Salute eTerritorio I Servizi per le dipendenze patologiche
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Salute eTerritorio I Servizi per le dipendenze patologiche
Sae l ute Territorio Direttore responsabile Mariella Crocellà Redazione Antonio Alfano Gianni Amunni Alessandro Bussotti Francesco Carnevale Bruno Cravedi Laura D’Addio Gian Paolo Donzelli Claudio Galanti Marco Geddes Valtere Giovannini Carlo Hanau Gavino Maciocco Mariella Orsi Daniela Papini Paolo Sarti Luigi Tonelli Alberto Zanobini Collaboratori Marco Biocca, Centro Documentazione Regione Emilia-Romagna Eva Buiatti, Osservatorio Epidemiologico, Agenzia Regionale di Sanità della Toscana Ivan Cavicchi, Università La Sapienza e di Tor Vergata - Roma Giuseppe Costa, Epidemiologia - Grugliasco, Torino Nerina Dirindin, Assessore alla Sanità, Regione Sardegna Luca Lattuada, Agenzia Regionale della Sanità - Friuli Pierluigi Morosini, Istituto Superiore di Sanità - Roma Emanuele Scafato, Istituto Superiore di Sanità - Roma Comitato Scientifico Giovanni Berlinguer, Professore Emerito Facoltà di Scienze - Roma Giorgio Cosmacini, Centro Italiano di Storia Sanitaria e Ospitaliera - Reggio Emilia Silvio Garattini, Istituto Negri - Milano Donato Greco, Direttore Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria, Ministero della Salute Elio Guzzanti, Docente di Organizzazione Sanitaria Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” - Roma Segreteria di redazione Simonetta Piazzesi 349/4972131 Segreteria informatica Marco Ramacciotti Direzione, Redazione [email protected] http://www.salute.toscana.it Edizioni ETS s.r.l. Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa Tel. 050/29544 - 503868 - Fax 050/20158 [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] Questo numero è stato chiuso in redazione il 15 aprile 2008 167 Rivista bimestrale di politica sociosanitaria fondata da L. Gambassini FORMAS - Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria Anno XXIX - Marzo-Aprile 2008 Sommario 66 F. Bianchi, L. Cori, L. Miligi, A. Seniori Costantini Monografia 78 G. Zuffa 82 A. Grosso 86 N. Pepino 91 M. Croce, G. Di Loreto 95 G. Bignami 103 107 108 112 118 120 124 F. Prina C. Favero, R. Rolando S. Bertoletti, C. Cippitelli P. Rivaris M.T. Ninni P.C. Lenzetti, D. Travaglio A. Alfano, M. Orsi Abbonamenti 2008 Italia € 41,32 Estero € 46,48 Le questioni ambientali e la salute I Servizi per le dipendenze patologiche L’Onu e la geopolitica delle droghe Il quadro nazionale Dalla miopia alla diplopia Dalla disciplina alla tolleranza zero La pericolosità di sostanze legali e illegali Le modificazioni dell’uso di alcol La cultura d’uso della cocaina Nuovi stili di consumo I percorsi di inclusione L’accesso ai Servizi a bassa soglia La cura del detenuto tossicodipendente L’integrazione delle offerte terapeutiche Fotocomposizione e stampa Edizioni ETS - Pisa Per abbonarsi: www.edizioniets.com/saluteeterritorio Pagamenti online con carta di credito o PayPal l ute Sa e 66 Territorio Fabrizio Bianchi* Liliana Cori** Lucia Miligi*** Adele Seniori Costantini*** Sezione Epidemiologia, Istituto di Fisiologia clinica del CNR, * Pisa, ** Roma *** UO Epidemiologia ambientale-occupazionale Centro per lo studio e la prevenzione oncologica, Firenze L e questioni ambientali sono diventate in Italia e nel mondo un tema centrale nel dibattito scientifico e politico, sia perché un numero crescente di studi ha evidenziato che l’ambiente influisce in modo rilevante sulla salute, sia per il verificarsi di “emergenze ambientali”, ma più spesso per il perdurare di situazioni ambientali critiche che hanno suscitato disagio e preoccupazioni della popolazione. Nel presente lavoro vogliamo fare sinteticamente il punto sullo stato delle conoscenze su 3 argomenti rilevanti, l’inquinamento urbano, i campi elettromagnetici e lo smaltimento dei rifiuti che, di recente, hanno attratto l’attenzione di ricercatori e cittadini e fare alcune riflessioni sulla comunicazione dei risultati degli studi e sui processi decisionali che si basano su questi. Inquinamento atmosferico L’inquinamento dell’aria costituisce oggi un problema da affrontare con priorità dal momento che sempre maggiori sono le evidenze degli effetti nocivi per la salute. Molti sono gli studi condotti sia negli USA che in Europa e Le questioni ambientali e la salute N. 167 - 2008 Le questioni ambientali e la salute anche in Italia negli ultimi 20 anni che hanno esaminato gli effetti dell’inquinamento negli adulti e nei bambini. In modo coerente tali studi hanno evidenziato che l’inquinamento dell’aria causa malattie dell’apparato respiratorio, cardio-circolatorio e tumori. Sono stati esaminati numerosi inquinanti: l’ossido di carbonio (CO) gli ossidi di azoto (NOx) l’anidride solforosa (SO2), l’ozono (O3) e il particolato (PM), in particolare le polveri “fini” di dimensioni inferiori a 10 micron (PM10) e a 2,5 micron (PM2,5). Sono stati utilizzati diversi disegni di studio e diversi indicatori. In particolare sono stati considerati sia effetti acuti, che Che l’inquinamento dell’aria sia causa di aumenti della mortalità è un’acquisizione antica. Risale ai primi decenni del secolo 1900 l’osservazione di un’aumentata mortalità in alcune aree europee e americane (nella valle della Mosa in Belgio nel 1930, nel 1948 a Donora in Pennsylvania, a Londra nel 1952) in concomitanza di gravi episodi di inquinamento atmosferico. I controversi risultati delle analisi condotte sulle emissioni prodotte dallo sviluppo tecnologico. Il problema dei rifiuti cioè si manifestano a seguito del verificarsi di “picchi di inquinamento”, sia effetti a distanza nel tempo. Per quanto riguarda gli effetti acuti, in Italia è stato condotto lo studio MISA “Metanalisi italiana degli studi sugli effetti a breve termine dell’inquinamento atmosferico” che ha riguardato 15 città italiane per un totale di 9 milioni di abitanti. È stata valutata la relazione tra livelli giornalieri degli inquinanti atmosferici (PM10, biossido di azoto, anidride solforosa, ossido di carbonio, ozono) ed eventi sanitari rilevanti quali la mortalità (totale, cause cardiache, cause respiratorie) e i ricoveri ospedalieri (cause cardiache e respiratorie) nel periodo 1996-2002. Da questo studio è emerso che all’aumentare delle concentrazioni degli inquinanti (in particolare NO2, CO, e PM10) si registra un aumento di decessi per malattie respiratorie e cardiocircolatorie e di ricoveri per queste patologie (Biggeri et al. 2004). Da sottolineare lo studio ha evidenziato che effetti più pronunciati nei mesi più caldi dell’anno e nelle persone anziane. Non si sono evidenziate differenze tra uomini e donne. Gli studi “a lungo termine” hanno esaminato la mortalità di popolazioni residenti in diverse aree ed hanno evidenziato che nelle popolazioni esposte a livelli di inquinamento più elevati si registrano eccessi di mortalità per molte patologie cronico-degenerative rispetto ai residenti in aree ove le concentrazioni di inquinanti erano più basse. Tra gli studi più significativi, da citare quello di Dockery, il così detto Six cities study che ha esaminato la mortalità di 8.111 residenti in 6 aree urbane seguiti dal 1974 al 1989. Questo studio ha evidenziato un eccesso di mortalità per tutte le cause e in particolare per malattie cardiocircolatorie e tumori associati ad elevate concen- N. 167 - 2008 Le questioni ambientali e la salute Sae l ute Territorio 67 molte città e Regioni italiane per indagare l’associazione tra inquinanti del traffico veicolare e disturbi respiratori, ha evidenziato che i bambini che vivono in aree con traffico pesante hanno una maggiore probabilità (circa il doppio) di presentare disturbi come tosse e catarro. Il passaggio di camion nella strada di residenza sembra essere l’indicatore che meglio correla con l’aumento delle patologie respiratorie (Ciccone et al. 1998). L’importanza di questo risultato è anche di tipo metodologico, in quanto mette in evidenza che indicatori “indiretti” di intensità di traffico, come il numero di veicoli circolanti nella strada di residenza, risultano efficaci per questo tipo di studi sulle patologie respiratorie. Da notare che tali effetti sembrano essere più evidenti per le fasce socio-economiche svantaggiate, nelle quali anche altre condizioni “ambientali” potrebbero favorire lo sviluppo di malattie. Nell’insieme gli studi epidemiologici indicano che i livelli di inquinanti (in particolare del PM10) che attualmente si registrano nella maggior parte delle città italiane non preservano dal rischio di malattia e che è urgente mettere in atto misure adeguate a ridurre tali concentrazioni. Nel 2006 sono stati pubblicati i risultati del rapporto che l’ufficio di Roma dell’Organizzazione mondiale della sanità ha curato in collaborazione con APAT (Agenzia nazionale per la protezione ambientale e servizi di assistenza tecnica) sull’impatto sanitario delle polveri fini (PM10) e dell’o- zono in 13 città italiane tra cui Firenze. Questo rapporto ha fornito una stima del carico di morti attribuibili agli inquinanti atmosferici, in particolare al PM10; le stime sono state effettuate a partire dai risultati degli studi sia a breve che a lungo termine, che hanno fornito la misura di quanto aumenta la mortalità all’aumentare dei livelli di inquinamento, tenendo conto dei livelli degli inquinanti registrati nelle città in esame nel 2002-2004. Per quanto riguarda la mortalità a lungo termine, si è stimato che circa il 9% di tutte le morti per cause naturali siano attribuibili ai livelli di concentrazione media annuale di PM10 superiori ai 20 µg/m3, valore che rappresenta il limite che la Comunità europea aveva indicato come obiettivo da raggiungere a partire dal 2010 nella direttiva comunitaria 99/30/CE (Gazzetta Ufficiale 1999). Le cause di morte principali sono il tumore del polmone (circa l’11,6% dei decessi per questa causa sarebbero da attribuire all’inquinamento dell’aria), l’infarto del miocardio (il 19,8% di tutti i decessi per questa causa) e l’ictus cerebrale (il 3,3% dei decessi per questa causa). Per quanto riguarda la mortalità a breve termine, si è stimato che il 2,1% delle morti cardiovascolari, il 3,1% di quelle per malattie respiratorie sono da attribuirsi ai livelli di polveri (PM10) superiori a 20 µg/m3. Nel complesso l’OMS ha stimato che, nelle 13 città italiane, ai livelli di PM10 rilevati nel 2002-2004 sarebbero da attribuire annualmente circa A seguito delle evidenze epidemiologiche si è sviluppata la ricerca di tipo clinico e sperimentale per capire quali sono i complessi meccanismi biologici che sono alla base dell’effetto lesivo degli inquinanti, in particolare delle polveri. Si ipotizza, ad esempio, che gli eventi coronarici possano essere conseguenza di un’aumentata viscosità plasmatica a seguito del rilascio, a livello dell’apparato respiratorio di sostanze (proteine dell’infiammazione: citochine) che darebbero avvio ad una serie di stimolazioni a livello di organi, come il fegato e il midollo osseo, alla produzione di elementi corpuscolari e ematici e fattori della coagulazione. Questi potrebbero accelerare il processo aterosclerotico e la comparsa della sindrome coronarica. Si sono osservati anche disturbi del ritmo cardiaco + frequenti nei giorni di più elevato inquinamento atmosferico e si ipotizza che gli inquinanti (NOx, CO e PM2,5) possano agire sui meccanismi nervosi che regolano la frequenza del battito cardiaco. trazioni di alcuni inquinanti, soprattutto di polveri fini (PM10) (Dockery et al. 1993). Lo studio dell’American Cancer Society (Pope 2002) ha esaminato circa 500.000 adulti di varie aree urbane ed ha mostrato, in particolare, un’associazione tra esposizione alle polveri inferiori a 2,5 micron (che sembrerebbero essere le più pericolose) e tumore del polmone. In quest’ultimo studio è stata presa in considerazione anche l’abitudine al fumo, principale determinante del tumore polmonare; gli effetti sono quindi depurati dal possibile confondimento dovuto al fumo. Un’associazione tra tumore del polmone ed inquinamento ambientale è stata anche evidenziata nell’ambito dello studio Europeo EPIC (European Prospective Investigation Into Cancer and Nutrition). Questo studio ha esaminato un campione di circa 520.000 cittadini europei non fumatori o ex fumatori, e ha mostrato che coloro che sono maggiormente esposti agli inquinanti prodotti dal traffico veicolare (l’esposizione era definita come il vivere in prossimità di strade ad alto volume di traffico), hanno un rischio aumentato di sviluppare un tumore del polmone e che una quota tra il 5% e il 7% dei tumori polmonari che si verificano in non fumatori od ex fumatori è da attribuirsi agli inquinanti del traffico (Vineis et al. 2007). Sono stati anche studiati gli effetti dell’inquinamento sulla salute dei bambini e ragazzi. In particolare sono state studiate le malattie respiratorie ed allergiche, come eczema, riniti, asma. Lo studio europeo ISAAC (International Study of Asthma and Allergies in Childhood) sulla prevalenza dell’asma e altre malattie allergiche ha evidenziato che alcuni disturbi, come la rinite allergica, sono in aumento e che ciò potrebbe essere la conseguenza di peggiorate condizioni ambientali (Bjorkstén et al. 2008). Lo studio SIDRIA (Studio italiano sui disturbi respiratori nell’infanzia e ambiente), condotto in l ute Sa e 68 Territorio Le questioni ambientali e la salute N. 167 - 2008 8.000 morti in più rispetto a quelli che si potrebbero verificare se il PM10 non superasse la concentrazione di 20 µg/m3. Per quanto riguarda i ricoveri ospedalieri, è stato stimato che lo 0,7% di tutte le ospedalizzazione per malattie cardiache è attribuibile ai livelli di PM10 superiori ai 20 µg/m3, l’1,3% dei ricoveri per malattie respiratorie, il 31,7% dei casi di bronchite acuta nei bambini e ragazzi sotto i 15 anni e l’1,7% delle bronchiti croniche nei soggetti con più di 27 anni (WHO 2006). In Italia attualmente i limiti per le polveri fini e gli altri inquinanti (biossido di zolfo, il biossido di azoto, gli ossidi di azoto, le particelle e il piombo) sono definiti dalla direttiva comunitaria 99/30/CE, recepita in Italia con il Decreto ministeriale n° 60/02. Per quanto riguarda le polveri sono stati individuati due valori, la concentrazione media annuale e la concentrazione media giornaliera. Per il primo indicatore, la media annuale, è stato fissato il valore 40 µg/m3 mentre per il secondo indicatore, il numero di giorni con concentrazione superiori a 50 µg/m3, è stato fissato il valore 35 giorni (pari a circa il 10 % dei giorni dell’anno). Questa direttiva poneva, come detto, l’obiettivo di non superare, nel 2010, i 20 µg/m3 come media annuale. Nella maggior parte delle città italiane, tuttavia, i valori di concentrazioni delle polveri restano superiori ai limiti stabiliti. Uno studio sulla qualità dell’aria Euromobility nel 2005 svolto in 14 città italiane ha evidenziato che il numero dei giorni in cui si registra un superamento della concentrazione media giornaliera consentita è superiore al limite stabilito e che in molte città si sono registrate concentrazioni medie annuali ben al di sopra di 40 µg/m3. Le concentrazioni più elevate sono state registrate a Firenze, Torino, Milano (Bertuccio 2005). Dati più recenti prodotti dalle Agenzie per l’ambiente non indicano cambiamenti rilevanti. In Toscana i dati ARPAT segnalano che, se in una buona parte dei casi la qualità dell’aria è definita accettabile (sulla base delle concentrazioni medie giornaliere di alcuni inquinanti (CO, NOx, PM10), in pochissime circostanze è da considerarsi buona, e spesso cattiva o pessima (http://www.arpat.toscana.it/news). È rilevante segnalare che l’Organizzazione mondiale della sanità ha presentato nel 2006 nuove linee guida per migliorare la qualità dell’aria raccomandando di non superare, come media annuale, la concentrazione di 20 µg/m3 di PM10 e di 10 µg/m3 di PM2,5 (WHO 2006). Fa invece discutere quanto è stato recentemente stabilito dalla nuova direttiva sulla qualità dell’aria della Ue, che andrà a sostituire quelle già esistenti, direttiva che riporta il limite di concentrazione media annuale a 40 µg/m3 per le polveri PM10 e a 25 µg/m3 per le polveri PM2,5. Ciò costituisce un passo indietro rispetto alle direttive precedenti, come è stato sottolineato da molti ricercatori della materia ed in particolare dall’ERS (European Respi- condizioni di svantaggio sociale, che comportano esposizione ad altri agenti nocivi (esposizioni lavorative) ed abitudini non salutari (maggiore abitudine al fumo). I risultati di questi studi sollecitano quindi la messa in atto di interventi di contenimento della mobilità e programmi di prevenzione mirati a favorire proprio le fasce di popolazione che ne potrebbero trarne maggiore vantaggio. Migliorare la qualità dell’aria deve essere quindi considerato un obiettivo sanitario assolutamente prioritario. ratory Society) che afferma che il limite proposto per le polveri PM2,5 è inadeguato a proteggere la salute specialmente delle persone più suscettibili, come i bambini e coloro che soffrono di malattie respiratorie (Annesi-Maesano 2007). Da sottolineare anche che, in generale, i tentativi, quando fatti, di correre ai ripari con targhe alterne, blocchi parziali o totali della circolazione di automobili e motocicli non hanno dato risultati soddisfacenti anche perché molto spesso i provvedimenti hanno una durata di poche ore e sono limitati ad ambiti spaziali ridotti e ancora molto elevato è il numero di esenzioni e deroghe e poco diffusa la pratica dei controlli; quindi, nonostante tali sforzi, molte città esauriscono i 35 giorni concessi di superamento già nei soli primi 3 mesi dell’anno a dimostrazione che misure isolate ed estemporanee, tipiche di una logica emergenziale non sono in grado, da sole, di risolvere il problema che deve essere affrontato dalle amministrazioni in modo strutturale favorendo l’uso del mezzo pubbico e l’abbandono dell’automobile e sperimantando modalità alternative, come il trasporto collettivo o la bicicletta. Concludendo, sia dagli studi a lungo termine, che dagli studi sugli effetti acuti si desume che all’inquinamento atmosferico urbano sono attribuibili una quota di mortalità e morbosità che potrebbe essere evitata. Emerge inoltre che le condizioni di maggiore esposizione agli inquinanti atmosferici si associano talvolta a I campi elettromagnetici (CEM) Un effetto della diffusa utilizzazione di nuove tecnologie è la sempre maggiore presenza di sorgenti di campi elettromagnetici sul territorio e di conseguenza una crescente preoccupazione nella popolazione per i possibili effetti sulla salute, in particolare quelli cancerogeni, derivanti da questa esposizione. Nel controverso dibattito sulla cangerogenicità dei campi elettromagnetici, la prima cosa da chiarire, anche rispetto alle conoscenze sugli effetti per l’uomo, è la distinzione tra “campi elettrici e magnetici statici ed a frequenze estremamente basse (ELF) ” e i campi magnetici “ad alta frequenza” e cioè le radiofrequenze (RF) e le microonde (MO). Gli ELF sono i campi generati dai sistemi per la distribuzione dell’energia elettrica, primi fra tutti gli elettrodotti, e dall’utilizzo di apparecchiature elettriche come ad esempio gli elettrodomestici (50 Hz per la rete N. 167 - 2008 Le questioni ambientali e la salute La IARC, nella monografia n° 80 del 2002 (IARC 2002) ha così valutato l’associazione tra esposizione a campi elettromagnetici ed insorgenza di tumore: – limitata evidenza di cancerogenicità per l’uomo per i campi magnetici ELF per quanto riguarda la leucemia infantile – inadeguata evidenza di cancerogenicità per l’uomo per i campi magnetici ELF per quanto riguarda tutti gli altri tumori – inadeguata evidenza di cancerogenicità per l’uomo per i campi elettrici e magnetici statici e per il campo elettrico ELF Tab. 1 – inadeguata evidenza di cancerogenicità negli studi sperimentali su animali per i campi magnetici ELF – non vi sono dati di rilevo sulla cancerogenicità per l’animale in studi sperimentali per il campo elettrico o magnetico statico e campo elettrico statico ELF europea). I campi elettromagnetici ad “alta frequenza” sono generati dalle antenne per le trasmissioni radio e televisive, dalle stazioni radio base e dall’utilizzo dei telefoni