volontarietà manifesta ed esplicita di
intraprendere un percorso terapeutico trattamentale intramurario presso la sezione
di 1° livello, viene valutata la
sua motivazione e la sua disponibilità al trattamento e la
presenza di condizioni d’idoneità per l’inserimento. Ci si
avvale della valutazione integrata dell’educatore penitenziario, degli operatori dell’équipe carcere del Ser.T, dello
psicologo penitenziario, dell’assistente sociale ministeriale, dell’ispettore della polizia
penitenziaria, responsabile
degli agenti della sezione tossicodipendenti (ognuno formulerà una valutazione per
quello che gli compete, in
considerazione delle tre aree:
terapia, trattamento penitenziario e custodia).
Successivamente, attraverso
le discussioni casi e i vari momenti di confronto sul trattamento tra gli operatori Ser.T,
operatori penitenziari e del
Ser.T di residenza, si concorda il programma terapeutico
personalizzato con le relative
verifiche periodiche in integrazione con gli operatori
stessi.
ti fanno richieste di Comunità
e/o di progetti territoriali. Soprattutto, sovrastimano le loro potenzialità e disconoscono
il valore della sostanza.
Quando sei libero scegli tra le
droghe e un progetto di recupero; da detenuto scegli tra
la mancanza di libertà e un
progetto di recupero.
È complesso anche tentare di
riportare il detenuto tossicodipendente al suo passato, all’esigenza della sostanza che
avvertiva, al bisogno che aveva, a come era contestualizzata nella sua vita.
Il soggetto è focalizzato sul
qui e ora…
Diventa anche complesso rimandargli il suo essere persona unica, per cui anche
detenuto, in quanto reo, si
sente e si presenta come
utente. Spesso considerato
dal sistema carcere, un numero. Diventa importante
quindi anche ricomporre
questa scissione che effettua
tra la parte tossicomanica e
quella deviante.
E come se ti dicesse “Quando
ero libero al Servizio non
aspettavate altro che mi presentassi con questa volontà,
ora perché fate tutte queste
storie?” Diventa, a volte, difficile capire se è importante
offrire una possibilità terapeutica, poi la motivazione si
andrà a definire maggiormente, o se proteggerlo da eventuali fallimenti che potrebbero avere ripercussioni sulla
sua identità tossicomanica.
Altri elementi rispetto alla
presa in carico carceraria sono la difficoltà di lavorare
con progetti residenziali sulla
cocaina e, ancor prima, sulla
loro identità tossicomanica,
che è sempre disconosciuta.
Anno 2004 2005
Detenuti in carico: 149
Detenuti presi in carico appartenente all’ASL TO 4: 25
Detenuti stranieri:27
Anno 2005 2006
Detenuti in carico: 111
Detenuti presi in carico appartenente all’ASL TO 4: 22
Detenuti stranieri: 27
Anno 2006 2007
Detenuti in carico 103
Detenuti presi in carico appartenente all’ASL 9 TO 4: 17
Detenuti stranieri 43
Anno 2007 2008
Detenuti in carico 57
Detenuti presi in carico appartenente all’ASL TO 4:15
Detenuti stranieri 14
Riflessioni
La presa in carico del detenuto tossicodipendente è notevolmente cambiata in questi
ultimi anni.
Fino a pochi anni fa vi erano
detenuti eroinomani conosciuti da anni dai Ser.T d’appartenenza, oggi la popolazione del Ser.T interno è per
la maggior parte composta da
cocainomani ed extracomunitari che non hanno mai avuto
rapporti coi Servizi.
Il carcere si sta quindi presentando come primo strumento di intervento sulla tossicodipendenza, sta diventando una modalità per la
presa in carico, per l’uscita
dal sommerso.
Una opportunità.
Il lavoro però presenta la
complessità che si incontra
quando si lavora in un sistema totalizzante.
È chiaro ed è sano che la motivazione principale dei detenuti sia finalizzata all’uscita
dal meccanismo carcerario,
questo implica però, per gli
operatori, una notevole difficoltà nel capire e decodificare
la loro motivazione al cambiamento.