cellulari, nonché da apparecchiature o dispositivi utilizzati in alcune particolari situazioni lavorative. Per quanto riguarda i campi magnetici ELF, le evidenze epidemiologiche forniscono un quadro di conoscenze ampio che si basa su studi che hanno adottato tecniche e metodologie progressivamente sempre più adeguate a definire l’esposizione, e che permettono di affermare che esiste un’evidenza di associazione tra leucemie infantili ed esposizione a livelli di campo di intensità elevata e non comune – al di sopra degli 0.3-0.4 microtesla (µT) – anche se la natura causale di tale associazione non è stata ancora stabilita con certezza, soprattutto per la non comprensione dei meccanismi biologici, per la negatività degli studi di cancerogenicità sull’animale. In tal senso si è espressa l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) di Lione che, sulla base delle evidenze disponibili al 2001, ha classificato i campi magnetici ELF nel gruppo 2B ovvero “possibili cancerogeni per l’uomo” e nel gruppo 3 ovvero “non classificabili per la loro cancerogenicità per l’ uomo” i campi elettrici e magnetici statici ed il campo elettrico ELF (IARC 2002). La valutazione della IARC è stata ripresa e condivisa dalla Commissione “Cancerogenesi ambientale” della Lega per la Lotta contro i tumori (LILT) che ha pubblicato nel 2004 un rapporto sul rischio cancerogeno derivante dall’esposizione a campi magnetici a bassa frequenza (LILT 2004). Ad oggi non sono stati riportati altri dati tali da modificare il quadro di riferimento, e in tal senso si è espressa l’Organizzazione mondiale della sanità (l’OMS) nel recente volume Extremely low frequency fields pubblicato nel 2007 (WHO 2007). In questa monografia viene ribadita la valutazione della IARC di “evidenza limitata” sulle leucemie infantili e si ribadisce anche l’inadeguatezza dei dati epidemiologici per la valu- tazione dell’associazione tra ELF e altri tumori. Nelle conclusioni di questa monografia vengono riportate le evidenze disponibili non solo gli effetti cancerogeni ma anche per altri possibili effetti che sono stati associati a questa esposizione. Per quanto riguarda i tumori nell’ adulto successivamente alla monografia IARC sono stati pubblicati vari studi sul rischio di tumore alla mammella nelle donne; questi nuovi studi più ampi dei precedenti e meno sensibili ad effetti di distorsioni, risultano nel complesso negativi. Per quanto riguarda i tumori cerebrali e le leucemie dell’ adulto, i nuovi studi condotti dopo il 2002 non hanno modificato la conclusione per cui l’evidenza di un’associazione tra campi ELF e rischio per questi tumori rimane inconclusiva. Per le altre patologie e altre forme di tumori l’evidenza rimane comunque inadeguata. Sempre nelle conclusioni del volume dell’ OMS viene detto che: “i nuovi studi sull’uomo, su animale ed in vitro, pubblicati dopo la monografia IARC del 2002, non cambiano la Sae l ute Territorio 69 classificazione complessiva del campi magnetici ELF come possibile agente cancerogeno per l’uomo” (WHO 2007). Più scarse sono le conoscenze sulle radiofrequenze. Le conoscenze derivanti da studi di popolazione residenti in prossimità di trasmettitori radio-televisivi e da studi su esposti a radiofrequenze per motivi lavorativi non hanno prodotto risultati univoci (LILT 2006). Alcuni studi sono in corso da cui ci si augura che emergano maggiori elementi di comprensione e valutazione. Gli studi recenti si sono concentrati sul possibile rischio di tumore, in particolare quello cerebrale, in utilizzatori di telefoni cellulari. Tra le ricerche attualmente in corso va ricordato lo studio internazionale INTERPHONE, coordinato dalla IARC (Cardis 2007) a cui hanno partecipato ben 13 Nazioni tra cui l’Italia. Questo studio multicentrico si è posto come obiettivo principale quello di stimare l’incidenza di neoplasie maligne e benigne cerebrali e delle ghiandole salivari in relazione con l’ uso del telefono cellulare e con l’intensità di esposizione alle RF utilizzate nella telefonia mobile. Lo studio ha incluso 2600 gliomi (tumori della glia, il tessuto di rivestimento del sistema nervoso periferico), 2300 meningiomi (tumori delle meningi), 1100 neurinomi acustici (tumori del nervo acustico), 400 tumori delle parotidi e un altrettanto numero di controlli. Recentemente sono stati pubblicati i primi risultati relativi ad alcuni dei paesi coinvolti ed è disponibile nel l ute Sa e 70 Territorio Le questioni ambientali e la salute N. 167 - 2008 sito della IARC l’ aggiornamento e la valutazioni sui primi risultati (IARC 2008). Per quanto riguarda i gliomi, sia lo studio dei Paesi nordici che quello inglese mostrano un rischio aumentato associato all’uso di cellulari per più di 10 anni (con omolateralità tra uso del telefono e parte della testa ove il tumore si è sviluppato). Si afferma che questa associazione potrebbe essere causale, ma non si esclude che sia dovuta ad artefatti (problemi di recall bias). Nello studio giapponese si è cercato di determinare il massimo quantitativo di RF assorbita a livello della localizzazione del tumore, tale analisi ha portato ad un OR di 1.55 (IC 95%, 0.57-4.19) associato al più elevato quartile di esposizione cumulativa e basato su 15 esposti. Per il meningioma e neurinoma acustico, la maggior parte degli studi forniscono poca evidenza di aumento di rischio anche se, considerando il pool dei dati dei Paesi nordici, si osserva un aumento di rischio di neurinoma acustico per durata di uso di 10 o più anni rispetto a dove si è sviluppato il tumore. Anche in questo caso non si esclude che il risultato possa dipendere da artefatti (problemi di recall bias). Per il tumore alle parotidi, non si è osservato alcun incremento di rischio. In un’analisi combinata dei dati svedesi e danesi un incremento di tumori benigni, non-significativo statisticamente, é stato evidenziato, anche in questo caso omolateralmente, per chi ha dichiarato di usarlo da più di 10 anni; an- che in questo caso non viene escluso un possibile effetto di recall bias. Anche lo studio condotto in Israele, suggerisce una possibile relazione tra uso di cellulari e rischio di questo tipo di tumore. Sono in corso approfondimenti dei singoli studi e l’analisi congiunta dei dati dei diversi Paesi. Ogni volta che i risultati delle ricerche non sono univoci, la valutazione del rischio (risk assessment) è esercizio assai complesso. Per tale motivo la valutazione del rischio derivante dall’esposizione a ELF e radiofrequenze è stata materia assai controversa. Innanzi tutto è necessario fare una distinzione tra ELF e radiofrequenze, alla luce delle diverse evidenze disponibili. Per quanto riguarda l’esposizioni ad ELF i dati scientifici, come ricordato nel recente volume della OMS, suggeriscono che esposizioni a campi elettromagnetici al di sopra dei 0.30.4 µT possono rappresentare un rischio per la salute per un coerente quadro di aumento di leucemie infantili anche se permangono incertezze sulla causalità delle associazioni evidenziate per possibili distorsioni e misclassificazione delle esposizioni. Pur in presenza di queste incertezze negli studi epidemiologici e in assenza del supporto di dati di laboratorio, “ nel complesso l’evidenza, anche se non abbastanza forte, da far considerare come causale la relazione, è abbastanza forte da rimanere motivo di attenzione” (WHO 2007). In questa situazione “l’uso di approcci precauzionali appare quindi giustifica- fusione di telefoni cellulari in queste età. Questa preoccupazione del resto era già stata formulata da Independent Expert Group on Mobile Phones in UK ed è stata recentemente condivisa dal Ministere de la Santè, de la Jeuness et des Sports francese. Nelle raccomandazioni della LILT viene anche esplicitata la necessità di conoscere quali siano i livelli di esposizioni delle popolazioni al fine di favorire il risanamento delle situazioni peggiori quanto a esposizione (vicinanza a ripetitori radio TV e a grossi centri di trasmissione), e infine si auspica che le nuove istallazioni siano realizzate in modo da minimizzare l’esposizione. A questo proposito va ricordata l’intensa attività svolta nella Regione Toscana dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale (ARPAT) e dalle ASL. Tale attività è stata peraltro presa in rassegna dalla “Task-force regionale sui campi elettromagnetici”, che ha operato tra il 2002 ed il 2004 con il compito di effettuare una rassegna critica delle conoscenze scientifiche disponibili e consolidate, di effettuare un censimento della situazione dei dati sull’esposizione in Toscana e di esaminare i dati alla luce delle normative in materia in modo da fornire informazioni alla popolazione e alle amministrazioni (Regione Toscana 2004). to” (WHO 2007). Nel volume dell’ OMS vengono esplicitate alcune raccomandazioni indirizzate tra l’altro a chi ha la responsabilità delle politiche sanitarie che tenendo conto da una parte anche gli effetti di beneficio della tecnologia (in questo caso dell’ elettricità) dovrebbero prendere in considerazione aspetti legislativi e di modifiche di progettazione degli impianti, anche di quelli esistenti, per ridurre le esposizioni dovute ad impianti ed apparecchi. Le autorità nazionali dovrebbero inoltre mettere in atto efficaci strategie di comunicazione, affinché le informazioni sulle decisioni prese siano fruibili da tutte le parti interessate; per migliorare inoltre la progettazione di impianti che creano campi magnetici dovrebbero essere migliorate le procedure di consultazione tra industria, governo locale e cittadini nelle decisioni sulla collocazione di sorgenti importanti. Governi ed industria dovrebbero inoltre promuovere programmi di ricerca per ridurre l’incertezza nella conoscenza scientifica (WHO 2007). Per quanto riguarda l’esposizione alle radiofrequenze su cui gli studi condotti sono ancora relativamente pochi, ricordiamo le raccomandazioni espresse nel volume sulle radiofrequenze della Commissione oncologica della LILT (LILT 2006) ove viene ribadita la necessità di disporre di ulteriori dati in particolare dei risultati dello studio INTERPHONE e si raccomanda di estendere la valutazione degli effetti sui i bambini e adolescenti, data la crescente dif- Rifiuti Nonostante l’Unione europea chieda a gran voce di prevenire, ridurre, riutilizzare, riciclare i rifiuti, l’Italia sembra impegnata in una gara al rial- N. 167 - 2008 zo: “La produzione nazionale di rifiuti urbani si attesta, nell’anno 2006, a 32,5 milioni di tonnellate con un incremento, rispetto al 2005, superiore al 2,7% (quasi 860 mila tonnellate). Tra il 2000 ed il 2006 la produzione nazionale è aumentata, in valore assoluto, di oltre 3,5 milioni di tonnellate, corrispondenti ad una crescita del 12,3% circa” (APAT, 2007). Eppure Germania e Olanda sono riuscite a “disaccoppiare” la produzione di rifiuti dalla crescita economica, diminuendo la produzione di rifiuti, mentre la crescita, per quanto contenuta, è proseguita. Invece in Italia “il prodotto interno lordo cresce tra il 2003 ed il 2006, del 3,2% circa e le spese delle famiglie del 2,9%, a fronte di un incremento percentuale della produzione di RU (rifiuti urbani) dell’8,3% circa. Nel 2006 ciascun abitante del centro produce 638 kg, al sud supera la soglia dei 500, con 509 kg per abitante per anno, al nord si attesta sui 544 kg. Il 50% dei rifiuti urbani finisce nelle discariche, il 12% in inceneritori, e sono le modalità meno consigliate secondo la “gerarchia dei rifiuti”. I problemi che stanno dietro a queste cifre sono difficili da dipanare, e al momento in Italia sono occultati dalla crisi della Regione Campania, che focalizza l’attenzione e smuove emozioni di ogni tipo. Troppo spesso la reazione, quasi di sollievo, ci fa pensare “da noi non è così”. In realtà in diverse occasioni si sono sollevati i problemi dietro l’angolo, in particolare le discariche piene fino all’or- Le questioni ambientali e la salute Sae l ute Territorio 71 Fig. 1. La gerarchia dei rifiuti. lo, soprattutto nei grandi centri urbani, e i molti inceneritori di vecchia generazione ancora attivi tra i 50 operanti in Italia, la maggior parte collocati nel centronord. È da siti di discarica e inceneritori che possono derivare problemi di salute per le comunità locali, che sono sotto controllo da anni in diversi Paesi, e che hanno sollecitato l’attenzione dei ricercatori anche in Italia. La situazione che si è creata in Campania effettivamente non è riconducibile a nessun'altra conosciuta, simbolo dell'emergenza che si trasforma in routine e che genera paralisi successive, nella gestione dei rifiuti e nella gestione del territorio. E la compromissione del territorio è così pervasiva, come dimo- stra la mappa delle discariche illegali - 1224 nelle sole provincia di Napoli e Caserta - da avere sollecitato una seria attenzione negli ultimi anni, soprattutto da quando ben 61 Comuni della Campania sono entrati a far parte nel 2000 del Sito di interesse nazionale – SIN – per le bonifiche “Agro Aversano e Litorale Domizio-Flegreo”, gestito dal Ministero dell’ambiente con l'obiettivo del risanamento, cresciuti fino agli attuali 75 Comuni nei 4 SIN della Campania. I ricercatori convocati dall’Organizzazione mondiale della sanità su richiesta della Protezione civile nel 2004 hanno cominciato a lavorare sui dati disponibili, sulle carte dell’illegalità, sulla base delle denunce e delle ricerche che le Commissioni parla- mentari hanno messo insieme negli ultimi anni, raccogliendo i primi dati sulla salute. Le autorità responsabili del controllo dell’ambiente hanno cominciato a fornire dati, ad accompagnare le attività dei Commissari che si sono succeduti dal 1994 per la gestione dei rifiuti e il Ministero dell’ambiente incaricato delle bonifiche, e si sono moltiplicati i dati a disposizione per consolidare le osservazioni elaborate fino ad oggi. Nelle Regioni italiane, gli sviluppi vanno in direzioni diverse: in Toscana, nel 2004, l’Amministrazione provinciale di Firenze aveva commissionato all’Agenzia sanitaria regionale una Valutazione di impatto sanitario del proprio Piano di gestione dei rifiuti, che comprendeva un nuovo impianto l ute Sa e 72 Territorio Le questioni ambientali e la salute N. 167 - 2008 di incenerimento a Firenze, cercando contestualmente il consenso dei Comuni e il coinvolgimento dei cittadini; ciò ha consentito un allargamento del dibattito unico nel panorama nazionale. Forti tensioni si segnalano negli ultimi mesi in aree dove sono in discussione nuovi impianti come a Bolzano ed Acerra, tanto per fare due esempi diversi e distanti tra loro ma accomunati da tratti che occorrerà affrontare con attenzione e competenza. Infatti, si tratta di andare oltre la sindrome di NIMBY (“not in my back yard” o “o non nel retro del mio giardino”), troppo spesso semplificata o stereotipata in modo inaccettabile, senza vedere che molte posizioni non sono contrarie ad un impianto nel giardino e favorevoli allo stesso nel giardino del vicino, ma sono vogliose di capire i perché della scelta, la sua collocazione nel ciclo dei rifiuti, la presenza o meno di garanzie di gestione e controllo: in una parola la partecipazione. Per affrontare in modo organico il complesso dei problemi la Regione Emilia-Romagna, che ha otto impianti sul proprio territorio, ha promosso un ampio studio sugli impatti degli inceneritori su ambiente e salute (www.arpa.emr.it/moniter). La Regione Sicilia ha dal 2002 un piano per la costruzione di cinque impianti di incenerimento di grande portata, con controversi iter di approvazione, sia a livello nazionale che di contestazioni da parte della Unione europea. Di recente la Regione ha costituito un Comitato scientifico a garanzia dell’attuazione del Sistema di gestione integrata dei rifiuti solidi urbani della Regione siciliana, che ha suscitato qualche polemica per le sue uscite in difesa degli inceneritori, come soluzione a rischio zero. Questo del rischio zero è uno dei problemi più spinosi, perché, se si considerano nozioni di base di termodinamica e di biologia la tentazione sarebbe di liquidarlo con la semplice asserzione che nessuna macchina termodinamica è priva di emissioni e quindi non può esistere il rischio zero ma semmai un rischio basso. Sul tema della minimizzazione e gestione del rischio non possiamo entrare ma vale la pena di elencare almeno tre elementi con cui non si può fare a meno di fare i conti: a) la crescita delle conoscenze produce continui spostamenti delle soglie di emissione e di concentrazione considerate protettive per la salute, fatto che ha come conseguenza che le esposizioni considerate non a rischio fino ad una certa data diventano a rischio dal giorno dopo (due casi eclatanti nella storia sono quello delle radiazioni ionizzanti e quello dell’asbesto). Questa osservazione dimostra empiricamente l’opportunità di considerare la rincorsa tra crescita della conoscenza scientifica e adeguamenti normativi, che spesso stentano ad adeguarsi alle conoscenze o lo fanno molto in ritardo, come percorso virtuoso prima che come obiettivo assoluto a cui tendere. In questo modo l’opzione di riferimento ti nel disegno e nella capacità di definire l’esposizione, anzi le esposizioni, realmente esistenti; c) il rischio di esposizioni croniche ad inquinanti persistenti, anche a basse concentrazioni, ma che sono per loro natura soggetti a bassa biodegradazione ed elevato accumulo in tessuti e organi, rappresenta un piano ben diverso e quindi distinto da quello dell’esposizioni acute ad inquinanti non persistenti. Per questo motivo sono di importanza crescente gli studi basati su misure di biomarcatori di esposizione che consentono di stimare l’esposizione attraverso misure di assorbimento di dose interna (Bianchi 2006). teorico rimane quello di portare a zero la massima concentrazione accettabile di qualsiasi sostanza cancerogena, il così detto “MAC zero” di Giulio Maccacaro (Maccacaro 1976), mentre sul piano operativo si liberano possibilità ed energie per utilizzare strumenti nuovi come il principio di precauzione e le valutazioni preventive di impatto, che altrimenti rischiano di rimanere imprigionati in un asfittico dibattito filosofico o peggio essere respinti sul piano politico (si usa volutamente la p minuscola); b) la gestione del rischio è più complessa e difficile nel caso di malattie cronico-degenerative ad eziologia multifattoriale, soggette al modello probabilistico. In questo contesto l’uso del modello deterministico è un errore concettuale (riduzionismo) che produce un quadro completamente distorto: ad esempio, se in una comunità residente in aree con siti illegali di smaltimento di rifiuti pericolosi viene osservato un eccesso di mortalità per tumore al polmone, l’interpretazione non potrà essere semplicemente che l’eccesso dipende dal fumo, così come non è consentito chiudere sui soli rifiuti il nesso causa-effetto al quale parteciperanno con peso diverso più fattori. La valutazione del peso dei fattori causali e di quelli di confondimento e di modificazione sarà il compito di studi epidemiologici più avanza- Stato delle conoscenze Sul tema degli effetti di discariche e inceneritori sulla salute umana sono stati pubblicati molti lavori scientifici ed alcune rassegne bibliografiche che danno un quadro piuttosto ricco e aggiornato dello stato delle conoscenze (Vrijheid 2000, Enviros-Defra 2004, Rushton 2003, Franchini 2004, Linzalone et al. 2007, Linzalone et al. 2004, Bianchi et al. 2006, Linzalone e Bianchi 2007). Discariche Risultati solidi e suggestivi di rischio moderato di basso peso alla nascita per gravidanze di residenti in aree con siti di rifiuti. Il basso peso è ben rilevato e registrato ma è esposto a diversi potenziali confondenti. La maggior parte dei lavori scientifici ripor- N. 167 - 2008 ta eccessi moderati (Vrijheid 2000), a partire da quello su Love Canal, fino a quello di Elliott in Inghilterra che ha mostrato un eccesso di rischio del 5% dopo l’apertura dei siti di discarica (Elliott et al. 2001). Risultati moderatamente consistenti tra loro sono suggestivi di un rischio di malformazioni congenite, specie di alcuni tipi più frequentemente riportati e con maggiore plausibilità di eziologia multifattoriale con implicazione di una componente ambientale. In particolare sono da citare due studi estesi: lo studio su 9.565 siti in Gran Bretagna (Elliott et al. 2001) e lo studio EUROHAZCON su 23 siti in Europa (Dolk 1998, Vrijheid et al. 2002), evidenziano incrementi di rischio di malformazioni congenite totali e specifiche, con stime meno elevate da parte del primo (< 10% per le MC totali in nati entro 2 km dal sito) e stime più elevate da parte del secondo (> 30% per le MC totali in nati entro 3 km dal sito), che riporta anche eccessi rilevanti (tra +49% e +96%) per alcune anomalie specifiche quali i difetti del tubo neurale, difetti cardiaci conotroncali, ipospadia, gastroschisi (ripetutamente riportati nella precedente letteratura) e anche anomalie cromosomiche, eziologicamente più difficili da interpretare (Vrijheid et al. 2002). Inoltre, un recente studio su 196 Comuni della regione Campania ha evidenziato eccessi statisticamente significativi di rischio di malformazioni del sistema nervoso centrale e dell’apparato urinario, con incre- Le questioni ambientali e la salute menti rispettivamente dell’8% e del 14% al crescere di un indice di rischio da rifiuti categorizzato in 5 classi (Aa.Vv. 2007). Per quanto attiene la mortalità, in 593 siti negli USA inclusi nella lista nazionale di priorità erano segnalati eccessi di mortalità per tumori di polmone, vescica, stomaco (senza aggiustamento per confondenti), in contee con e senza siti (Johnson 1999). In Campania, in aree ad elevata intensità di discariche autorizzate e illegali (1240 siti censiti) sono stati evidenziati eccessi di mortalità per tumore di stomaco, rene, fegato, polmone e pleura (Comba et al. 2006). Uno studio più avanzato su 226 siti di smaltimento di rifiuti in 196 Comuni campani, basato su un indice di pericolosità da rifiuti con aggiustamento per indice di deprivazione, ha evidenziato diverse criticità: la mortalità totale in 5 categorie di Comuni con indice crescente di pressione da rifiuti mostra un incremento medio significativo del 2% in entrambi i sessi. Trend di rischio crescente sono emersi per tutti i tumori (+1% in entrambi i sessi), per il tumore del fegato (+8% negli uomini e +7% nelle donne), per il tumore polmonare (+2%) e gastrico (+5%) negli uomini (Aa.Vv. 2007). Entrambi gli studi hanno identificato gruppi di Comuni a maggior rischio, localizzati tra le province di Caserta e di Napoli, e inclusi nel sito di bonifica “Litorale domizio-flegreo, agro-aversano” e nella penisola sorrentina. In uno studio condotto in 6 Comuni toscani con altrettante discariche sono emersi eccessi di mortalità per tumore del fegato (solo maschi) e mammella, e malattie cerebro e cardio-vascolari (Minchilli 2006) e per tumore di polmone, pleura, laringe, vescica, fegato, cervello e malattie cardiovascolari in tre Comuni della Campania con siti multipli di diverso tipo (Altavista et al. 2004). Uno studio condotto in Inghilterra, controllato per alcuni confondenti, non ha riportato eccessi di rischio per tumori di vescica, cervello, fegato e leucemie (Jarup et al. 2002). Inceneritori Sull’impatto ambientale e sanitario degli inceneritori esiste una corposa letteratura scientifica prodotta in oltre 40 anni, in relazione a microinquinanti indicati come più pericolosi tra quelli prodotti dalla combustione dei rifiuti, quali diossine e furani, cadmio, mercurio ed altri metalli pesanti, IPA oltre a CO, NOx, e polveri. Sull’argomento ci sono rassegne bibliografiche recenti (Rushton 2003, Franchini et al. 2004, Enviros-Defra 2004). Numerosi studi epidemiologici, che hanno esaminato l'impatto di impianti in funzione negli anni '70 e '80, hanno segnalato disturbi e patologie soprattutto dell'apparato respiratorio nonchè alterazioni di biomarcatori di esposizione nei lavoratori addetti agli impianti. Segnalazioni ripetute hanno riguardato eccessi di mortalità e d'incidenza per tumori del polmone, dell'apparato dige- Sae l ute Territorio 73 rente, del fegato, dei reni, del pancreas. Uno studio metanalitico ha segnalato un moderato eccesso di mortalità per linfoma non-Hodgkin (LNH) nei maschi in 25 Comuni italiani con inceneritori (Bianchi 2006), uno studio caso-controllo ha riportato un incremento di sarcomi dei tessuti molli (STM) (Comba 2003) e uno studio di prevalenza in un comune con un inceneritore attivo negli anni ’80 ha segnalato un incremento di LNH e STM (Biggeri e Catelan 2005). Sugli inceneritori di vecchia generazione si dispone di risultati poco confrontabili tra loro e che hanno dato luogo a risultati scarsamente consistenti che tuttavia suggeriscono incrementi di rischio per alcune patologie tumorali e riproduttive, anche se non è quantificata la quota attribuibile ad esposizioni specifiche. Sugli inceneritori più recenti si dispone di pochi studi epidemiologici, inadatti a valutare il rischio di patologie con periodi di latenza lunga. Alcuni degli studi recenti hanno permesso di apprezzare differenze di impatto tra vecchi e nuovi impianti ed anche il contributo relativo degli impianti in aree gravate da più fonti di inquinamento. Da altri lavori recenti, che si sono avvalsi di biomarcatori di esposizione (soprattutto in sangue, urine e latte materno) e/o indicatori di alterata attività/funzione fisiologica (funzionalità epatica ed endocrina, espressione genica, addotti al DNA), emergono differenze di impatto per i residenti intorno a impianti vecchi e nuovi, incrementi dei valori di biomarcatori di l ute Sa e 74 Territorio Le questioni ambientali e la salute N. 167 - 2008 diossine in residenti intorno a vecchi impianti e livelli alterati di biomarcatori di esposizione a diossine e metalli in lavoratori addetti ad operazioni di manutenzione e pulizia in impianti moderni. Occorre segnalare che diversi studi non hanno evidenziato associazioni di rischio. Il quadro conoscitivo risulta quindi ricco ma al contempo frastagliato: l’eterogeneità delle circostanze oggetto di indagine, la mancanza o insufficienza di dati tecnici sugli impianti studiati, la povertà di definizione dell’esposizione, la non correzione per effetti confondenti di primaria importanza, come lo stato socio-economico, gli effetti della bassa potenza di studio, specie in situazioni caratterizzate da popolazioni poco numerose nelle quali si studiano condizioni rare. Vogliamo infine sottolineare che gli studi più recenti si caratterizzano per una maggiore attenzione allo studio dell'esposizione. La valutazione dell’esposizione si evolve grazie alle procedure di monitoraggio biologico per dosare diossine, policlorobifenili (PCB) e metalli pesanti in sangue, latte materno, capelli, tessuti. I risultati più importanti sinora raggiunti hanno riguardato soprattutto le esposizioni professionali, anche documentando i benefici derivanti dalle tecnologie più evolute e da un appropriato utilizzo dei dispositivi di protezione personale. Sul versante ambientale, è da segnalare la grande attenzione posta sul tema del nanoparticolato, in considerazio- ne della pericolosità delle particelle ultrafini di adsorbire sostanze tossiche e di veicolarle fino agli alveoli polmonari e da qui nel sangue (Cormier et al. 2006, Linzalone e Bianchi 2007). In Italia lo studio con disegno epidemiologico più avanzato è stato condotto a Coriano di Forlì (Ranzi et al. 2006), ed ha improntato il progetto Moniter, relativo agli otto inceneritori dell’Emilia Romagna (www.arpa. emr.it/moniter). Un recente workshop promosso dal Centro europeo ambiente e salute dell’Organizzazione mondiale della sanità (Population health and waste management: scientific data and policy options, Rome, 2930 march 2007) ha fatto il punto sullo stato delle conoscenze. Il quadro conoscitivo riguarda in particolare gli inceneritori che hanno operato negli anni Sessanta e Settanta, caratterizzati dall’eterogeneità del combustibile usato, dalle basse temperature di combustioni e dalla scarsa efficienza degli impianti di abbattimento, condizioni favorenti notevoli emissioni di numerosi agenti tossici con ricadute localizzate in territori circoscritti oltre che a lungo raggio. Gli studi su popolazioni residenti hanno mostrato la presenza di alcuni effetti avversi, in particolare incrementi di sarcomi dei tessuti molli e di linfomi non Hodgkin. Nelle aree limitrofe inceneritori di nuova generazione ci si avvale oggi dei modelli di diffusione e ricaduta accoppiati alle misure di emissione essere in grado di dialogare con tutti i portatori di interesse (Cori 2006). Per concludere, poiché molte situazioni di contaminazione ambientale sono caratterizzate da una insufficiente conoscenza degli inquinanti, dei processi di inquinamento, delle modalità di esposizione e dei rischi potenziali, è appropriato adottare un approccio multidisciplinare e un sistema di indagine basato su priorità, da definire sulla base delle evidenze sull’associazione tra effetti sanitari e fattori di rischio. Poi la sorveglianza in continuo fornirà nuovi elementi utili per confermare o modificare le priorità di intervento. e al suolo per valutare l’omogeneità di inquinamento nei territori adiacenti, come è stato visto ad es. nel caso del nuovo inceneritore di Barcellona (Gonzalez et al. 2000). È comunque fondamentale che venga implementato un opportuno piano di monitoraggio ambientale, i cui risultati siano periodicamente illustrati alla popolazione. Accanto a questo è opportuno attivare sistemi di sorveglianza epidemiologica con la finalità di cogliere eventuali problemi imprevisti consentendo di attivare misure correttive (Bianchi 2006). In questi contesti, si rende necessaria l’attivazione di un sistema di Sorveglianza epidemiologica adatto per aree con pressioni ambientali (SEAPA), in grado di monitorare l’andamento spaziale e temporale dello stato di salute delle popolazioni residenti e di gruppi vulnerabili e suscettibili. Il SEAPA deve essere dotato di quattro funzioni per conoscere, interpretare e comunicare la relazione ambiente-salute: – deve essere in grado di misurare specifici fattori di pericolo e di rischio, esposizioni ed esiti sanitari; – deve basarsi su un flusso di dati routinari (diversi da quelli ottenibili dalle indagini ad hoc che forniscono un diverso contributo rispetto alle attività di sorveglianza); – deve produrre dati adatti a definire, programmare, valutare le attività di tutela e promozione della salute pubblica; – deve dotarsi di strumenti di conoscenza ed analisi del contesto locale in materia di percezione dei rischi e comunicazione, per Conclusioni La ricerca epidemiologia sui rischi ambientali ha prodotto importanti risultati nonostante le numerose difficoltà “tecniche” dal momento che si tratta di studiare gli effetti di esposizioni composite, diffuse, difficili da quantificare. Su alcune questioni ambientali il corpo delle conoscenze disponibili è tale da motivare interventi urgenti di risanamento per tutelare la salute. In altri casi è necessario sviluppare ulteriori approfondimenti per definire la natura I risultati delle ricerche non sono mai definitivi. Ai ricercatori il compito di continuare a studiare, di approfondire, di misurare e produrre “evidenze”, ma anche il compito, arduo, di comunicare i risultati del proprio lavoro nel modo più rigoroso possibile. N. 167 - 2008 causale delle associazioni individuate. In ogni caso appare necessario di tenere attivi sistemi di monitoraggio ambientale e sorveglianza epidemiologica per valutare le priorità degli interventi di prevenzione. Va sottolineato un ulteriore elemento di criticità, quello della comunicazione dei risultati. Comunicare i risultati su argomenti non risolti (e in quanto tali, oggetto di studio) è arduo perché la ricerca di per sé produce risultati provvisori, di difficile interpretazione soprattutto quando discordanti. In queste cir- Le questioni ambientali e la salute costanze di incertezza scientifica, la valutazione sull’esistenza o meno di un rischio reale per la popolazione è cosa assai delicata e complessa e di conseguenza, per molte tematiche ambientali sono state fatte valutazioni e prese posizioni molto diversificate, da posizioni che hanno minimizzato la portata dei risultati (magari per non creare allarmi, che, alla luce dei dati, non parevano giustificati) a posizioni allarmistiche (talvolta per suscitare interesse da parte dei mass media). Gli epidemiologi hanno tentato di sottolinea- Bibliografia Inquinamento atmosferico Biggeri A., Bellini P., Terracini B. 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Bertuccio L., De Borja F., Parmagnani F., Analisi dei dati sul PM10 bel 2005 (Euromobility), http://areeurbane.apat.it/site/_files/rapporto2005/cap/pm10.pdf Sae l ute Territorio 75 Alla fine spetta ai politici e agli amministratoori il compito di prendere decisioni sulla base sia delle conoscenze scientifiche disponibili sia della conoscenza dei complessivi bisogni dei cittadini in un processo decisionale in cui scienza e democrazia sono la migliore arma per tutelare la salute della popolazione, specialmente delle fasce più deboli. re l’esistenza di associazioni e al tempo stesso, la non certezza dei nessi causali, indicando la necessità di monitorare i fenomeni nel tempo. I messaggi e le posizioni più articolate non sempre sono risultate efficaci e per lo più il dibattito su temi controversi, quale quello dei campi magnetici, ha visto contrapporre posizioni “negazioniste” a quelle “sensazionalistiche”. Ciò non ha favorito né il dibattito scientifico, né la decisione di interventi di ambientali e sanitari. Anche in presenza di incertezza scientifica è, però, necessario prendere decisioni. WHO Air quality guidelines - global update 2005, Particulate matter, ozone, nitrogen dioxide and sulfur dioxide, WHO/SDE/PHE/OEH/06.02 Geneva 2006. http://www.euro.who.int/air/activities/20050222_2 Annesi-Maesano I., Forastiere F., Kunzli N., Brunekref B. (2007), Environment and Health Committee of the European Respiratory Society. Particulate matter, science and EU policy, Eur Respir J, Mar, 29 (3): 428-31. Campi elettromagnetici IARC (2002), Non-ionizing radiation, part1: Static and extremely low frequency (ELF) electric and magnetic fields, Monograph on evaluation of carcinogenic risks to humans, vol. 80, Lyon, France. 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La cultura e la risposta legislativa all’uso e all’abuso di droghe I SERVIZI PER LE DIPENDENZE PATOLOGICHE Il contesto storico in cui il fenomeno si è sviluppato dagli anni settanta ai giorni nostri La diffusione della cocaina, il declino dell’alcol Una ricerca sulla pericolosità di sostanze comunemente usate in campo medico e psichiatrico Analisi delle risposte dei Servizi risultate più efficaci rispetto ai bisogni degli utenti Monografia a cura di Nanni Pepino [email protected] l ute Sa e 78 Territorio Grazia Zuffa Direttrice di Fuoriluogo S hangai 1909 - Vienna 2009: cento anni di controllo mondiale sulle droghe, dalla prima Commissione internazionale sull’oppio da cui il regime di proibizione prese inizio, al meeting Onu ad alto livello previsto a Vienna il prossimo anno, chiamato a valutare il piano decennale antidroga varato nel 1998 dall’Assemblea generale sulle droghe delle Nazioni Unite a New York (Ungass). La celebrazione del centenario è stata proposta dalla Cina, sotto forma di risoluzione presentata a Vienna nel marzo 2008 alla riunione della CND (Commission on Narcotic Drugs), l’organismo delle Nazioni Unite che ogni anno decide gli indirizzi politici internazionali. Il documento cinese sottolinea i “grandi progressi raggiunti dal 1909 a oggi” e invita a guardare alle nuove sfide che attendono la comunità internazionale, con l’obiettivo ultimo di “una società libera dal consumo di droghe e dal narcotraffico”. La risoluzione 1 I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 L’Onu e la geopolitica della droghe è stata votata all’unanimità, dunque l’Onu celebrerà nel 2009 il centenario del controllo globale della droga. È un appuntamento che dovrebbe far riflettere: le droghe sono state la prima questione ad essere “globalizzata” quasi un secolo prima che la parola “globalizzazione” fosse coniata; così come la “guerra alla droga” rappresenta l’antecedente storico, nonché il modello strategico, della guerra al terrorismo. Il 2009 sarà dunque un anno di celebrazioni invece che l’occasione promessa di valutare con obiettività i risultati delle strategie adottate sinora1? Prima di addentrarci nel panorama politico internazionale, è bene ripercorrere il complesso sistema di governo della politica delle droghe a livello delle Nazioni Unite. Il regime internazionale di controllo delle droghe Alla base del sistema sono i trattati internazionali. Il primo è la Convenzione unica sulle droghe narcotiche del Le decisioni politiche a livello internazionale sul controllo e la repressione del fenomeno 1961, che disegna il quadro generale di riferimento normativo, ancora attuale: il fine è di rendere illecito l’uso delle sostanze narcotiche, permettendone soltanto l’utilizzo a scopo scientifico e medico. Non va dimenticato che farmaci come la morfina sono ancora oggi fondamentali nella cura del dolore. Se risaliamo al secolo XIX, poco prima del passaggio al proibizionismo, scopriamo che i preparati a base di oppio, cocaina e canapa erano i principali strumenti terapeutici a disposizione dei medici del tempo; ma erano anche usati largamente per automedicazione, sotto forma di preparati leggeri multiuso. Da allora, solo gli oppiacei sono sopravvissuti come antidolorifici (o come farmaci agonisti nel trattamento delle dipendenza da eroina); quanto alla canapa, le sue proprietà curative sono state riscoperte negli anni settanta ma sono ancora osteggiate in nome del politically correct. La Convenzione unica del ‘61, all’art. 36 prevede la punibilità di coltivazione, produzione, traffico e possesso di droghe. Il secondo trattato, del 1971, cambia il titolo in “Convenzione sulle sostanze psicotrope”, allo scopo di allargare lo spettro delle droghe da proibire oltre quelle propriamente narcotiche. In effetti, il numero delle sostanze bandite è aumentato negli anni: basti pensare alle amfetamine, ancora usate senza particolari limitazioni fino agli anni settanta. La Convenzione del 1971 mantiene la classificazione delle sostanze in quattro tabelle, relative al grado di “indurre dipendenza” delle stesse. Le previsioni penali sono simili a quelle della Convenzione del 1961. La Dichiarazione politica finale dell’assemblea di New York, all’articolo 19 stabilisce come obiettivo “la eliminazione, o la riduzione significativa, della coltivazione illecita della pianta di coca, della pianta di canapa e del papavero da oppio entro l’anno 2008”. Inoltre, entro lo stesso 2008, gli Stati membri si impegnano a “eliminare, o significativamente ridurre, la produzione illecita, il commercio e il traffico delle sostanze psicotrope, incluse le sostanze sintetiche” così come “il raggiungimento di significativi e misurabili risultati nel campo della riduzione della domanda” (traduzione mia) (Political Declaration, General Assembly 20th Special Session, 9th Plenary Meeting, June 10 1998). N. 167 - 2008 La Convenzione del 1988 introduce un giro di vite repressivo. Il trattato stabilisce una serie di strumenti di cooperazione fra i Paesi per le azioni di polizia, come le procedure per l’estradizione dei trafficanti. Le previsioni penali si precisano e si ampliano, e, per la prima volta, si fa esplicito riferimento al possesso per uso personale, anch’esso da considerare un reato penale (criminal offence): è una vera e propria svolta punitiva, poiché le precedenti convenzioni erano focalizzate sulla repressione del traffico, più che dei consumatori. La criminalizzazione della detenzione ad uso personale è un punto cruciale, come vedremo. È però opportuno distinguere fra i vincoli giuridici dei trattati (che gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno l’obbligo di onorare), e i vincoli politici, che condizionano la lettura e l’interpretazione degli stessi. In realtà, i testi delle convenzioni sono più flessibili di quanto non si creda (o di quanto alcuni vogliano far credere). Ad esempio, secondo la lettura giuridica più diffusa, la criminalizzazione del possesso non comporterebbe necessariamente la criminalizzazione del consumo personale 2 . Inoltre, il trattato stabilisce che il possesso per uso personale è “subordinato ai principi