La struttura carceraria permette ai detenuti tossicodipendenti di presentarsi molto
differentemente da come sono
da liberi, vengono ai colloqui,
sono collaborativi, disponibili,
N. 167 - 2008
Nel meccanismo di negazione
vi è anche la vecchia immagine, repellente per i loro nuovi
modelli, di “tossicodipendente uguale eroinomane”, che si
trascina per le strade, trasandato, malconcio, un relitto
sociale, mentre loro, i cocainoman, sono gente vincente
per cui la droga è uno “status”, non un problema.
Una considerazione a parte
merita il discorso sulla presa
in carico dei detenuti extracomunitari. Rispetto all’inizio dell’arrivo in Italia dell’onda migratoria (10 anni
fa), in cui quasi nessuno era
solito consumare sostanze
psicotrope, nell’ultimo anno
la popolazione detenuta extracomunitaria è composta
quasi esclusivamente da tossicodipendenti. Ci siamo presto accorti, come operatori,
che non riuscivamo a rispondere, né con una presa in carico, né con una costruzione
di una relazione significativa
per entrambi.
Le richieste che i detenuti extracomunitari fanno non possono essere accolte poiché,
non essendo cittadini italiani,
non vi è un Ente pubblico disposto a pagargli la retta e le
modalità nostre di colloquio
trovano da parte loro solo delle risposte a monosillabi.
Come Ser.T interno ci siamo
trovati in una situazione di
I Servizi per le dipendenze patologiche
difficoltà: riuscivamo a fornire solo un supporto farmacologico e, quando li vedevano
per il primo colloquio, tutto si
esauriva con una scarna richiesta di dati che alla fine
non era per loro finalizzata a
nulla e lasciava un non senso.
Abbiamo così deciso di somministrare un questionario
che ci aiutasse a capire di più
chi sono, parlando con loro di
loro e del loro progetto migratorio.
Sono emersi alcuni dati significativi.
L’idea della partenza dal Paese d’origine è presentata dai
ragazzi come necessità di fuga da Paesi poveri, come supporto da dare alle proprie famiglie, in genere assai numerose ed indigenti; è il primogenito che si fa carico di ciò,
a volte accompagnato da un
fratello.
La migrazione non è in genere “pensata”, sistematizzata,
ma vissuta.
Pochi sono i dati di conoscenza che i ragazzi hanno sul
Paese nel quale si vogliono
recare; anche per questo è
abbastanza comune che i soggetti trascorrano 2-3 mesi in
un’altra Nazione prima di
giungere in Italia e che non
sappiano indicare un motivo
di scelta. Le Nazioni di transito prima dell’arrivo in Italia
sono spesso limitate ad una
di queste: Francia, Spagna o
Belgio. L’arrivo nel nostro
Paese determina subito molte
difficoltà, anche solo di tipo
logistico (es. reperire un’abitazione, trovare un lavoro
ecc.). Questo sbandamento
iniziale comporta che la popolazione intervistata si rivolga per i primi sostegni ai
connazionali presenti da
qualche tempo sul territorio
(che molto spesso sono dediti
all’attività di spaccio).
I soggetti si ritrovano così,
più che sovente, in abitazioni
e in contesti di vita che ruotano intorno all’uso e alla
vendita di sostanze stupefacenti. Anche se inizialmente
non s’immettono in un ambito deviante o tossicomanico,
la convivenza con i connazionali li porterà presto a seguire
quel percorso. Nelle abitazioni gli orari e le modalità quotidiane sono legate allo spaccio, gli orari del sonno, piuttosto che quelli del cibo, risentono del tipo d’attività. Le
case dove abitano sono affollate, vi è una mancanza di
spazi personali nonché di una
parvenza di vita “normale”.
Nel progetto migratorio questa fase richiama più di tutte
la mancanza d’individualità,
di amicizie autonome e di un
progetto proprio. L’attività di
spaccio,spesso vissuta come
unica opportunità, le fre-
Sae l ute
Territorio 123
quentazioni, la necessità di
conoscere il prodotto, li porta
ad avvicinarsi alle sostanze.
Nei loro Paesi d’origine i soggetti erano soliti consumare
esclusivamente hashish e/o
alcol. Tra i vantaggi che i detenuti elencano dall’arrivo in
Italia vi sono gli elementi
delle società occidentali, senza che questi ragazzi abbiano
gli strumenti intellettivi, culturali e storici per conviverci.
Il danaro facile, l’autonomia,
la libertà, la leggerezza nel
vivere, la possibilità dello
sballo sono gli elementi positivi che i soggetti elencano
dal loro arrivo nel nostro Paese. Gli svantaggi cominciano
a subentrare dopo un periodo, che in genere precede
l’arresto, in cui usano eroina
e cocaina (52 % solo cocaina,
26 % eroina associata a cocaina, 8 % solo eroina).
In questa fase non sono più in
grado di far fronte al mandato
familiare e di spedire, per la
sopravvivenza della famiglia,
del denaro in patria. Le altre
difficoltà sono sovrapponibili
a quelle dei tossicodipendenti
italiani “di strada”.
Il questionario ci ha permesso di costruire una relazione,
di conoscere una realtà che
poi tende a ripetersi con una
certa costanza. Le loro storie
di partenza e arrivo paiono
delle fotocopie.
l ute
Sa
e
124 Territorio
Arcangelo Alfano
Mariella Orsi*
Responsabile PO “Azioni
di prevenzione e cura delle
condotte di abuso” e delle
dipendenze, Regione Toscana
* Responsabile Centro studi
e documentazione CESDA Dipartimento dipendenze ASL Firenze
N
ei suoi atti di programmazione, sanitaria e
sociale, la Regione Toscana ha perseguito con continuità il principio dell’integrazione delle offerte terapeutiche così da favorire la
continuità assistenziale ed
assicurare un razionale utilizzo dei Servizi e dei livelli di
assistenza.
Un processo in cui è stato decisivo il ruolo dei Servizi tossicodipendenze (Ser.T) che
oltre ad assicurare le attività
di prevenzione, di diagnosi,
cura, riabilitazione e reinserimento sociale si sono fatti
promotori della cooperazione
tra soggetti pubblici e non,
per un’integrazione tra Pubblico e Terzo settore che è
stata fortemente valorizzata
a partire dalla Legge regionale 72/97.
Le controversie ideologiche
sono state pertanto superate
a favore di una “politica del
fare”, rispettosa delle differenze e con l’obiettivo comune di dare risposte concrete
ed efficaci alle persone con
problemi di dipendenza.
I Servizi pubblici e privati sono stati dotati di un software
gestionale (cartella clinica
elettronica), unico per tutto
il territorio regionale e specifici atti hanno precisato il diverso apporto dei Servizi al
circuito di cura e definito gli
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
L’integrazioene
delle offerte
terapeutiche
standard minimi da assicurare ai cittadini in ordine sia alla valutazione diagnostica
multidisciplinare, sia nella
predisposizione dei programmi terapeutici e socio-riabilitativi.
È stata realizzata una rete di
Centri antifumo unica in Italia
e sono stati anche introdotti
nei Livelli essenziali di assistenza regionali specifici pacchetti assistenziali per la disassuefazione dal tabagismo.
Per altre patologie (ad es.
gioco d’azzardo patologico),
ad oggi non comprese nei
LEA, sono state favorite specifiche sperimentazioni, anche residenziali.
È stato dato un concreto impulso alla formazione professionale per dipendenze, come
quella da cocaina, per la quale sono tuttora carenti terapie farmacologiche di comprovata efficacia.
Per l’alcolismo e le problematiche alcolcorrelate si è provveduto ad istituire sia il Centro alcologico regionale che
le équipes alcologiche territoriali ed a rafforzare la rete
dell’associazionismo e dell’auto mutuo-aiuto.
Il riordino delle strutture semiresidenziali e residenziali,
sia a gestione pubblica che
degli Enti ausiliari, avviato
dal 2003, ha perfezionato la
specificità dei Servizi e si è
I progetti che hanno reso la Toscana Regione
capofila nella programmazione della continuità
assistenziale
dimostrato di fondamentale
importanza nel percorso di
cura e riabilitazione per le
persone con problemi di tossico-alcoldipendenza
in
quanto capace di garantire risposte appropriate ai molteplici bisogni di cura ed un sistema tariffario articolato per
intensità di cura nelle quattro aree di intervento in cui si
articolano oggi i Servizi:
pronta accoglienza, terapeutico-riabilitativi, specialistici
(doppia diagnosi, osservazione-diagnosi e orientamento,
madri con figli) e pedagogico-riabilitativi.
Tutte le strutture, sia pubbliche che degli Enti ausiliari,
hanno raggiunto l’adeguamento ai requisiti minimi
strutturali, organizzativi e
funzionali previsti così che
sono regolarmente autorizzate tutte le strutture che operano sul territorio regionale.