costituzionali e ai concetti basilari del sistema I Servizi per le dipendenze patologiche legale vigente negli Stati”. Ciò consente una certa autonomia nell’applicazione delle convenzioni e gli Stati hanno la possibilità di non applicare le pene carcerarie, ma di sostituirle con sanzioni amministrative di vario impatto, tra cui misure molto lievi quali le multe o gli ammonimenti. Questi margini di flessibilità hanno permesso alla maggior parte dei Paesi del vecchio Continente di rinunciare alla punizione dell’uso personale, rifacendosi al “principio d’opportunità” nell’azione penale, che presiede all’ordinamento giuridico di quasi tutti i Paesi dell’Unione europea3. Anche gli interventi di riduzione del danno e alcuni trattamenti, come quelli a base di metadone o eroina, sono ammissibili, in quanto i trattati prevedono l’approvvigionamento di droghe a scopo medico. Quanto agli organismi Onu preposti all’implementazione della politica della droga, il più importante è la CND, come si è già accennato che dal 1946 ha avuto il compito di preparare i testi degli accordi internazionali relativi al controllo delle sostanze narcotiche: si deve alla CND la stesura delle convenzioni internazionali e delle dichiarazioni politiche, compresa quella dell’Assemblea di New York. In sostanza, la CND è l’organismo di direzione politica delle Nazioni Unite, in cui so- no rappresentati 53 Stati membri, più altri come “osservatori”, per un totale di 111. L’organo esecutivo è rappresentato dallo UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime), in cui, nel settembre 2002 è confluito lo UNDCP (United Nations Druc Control Programme): lo UNODC è l’Agenzia che sovrintende all’esecuzione dei programmi decisi dalla CND. Ai tempi dell’assemblea di New York, l’Agenzia era diretta da Pino Arlacchi, sostituito poi da Antonio Costa. L’altro organismo di rilievo è lo INCB (International Narcotics Control Board), formato da 13 esperti, per lo più farmacologi, medici e giuristi: ogni anno il Board rilascia un rapporto sullo stato di applicazione delle Convenzioni. Verso Vienna 2009: chi canta fuori dal coro? Torniamo al centenario del controllo mondiale sulla droga, che sulla carta ha riscosso il plauso unanime. Sulla carta, appunto: in realtà la Cina celebrerà l’anniversario coi propri fondi perché nessun stato si è fatto avanti per offrire un aiuto di qualsivoglia tipo. Per di più, le celebrazioni non faranno parte dell’evento politico maggiore che si sta preparando per il marzo 2009: il meeting di alto livello della CND, cui parteciperanno ministri e capi di governo da tutto il mondo. Dunque l’ap- Sae l ute Territorio 79 puntamento del prossimo anno rimane un momento di valutazione politica della strategia decennale sulle droghe del 1998, come promesso. La vicenda del centenario è comunque indicativa della cornice in cui si svolge il confronto a livello mondiale. Esiste un livello burocratico-formale che prevede un’adesione senza discussioni degli Stati membri alle convenzioni e agli indirizzi politici proposti dalla Agenzia Onu di Vienna (UNODC). In questa luce, la riunione annuale della CND è poco più di un rito: ne è spia la modalità stessa di voto delle risoluzioni, che sono approvate per consenso unanime, oppure non sono approvate affatto. Il che in genere appiattisce i testi su prese di posizione generiche e scontate: come la celebrazione di Shangai appunto. Dietro il formalismo delle assisi internazionali, fa però capolino un livello politico con posizioni sempre più divergenti. La liturgia Onu non prevede i conflitti aperti, e tuttavia le stecche nel coro celebrativo della “guerra alla droga” sono sempre più frequenti. Sono fondamentalmente due i processi politici che stanno provocando tensioni sul piano internazionale: – l’affermarsi in Europa (ma anche in Canada e Australia) di un indirizzo riformista, di riequilibrio delle politiche in direzione di 2 Quando si parla di detenzione sarebbe da intendersi la detenzione a fine di spaccio, e la previsione di questo reato sarebbe da interpretarsi come uno strumento (squisitamente antigarantista) per invertire l’onere della prova, accollando all’imputato il compito di provare la propria innocenza, ossia che la sostanza è destinata al proprio consumo. 3 Anche la cosiddetta politica di tolleranza olandese, che non punisce l’uso personale di tutte le droghe e consente la vendita di quantità limitate di canapa nei coffeeshops, si basa sul principio di opportunità dell’azione penale. Queste condotte sono previste come reati nella legge, ma non sono perseguite perché non sono stabilite come priorità nell’attività di repressione. l ute Sa e 80 Territorio I Servizi per le dipendenze patologiche un minore investimento sulla repressione (la riduzione dell’offerta) a favore del versante sociosanitario (la riduzione della domanda); con interventi finalizzati non più solo all’astinenza ma anche al consumo (più) sicuro e (più) controllato (la riduzione del danno). È il trend delle cosiddette mild policies, caratterizzate dalla rinuncia alla punizione del consumo personale, specie di canapa, e dallo sviluppo dei programmi di riduzione del danno: dallo scambio di siringhe al supporto sociale ai consumatori di strada, dai programmi con metadone a mantenimento a quelli con eroina (a mantenimento), dalle “stanze del consumo” (safe injecting rooms) all’analisi delle sostanze (pill testing) per proteggere i consumatori dalle insidie del mercato illegale; – la crescente insofferenza dei Paesi produttori dell’America Latina verso la war on drugs, che ha generato un conflitto permanente e violento sui loro territori: con l’intervento degli eserciti, la distruzione e la fumigazione con pesticidi delle coltivazioni illegali, lo sfollamento forzato di torme di contadini poveri dai terreni avvelenati. Qui si coglie la dimensione geopolitica del regime internazionale di controllo sulle droghe, che vede gli Stati Uniti in prima linea, come principali ispiratori delle politiche “dure”, sia a livello Onu che dei singoli Paesi produttori. Queste spinte centrifughe hanno cominciato a manifestarsi quasi venti anni fa. Basti rileggere la “risoluzione di Francoforte”, il documento conclusivo approvato nel 1990 al termine della Conferenza promossa dalle città di Amsterdam, Amburgo, Zurigo, Liverpool e Francoforte. In premessa, è tracciato l’orizzonte del programma d’azione: “Il tentativo di eliminare le droghe e il consumo di droghe dalle nostre civiltà è fallito e pertanto dobbiamo continuare a vivere con le droghe e con i consumatori di droghe..”. L’obiettivo di un mondo drug free cade e con esso “la criminalizzazione del consumo che – si afferma nello stesso testo – è in contrasto con l’aiuto e il trattamento terapeutico dei consumatori..” 4 . Proprio dalle città nordeuropee parte l’impulso al cambiamento e la parola d’ordine della riduzione del danno conquisterà gran parte 4 dell’Europa. Le convenzioni internazionali non entrano in discussione, perché la legalizzazione non è all’ordine del giorno: tuttavia già la risoluzione di Francoforte disegna una riforma profonda delle politiche sulle droghe, in aperto contrasto con l’interpretazione più rigida e restrittiva delle Convenzioni, sostenuta dall’Agenzia Onu sulle droghe. New York 1998: come eliminare le droghe illegali in dieci anni Negli stessi anni, entrano in fermento anche i Paesi produttori, come si è detto. Con una differenza fondamentale: gli Stati europei sono in grado di prescindere dagli indirizzi internazionali e di creare il proprio corso in tema di droghe, avvalendosi del loro status di Paesi “forti”. Così l’Europa ha potuto sfruttare i margini di flessibilità delle Convenzioni secondo un’autonoma lettura politica delle stesse. Non sono mancati i richiami ufficiali, come le ripetute denunce dello INCB contro alcuni Stati membri per “violazioni” delle Convenzioni: contro l’Italia, per la depenalizzazione del consumo personale in seguito al referendum del 1993; contro la Germania e la Svizzera (e più N. 167 - 2008 di recente la Spagna e il Canada) per aver aperto le “stanze del consumo”; contro la Gran Bretagna, per avere “declassificato” nel 2003 la canapa, spostandola in una tabella contenente sostanze meno pericolose. Si potrebbe continuare con le ammonizioni per i programmi con eroina medica e perfino per i rischi di travaso del metadone nel mercato illegale. I governi chiamati in causa hanno sempre risposto allo INCB a volte pacatamente, a volte per le rime (come nel caso della Gran Bretagna); in ogni caso, hanno proseguito tranquillamente per la propria strada5. Al contrario, i Paesi produttori più poveri, con la guerra in casa e alla mercè di pressioni politiche ed economiche, non hanno potuto e non possono prescindere dagli indirizzi delle Nazioni Unite. Ciò appare chiaro guardando alla storia di Ungass 1998, a New York. L’Assemblea generale fu indetta dietro la spinta del Messico e di altri Paesi dei Caraibi e dell’America Latina, che speravano di riequilibrare le politiche antidroga, sottraendosi alla war on drugs6. Così non avvenne, anzi. Ad iniziare dallo slogan stesso dell’Assemblea (A drug free world, we can do it), la “lotta Cfr. in M. Brandoli, S. Ronconi, Città, droghe, sicurezza. Uno sguardo europeo fra penalizzazione e welfare, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 105 e segg. 5 Di fronte all’attacco dello INCB, gli inglesi inoltrarono una nota ufficiale di protesta dove si accusava gli esperti Onu di ignorare le evidenze scientifiche alla base della decisione del governo. La declassificazione della canapa fu definitivamente approvata dal Parlamento pochi mesi dopo a riconferma dello scarso potere e influenza politica dello INCB. Cfr. G. Zuffa, Rapporto Incb. Il Regno Unito contrattacca, in Fuoriluogo, aprile 2003. 6 Nel 1993, il Messico scrisse una lettera al segretario generale dell’Onu, sottolineando tra l’altro che nonostante gli sforzi il consumo si stava espandendo e così il peso delle organizzazioni criminali. Si richiedeva perciò nuova attenzione sul versante della domanda, perché “il consumo è la forza trainante che genera la produzione e il traffico di droga”. Dietro il linguaggio formale e la richiesta di considerare anche il ruolo dei Paesi “consumatori”, emergeva il disappunto per le operazioni antinarcotici condotte dagli americani in territorio messicano. N. 167 - 2008 alla droga” ne uscì riconsacrata, come ideologia e come pratica guerresca. Centrale fu il ruolo dell’allora direttore dello UNCDP, Pino Arlacchi, che presentò il piano SCOPE (Strategy for Opium and Coca elimination). Esso prevedeva un misto di misure alternative di sviluppo e di programmi di eradicazione forzata, con l’obiettivo di “eliminare completamente in dieci anni le coltivazioni illegali”. In realtà il piano SCOPE non fu mai adottato, e neppure fu mai presentato ufficialmente a New York, sia perché troppo costoso, sia perché prevedeva una misura molto controversa: l’avvio di eradicazioni biologiche con l’uso di funghi geneticamente modificati. Tuttavia l’obiettivo di SCOPE, di eliminare (o “significativamente ridurre”) le coltivazioni entro il 2008, fu inserito nella dichiarazione politica finale, in tal modo assurgendo a messaggio chiave dell’evento di New York: il quale ha poi ispirato lo sviluppo di piani nazionali antidroga molto aggressivi, come il Plan Dignidad per la Bolivia e il Plan Colombia, nello sforzo di raggiungere gli obiettivi entro la data indicata del 2008. Da qui, gli interventi militari in Chapare e in Bolivia e l’intensificazione delle fumigazioni con pesticidi in Colombia. Dopo il 2001, il nuovo nesso fra lotta alla droga e lotta al terrorismo ha portato a nuove limitazioni della sovranità nazionale dei Paesi produttori: si pensi al Plan Colombia, steso direttamente dal Dipartimento di Stato americano, I Servizi per le dipendenze patologiche senza neanche consultare il Parlamento colombiano: che ha permesso l’occupazione militare, diretta o indiretta, di un Paese strategico per gli interessi degli Stati Uniti nell’America latina. E la nave va… Eppure, il bilancio di New York 1998 non è stato del tutto negativo: lì sono stati varati un piano d’azione da sottoporre a verifica dopo dieci anni e, per la prima volta, una dichiarazione politica sulla riduzione della domanda: un segnale, per quanto timido, verso una nuova considerazione degli aspetti sociosanitari della questione droghe, non solo di quelli repressivi. I dieci anni stanno scadendo adesso e, come previsto, la CND del 2008 ha dato il via al percorso di valutazione che si concluderà nel marzo 2009, come accennato. È presto per dire come andrà a finire, tuttavia all’assise di Vienna dello scorso marzo si sono registrati alcuni segnali di novità: – in primo luogo, i nuovi equilibri politici in Sud America iniziano ad influenzare anche la politica delle droghe e un numero sempre più consistente di Paesi latini sta prendendo le distanze dalle politiche “dure”. L’Uruguay, ad esempio, ha assunto posizioni avanzate, presentando una mozione sui diritti umani, quale limite invalicabile per le politiche di repressione sulle droghe; per non dire della Bolivia che rivendica la liceità del- la masticazione della foglia di coca, nel rispetto degli usi tradizionali della popolazione indigena. Lo INCB, nel suo ultimo rapporto, ha ribadito la necessità di punire il possesso della foglia di coca, ma la Bolivia ha replicato difendendo le proprie ragioni e cercando alleanze coi Paesi europei: incassando anche il sostegno del ministro italiano Paolo Ferrero. Per la prima volta, pare delinearsi un nuovo fronte riformatore, che cerca di tenere insieme le problematiche e gli obiettivi dei paesi produttori e quelli dei Paesi consumatori; – il tema droga è finalmente uscito dalla settorialità e a ciò hanno contribuito le Ong, presenti in massa a Vienna. Così il tema generale dei diritti umani ha dominato il dibattito, riassumendo sia il diritto alla salute dei consumatori, che il diritto a trattamenti umani in carcere che il diritto a pene “proporzionate al crimine”: il che significa l’esclusione della pena di morte per reati di droga. Il vantaggio è stato grande, perché il tema dei diritti ha scompigliato lo schieramento dei “duri”, che ha sempre visto a braccetto Stati democratici e totalitari in nome della “lotta alla droga”: dagli Stati Uniti alla Svezia, dalla Russia alla Cina, passando per il Giappone e gran parte dei regimi autoritari arabi e africani. Così la risoluzione che auspicava “l’integra- Sae l ute Territorio 81 zione del sistema dei diritti umani delle Nazioni Unite nella politica delle droghe” e l’abolizione della pena di morte è stata fieramente osteggiata dalla Cina, ma gli Stati Uniti non l’hanno contrastata; – il discorso introduttivo del direttore dello UNODC, Antonio Costa, ha segnato un’apertura, seppur cauta, alla riduzione del danno e più in generale allo Health Principle, individuato come bussola dell’intero sistema di controllo delle droghe. È un messaggio verso l’auspicato “riequilibrio” delle politiche delle droghe, che ha favorevolmente sorpreso i fautori del corso riformista. Nessuno dimentica che Antonio Maria Costa ha condotto in prima persona nel 2003 la campagna contro la canapa “erroneamente considerata una droga leggera”; è stato un fervido sostenitore della nuova normativa del 2006 in Italia, che inasprisce le pene; a fine 2007 ha scritto una lettera al sindaco di Torino per scoraggiare la possibile apertura di una “stanza del consumo”. In questa luce, il discorso di Costa registra un cambiamento di clima e prefigura una correzione di rotta degli indirizzi delle Nazioni Unite. La nave della riforma internazionale ha preso l’abbrivio, sembra. Dove approderà, lo vedremo a Vienna nel 2009. (segue a pag. 85) l ute Sa e 82 Territorio A, Grosso Vicepresidente “Gruppo Abele” L a legge Fini-Giovanardi, in vigore dal 1990, ha determinato essenzialmente due questioni. La prima è che, per almeno 57 anni, con la cannabis nella stessa “tabella” della cocaina e dell’eroina, resa “pari” sotto il profilo normativo e sanzionatorio, il numero dei consumatori di hashish e marijuana, che affluirà al sistema penale, è destinato ad aumentare. La mancata abolizione della “ex-Cirielli”, con l’eliminazione di qualsiasi beneficio in caso di recidiva nel reato, fa il resto sul versante detentivo: più restrizione della libertà. Il tutto viene giocato su quella sottile linea di confine tra consumo e spaccio che è stata definita per decreto legislativo, riducendo l’autonomia del giudice nel valutare caso per caso. Il penale prende il posto dell’educativo e l’educativo viene esercitato in funzione del penale. Da questo punto di vista anche la coltivazione di una sola piantina di cannabis sul proprio balcone, viene considerato reato secondo la recente sentenza della Corte Costituzionale. La seconda questione riguarda la permanente illegittimità in Italia di alcuni trattamenti e di alcuni interventi di riduzione del danno, già ampia- I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 Il quadro nazionale mente sperimentati e valdati in molti Paesi dell’Unione. Ci si riferisce in particolare alla somministrazione medica di eroina per persone dipendenti da oppiacei da lunga data ed invano precedentemente curati con altri metodi. Nei confronti di questo tipo di trattamento, la stessa UNODC di Costa, che ha sempre contrastato nel passato un tale approccio ritenendolo in disaccordo con le convenzioni internazionali, ha oggi maturato un atteggiamento molto più possibilista. L’Onu, e con lui Costa, rimane invece fortemente contrario alle sale protette di iniezione che continuano ad essere interpretate non come uno strumento salva-vita, ma come collusione con il consumo e lo spaccio di droga. Bisogna aggiungere inoltre una terza questione, da non trascurare anche se di importanza minore. Concerne il permanere e l’aggravamento delle sanzioni amministrative, apportate dalla Fini – Giovanardi, per chi è fermato e trovato in possesso di dosi di sostanze psicoattive per uso personale. Quale sia la reale efficacia della pratica delle sanzioni e dell’invio, con vincolo, ai Servizi, è oggi oggetto di molte domande dopo una pratica istituzionale di I limiti dell’attuale contesto legislativo e l’inefficacia delle sanzioni penali ormai quasi 18 anni. A questo proposito, per sciogliere gli interrogativi, si è dato il via ad una ricerca a carattere nazionale. Rimane aperta una questione di non poco conto, connessa all’enorme conflittualità che il deferimento alla Prefettura e la pratica delle sanzioni ha aperto tra i giovani e le Istituzioni, stante il dato che l’80% dei fermati è in possesso di cannabis. A fronte di una maggiore diffusione del consumo di pressoché tutte le sostanze psicotrope (elevata offerta, diminuzione del prezzario), che comprende anche il ritorno dell’eroina (eroina e oppio fumati) ed il crescente consumo di alcol nella popolazione giovanile, una politica che privilegia la punibilità ed il rimando al sistema penale è destinata a creare pesanti contraddizioni e sofferenze aggiuntive per i consumatori, per le persone dipendenti e per le loro famiglie. Inoltre, ne deriva un appesantimento non secondario ed in parte disfunzionale ai principali compiti delle Forze dell’Ordine nel contrasto al narcotraffico, un carico aggiuntivo ed un allungamento dei tempi per i compiti della Magistratura, ed una maggiore inflazione detentiva con derivata insostenibilità del regime carcerario. Le evidenze fino ad oggi riscontrate, sembrano indicare che non sia questa la strada efficace praticabile dalle politiche di contrasto ai consumi e alle dipendenze. Questa strada rischia piuttosto di aggravare il danno complessivo anziché ridurlo e contenerlo. Dalla centralità della dipendenza alla centralità del consumo I consumi, le dipendenze ed in particolare le tossicodipendenze sono passate attraverso molteplici cambiamenti nel corso degli anni. Nell’ultimo periodo l’immissione competitiva sul mercato delle sostanze da prestazione (cocaina in primis), sostenuta da una offerta aggressiva e capillare che ha creato un’area crescente di cocainisti, ben al di là delle nicchie di consumo protetto tradizionale (un certo mondo dello spettacolo, un certo mondo di professio- N. 167 - 2008 nisti, la criminalità