In virtù di questo risultato,
possiamo affermare che, ad
oggi, la Toscana è l’unica Regione d’Italia ad aver concluso un percorso di riordino così complesso che, con un
quinquennio di lavoro comu-
ne tra operatori pubblici e
privati ha prodotto, quale ulteriore risultato, un’approfondita ed estesa conoscenza dei punti di forza e
delle criticità del sistema.
Sono state avviate concrete
azioni a sostegno di progetti
di riduzione del danno e per
persone a forte marginalità
sociale.
È stato infine avviato il processo di accreditamento istituzionale dei Ser.T in un’ottica di qualità e di efficacia
nell’erogazione delle prestazioni.
La ricerca, l’innovazione,
l’informazione e l’osservazione epidemiologica regionale
a) Il SIRT (Sistema informativo regionale sulle tossicodipendenze)
La Regione Toscana, con una
precisa scelta tecnico-metodologica e di innovazione
tecnologica, ha realizzato da
anni un articolato sistema di
verifica e di valutazione degli
interventi dei Ser.T con particolare cura per la formazione
degli operatori sulla raccolta,
N. 167 - 2008
elaborazione e utilizzo dei
dati (cartella elettronica
SIRT). La cartella elettronica
SIRT è divenuta il principale
strumento per la gestione
unificata dei percorsi assistenziali da parte di tutti i
soggetti pubblici e privati
operanti in Toscana ed il sistema regionale, allineato
anche con il Sistema informativo nazionale sulle dipendenze (SIND), è stato certificato come conforme rispetto
a quanto richiesto dall’Osservatorio europeo.
Il fabbisogno di dati e informazioni per la ricerca epidemiologica e per il monitoraggio di efficienza e di efficacia
dei Servizi impongono di
mantenere un elevato livello
di integrazione tra il nuovo
sistema informativo con le
strutture preposte al monitoraggio, studio ed intervento
sulle dipendenze.
A tale scopo è già stato prodotto un insieme di indicatori, alimentati dall’enorme patrimonio informativo prodotto dal SIRT e funzionali al governo del sistema regionale e
locale delle dipendenze
La sfida del prossimo triennio
consiste nel portare a regime
l’utilizzo degli indicatori per
far sì che i dati raccolti siano
adeguatamente valorizzati, a
fini conoscitivi e gestionali,
sia per soddisfare le sempre
maggiori richieste di approfondimento della conoscenza del fenomeno sia per
orientare le scelte programmatiche in modo più mirato
ed appropriato ai bisogni ed
alla loro continua evoluzione.
Attraverso protocolli di collaborazione la Toscana ha messo a disposizione, ad uso gratuito, il software SIRT alle se-
I Servizi per le dipendenze patologiche
guenti Regioni: Campania,
Sardegna, Puglia.
Il SIRT, con l’accordo del
Provveditorato regionale per
l’Amministrazione penitenziaria, viene utilizzato anche
come cartella clinica sociosanitaria in ambito penitenziario. Attualmente è stato
sperimentato in 6 Istituti penitenziari e a breve verrà
esteso a tutto il sistema penitenziario toscano.
b) La Rete CEDRO
Una delle necessità più significative che emerge in area
sociosanitaria è quella di ampliare il patrimonio di conoscenze specifiche su un tema, integrandolo con altre
informazioni che ad esso si
correlano.
A questo si aggiunge, nel
campo della documentazione,
il bisogno di ottimizzare le risorse presenti sul territorio,
favorendone lo sviluppo e la
loro comunicazione e integrazione al fine di evitare di
realizzare “doppioni”.
A tal fine la Regione Toscana,
tra le prime in Italia, ha promosso e finanziato un progetto di messa in rete dei
Centri di documentazione di
Firenze, Lucca e Arezzo allo
scopo di ottimizzare e sviluppare la raccolta documentaria, la realizzazione di una rete informatica regionale in
grado di coinvolgere progressivamente altri soggetti operativi, favorire la visibilità e
l’accessibilità del materiale e
delle attività organizzate,
realizzare Centri di documentazione non solo come luoghi
fisici per la raccolta di materiale bibliografico ma anche
come sedi di incontri, confronto di esperienze, consu-
lenze per la progettazione di
interventi, guida per la stesura di studi, ricerche e occasioni di aggiornamento.
Il progetto mette in rete i seguenti Centri:
– Centro studi, ricerca e documentazione sulle dipendenze e AIDS (CESDA) - Dipartimento delle dipendenze Azienda USL 10 di
Firenze;
– Centro di documentazione
Informalcol del Centro alcologico regionale;
– Centro di documentazione
sulle dipendenze del Dipartimento delle dipendenze dell’Azienda USL 8
di Arezzo (CEDOSTAR);
– Centro Studi e documentazione provinciale sull’emarginazione di Lucca
(CESDOP);
– Centro documentazione
sul tabagismo (INFOFUMO)
dell’Asl 7 di Siena.
Il CESDA di Firenze svolge il
ruolo di coordinatore del progetto e cura la redazione del
sito www.retecedro.net, della
Newsletter (CEDRONEWS): il
sito è oggi uno strumento di
informazione e documentazione on-line che tratta un
insieme eterogeneo di temi di
rilevanza sociosanitaria, specificatamente orientato al
settore delle dipendenze.
I progetti nazionali che vedono la Regione Toscana
come capofila
L’alto livello raggiunto dalla
Regione Toscana in termini di
qualificazione dei Servizi, integrazione tra pubblico e privato sociale, ricerca e innovazione ha fatto sì che la Toscana venisse individuata dai
competenti Ministeri (salute
e solidarietà sociale) come
Sae l ute
Territorio 125
Regione capofila dei seguenti
progetti nazionali tutt’ora in
corso:
a) “Sperimentazione di una
metodologia di intervento
per le problematiche sanitarie nell’ambiente carcerario” al quale partecipano
10 Regioni;
b) “Problematiche sanitarie
dei detenuti consumatori
di droghe: risposta istituzionale e costruzione di
una metodologia organizzativa” al quale partecipano 12 Regioni e la Provincia autonoma di Bolzano;
c) “Impatto dei problemi alcolcorrelati nella popolazione afferente alle Aziende sanitarie territoriali e
ospedaliere: epidemiologia, valutazione dei programmi di trattamento e
costi”, al quale partecipano 14 Regioni;
d) “Utilizzo della strategia di
prevenzione di comunità
nel settore delle sostanze
d’abuso”, al quale partecipano 7 Regioni;
e) “Budget per l’inclusione sociale di persone tossicodipendenti in trattamento o
da attrarre in trattamento,
ad elevata emarginazione”,
al quale partecipano 18 Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano;
f) “Formazione sull’identificazione precoce e l’intervento breve per la prevenzione dei problemi e danni
alcolcorrelati nei contesti
lavorativi e nell’assistenza
sanitaria di base” diretto a
tutte le Regioni e Province
autonome;
g) Programma di sensibilizzazione, informazione e
consulenza finalizzato alla
prevenzione dell’uso ina-
l ute
Sa
e
126 Territorio
deguato di alcol, diretto al
personale di Aziende”, al
quale partecipano 14 Regioni.
Le criticità
L’impegno programmatico
profuso dalla Regione Toscana, si è concretizzato in alcune realtà territoriali che sono
divenute veri e propri punti
di eccellenza per il modello
organizzativo, mentre altrove
sono state riscontrate difficoltà che hanno ostacolato
un’omogenea applicazione
del modello nell’intero territorio regionale.
Tali criticità possono così
riassumersi:
a) aumento assai rilevante
delle persone in cura ai
Servizi, dai 9000 casi del
1990 agli oltre 25.000 osservati nel 2007; tale incremento, cui si associa un
diverso e più dinamico approccio diagnostico terapeutico, in alcune realtà
non è stato affiancato da
un parallelo e adeguato
potenziamento delle risorse necessarie;
b) istituzione del Fondo nazionale per le politiche sociali nel quale è confluito
anche l’ex Fondo nazionale
per la lotta alla droga, privando così di fatto il settore di risorse economiche
finalizzate per la realizzazione di interventi organici e innovativi, soprattutto
a livello locale;
c) progressiva diminuzione
dei trasferimenti statali
agli Enti locali a fronte di
un aumento delle competenze degli stessi e delle
risposte socioassistenziali
e sociosanitarie da garantire;
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
d) difficoltà operative legate
alle recenti modifiche dell’assetto organizzativo del
sistema sociosanitario regionale (Società della salute, Aree vaste);
e) disomogeneità da parte
delle Aziende USL nell’applicazione delle disposizioni regionali; le criticità
maggiori sono state riscontrate nelle Aziende
USL dove non sono stati
costituiti i Dipartimenti
delle dipendenze;
f) permanere in molte parti
della società civile e dei
Servizi di uno stigma delle
dipendenze come comportamenti devianti, immorali, criminali; tali orientamenti contribuiscono a ritardare l’accesso ai Servizi, ad impedire diagnosi
precoci e a deresponsabilizzare i pazienti verso le
cure;
g) notevole incremento e diffusione delle droghe, legali
e illegali, con nuove modalità e abitudini di consumo
in particolare nelle fasce
giovanili.