organizzata, e più occasionalmente le persone dipendenti da eroina), ha decisamente innovato “la scena della droga”. La consapevolezza dei danni dell’eroina, l’innesto dell’AIDS sul suo consumo endovenoso, ma soprattutto l’affermarsi, sull’onda lunga delle culture degli anni 80, delle sostanze psicotrope prestazionali, al servizio di un immaginario “vincente” in opposizione a quello “perdente” delle sostanze di estraniazione (eroina in particolare, ma anche l’alcol come dipendenza e non come binge-drinking) ha determinato una trasformazione delle dinamiche dei consumi e degli stili di vita che li sostengono. Sarebbe colpevole interpretare ancora l’intero fenomeno con le lenti del secolo passato. La storia naturale della diffusione e dell’uso di sostanze psicoattive in Italia ha ormai quasi 50 anni, e le macro variabili entro le quali si è mosso il consumo, da tempo ormai non solo più giovanile, consistono, da una parte, nelle scelte del narcotraffico che determinano l’offerta del mercato, e, dall’altra, nell’evoluzione della domanda che con questa offerta interagisce. La “n’drangheta” oggi è sempre meno intermediaria nei traffici ed assume invece un ruolo sempre più attivo e diretto nei confronti dell’approvvigionamento. La sua presenza massiccia, rilevata in America Latina ed in particolare in Colombia, la sua dislocazione sulle vie del traffico (soprattutto nella tappa dell’Africa equatoriale occidentale) impegnano pesantemente le Forze dell’Ordine I Servizi per le dipendenze patologiche italiane, e non è casuale se l’Italia è la nazione che, dopo la DEA statunitense, ha più operatori di Polizia attivi fuori dai confini nazionali. Sul versante della domanda la minore dipendenza, generata dalle sostanze prestazionali, e la maggiore compatibilità d’uso, se paragonata alle sostanze di estraniazione, hanno dimostrato quanto il fenomeno del consumo e dei non sottovalutabili rischi connessi allo stesso abbia decisamente spodestato di centralità la questione della dipendenza (che pur dal consumo, anche se in maniera limitata, ha origine). Sotto questo profilo la questione di quali politiche mettere in atto assume ancora un maggior rilievo. Le dipendenze, in quanto problema sanitario, sono tradizionalmente relegate e relegabili al campo della terapia ed in tal modo più facilmente confinabili all’interno del sistema dei Servizi. Ciò non è possibile per il fenomeno del consumo. Dal consumo non derivano necessariamente gravi patologie e non si è intrappolati come invece avviene per la dipendenza. Il consumo interroga alla radice il contesto socio-culturale che lo genera e lo sostiene quotidianamente. Il consumo impone di intervenire sul contesto e non sull’individuo. Se, e sul come, le politiche si dividono prioritariamente nell’interpretazione del fenomeno. Per coloro che si ostinano a cogliere elementi di continuità anziché quelli di discontinuità il rischio è di una lettura schiacciata sulla chiave della dipendenza e della dipendenza patologica. Il consumo viene considerato riduttivamente quale uno stato che precede la dipendenza, col rischio di rifarsi magari a migliaia di storie personali, ma perdendo di vista le domande essenziali: perché questa deriva collettiva? Perché questo enorme bisogno di protesi chimiche a sostegno della quotidianità? Per sentirsi adeguati e soddisfatti? Per essere all’altezza, per reggere e dribblare le fatiche? Per produrre performance soddisfacenti per le aspettative di altri, ma massicciamente interiorizzate? La prevenzione e la riduzione della domanda Qual è il senso del ricorso alla chimica delle sostanze psicoattive che oggi offrono una variegata multifunzionalità d’uso e che il mercato psicofarmaceutico legale vive in competizione e nello stesso tempo trae stimolo dalla “concorrenza” del mercato illegale gestito dal narcotraffico, che copre una domanda di bisogni e desideri ancora in buona parte inevasa dalle multinazionali della farmacopea? In questo scenario la partita della prevenzione del consumo si svincola completamente da quella della cura e della riabilitazione. Ugualmente all’interno del capitolo prevenzione, l’obiettivo del contenimento del consumo si slega a sua volta totalmente dalle pratiche di prevenzione e minimizzazione dei rischi connesse al consumo stesso. La prevenzione dell’uso assume in sé una completa autonomia dal sanitario e si ricolloca pienamente nell’ambito del sociale, dell’educativo, Sae l ute Territorio 83 della formazione ma più ancora nei luoghi della determinazione delle scelte collettive che condizionano gli assetti economici e sociali, improntano lo stesso motore dello sviluppo del Paese e caratterizzano aspetti importanti dei contesti ambientali. La prevenzione si dovrebbe più propriamente collocare nella “stanza dei bottoni” la cui definizione ben evidenzia gli ambiti dove si decide. Se la prevenzione non assurge a questi luoghi, se il potere non è contaminato e partecipato, significa che l’istanza di attenzione preventiva al dove stiamo andando rispetto a uno sviluppo non più sostenibile, non solo in termini ambientali e di giustizia sociale, ma anche di gestione delle risorse umane del pianeta, non è ancora collocata dove merita. Bisogna che allora entrino con forza in agenda le istanze dei movimenti, il lavoro dal basso affinché le nuove posizioni culturali incarnate in nuovi stili di vita siano praticate da minoranze attive che testimoniano, chiedono e si organizzano per il cambiamento sociale. Una delle tante teorie sociologiche in tema di dipendenze intravede nel consumismo di ogni tipo di merce la matrice della stessa deriva delle dipendenze interpretate come ultimo anello di una catena che porta e lega alla compulsione del consumo. La parte di verità di queste teorie ci indica che il consumismo non è aggredibile se non si riapre un ragionamento che arriva fino alle produzioni e che interroghi su quali priorità, con quali finalità e quale rispondenza a un’esi- l ute Sa e 84 Territorio genza di giustizia e di senso. Sono interrogativi di cui le comunità locali cercano di riappropriarsi; le comunità locali hanno bisogno di essere aiutate per poter riflettere e ri-ragionare per poter contare, rialzare la testa ed affermare un proprio punto di vista. È in questo risveglio di attenzione e preoccupazione, di partecipazione e di assunzione di responsabilità, nella consapevolezza di elementi di trasversalità presenti in ogni decisione, che oggi si colloca il cuore della prevenzione e della riduzione della domanda. Tutto il resto è una derivata di cui tecniche specifiche e tecnologia ne costituiscono l’ultima propaggine. L’attenzione deve convergere sul volante e non sull’acceleratore, altrimenti le problematiche vengono approcciate dalla fine anziché dall’inizio e vengono tutte individualizzate invece che essere rese collettive. La cura, il trattamento, la riduzione del danno Tutto ciò che è connesso con la cura ha quasi totalmente a che fare con la dimensione sanitaria e con i Servizi preposti. In realtà, la problematica delle dipendenze è materia di sottili confini o di larga area grigia in cui la dimensione sanitaria e la dimensione sociale si intersecano e si condizionano reciprocamente. La partita interroga l’organizzazione e la dotazione dei Servizi, ma soprattutto le Amministrazioni regionali da cui dipende la realizzazione e l’erogazione delle prestazioni del sistema sanitario regionale: dalla impostazione della pre- I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 venzione selettiva (già secondaria), all’arco delle offerte di trattamenti, fino ad interventi di riduzione del danno. All’interno del contesto legislativo descritto quali sono le proposte praticabili? Il Piano di azione italiano, il primo Piano di azione nazionale, Gazzetta ufficiale del febbraio 2008 quale Atto di intesa Stato-Regione, delinea con chiarezza 66 obiettivi molto precisi, con la conseguente identificazione delle azioni necessarie per realizzarli e gli indicatori di valutazione utili a comprendere eventuali scarti e defaillance. Il Piano d’azione nazionale è sostenibile, condiviso, largamente partecipato nella sua costruzione tra le Regioni e i Ministeri di competenza. È finanziato, monitorato ed oggetto di verifica. In via sperimentale concerne l’intero 2008 e dalla valutazione che se ne trae dovrebbe avere inizio, come richiede l’Unione europea a tutti gli stati membri, l’enucleazione del successivo Piano quadriennale 2008-2012. Il Piano d’azione nazionale stimola e pungola le Regioni, in particolare quelle più carenti, nel dotarsi di un Piano d’azione regionale in modo da ridurre, anche in questo ambito, le diversità proprie di un’Italia ad almeno due differenti velocità. Si calcola che il sistema dei Servizi per le dipendenze per rispondere con adeguatezza ai vasti compiti a cui è chiamato ed alle più vaste complessità che ne derivano, nel tutelare i diritti dell’utenza e renderli effettivamente esigibili, deve poter fruire di circa l’1% del Bilancio sanitario regionale. ribile tra chi vive in strada e nelle schiere dell’emarginazione sociale, rischia di non beneficiare pienamente dei trattamenti e delle cure sanitarie oggi pur attivabili anche in Italia. Un trattamento ampiamente sperimentato e collaudato riguarda i programmi a mantenimento metadonico di medio-lungo termine che coprano notevolmente le esigenze farmacologiche. Tuttavia il rischio è che, per mancanza di risorse, tali trattamenti vengano relegati all’esclusiva dimensione medico farmacologica di per sé meno efficace ed in qualche caso totalmente impotente quando si innestano su dinamiche di sopravvivenza delle persone e le loro concrete difficoltà di sbarcare il lunario. È difficile per una persona senza dimora sviluppare una buona compliance alla cura, sia per la dipendenza che per le altre malattie correlate (HIV HCV ma non solo) se non viene data risposta ai fondamentali bisogni di riparo notturno, di igiene e pulizia personale, di sostentamento e di esigenza di socialità che esca dal confine dei pari, mero specchio della sua condizione. L’intervento sociale, quasi sempre indispensabile per l’efficacia dello stesso intervento sanitario, si configura oggi in Italia come il “grande assente” nelle dipendenze come in altri ambiti limitrofi di emarginazione. Se non si è in grado di offrire casa (almeno un riparo stabile) e lavoro (almeno una qualche attività rapportabile a capacità spesso residuali, ma che consenta un minimo di reddito) non si da’ il via al reinserimento sociale, presupposto Con la riforma del Titolo V della Costituzione e lo spostamento dell’intera partita sanitaria alle Regioni in realtà non si escludono alcune fondamentali competenze dello Stato, non solo di legislazione in materia (anche se non attinente all’organizzazione dei Servizi), ma anche di indirizzo. Due questioni, urgenti nel tenere il passo con le richieste dell’Unione europea, devono essere risolte: – i LEA, cioè la definizione dei Livelli essenziali di assistenza sotto i quali ogni Regione non può scendere e che nell’ambito delle dipendenze non sono ancora stati precisati; – la costruzione di un sistema nazionale di allerta rapida che preveda l’effettuazione in tempo reale delle analisi delle sostanze psicoattive illegali presenti sul territorio nazionale, in modo da poter rispondere immediatamente alle esigenze del Pronto soccorso e dei Centri antiveleni. Oggi l’analisi delle sostanze si rende possibile solo dopo il sequestro, eseguito dalle Forze dell’Ordine ed autorizzato dal magistrato, che comporta procedure formali macchinose che non consentono l’indispensabile raccordo con le esigenze di tempestività della cura e di reperimento del rimedio medico. Reinserimento sociale e sicurezza L’area della tossicodipendenza, ed in particolare quella che riguarda l’uso di eroina per via endovenosa, più repe- I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 per la stabilizzazione della cura, per l’aggancio più saldo ai Servizi e per il controllo del potenziale danno che potrebbe essere arrecato alla comunità nel suo insieme da comportamenti meno responsabili da parte di persone abbandonate a loro stesse ed avvolte dalla solitudine. Il beneficio che l’integrazione tra interventi sociali e sanitari produce sul piano della sanità pubblica e della sicurezza risulta di grande portata, anche se molto sottovalutata. Un solo esempio: l’epidemia di AIDS è stata in qualche modo controllata con la presa in carico individualizzata di gran parte della popolazione dipendente da eroina, prevalentemente a rischio di infezione per lo scambio di siringhe contaminate, e che ha rappresentato e rappresenta per la diffusione della malattia una popolazione aperta dal punto di vista epidemiologico, potendo propagare l’AIDS per contagio sessuale al resto della società. Il risparmio, e non solo in vite umane (che rimane il primo obiettivo), ottenuto dall’attenzione specifica svolta dall’intero sistema delle dipendenze e dai Reparti di infettivologia degli Ospedali, non sembra aver ricevuto nessuna valorizzazione ed essere di interesse di qualche Amministrazione. Sull’ordine pubblico vale lo stesso tipo di ragionamento. I trattamenti, le cure, gli stessi interventi di riduzione del danno sono più efficaci quando accompagnati dagli interventi sociali che consentono una maggiore stabilità personale, una più sviluppata autonomia, un più elevato senso di responsabilità per sè stessi e per gli altri. Quando le persone emarginate, recluse nelle loro storie di dipendenza, di stigmatizzazione e di isolamento, non vengono lasciate sole, tendono ad evitare il compimento di reati, coabitano meglio nei loro territori, spesso riducono anche la recidiva nel consumo. Sae l ute Territorio 85 L’investimento sul sociale come viene testimoniato dalle statistiche sulla spesa sociale in Italia in rapporto ad altri Paesi, è oggi uno dei fanalini di coda dell’Unione europea; in particolare, alla voce specifica sulla spesa della classificazione europea “abitazione ed esclusione sociale” l’Italia dedica lo 0,1% del PIL, mentre la media europea è 0,9%, ma la Francia è all’1,3% e l’Inghilterra all’1,7%. Il Fondo sociale della 328 è irrimediabilmente smunto e l’Italia è, insieme alla Grecia, l’unico Stato Ue a non disporre di un reddito minimo di inserimento, né di adeguati interventi in sua vece. (segue da pag. 81): L’Onu e la geopolitica delle droghe Fazey C. (2003), The Commission on Narcotic Drugs and the United Nations. International Drug Control Programme: politics, policies and prospect for change, The International Journal of Drug Policy, 14, pp. 155-69. Bibliografia Jelsma M. (2003), Drugs in the UN system: the unwritten history of the 1998 United Nations General Assembly Special Session on drugs, The International Journal of Drug Policies, cit., pp. 181-95. Arnao G. (1998), Nazioni Unite, anzi abbracciate, Fuoriluogo, supplemento mensile del Manifesto, aprile 1998. Arnao G. (1998), New York 1998, la truffa continua, in Fuoriluogo, maggio 1998. Bewley Taylor D. 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Cohen P. (2003), La caduta del dogma, in Corleone F., Zuffa G. (a cura di), La guerra infinita. Le droghe nell’era globale e la svolta punitiva in Italia, Edizioni Menabò, Ortona, pp. 105-8. The International Narcotics Control Board: current tensions and options for reform (2008), IDPC Briefing paper n. 7, February 2008, International Drug Policy Consortium (www.idpc.org). l ute Sa e 86 Territorio Nanni Pepino Medico, Psichiatra-psicoterapeuta D iceva già Maccacaro che per comprendere la malattia mentale era necessario costruire una epidemiologia descrittiva-valutativa, trattando i Servizi come virus, responsabili di specifiche epidemie e pandemie. Proviamo a focalizzare, contestualizzandoli, i consumi e le istituzioni – in senso lato – che si occupano di dipendenze. La L.N. 685 del ’75 nello spirito e nella lettera, costituiva un mutamento paradigmatico nella lettura del “fenomeno” dipendenze da sostanze illegali: da problema criminale a malattia sociale; non a caso i Servizi territoriali erano chiamati Centri medici di assistenza sociale. Si ripeteva quel che Pinel, nel ‘700 aveva determinato per il disturbo psichico: dalla criminalizzazione alla medicalizzazione, dal carcere, allora, al manicomio; nel momento in cui l’aumento della devianza connesso alla rivoluzione industriale rendeva impervio un mero controllo repressivo, una parte della devianza veniva consegnata al braccio soft della medicina, neonata scienza degli alienati (Foucault) (1) (Pinel) (2). Negli anni 70 del 900 il fenomeno dipendenze da problema marginale si estese fino a I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 Dalla miopia alla diplopia divenire problema generazionale. “Nuovi“ alienati, ma da che? A fine 700, per “i matti”, come nella seconda metà del‘900 per le tossicodipendenze, l’alienazione era letta come un “alienarsi da sé”; tutto interno al malfunzionamento del soggetto, qualunque eziologia si addebitasse al processo disfunzionale: malattia morale, vulnus organico, poi ancora problema intrapsichico (F. Basaglia) (3) (Pinel) (2) (Szasz) (4). Riduttivismi incapaci di cogliere la complessità del reale (Morin) (5). Perciò parlo di “miopia” come difficoltà nel vedere, mettere a fuoco, se non da vicino. Incapacità a contestualizzare, ri-storicizzare, anche correlata alla scotomizzazione di aspetti del reale, connessa alla iperspecializzazione ed alla difficoltà di dialogo fra le varie scienze (Morin) (5). E’sempre più esiziale, culturalmente e per le drammatiche ricadute nella prassi, non valutare le dinamiche dialettiche tra esterno\ interno dei soggetti,; (“malati e\o criminali”) rischiando di considerarli come monadi, autonome dai diversi ecosistemi. Non si tratta di proporre una giustapposizione eclettica tra diverse epistemologie ma di Il contesto storico in cui si sono sviluppate le dipendenze e la risposta dei servizi tentare valutazioni diacroniche e sinottiche che permettano una lettura olistica. Il contesto Se si prova ad allargare il campo visivo, possiamo constatare che l’emergere del consumoabuso di sostanze si inscrive in un più ampio contesto di modifica del rapporto con le merci e di mercificazione dei processi identitari, a partire dalla fine degli anni ’50: 1. Diverso significato dei consumi, (non più finalizzati alla sopravvivenza ma divenuti status simbol; senso acquistato-consumato, rispetto al senso donato da esistenze significative) (Arvidsson) (6). 2. Mutato rapporto col tempo libero (liberato da un lavoro massificato e sempre più, quello sì, alienante); non più “otzium”, rigenerazione, riposo, ma ricerca di gratificazioni riparative, surrogato di un lavoro, operaio od impiegatizio, ”alla catena” – deprofessionalizzazione, parcellizzazione dalle mansioni, sradicamento dai contesti originari; identità massifi- cate (G. Toti) (7). 3. Divaricazione/conflittualità tra stili di vita delle diverse generazioni, fenomeno che emerse,negli eventi che deflagrarono, intercontinentalmente, nel ’68. “Ci volete mandare a morire in Vietnam; abbiamo sulla testa la minaccia apocalittica della bomba atomica”, “Vogliamo tutto, lo vogliamo subito”; Diffidenza nei confronti del mondo adulto, citata da M. Mead:” Non fidatevi di chi ha più di 34 anni” (Gorgolini) (8) (Capuzzo) (9). 4. Marketing massiccio, veicolante il messaggio: sei quel che consumi, più consumi più sei; c’è sempre una merce,risolutiva, per i tuoi bisogni, anche quelli indotti (10) (Arvidsson). 5. Il tempo libero del gioco infantile: da tempo della ricerca di autonomia, di “invenzione di giochi e di ruoli”, ricerca di identità, è divenuto un tempo del consumo, del piacere ottenuto con l’uso di oggetti, fruizione di un tempo mediatico- passivizzante. 6. Non più: “sei colpevole se N. 167 - 2008 cerchi il piacere” ma “se non riesci a provare piacere sei tu ad essere sbagliato”, “se vuoi puoi”. Da una società normativo-coercitiva ad una società anomica, che prescrive il “successo” (Merton) (11) (Galimberti) (12). 7. Delusione per il crollo di progetti comuni: “riflusso” negli anni ’80, dimensioni tutte private,consumi e fuga nello yuppismo (13) (Lombardo Radice) (14) (Vento). 