Da tre progetti regionali, abbiamo tratto alcuni aspetti
che ci sembrano degni di nota.
“Salute in carcere” si propone come effettivo strumento
di servizio e di incontro di
esperienze, per questa ragione è stato costituito uno spazio nel quale ospitare progetti di altre Regioni e istituzioni (Progetto “valori” del Ministero di giustizia), ed è
stato concordato con il PRAP
anche l’inserimento di altri
progetti nazionali e regionali
relativi all’attuazione dei
percorsi alternativi alla detenzione (CSSA) e di progetti
realizzati per i Servizi giudiziari minorili).
Di particolare interesse la sezione denominata “Buone
Prassi”, all’interno della quale sono pubblicati i documenti relativi all’avanzamento del progetto, e, suddivisi
per Regione, documenti relativi la presa in carico dei detenuti tossicodipendenti in
carcere.
Le modalità attraverso cui
ciascuna Regione affronta la
sanità penitenziaria è estremamente varia, le Regioni
adottano procedure e protocolli a volte molto differenti
l’uno dall’altro.
Sempre all’interno della sezione “Buone prassi”, la sotto-categoria Linee guida, riporta i lavori prodotti nell’ambito del progetto.
Il network europeo per le tossicodipendenze in carcere. A
questo scopo è stato costituito un gruppo di lavoro specifico, coordinato dal responsabile scientifico del sottoprogetto toscano – dr.ssa Susanna Falchino – con lo scopo di
sviluppare e promuovere i
rapporti scientifici con i referenti nazionali rappresentati
nel network europeo.
1. Progetto nazionale “Sperimentazione di una metodologia di intervento per le
problematiche sanitarie in
carcere”, promosso dai Ministeri salute e giustizia,
che si propone di:
a) analizzare e omogeneizzare i modelli organizzativi
attuati nei percorsi assistenziali interni e esterni
al carcere;
b) favorire l’integrazione e la
complementarietà del lavoro di rete tra i diversi
soggetti istituzionali che
attuano gli interventi;
c) delineare linee guida nazionali, finalizzate anche
allo sviluppo di modalità
di revisione e valutazione
dell’assistenza erogata.
L’aspetto innovativo del progetto denominato anche
“Buone Prassi”, è quello di
aver utilizzato un modello di
intervento che può essere definito come ricerca per la formazione/formazione per la
ricerca.
Gli scopi sono almeno tre.
• Identificare i processi costitutivi dell’erogazione
del trattamento sociosanitario dei detenuti tossicodipendenti in carcere nelle
Regioni partecipanti al
progetto.
• Formare risorse interne al
sistema organizzativo per
svolgere la funzione di ricercatori (auditor) interni
per i processi identificati.
• Documentare le esperienze
progettuali realizzate in
Italia in questo settore,con
un focus specifico sul tema
della prevenzione delle patologie correlate, collegando il portale ai repertori
specializzati sulle tossicodipendenze e dando un
apporto italiano ancor più
significativo al network
europeo delle tossicodipendenze in carcere.
Salute in carcere
Il portale www.saluteincarcere.it si rivolge in prima istanza agli operatori impegnati
nell’intervento socio-sanitario
nei penitenziari, e costituisce
un mezzo efficace per l’azione
di scambio, confronto e di miglioramento delle diverse
realtà operative.
N. 167 - 2008
2. Progetto “Utilizzo di strategie di prevenzione di comunità nel settore delle sostanze d’abuso” assieme
alla Società della salute di
Pisa e la ASL di Grosseto,
con la finalità di condividere con altre Regioni le
modalità di comunicazione
della campagna di prevenzione attivata.
La stragrande maggioranza
dei giovani comunica tramite
Internet.
La rete ormai sta diventando
quasi un luogo “fisico”, che
assomiglia sempre più al bar
sotto casa.
Abbiamo di conseguenza
pensato ad uno strumento
che potesse essere più efficace di altri per dialogare con i
giovani, ma allo stesso tempo
informarli e coinvolgerli in
temi che riguardano i rischi e
i pericoli derivanti dagli abusi
delle varie sostanze, È con
questo spirito, e partendo da
queste riflessioni, che la Società della salute di Firenze,
in collaborazione con l’Azienda sanitaria, il Comune di Firenze e l’Associazione ASA/
SWITCH, ha creato e messo on
line dai primi di settembre
2007 il portale web www.sostanze.info.
Una grande facilità di navigazione permette di muoversi
agilmente attraverso le tre
aree del sito:
– le schede informative sulle
sostanze d’abuso legali ed
illegali;
– l’area “discuti”, dove ogni
lettore può pubblicare in
forma anonima articoli,
estratti da altri siti web,
video, sempre sul tema sostanze (ad oggi circa 190
articoli pubblicati);
– l’area “domande agli ope-
I Servizi per le dipendenze patologiche
ratori” dove chiunque,
sempre anonimamente,
può rivolgere quesiti alla
redazione (ad oggi 150 domande).
contrano senza gerarchie alto/basso. Un non luogo (il
web) dove due o più comunità
cercano di parlarsi, scambiandosi info e messaggi.
Sostanze.info è un portale di
discussione e informazione; è
la community on line nella
quale i ragazzi hanno la possibilità di ricevere informazioni, ma anche quella di
scambiare e scambiarsi esperienze sulle più diffuse sostanze psicotrope, o di mettersi anche in contatto con
degli specialisti che rispondono alle loro domande.
Sostanze.info tenta di parlare
davvero di uso e abuso, ascoltando innanzitutto i diretti
interessati.
Dopo l’attivazione di una
campagna info/pubblicitaria
mirata (creazione di una immagine accattivante accompagnata da uno slogan volutamente criptico “non sono
da Comunità, sono da community”, messaggio e immagine che per tre mesi sono
apparsi sugli autobus fiorentini e sulla free press locale) il
sito è stato aperto nel settembre 2007.
Ad oggi (febbraio ’08) i numeri di sostanze.info sono
estremamente stimolanti:
50.329 gli accessi, 13.088 i
visitatori, 7.522 i visitatori
unici assoluti, media visite:
circa 110 al giorno nell’ultimo mese, tempo medio sul sito per visita: 03’41”, visitatori che tornano almeno una
volta dopo la prima visita:
53.97%.
3. Progetto di accoglienza a
bassa soglia nella realtà
fiorentina
Nel corso del 2007 il Centro
diurno Porte Aperte, gestito
dall’Associazione Insieme, è
entrato in contatto con 99
persone, di queste più della
metà (il 53%) ha dichiarato
nel colloquio di ingresso di
non avere una dimora stabile
e di vivere perlopiù in strada
mentre il 22% risultano essere persone che usufruiscono
di un alloggio temporaneo
(dormitorio, Centro di accoglienza…). Si tratta nella
maggioranza di persone che
hanno alle spalle lunghe storie di dipendenza durante le
quali hanno compromesso
ogni relazione affettiva, sia
familiare che amicale, persone
che hanno perso lavoro e casa. In parte minore, ma non
per questo meno importante,
si tratta di persone immigrate, prive di permesso di soggiorno e di reti di riferimento.