8. Dalla fine degli anni 70,cultura giovanilistica: lifting,chirurgia plastica, trapianto di capelli,abbigliamenti casual… lo stile di vita caratterizzato dai consumi giovanili si “cronicizza”, quindi anche gli stili “altri”. Inoltre, perché la nuova produttività, deprofessionalizzante potesse essere redditizia, era necessario implementare i consumi, costruirli, indurli, massificarli: il consumo produce sviluppo, ma per consumare occorre più salario che riduce i profitti. Da società di produttori a società di consumatori. Lo stesso egualitarismo, che appare come una utopia sessantottina, non è forse, anche, un portato dell’appiattimento dei ruoli e delle professionalità che una società fordista produsse e che contiene in sé un livellamento identitario, depersonalizzante, antitetico ai processi di individuazione (Junganamente intesa), che differenziano i progetti individuali dall’essere “personae” (maschere) su una scena e con ruoli che altri determinano? Sono le diverse merci I Servizi per le dipendenze patologiche consumate che “costruiscono” identità, individuali e gruppali, solo apparentemente differenzianti: le clark e le timberland, l’eskimo e il chiodo, i rayban e la kefia, i Lewis, il bomber, l’ero e la coca… In questo quadro, nasce e cresce il consumo di una merce “altra”: “la droga”, “la merce delle merci”, come la definì un mio utente, capace di segnare la differenza generazionale, di riempire il tempo vuoto, di dare tutto subito, di indurre una compulsività, anche, farmacologicamente favorita, che “fidelizza” il consumatore senza bisogno di card magnetiche e di gadget premio. In più, merce alternativa, differenziante dai consumi degli adulti. Uno dei percorsi individuali possibili in un società del disagio e del consumo o risposta ad un disagio intrapsichico/ deficit neuro-bioumorale? Le strategie di marketing delle molecole legali si differenziano molto dalle strategie di capillarizzazione dello spaccio illegale? (Croce; Di Loreto) (15). Quali intrecci fra i due mercati? (Saviano) (16). L’Arcipelago droga Responsabilità della comunità scientifica, latitanza delle istituzioni Il fenomeno “droghe” come realtà omogenea è un artefatto di tecnica: in uno studio in corso, con interviste mirate a protagonisti, utenti, ex utenti e primi operatori, emerge che sarebbe più corretto parlare di isolotti corallini, mobili, separati, che fluttuano accostandosi e distanziandosi, allontanandosi ed aggre- gandosi, in un atollo “consumo sostanze- merci”. Esistevano, prima dell’omologazione indotta dalla nascita dei servizi e a cavallo di questi, ancora ora nel vasto consumo sommerso, diversi “mondi drogati”: 1. Gruppi elitari, i viaggi in Tailandia, provenienti da classi sociali medio alte, intellettualizzate; la cultura on the road Kerouak, Ginsberg, Bukowski: l’uso di sostanze alternative, come ricerca individuale di andare oltre il sistema, di sperimentare stati di coscienza altri-i movimenti hippy. Sostanza poca ma buona. Marijuana, eroina bianca, lsd, peyotle. 2. Gruppi delusi del passaggio dal ‘68, movimento collettivo (“il privato è politico”), al ‘77, movimento di individui nel collettivo (vedi contenuti del Congresso di scioglimento di Lotta continua – Rimini): alla diaspora individualista yuppie o la disperazione delle “bande armate”, tutti soggetti orfani della “rivoluzione mancata”; figli del consumismo, i bimbi del boom: dalla musica rock all’heavy metal, dagli hippy ai “punk a bestia”; dal collettivo extraparlamentare, il confronto scontro in assemblea, all’agitarsi solipsistico delle discoteche, nel fracasso acustico che impedisce comunicazioni verbalizzate, solleticando l’esibizione narcisistica del proprio corpo; i viaggi ad Amsterdam. Sostanza ancora di buona qualità, mercato più vasto ma ancora “autogestito”. Sae l ute Territorio 87 3. Modifica del mercato e sua capillarizzazione con intervento e monopolizzazione nella sua gestione della malavita organizzata: sostanza più tagliata, comparsa della brown. Consumo diffuso nelle classi più svantaggiate, dalla piccola borghesia, al proletariato e sottoproletariato ai quartieri ghetto, estensione del mercato alla provincia. Impennata di overdose\sbalzi di qualità della merce da una piazza all’altra. Minori strumenti culturali, dei singoli, per gestire il rapporto con le sostanze. 4. Anni 80: dal “rifiuto del lavoro” alla precarizzazione del lavoro, da uso autoescludente- alternativo ad uso inclusivo; comparsa dell’epatite C, poi HIV, crollo dei progetti di gruppo, fine delle comuni. Le “riserve dei centri sociali” e il ritiro in un isolamento privato, che amplifica la drammatizzazione del conflitto di genere. Isolamento nella coppia in crisi. Progressivo passaggio dall’ero alla coca, alle “nuove sostanze”. Le istituzioni In questo contesto, nonostante la legge 685 fosse del ‘75, praticamente nessuna realtà locale aveva attivato i Servizi; le Amministrazioni più virtuose avevano attivato gli CMAS, ma più come uffici burocratici che come servizi alla popolazione. La frammentaria nascita dei primi Servizi risale al ‘78, con caratteristiche affatto omogenee nelle diverse realtà. l ute Sa e 88 Territorio Nonostante la 685 definisse con chiarezza compiti istituzionali, organici dei servizi e modalità operative, i servizi nascono da spinte individuali, più legate ai contesti locali-socioculturali dei diversi ambienti, dalla volontà soggettiva di singoli volontari pubblici o privati, non programmati sulla base di una lettura epidemiologica dei fenomeni e senza una omogeneità scientifica o culturale. In alcune realtà all’interno delle istituzioni (Torino, Genova, Firenze) in altre connesse alla realtà dei centri sociali (Milano) in altre (nell’ambito del volontariato cattolico o laico (Roma, Veneto), o anche, “per strada” (Napoli). Le Università sono totalmente assenti, sia operativamente che culturalmente; il testo di psichiatria del prof Torre (Università di Torino) fine anni 70, affrontava droghe illegali ed alcolismo in una sola pagina e proponeva, come unico intervento risolutivo, “la distruzione delle coltivazioni di oppio e cocaina e lo sradicamento delle vigne”! Più tardi l’Università delegò ai farmacologi (Gessa a Cagliari e Mannaioni a Firenze) che, sposando le teorie americane di Dole, impostavano la lettura del problema e le conseguenti proposte di cura derivandole dai loro studi in laboratorio, su cavie e topolini. I medici, anche quelli progressisti e laici,per lo più non connettevano l’uso di sostanze con la ricerca del piacere, non pensarono ad usare, “ab inizio”, i sostitutivi: la morfina era “il male”, bisognava guarire, disintossicare. Il mito era il drugs free, nonostan- I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 te in altri campi, vedi l’alcolismo, il concetto di scalare, per evitare il “Tremens” da astinenza, era un abitudine storica ed esisteva già il Fyseptone fiale, usato però solo da anestesisti e oncologi (poco) in base al concetto che “il dolore va affrontato”. Fino all’estate ’78 i punti di riferimento per chi era stato “uncinato” dalle sostanze, erano differenziati a seconda dello status sociale: a) per i ragazzi “bene”; cliniche di lusso, psicanalisti e medici privati, o viaggi in India a cercare il Buddha; b) per le classi medie/proletariato: cliniche convenzionate, medici volonterosi che prescrivevano gratis l’eptadone fiale o con un approccio cattolico del tipo “aiutare gli ultimi” o per venire incontro ai “compagni che sbagliano”; c) per il sottoproletariato, il cosiddetto “sbattimento”: la “rivoluzione” nelle regole della piccola delinquenza di quartiere, le rapine nelle farmacie, la “cura” del carcere. Per tutti, finchè funziona, c’è il piccolo spaccio, le autoradio, i furti in casa, la prostituzione – maschile e femminile. Szasz ’74 e La droga demistificata (rapporto Unesco, Helen Nowlis ’75). I testi italiani a disposizione erano pochissimi; Cancrini, Droga che fare, V. Andreoli, Il ciclo della droga, ’78; Eroina di G. Blunir ’76. Solo diversi anni dopo comparvero, nell’’80, La droga fra noi di G. Berlinguer, nell’82 Quei temerari sulle macchine volanti di L. Cancrini e Le destin du toxicomane di C. Olievenstein nell’83. Riviste come Ombre Rosse, Quaderni Piacentini, Aut aut, Re Nudo, con un approccio socio politico con taglio più raffinato o più rozzo oscillavano tra “la droga come strumento della CIA per distruggere i movimenti” (sic!), alla “droga, come libera scelta alternativa da non controllare”; gli operatori attaccati “da sinistra” come servi delle istituzioni” e “da destra” come spacciatori di Stato, in quanto sostenevamo l’uso mirato, anche, dei sostitutivi. La prima rivista scientifica, che, fin dai primi anni 80, aprì un lungo, articolato, dibattito, fu Sapere, vicina a Medicina democratica, finché durò la gestione di G. Maccacaro. Con un taglio più attento ai problemi istituzionali, fu Salute e Territorio, diretto da M. Crocellà, periodico della Regione Toscana, che divenne una sorta di referente del neonato CNOT Coordinamento spontaneo tra gli operatori delle TD, nato a Firenze alla fine del 79, con l’intento di costruire un ambito di confronto interprofessionale, a carattere nazionale. Le iniziative di prevenzione oscillavano tra continue richieste, da parte delle scuole, La nascita dei Servizi In alcune realtà è la Magistratura che solleva il problema: in base dell’art. 10 della 685 era tenuta a disporre il ricovero in Ospedale di chi, detentore della “modica quantità”, aleatoriamente interpretata, evitava il carcere ma, se non accettava trattamenti alternativi,il magistrato era tenuto a disporrne ricovero in Ospedale. Però, gli Ospedali non ricove- ravano e le strutture per la presa in carico non esistevano. A Torino la Magistratura denunciò Regione e Comune per inosservanza della legge. Nell’estate ’78, il repentino Decreto Anselmi, motivando il provvedimento col crescere di un “mercato grigio” di morfina e metadone, vieta la prescrizione del sostitutivo e della morfina, se non agli Ospedali autorizzati dalla Regione; ma non ce n’erano. Da un giorno all’altro nelle città si trovano di colpo privati del trattamento sostitutivo, centinaia di ragazzi caratterizzati da un uso più compulsivo delle sostanze fuorilegge. In primis, eroina. In alcune città – fra queste Firenze, Torino, Genova, istituzionalmente; in altro modo, più legato al volontariato di vario tipo, Roma e Milano – si approntano interventi tampone urgenti. Si attivano operatori, giovani, quasi sempre con un retroterra culturale cattolico e/o legato alla “sinistra extraparlamentare”. I “baroni” della medicina, ospedalieri ed universitari, continuavano, tranne rarissime eccezioni, a guardare al “drogato” più come un “vizioso” che non come un” malato”. Fu una fase pionieristica: si trattava di affrontare una situazione, almeno in Italia, poco studiata, con una bibliografia internazionale scarsa, quasi tutta statunitense, caratterizzata da un forte riduzionismo organicista (Dole e La fame di eroina, la teoria della saturazione dei recettori), tranne Il gioco proibito di Bian Inglis ’75, Il mito della droga di Thomas N. 167 - 2008 di esperti per far lezione “contro le droghe” dimenticando appunto Berkeley e l’urlo:” non fidatevi di nessuno con più di 34 anni” e i “Generali” che, in un periodo in cui i giovani sul chiodo, nero, portavano un evidentissimo teschio bianco, si inventarono una campagna basata su grandi manifesti neri in cui capeggiava un enorme teschio e la scritta “la droga uccide… lentamente”. Si arrivò alla campagna ministeriale “la droga ti spegne” mentre i giovani erano spenti da mancanze di prospettive, da una scuola vetusta, dal precariato sempre più imperante. Con fatica si convinsero i Ministeri ed i Provveditorati a sostituire le estemporanee lezioni a scuola con corsi di formazione regolari per insegnanti e presidi. Lo CNOT, inizialmente, vedeva coinvolti (volontaristicamente) i responsabili dei servizi di poche città – Firenze, Torino, Milano, Genova,Perugia, Roma, Napoli, Bari – ma la solitudine istituzionale, le scarse possibilità di confronto scientifico, culturale e politico, portò il neonato Coordinamento ad essere un punto di riferimento fondamentale che univa operatori pubblici e del privato sociale del neonato CNCA (Coordinamento nazionale comunità di assistenza), riuscendo ad essere riconosciuto come primo interlocutore dalle istituzioni: dal Ministero dell’interno che in allora era il titolare della responsabilità,al Ministero della sanità, alle Amministrazioni regionali e locali, fino alla collaborazione con istituti di ricerca quali il Censis, I Servizi per le dipendenze patologiche il Labos, l’Istituto superiore di sanità, il CNR ed l’Istituto Mario Negri. Veniva riconosciuta una expertise, teorico pratica, maturata sul campo, in una dialettica continua tra gli strumenti teorici, che andavano affinandosi, ed una dialettica costante con gli utenti,spesso portatori, oltre che “del problema”, anche di possibili percorsi di cura, sperimentati sulla loro pelle (vedi la vasta pubblicistica prodotta dal CNOT e dal CNCA). Aspri e approfonditi dibattiti giunsero alla definizione di linee comuni, per riuscire a tradurre le domande, spesso stereotipate, ma che nascondevano bisogni impliciti e, spesso, contradditori, molto caratterizzati dai diversi contesti e dalle mille storie individuali: non esisteva “il tossico”, ma soggetti che, in un contesto di più generale massificazione dei consumi, usavano, abusavano di sostanze con modalità assolutamente individuali. Fu fin da subito evidente che non esisteva una unica eziologia bio, o psico, o socio che spiegasse “la causa”, né una unica modalità statica di rapporto con le sostanze. Si intrecciavano, nei gruppi e nello stesso individuo, modalità diverse, plastiche, mutanti e variegate di rapporto con le diverse sostanze, legali ed illegali. Uso, abuso,dipendenza, coinvolgimento monomaniaco; dipendevano da diversi elementi sinergici, interni al soggetto, di interazioni con le relazioni famigliari, col gruppo dei pari, con il mercato, con la reazione sociale. Certo apparivano tutti, chi più chi meno, fortemente disturbati, gravemente patologici, ma, come scrisse nel ‘80 P. Cohen, sociologo e responsabile dei Servizi di Amsterdam: “Considerare la tossicodipendenza/tossicomania come portato di una fragilità del sé, costituisce una rozza ‘falsificazione retrospettiva’, in quando scambia per patogenesi quello che invece è un portato delle condizioni, culturali, psichiche e sociali in cui la marginalizzazione del mercato nero costringe il consumatore”. Sarebbe come sostenere che la passività, l’apatia, la depersonalizzazione che ormai tutti gli studi riscontrano in chi è stato detenuto per più di 7 anni (5 negli USA), non sia una sequela delle condizioni di vita del carcere ma un “vulnus” pregresso del soggetto, anzi, causa della sua condizione di carcerato. Anche la recente epidemiologia psichiatria ha strettamente connesso l’evoluzione delle singole psicopatologie, la loro espressività, il loro stesso esito, alla situazione, socioculturale e trattamentale, tanto da far scrivere a diversi autori (Bleuler, Wing, Ernst, Ciompi, Borgna) che, persino per la schizofrenia, la cronicità sia più un portato di errori iatrogeni, di reazioni sociali, che non un destino determinato dalla psicopatologia in sé. Si vedano tra l’altro gli studi di Spek ed Atthenaie sulla incidenza e prevalenza della schizofrenia in diverse coorti di popolazioni: a fronte di una sovrapponibile incidenza nei diversi contesti, la prevalenza sale esponenzialmente col crescere dello sviluppo societario. Mi- Sae l ute Territorio 89 nima nei contesti “primitivi” massima in società complesse, anomiche e solipsistiche quali ad es. New York. Nella stessa considerazione andrebbero presi gli studi epidemiologici USA, ma anche italiani, in cui tutte le malattie, l’incidenza e soprattutto la prevalenza e la mortalità sono direttamente correlate allo status sociale dei quartieri di residenza (G. Costa). Abbiamo visto che il cambio di ambito di cura, dal manicomio al territorio, se, ovviamente non ha influito sull’emergere del disturbo psichico, ne ha modificato l’espressività sindromica, fino a richiedere una nuova psicopatologia. Sulla base di queste evidenze scientifiche, nel dialogo costante e nell’ascolto rispettoso di quanto portavano gli utenti, si giunse a definire alcuni punti fermi. 1. Primo compito di un Servizio pubblico, non selezionare l’utenza, privilegiando innanzitutto il “proteggere” dalla violenza addizionale, che la condizione di illegalità e delle leggi feroci del mercato nero inducono: prostituzione, malattie veneree, epatite C, HIV, carcere, disoccupazione. Che senso ha “salvarne” alcuni, quelli più motivati, lasciando gli altri all’arena della strada? Sappiamo quante sono le”guarigioni spontanee”, sia nell’alcolismo che nelle dipendenze; non viene in mente che i nostri successi potrebbero essere tra quelli che comunque ce l’avrebbero fatta da soli? 2. Conseguente attenzione a decodificare la domanda, l ute Sa e 90 Territorio I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 utilizzando anche i sostitutivi come momento di aggancio, non demonizzandone alcuni e santificandone altri, ma potendoli scegliere, senza veti, in base alle caratteristiche del soggetto, del suo contesto, del suo precipuo rapporto con le sostanze; non usandoli come succedaneo da spendersi sul mercato grigio,solo perchè i Servizi non sono in grado di porre alle Amministrazioni il problema della miseria reale. 3. Il sostitutivo come una delle risposte,non sempre utile, non solo scalare o solo mantenimento, ai dosaggi minimi necessari,articolando l’offerta del Servizio, psicoterapico, relazionale, semiredisenziale; diversi tipi di residenzialità – non esiste, in assoluto, la comunità buona e quella non buona – di supporto sociale; , non assistenzialistico, per progetti che minimizzino l’esclusione e stimolino i processi inclusivi. 4. Estrema attenzione alla accessibilità dei Servizi, sia nel senso di allocazione e di dignità degli spazi, sia di accoglienza pronta ed elastica,di setting soli. Non in spazi ghettizzati e separati, per non creare la barriera cronici/curabili. 