A partire da questo pressante
bisogno (il 75% delle persone
in contatto con il Centro) il
Servizio si è trovato a confrontarsi sempre di più con il
sistema delle accoglienze del
territorio fiorentino nel tentativo di procedere ad interventi finalizzati al miglioramento delle condizioni di vita
delle persone a prescindere
dall’esistenza di un progetto
riabilitativo (il rispondere a
bisogni primari di tutela della
salute è uno degli obiettivi
principali dell’intervento di
riduzione del danno). Non
Il nostro obiettivo è quello di
trasformare il sito in un “contenitore” dove linguaggi e codici comunicativi diversi si in-
Sae l ute
Territorio 127
sempre è stato però possibile
soddisfare questo bisogno soprattutto a causa dell’assenza
per la maggioranza delle persone dei requisiti richiesti per
l’accesso alle strutture. Spesso infatti coloro che dichiarano di vivere in strada, oltre
che essere prive di una dimora stabile, hanno anche perso
i requisiti propri dello status
di cittadino: non hanno più
una residenza, non hanno
Servizi di riferimento, non
hanno un permesso di soggiorno. La conseguenza di
tutte queste “astratte deficienze” è la concreta impossibilità di accedere ad un sistema di accoglienze che svela
nei loro confronti il suo lato
più escludente. I Servizi istituzionali infatti seguono il
criterio della territorialità,
hanno competenze per le persone residenti in un determinato territorio; questo – che
nella sua accezione positiva
significa maggior legame con
la comunità, maggior conoscenza delle risorse informali,
maggior coinvolgimento della
comunità sociale – può tradursi nell’espulsione di coloro
che non appartengono a nessun territorio. Oltre a ciò gli
interventi proposti sono settoriali, strutturati per trattare precise categorie di persone escludendo le persone con
disagio multiplo e bisogni
maggiormente articolati. Infine, la metodologia di lavoro
prevede progetti a termine ai
quali le persone devono aderire e adeguarsi: è il servizio
che valuta la disponibilità,
l’affidabilità dell’utente, la
sua capacità di utilizzare correttamente nei tempi e nelle
modalità previste le risorse
che gli sono dedicate. Gli in-
l ute
Sa
e
128 Territorio
I Servizi per le dipendenze patologiche
N. 167 - 2008
terventi di bassa soglia e/o
prossimità rappresentano di
conseguenza, per molte persone, l’unica opportunità di
aggancio ed emersione al sistema dei Servizi. Il rischio,
come evidenziato in precedenza, è che per questa tipologia di persone sia possibile
attuare solo azioni di sostegno mirate al superamento
dell’emergenza contingente
senza poter attivare meccanismi di autopromozione e valo-
rizzazione delle competenze
personali.
I progetti di bassa soglia/riduzione del danno come già
evidenziato svolgono una
funzione di contatto, di accoglienza, di tutela sociosanitaria, di ponte “dalla strada
ai Servizi” a partire da due
presupposti:
– rendere il più possibile minimi i criteri per l’accesso
alle prestazioni offerte al
fine di facilitare il contat-
to con coloro che per motivi diversi non si rivolgono
ai Servizi;
– attivare una relazione di
aiuto significativa con chi
accede al Servizio che abbia
qualche possibilità di essere mantenuta nel tempo.
La facilità nell’accesso e la capacità di costruire relazioni significative, che rappresentano
i due principali punti di forza
dei Servizi di bassa soglia/riduzione del danno, diventano
punto di debolezza nel momento in cui all’aggancio non
segue la presa in carico da
parte dei Servizi istituzionali
a causa dei motivi sopraesposti (mancanza di residenza, di
permesso di soggiorno, di dimora stabile ecc.), azioni di
sostegno mirate al superamento dell’emergenza contingente senza poter attivare
meccanismi di autopromozione e valorizzazione delle competenze personali.
(segue da pag. 119):
L’accesso ai Servizi a bassa
soglia
tarti con il fenomeno del
consumo e con le sue modificazioni. Certo in un drop-in
afferisce solo un certo tipo di
utenza, spesso la più povera
e marginalizzata, ma comunque lì è possibile incontrare,
conoscere e comprendere le
persone osservando, dall’interno, i vari momenti della
giornata, nelle varie fasi del
loro consumo ecc… resti-
tuendo loro un visione di insieme. Trovo estremamente
preoccupante, invece, l’utilizzo, da parte di alcuni Servizi di altre-alte soglie, di
concetti quali la “doppia diagnosi”, con il rischio implicito di una nuova psichiatrizzazione della dipendenza.
Oggi il mercato si è spostato
dall’uso di una sostanza
“tranquilla” come l’eroina al
consumo di una sostanza
molto più eccitante e prestazionale come la cocaina.
Questo cambiamento di stile
di consumo non può non incidere sui comportamenti
delle persone, forse dobbiamo ancora investire in indagini e conoscenze prima di
poter trovare una semplificatoria soluzione.
In conclusione, vorrei affrontare e problematizzare alcune derive che i Servizi per le
dipendenze stanno intraprendendo. Lavorare in un
contesto come è un Servizio
di prossimità ti permette
quotidianamente di confron-
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