5. Non Servizi “specializzati“ e totalizzanti ma integrati nella rete dei Servizi “normali” psichiatrici, sociali, medico-specialistici, del privato sociale, onde, con la continua collaborazione, demistificare i preconcetti rigidi sulla nostra utenza. L’ideologizzazione del confronto Scotomizzazione,-riduzionismo- negazione Nei primi anni 80 “il vento comincia a cambiare”. Anche a causa di una certa rigidità di molti Servizi che, più che considerare le famiglie come parte del dramma, finivano per colpevolizzarle, ponendosi come difensori degli utenti dalla “famiglia che uccide”, parte un attacco forte al sistema Servizi. Ricordo l’articolo di Natalia Aspesi su “La Repubblica”, dicembre 81, ispirato alle tesi della LENAD, neonata associazione di genitori che chiedeva il ricovero coatto, accusava i Servizi di essere “spacciatori di metadone” e affermava che l’unica soluzione erano Comunità alla S. Patrignano. Le alleanze politiche furono ampie, dal Partito socialista a settori del PCI, fino al MSI, passando per il Partito repubblicano; la chiesa “ufficiale” col CEIS proponeva le sue rigide comunità neo-cognitiviste, in aperto contrasto con le Comunità di accoglienza e di vita di don Gallo, Don Ciotti e di altri “sacerdoti scalzi”. I Servizi passavano dai Comuni alle USL, ed erano diretti quasi sempre da ex dirigenti dell’INAM che portarono una forte spinta alla burocratizzazine e medicalizzazione del problema: anche quelli più intelligenti ed in buona fede facevano fatica a comprendere le specificità dei bisogni dei nostri utenti, che portavano disordine e scompiglio. Bisognava normalizzarli ed i Servizi dovevano divenir più simili ad un ambulatorio dia- anche corporativa: SIDT E FEDERSERD. Essendo le professioni forti presenti, medici e psicologi, con spruzzate di psichiatri, non pare strano che assumano il paradigma organicistico “ malattia cronica recidivante” con annessa psicopatologizzazione dell’utente. Ma i Ser.T, non hanno alle spalle una epistemologia forte come la Psichiatria, non hanno strumenti di intervento come i TSO, non hanno Ospedali di appoggio. Eccoli allora bussare alla Psichiatria che, oberata e sofferente anche lei, comincia il ping pong “il paziente è tuo, è mio”; la mediazione è la doppia diagnosi. Un assurdo semantico e scientifico: se diagnosi etimologicamente significa “attraversamento della conoscenza” per ricercare un senso condiviso nel percorso in divenire di un soggetto e delle sue modalità esistenziali e relazionali, come è possibile una “doppia storia”? È più facile che lo sdoppiamento dell’espressività sintomatica sia frutto di una diplopia istituzionale. Si è mai parlato di doppia diagnosi per gli alcolisti? Certo la doppia diagnosi è incrementata dal nosografismo imperate, un nosografismo statico che pretende di cogliere l’essere e l’esserci di un soggetto con un fermo immagine su uno spezzone di una pellicola, rinunciando a considerare il messaggio complessivo di un film dai titoli di testa a quelli di coda. betologico, incrociato con un Centro prelievi. Il DM Craxi, separando nettamente competenze e finanziamenti, tra sanità ed assistenza implementò la scissione tra bisogni complessivi dell’utenza e possibilità di risposte articolate e non settoriali dei Servizi. L’intreccio di questi elementi, il clima di restaurazione che si configurò anche in varie proposte di legge di “revisione” della 180, il quadro internazionale – Reagan, Thatcher, – il rampantismo e l’efficientismo produttivo, la diversità sempre più criminalizzata, condussero, dopo il viaggio “americano” di Craxi all’assunzione della “tolleranza zero”; produssero la 162 che reimplementò la criminalizzazione dei consumi, potenziando nel contempo i Servizi che, rimpolpati di strumenti ed operatori, medicalizzati, diventarono Ser.T (Servizi per le tossico-dipendenze), accettando lo pseudo obiettivo della “guarigione” ma divenendo sempre più il braccio (pseudo)scientifico della legge. La situazione peggiora ancora con la 309, che pare “comprare” i servizi con fondi specifici, facendoli diventare spesso i passacarte delle Comunità che potevano certificare e sceglier progetti che i Servizi “timbravano” e alle quali, nei fatti, veniva vieppiù delegata la gestione dello “scarto”. Viene il sospetto che, accerchiati dalle accuse di essere solo spacciatori di Stato, non vedendo riconosciuta la propria professionalità, gli operatori costituiscano 2 “Comunità” scientifiche”, “specialistiche” come difesa – (segue a pag. 102) N. 167 - 2008 Mauro Croce Gianpaolo Di Loreto* Psicologo, Criminologo, Verbania, Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana, Lugano CH * Criminologo, Terni L’ opera di Foucault evidenzia come sia stato necessario introdurre un dispositivo disciplinante ed eticizzante per stigmatizzare la perdizione morale del vagabondaggio, del crimine, della devianza e del disordine sociale in genere al fine di produrre e mantenere quell’ordine costante e routinario funzionale al binomio moralità-produzione indispensabile all’affermazione della borghesia ed al successivo espandersi dell’accumulazione del capitale. Tutto ciò ha implicato non solo processi di sorveglianza e controllo, ma anche una conseguente ed attiva “costruzione” delle soggettività degli individui coinvolti nel – o forse sarebbe meglio dire “catturati dal” – meccanismo stesso. Ora i processi e le strategie tendenti a regolare, organizzare e monitorare il comportamento umano sembrano muoversi su registri diversi. Da una parte il controllo non è più solo il portato diretto di una sorveglianza occhiuta ed invasiva, ma la conseguenza dell’espressione di volontà del potenziale fruitore di certi benefici o servizi a determinate condizioni e della scia di dati che lascia nelle varie reti. In altre parole, interessa meno il soggetto disciplinato lavora- I Servizi per le dipendenze patologiche Sae l ute Territorio 91 Dalla disciplina alla tolleranza zero tore quanto cogliere e monitorare il cambiamento dei bisogni, dei consumi, degli interessi. (Lianos e Douglas, 2000; Lianos, 2003; Lyon, 2002). Ma anche là dove la sorveglianza sembra comunque occhiuta, come negli spazi urbani videosorvegliati, pare difficoltoso configurare quel connubio assoggettamento morale-induzione comportamentale, vuoi per la struttura e complessità degli spazi urbani stessi, vuoi per la molteplicità delle interazioni e dei percorsi psicosociali in cui sono impegnati i suoi occupanti (Koskela, 2003; Yar, 2003). “Non è questione di socializzare e disciplinare il soggetto ‘ab initio’. Non è questione di istituire un regime nel quale ciascuna persona è permanentemente sotto lo sguardo alieno dell’occhio del potere che esercita sorveglianza individualizzata. Non è questione di istruire e normalizzare l’offendere ‘ex post facto’. La condotta è continuamente monitorata e ridefinita da logiche immanenti all’interno di reti di pratica. La sorveglianza è configurata dal flusso dell’esistenza quotidiana. In questi circuiti di inclusione, la modulazione calcolata della condotta conforme ai principi di ottimizzazione degli impulsi La tendenza dei Servizi al trattamento prevalentemente di tipo medico benigni e minimizzazione di quelli maligni, è dispersa attraverso lo spazio ed il tempo della vita ordinaria” (Rose, 2000, p. 325). Si pensi poi alla trasformazione dei centri urbani da luoghi di socializzazione a luoghi di mero consumo del tutto affini a spazi privati, ridisegnati per il business, il commercio ed il tempo libero, nei quali appare essenziale diminuire i rischi ed aumentare il senso di sicurezza per quei frequentatori “desiderabili”, concretizzando però al tempo stesso un impulso rigorosamente escludente verso tutto ciò che possa essere considerato come fonte di “sporcizia”, di “fastidio”, di “disordine urbano” o sia tradito da abitudini comportamentali ed aspetto esteriore non omologati al cliché: non solo tossicomani e prostitute, ma anche marginali, appartenenti a minoranze ed etnie non troppo gradite, o gruppi di giovani disturbanti per la loro mera presenza, tanto più se non consumano le merci prescritte. Per questi esistono “altri luoghi”, sono i drop-in, sono i tossic-park, ma soprat- tutto è la “tolleranza zero”. Un modello di facile appeal il cui assioma decreta come il degrado urbano e le inciviltà siano dei propellenti diretti e lineari per lo sviluppo e l’affermazione della grande criminalità e l’uso di sostanze psicotrope sia di per sé atto non solo moralmente ripugnante e criminalmente pregnante ma vada sradicato fin dalla sue prime ed “apparentemente innocue” manifestazioni che sono l’anticamera per tutto ciò che di indesiderabile si possa pensare. In questa chiave, la spasmodica ricerca del consenso del cittadino medio e dei suoi modelli di morale, decoro e ordine, ormai considerati moneta elettorale sonante hanno la loro soddisfazione e risposta. Ma quali sono i risultati di questa “politica” auspicata, propagandata, promessa (o minacciata) e comunque presentata come “l’unica soluzione” a più problemi, a più minacce? Che ne è stato di questa “forma di pulizia” dei (e dai) disorderly people (i vari indesiderabili) laddove è stata applicata con grande dispiego di l ute Sa e 92 Territorio I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 mezzi ed ostentazione di risultati attraverso strategie speculative di dubbia scientificità? Il risultato sembra essere paradossale: i vari “indesiderabili”, non solo non sarebbero stati “sradicati” ma addirittura “creati” dal processo messo in atto dalla “tolleranza zero” “non tanto attraverso l’attribuzione all’individuo di un qualche precedente, e non tanto condannandolo. Essa crea il soggetto attraverso la trasformazione dell’individuo in qualcuno che può essere oggetto di attenzione poliziesca, sorvegliato, osservato, individuato, controllato” (Hancourt, cit., pp. 364-5, Wacquant, 2000). L’affermazione della “tolleranza zero” rappresenta tuttavia una delle manifestazioni di un mutamento culturale e scientifico (oltreché politico) sempre più incline allo sviluppo ed all’affermazione di un approccio preventivo al crimine e alla devianza teso ad operare essenzialmente in due direzioni. Da una parte, verso quelle modifiche dell’ambiente fisico – soprattutto urbano – di quelle condizioni cosiddette “oggettive”, volte a rendere più difficile l’esecuzione dei reati stessi quali la presenza costante sul territorio di apparati o persone in grado di impedire il compimento del delitto e gli stili di vita personali collegabili al concreto rischio di vittimizzazione. Dall’altra ponendo l’attenzione sulle “categorie” più che sui “soggetti”. Più su “cosa si è” piuttosto che “cosa si fa”: a discapito di una attenzione alle caratteristiche dei soggetti stessi, delle loro storie di vita, dei contesti a cui appartengono e delle disugualianze sociali che possono avere sperimentato. E non è un caso che le tendenze nel crime control e nel contrasto alla devianza degli ultimi trenta anni abbiano via via spostato l’attenzione dalle caratteristiche cliniche e sociali dell’autore del delitto (che interessano sempre meno quanto più quest’ultimo viene considerato razionale e calcolatore) alle concrete modalità di commissione dei reati, e alle situazioni ed al contesto fisico ove il reato viene perpetrato. Così come non è casuale l’emersione di un approccio preventivo definito attuariale, volto ad operare su una base quantitativa e probabilistica e tendente al controllo della devianza tramite una valutazione anticipata del rischio della stessa, rinvenibile sia nelle specifiche caratteristiche individuali del singolo soggetto, quanto in quelle generali della classe o del gruppo di cui fa parte, secondo un criterio preventivo, astratto e statistico che non ha più alcun bisogno di presentare una finalità trattamentale o risocializzante. Ecco così che il potere disciplinare sembra essere sostituito da un modello di regolazione più spietato, che si riferisce agli individui solo nei termini della valutazione del rischio che essi possono costituire, o del fastidio che possono produrre, all’interno di spazi “normalizzati” secondo ben precise modalità di utilizzo. Tutto ciò ci pone di fronte ad uno scenario tardo-moderno per molti versi frastagliato che vede forme di controllo sociale agenti in modo fluido, adattabile e diversificato. Un questionario compilato, ricordando come una corretta diagnosi sia il primo passo per la cura e il trattamento del disordine bipolare. Come commentare questa pubblicità? Certamente può essere vista come uno strumento per sensibilizzare ed aiutare le persone a riconoscere i propri problemi di salute e chiedere aiuto. Ma potrebbe anche essere un ottimo esempio di ciò che viene definito come disease mongering: ovvero la strategia utilizzata dall’Industria farmaceutica per incrementare gli utili attraverso una serie di specifiche azioni. Ad esempio indirizzare l’attenzione clinica e di ricerca su patologie croniche e di forte diffusione (con buona pace delle persone affette da malattie rare il cui scarso “poco mercato” non merita grandi attenzioni ed investimenti sul piano della ricerca), abbassando i livelli-soglia di rischio, ma alzando quelli di redditività di farmaci che non devono essere somministrati ai fini della guarigione, ma per mantenere gli assuntori “sotto cura e sotto controllo” praticamente per tutta la vita. Non è però sufficiente abbassare le soglie di rischio. Ecco che allora ciò che sino a qualche anno fa era considerato normale ora viene considerato patologico, e pertanto vengono individuate “nuove malattie”. La lista è lunghissima, sino a contemplare “la sindrome delle gambe irrequiete”, sindrome che necessita prima di essere “scoperta”, quindi di essere combattuta tramite l’individuazione un farmaco “ad hoc” ed infine, inevitabil- controllo che, se non va troppo per il sottile con i devianti indesiderati (od indesiderabili) per i quali forse non vale la pena indugiare in strategie più raffinate dell’individuazione, della valutazione del rischio prodotto e dell’esclusione, si presenta in forma diversa utilizzando per i soggetti maggiormente “inclusi”, come si vedrà oltre, strategie suadenti o striscianti all’interno di analisi e risposte su un piano riduzionista che si declina prevalentemente secondo una prospettiva biologico-individuale, riconducendo cioè l’essere umano ad una “semplice questione somatica”. Da devianti a malati Uno spot televisivo presenta una scena a notte fonda con una donna che danza commentata da una voce in sottofondo: “Probabilmente il tuo medico non ti ha mai vista quando ti senti così”. L’inquadratura si sposta quindi su una persona depressa con un commento fuoricampo: “Questo è cosa vede il tuo medico abitualmente”. Nuova scena: la donna ora fa shopping e nuovo commento: “Ecco perché tante persone con disordini bipolari trattate per la depressione non si sentono meglio, perché la depressione è solo la metà della storia”. Gli spettatori a questo punto sono invitati a collegarsi ad un sito sponsorizzato da una nota casa farmaceutica che contiene un questionario di autovalutazione, la presentazione di storie cliniche, l’invito ad approfondire il problema ed a trovare supporto. Lo spot incoraggia quindi a presentare al proprio medico il N. 167 - 2008 mente, richiede di trovare “pazienti” affetti da tale sindrome. Non è un caso considerare poi come gli investimenti in marketing da parte delle Aziende farmaceutiche si rivelino di molto superiori a quelli in ricerca (Angeli, 2004). Come commentare poi la recente notizia di una ricerca che dimostrerebbe come, un farmaco come il Prozac, non risulterebbe efficace nei casi di depressione lieve, dopo anni di ricerche e campagne che ne evidenziavano l’efficacia? Certo che la concomitanza della scadenza del brevetto della molecola appare sospetta e non ci sarebbe da stupirsi se arrivassero tra poco in commercio nuovi farmaci più efficaci della precedente molecola naturalmente con un nuovo brevetto. Fatto sta che, leggendo come patologiche numerose manifestazioni della vita normale, si incentiva un senso di inadeguatezza, di timore di malattia e di minaccia costanti la cui soluzione non può che essere quella del ricorso alla Medicina. Anche certi comportamenti e scelte (o forse non scelte…) soggettive ben si prestano a suscitare un certo interesse da parte della Medicina e delle Aziende farmaceutiche: eccessi o inibizioni sul piano sessuale; troppo impegno nel lavoro (workaddiction) o poco (Sindrome demotivazionale? Depressione? Sindrome della fatica cronica?); dipendenza da Internet, da gioco d’azzardo, da relazioni, affetti, sesso, da acquisti ed anche da sport diventano sempre più punto di osservazione, di studio, di interesse da parte della Medici- I Servizi per le dipendenze patologiche na. Ecco quindi la scoperta di “nuove patologie” – e nello specifico di “nuove sindromi da addiction” – sempre più consone ad inglobare, in una retorica di “malattia”, momenti ed eccessi tipici della vita di ognuno di noi anche grazie all’azione di quelli che Becker (Becker, 1987) definiva come “imprenditori morali”. Si pensi ad esempio a come un’organizzazione inglese – Action on Addiction – ci renda consapevoli e preoccupati del fatto che «quasi tutti hanno sperimentato una qualche forma di dipendenza (…) e un adulto su tre soffre di una qualche variante» mentre test e questionari sono a disposizione anche nel web per verificare se si è “normali” “problematici” o “patologici”. L’operazione è semplice. Il primo passo sta nel creare un allarme sociale ed una preoccupazione individuale (nuove malattie, nuove sindromi di cui ognuno potenzialmente è a rischio); in secondo luogo, ci si appropria di questo campo (questi comportamenti sono individuati, spiegati e di dominio della medicina), in terzo luogo vengono catalogati (inserimento nei manuali diagnostici) e finalmente giunge la rassicurazione che sono in corso ricerche, sono o saranno a disposizione farmaci, linee guida. Ciò non significa che tali problemi non esistano, non debbano creare preoccupazione e non debbano essere compresi. Tuttavia queste condotte con le indiscutibili derive problematiche che talvolta presentano e che non possono che interrogare – e con inquietudine – il no- stro vivere sociale sempre più sono spiegati all’interno di un quadro in chiave prevalentemente di tipo biologicoindividuale e riduzionista. Del resto, da tempo la tossicodipendenza è ormai stata rubricata come eroinopatia con un crescere di ricerche sulle spiegazioni di ordine biologico e sulle – ovvie – soluzioni di ordine farmacologico. Ed anche i luoghi della cura del tossicomane non potevano non trasformarsi. I “tossici”, i “ragazzi”; gli “utenti”, i “clienti”, ora sono “i pazienti” ed i Servizi deputati alla loro cura sono sempre più luoghi ove il modello medico ha il sopravvento o l’ultima parola. Le Comunità stesse da luoghi di condivisione, di “rinascita” di “apprendimento di regole di vita, di valori” sempre più sono “di doppia diagnosi”. Da luoghi ove si riapprendeva il contatto con sé, con la natura, con il lavoro, con gli altri, con la regola (intesa anche nel senso monacale della divisione ordinata del tempo quale contrapposizione al tempo “spezzato ed indifferenziato” per il tossicodipendente) sembrano avere ora avere ceduto il passo a luoghi dove non sono più il gruppo, l’altro, la relazione che rappresentano il perno dell’intervento spingendoti a fare i conti con le tue inadeguatezze, con le tue fatiche. Ora queste sono “lette”, “interpretate” e “risolte” dallo psichiatra “consulente” a cui competerà la diagnosi ed il farmaco appropriato per il disturbo: termine dal doppio inquietante significato. Certamente l’appropriazione da Sae l ute Territorio 93 parte della Medicina dei comportamenti devianti, disturbanti, diversi non è nuova. Essi sono stati nel passato dominio della Chiesa (è peccato); quindi del Diritto (è reato) per diventare gradualmente dominio della Medicina (è malattia). Già nel 1961 Rieff infatti osservava come l’Ospedale stesse prendendo il posto della Chiesa e del Parlamento come istituzione archetipa della cultura occidentale. Tutto ciò comporta che “dal momento che il medico è convinto d agire per il bene del suo cliente, egli parte dal presupposto che sia meglio diagnosticare una malattia piuttosto che negarla, rischiando di sottovalutarla o di non individuarla”. In questo senso la Medicina è diversa dalla legge la quale presume sia meglio lasciare libero un colpevole che condannare un innocente (Scheff, 1974). Ad essa – aggiungiamo noi – viene poi lasciato un nuovo e grande “spazio di manovra e di giurisdizione”: quello di appropriarsi di “indizi” di rischi potenziali che vanno appunto pre-venuti prima che diventino distruttivi. Tale operazione è ancora più subdola in quanto non si presenta come dettata da concetti morali, da desideri di stigmatizzazione o di controllo sociale, anzi: “Una volta rimosse etichette come crimine e peccato, ciò che viene fatto al deviante è per il suo bene, per aiutarlo invece che punirlo, anche se il trattamento può, in alcune circostanze, rappresentare una pratica restrittiva. Le opinioni del deviante non vengono tenute in considerazione perché egli è l ute Sa e 94 Territorio I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 considerato un profano inesperto, privo della conoscenza specializzata o del distacco che gli darebbero il diritto di fare sentire la sua voce” (Freidson 2002, p. 45). Tuttavia va riflettuto sul fatto che per J.R. Pitts (1968, p. 391) “l’annullamento della devianza avrebbe come conseguenza l’annullamento dei diritti politici del deviante.” D’altro canto uno studioso come Jellinek, pioniere negli studi sull’alcolismo e noto per la curva di Jellinek come descrizione della carriera dell’alcolista, osserva come nonostante non si sia riusciti ad individuare le cause e la possibile cura dell’alcolismo – se si tratti di un unico fattore o di parecchi con cause diverse – nondimeno esso non viene considerato come malattia: essendo una malattia ciò che la professione medica riconosce come tale. Sarebbe ingenuo però pensare che la diffusione della medicalizzazione, anche di quella della devianza, sia rimasta ancorata ad un mero presupposto disciplinare ed organizzativo. Prova ne è che sul versante collettivo vi è ormai la stabile acquisizione che il processo di medicalizzazione della vita (ben prima che della devianza!) sia un processo necessario ed ineluttabile attraverso l’elogio del cittadino sano, previdente ed attento alla propria salute ed ai rischi getti da controllare: su alcuni di essi può essere più efficace medicalizzare e “trattare”, oppure indurre e stimolare; su altri rimane preferibile valutare il rischio ed escludere. In altre parole, ciò che sembra stia avvenendo per “gli inclusi “non è tanto un focalizzarsi su pratiche costrittive, né su espressioni e comportamenti oppressivi, ma nell’organizzazione e nella contestualizzazione di ciò che è spesso progettato o addirittura desiderato da un libero soggetto: nell’indicargli modelli di vita, di consumo, di prestazione. Salvo poi ritenerlo malato se “non riesce a controllarsi” nei consumi e negli eccessi. 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Sembrerebbe pertanto configurarsi uno scenario tardo-moderno nel quale il biopotere sa muoversi ed agire in modo fluido ed adattabile, utilizzando strumenti diversi in base alle diverse caratteristiche dei sog- Lianos M. (2003), Social control after Foucault, Surveillance & Society, 1 (3), pp. 412-30; http://www.surveillance-and-society.org Lianos M., Douglas M. (2000), Dangerization and the end of deviance. The institutional environment, British Journal of Criminology, vol. 40, pp. 261-78. Lyon D. (2002), La società sorvegliata, Feltrinelli, Milano. Pitts J.R. (1968), Social Control: The concept, International Enciclopedia of the Social Sciences, vol. XIV, The Macmillian Company and the Free Press, New York. Rieff P. (1961), Freud: the Mind of the Moralist, Doubleday and Co., Garden City. Rose N. (2000), Government and control, British Journal of Criminology, vol. 40, pp. 321-39. Scheff T.J. (1974), Per infermità mentale, Feltrinelli, Milano. Wacquant L. 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N. 167 - 2008 Giorgio Bignami Già ricercatore presso l’Istituto superiore di sanità, Roma L unga e tormentata è la storia dei confronti tra i pericoli creati dai vari tipi di droghe e di farmaci, una storia che non dovrebbe limitarsi agli aspetti medicoscientifici e alle strumentalizzazioni ideologiche e politiche, ma che andrebbe estesa alle analisi condotte dai punti di vista di molte diverse discipline: dalla psicologia alla sociologia, dalla storia delle religioni alla antropologia culturale (per l’importanza delle analisi antropologiche e storico-antropologiche v. per es (1,2), riguardanti le tossicodipendenze soprattutto da oppiacei, e (3) per l’alcolismo). Una tale ampiezza di trattazione ovviamente non è possibile in questa sede, non solo per motivi di spazio, ma anche a causa dei limiti di competenza di chi scrive. Per alcune parti più antiche e ampiamente note di questa storia possono bastare alcuni rapidi cenni. È noto, per esempio, che le due sostanze in assoluto di gran lunga più rischiose sono l’alcol e il fumo di tabacco, sia per la gravità, varietà e frequenza delle patologie che essi provocano, sia per il carattere particolarmente “duro” delle dipendenze che creano: il che rende particolarmente arduo I Servizi per le dipendenze patologiche Sae l ute Territorio 95 La pericolosità di sostanze legali e illegali il percorso dello svezzamento, anche per quei soggetti che ritengono di aver deciso irremovibilmente di smettere di bere e/o di fumare dopo un infarto, un ictus, una grave epatopatia. Così pure è noto come gli interessi economici e politici abbiano contribuito a dilatare e a incancrenire sia il problema dell’alcolismo che quello del tabagismo. Nel caso dell’alcol, le abitudini innocue, o addirittura benefiche – sul piano sia psichico che somatico (soprattutto riguardo al sistema cardiovascolare) – sviluppate nelle diverse culture, cioè l’uso moderato di bevande a tasso alcolico basso o relativamente basso (vino, birra), sono state stravolte dalle strategie dei produttori (soprattutto di superalcolici) e dei beneficiari delle loro elargizioni promozionali; e forse ancor di più dagli interventi politici, come quel proibizionismo negli Stati Uniti che tra l’altro ha dato una spinta decisiva allo sviluppo dell’economia criminale. Per contro non è mai stata negata la patogenicità dell’assunzione eccessiva di alcolici, soprattutto quella di prodotti di bassa qualità (casi limite sono la nostra grappa fatta in casa, ricca di alcol metilico, mentre i vecchi Criminalizzazione, tolleranza, promozione di prodotti e farmaci in contrasto con il rischio d’uso valutato scientificamente americani ricordano il micidiale whisky clandestino Old Tennis Shoe – vecchia scarpa da tennis – termine sarcasticamente derivato dal classico Bourbon Old Tennessee – Vecchio Tennessee); l’alcolismo è stato piuttosto sfruttato per legittimare gli interventi, polizieschi e altri, mirati al controllo di soggetti di basso ceto, spesso etichettati come “classi pericolose”. La storia del fumo di tabacco, anche questo con origini culturali connotate da un uso moderato e selettivo, ha in comune con quella dell’alcol il ruolo dello strapotere economico e politico dei produttori e dei loro beneficiati; e questo, soprattutto dopo il dilagare della più redditizia sigaretta in sostituzione del sigaro, della pipa e del tabacco da annusare o masticare. In luogo dell’impiego come strumento di controllo sociale, che è stato nel caso del tabacco assente o trascurabile, troviamo invece un lungo (pluridecennale) periodo di accanita resistenza dei produttori e dei loro complici – non di rado ricercatori e me- dici al di sopra di ogni sospetto – contro chiunque osasse esibire prove della grave patogenicità del fumo di sigaretta, soprattutto ma non soltanto come causa di cancro polmonare (4). E una volta ridotta e poi cessata questa resistenza, di fronte alle massicce evidenze tardivamente accettate non solo dalla scienza medica, ma anche da parte dei laici e dei politici, la battaglia è continuata su altri fronti: per negare la patogenicità del fumo passivo; per creare la massima dipendenza possibile nel maggior numero possibile di soggetti, a partire da bambini e adolescenti, attraverso l’aggiunta al tabacco delle sigarette di notevoli quantità di nicotina; con messaggi promozionali diretti e soprattutto indiretti e occulti, mirati a neutralizzare gli avvertimenti prescritti dalla normativa, come “Il fumo uccide”; infine con la promozione indiscriminata dei prodotti in quei Paesi meno sviluppati dove i consumi erano relativamente ridotti, ma dove un incremento percentua- l ute Sa e 96 Territorio le pur limitato delle vendite, verificandosi a fronte di un “denominatore” costituito da miliardi di potenziali utenti, rappresenta una sorta di evangelica moltiplicazione dei pani e dei pesci a fronte delle perdite subite nei Paesi sviluppati. Giudizi di pericolosità tra l’800 e il ‘900 Tre esempi ormai storici si possono rapidamente riportare per illustrare come si sono sviluppate, dal tardo ‘800 in poi, le mistificazioni dei giudizi di pericolosità. Il primo riguarda il noto caso del lancio dell’acetilmorfina (eroina) da parte della Bayer nel 1898, come prodotto che avrebbe consentito di massimizzare gli effetti benefici della morfina eliminando quelli malefici, e, in particolare, la creazione di dipendenza (5). Le caratteristiche dell’eroina – oggi, per incidens, rivalutata per alcuni usi medici nei quali si mostra più efficace della morfina – e in particolare la rapida induzione di high dopo somministrazione endovenosa, ne hanno fatto per lungo tempo la droga ideale per gli interessi dell’ economia criminale, soprattutto dopo la fine del proibizionismo negli USA (1). Qui si inserisce la seconda grave mistificazione, avvenuta guarda caso proprio dopo la fine del proibizionismo e con ogni verosimiglianza favorita dagli intrecci tra politica ed economia criminale, intrecci mirati a procurare un “equo indennizzo” per il “danno emergente” e il “lucro cessante” sofferti da Al Capone, Lucky Luciano e altri ca- I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 pi-bastone con il brusco azzeramento dei profitti sugli alcolici clandestini: cioè la classificazione della cannabis da parte delle autorità americane come droga di elevata pericolosità, accompagnata da massicce campagne mediatiche, compresa la collaborazione di Hollywood con film come Reefer madness, letteralmente “follia da canne” (v. più oltre per il recente rilancio della presunta psicopatogenicità della sostanza come pretesto per l’escalation proibizionista). Passati gli anni della seconda guerra mondiale e del dopoguerra, inizia la terza grande offensiva per affermare la pericolosità di droghe relativamente innocue, come la cannabis, sostenendo nel contempo con giudizi di scarsa pericolosità la diffusione di alcuni nuovi tipi di psicofarmaci: cioè sia quelli destinati a sostituire i vecchi (e certamente pericolosi) ipnoticosedativi, soprattutto ma non soltanto barbiturici, sia soprattutto quelli destinati a espandere il nuovo mercato dei “tranquillanti minori” o ansiolitici (6); un’analisi minuziosamente documentata e aggiornata dei mille modi e meccanismi con cui produttori, ricercatori e clinici fanno passare lucciole per lanterne è quella di Bobbio (7), a ogni piè sospinto confermata da specifiche indagini, come quella che aggiorna i dati sui rapporti tra medici e Industria negli Stati Uniti (8)). L’introduzione verso la fine degli anni ‘50 del secolo scorso delle prime benzodiazepine – il clordiazepossido (nome di marchio Librium), poi il e meccanismi dell’enorme aumento delle vendite di psicofarmaci in tempi più recenti, si veda l’analisi dei dati statunitensi per gli anni ‘80 e ‘90 (10)). In Italia, l’aumento cominciò a verificarsi solo qualche anno più tardi, soprattutto a causa della perdurante e redditizia diffusione di pseudofarmaci come i “ricostituenti”, prodotti da aziende locali che avevano all’epoca un forte peso contrattuale economico e politico. Ma essendo anno dopo anno notevolmente cresciuto il potere delle multinazionali rispetto a quello dei produttori nostrani, dopo la promulgazione della legge 1975/685 – cioè quando una applicazione rigorosa di detta legge avrebbe potuto ancora impedire l’escalation dei consumi – le massime autorità sanitarie, contro un documentato parere dell’Istituto superiore di sanità (ISS), decisero di collocare le benzodiazepine tranquillanti-ansioltiche in una categoria che comportava controlli puramente nominali (per un rendiconto con più orribili dettagli sia di questa vicenda che di alcuni suoi strascichi in tempi successivi v. (11, 12)). Così per molti anni non è stato difficile procurarsi i prodotti anche senza ricetta medica, quasi fossero farmaci da banco; mentre molti medici, sotto la triplice pressione dei luminari accademici e ospedalieri, dei promotori aziendali e dei pazienti che rischiavano di perdere in caso di diniego (comparaggio a parte), non hanno esitato a farsi prescrittori à go go, il diazepam (nome di marchio Valium), poi molte altre – è subito seguita dall’emergere di forti evidenze della loro capacità di produrre tolleranza e dipendenza: ed è la diffusione della consapevolezza di questi rischi, quindi la tempestiva adozione di adeguate misure di controllo prima che un gran numero di soggetti siano diventati dipendenti e difficilmente svezzabili, che vanno a tutti i costi impedite. A questi interessanti obiettivi è prevalentemente mirata la Convenzione ONU sulle sostanze stupefacenti e psicotrope varata nel 1961 dalla Conferenza di Vienna (9). Nel 1961 a Vienna, infatti, si scontrarono gli interessi dei Paesi più sviluppati, sedi della maggiori multinazionali farmaceutiche (soprattutto svizzere, statunitensi e britanniche), con quelli dei Paesi meno sviluppati, i maggiori produttori di sostanze naturali. I secondi, naturalmente, ebbero la peggio, e in particolare la cannabis si ritrovò a essere gravemente penalizzata, poco meno delle sostanze più dure come l’amfetamina o l’eroina. Per contro, tutte le benzodiazepine recanti l’ indicazione come tranquillanti-ansiolitici vennero collocate in una delle categorie meno rigorosamente controllate: e così dai primi anni ‘60 i volumi delle vendite al livello mondiale, quindi il numero dei soggetti diventati assuntori cronici, grazie al circolo vizioso tolleranza-dipendenza-difficoltà di svezzamento, aumentarono di parecchi ordini di grandezza (per un’analisi di cause N. 167 - 2008 sistema tra l’altro più “economico” per togliersi dai piedi i postulanti rompiscatole. E in breve volgere di tempo questo concorso di diverse cause ha consentito un aumento di parecchi ordini di grandezza dei consumi, quindi del numero di soggetti con marcata tolleranza e forte dipendenza, nei quali i tentativi di svezzamento per lo più falliscono; e nei pochi casi in cui sono coronati da successo, ciò avviene solo dopo prove di eroismo non meno drammatiche di quelle sostenute da Papageno nel Flauto magico. I problemi attuali Passiamo ora a esaminare i problemi attuali di maggior rilievo che emergono sia dai confronti tra droghe lecite e illecite, sia da quelli tra droghe e psicofarmaci di uso medico. In questo campo, tra le analisi più aggiornate e affidabili si trova quella condotta da un gruppo di ricercatori inglesi, i quali hanno interpellato esperti particolarmente qualificati in vari campi – medici psichiatri, sociologi, ufficiali di polizia – affinché si pronunciassero su tre tipi di pericolosità: danno fisico, dipendenza fisica e/o psicologica, danno sociale, compresi i costi per la sanità (13); un’ottima sintesi in italiano si trova in (14). Ovviamente le varie droghe lecite e illecite e i vari farmaci non sono stati posti dagli esperti nello stesso ordine di pericolosità sotto i tre aspetti appena citati, né potremmo in questa sede fornire tutti i dettagli, i principali dei quali si trova- I Servizi per le dipendenze patologiche no in (14). Ma nell’insieme le risposte sono state chiare: al vertice della pericolosità complessiva si trovano eroina e cocaina, seguono l’alcol, le benzodiazepine, le amfetamine e il tabacco i quali, a loro volta, precedono nella scala di pericolosità varie altre sostanze, tra le quali la cannabis e l’LSD. Ciò, ovviamente, mette seriamente in questione le classificazioni sia delle normative internazionali, sia quelle vigenti nei singoli Paesi, più o meno proibizioniste che siano. A questo punto colpiscono in modo sempre più clamoroso due opposti tipi di fenomeni: cioè da un lato il persistente (o addirittura crescente) accanimento repressivo contro alcune droghe illecite a bassa pericolosità, tale da richiedere in casi estremi come quello della cannabis la chiamata in causa di una “sacralità del divieto”, che pone il bando “oltre il confine di ciò che chiamiamo discorso scientifico” (15); dall’altro, nel caso di droghe lecite ad alta pericolosità e di molti psicofarmaci, la minimizzazione dei rischi, accompagnata nel caso dei farmaci da una esaltazione dei supposti benefici terapeutici, una esaltazione basata in buona parte su modelli neurobiologici di patologie psichiche e di meccanismi d’azione dei prodotti tanto poco convalidati da essere soggetti a quotidiane trasmutazioni (16,17). E anche quando si ammette l’esistenza di gravi rischi, questo raramente si accompagna ad appropriate misure di controllo e prevenzione, date le forti resistenze economiche e politiche. Giudizi di pericolosità delle droghe Il caso più noto è quello del recente inasprirsi dell’offensiva contro la cannabis, sostanza che da noi, dopo le sanzioni imposte dalla Convenzione di Vienna e dopo una prima escalation con la legge Jervolino-Vassalli, grazie alla legge Fini-Giovanardi è finita nella Tabella unica, cioè in un’unica ammucchiata con le droghe più pesanti, senza deroghe per eventuali usi terapeutici. Dopo le innumerevoli indagini condotte decennio dopo decennio anche da commissioni ufficiali di esperti di vari Paesi, che hanno sostenuto la relativa innocuità della cannabis (1820), e inoltre (21) per una delle più recenti prese di un prestigioso organo collegiale, The Advisory Council on the Misuse of Drugs, ACMD, che fornisce consulenza sulle droghe al Governo britannico, sono ripartiti all’attacco sia medici e scienziati che media e politici, anche in Paesi come il Regno Unito che, a differenza di molti altri, dietro consiglio appunto dell’ACMD, avevano qualche anno fa cautamente fatto marcia indietro rispetto al proibizionismo più spinto. I ricercatori biomedici e i clinici, oltre che ad insistere sulla maggiore pericolosità di prodotti come il cosiddetto skunk, ottenuti con vari artifizi e caratterizzati da tassi di principi attivi (cannabinoidi) assai più elevati dei prodotti tradizionali (ma sulla cui effettiva diffusione sussistono Sae l ute Territorio 97 dubbi consistenti), hanno ripetutamente indagato sul possibile legame fra assunzione di cannabis e patologia mentale, trovando a più riprese correlazioni statisticamente significative (22-26). Tuttavia nelle sedi mediatiche e politiche si sono per lo più intenzionalmente ignorate o minimizzate quelle riserve sulle quali insistono gli stessi ricercatori, le quali riguardano le difficoltà di interpretazione dei dati. Per definizione, infatti, correlazione e causazione spesso non coincidono; e se causazione esiste, una correlazione non può indicare se A è causa di B, o viceversa, o se un terzo incomodo C è causa sia di A che di B. La riserva più ovvia è, che ammesso e non concesso che esista un reale rapporto causa-effetto, è estremamente difficile la verifica della sua direzione; in altre parole, è il consumo di cannabis la causa di patologia mentale, o è vero piuttosto che molti soggetti con sofferenza psichica non ancora dichiarata, o comunque non ancora diagnosticata al livello clinico, ricorrono con maggior frequenza e intensità al consumo di cannabis come automedicazione per i loro problemi? Questa seconda ipotesi è tra l’altro rafforzata da quegli studi nei quali si è esercitato un controllo pur soltanto parziale sui fattori cosiddetti di confondimento: il che ha prodotto una riduzione notevole dei valori delle correlazioni, pur non annullandone la significatività statistica (26). Pertanto ci si deve chiedere cosa accadrebbe se si l ute Sa e 98 Territorio I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 trovassero i modi e metodi, oggi non disponibili, di pervenire a un controllo completo sui fattori di confondimento. Per tale controllo si richiedono in genere studi prospettivi randomizzati in doppio cieco, cioè nel caso in questione, si dovrebbe: assegnare a caso soggetti che non hanno mai assunto cannabis a uno o più gruppi “cannabis” e a un gruppo “placebo”, senza che né gli sperimentatori, né i soggetti sappiano a quale gruppo appartenga un dato soggetto; valutare, al termine del periodo sperimentale prestabilito, le condizioni psichiche di tutti i soggetti, avendo strada facendo raccolto tutte le informazioni su eventi o situazioni che potrebbero inquinare i risultati, ma senza ancora sapere a quale gruppo ognuno di essi appartiene; infine, scoprire i codici segreti di appartenenza ai gruppi, per poi valutare con appropriati metodi statistici se esistano differenze significative tra veri e falsi assuntori. Ora è chiaro che un tale esperimento è impossibile, sia per motivi etici, sia per motivi tecnici (cioè quale potrebbe essere il placebo che, assunto invece della cannabis, produce effetti soggettivi e oggettivi indistinguibili da quelli della droga, da parte sia degli sperimentatori che dei soggetti dell’esperimento?) Esistono, è vero, metodi approssimati assai complessi per verificare ipotesi opposte, come quelle qui in ballo, in casi in cui per motivi etici e/o tecnici la via del “prospettivo randomizzato in doppio cieco” non è percorri- bile: ma ciò non è stato sinora fatto per la cannabis (e probabilmente non è fattibile, a parte il fatto che in molti casi i “doppio cieco” hanno smentito gli altri condotti in alternativa); e come si è già detto, quel poco che si è potuto fare per attenuare il ruolo dei fattori di confondimento ha subito ridotto la probabilità di un rapporto tra consumo di cannabis e patologia mentale. Un altro aspetto negativo dell’accanimento contro la cannabis è quello dei gravi ostacoli che seguitano a opporsi a studi rigorosamente controllati sulla sua efficacia terapeutica almeno di tipo palliativo, un’efficacia ampiamente documentata dall’esperienza clinica e da studi osservazionali che riguarda un’ampia varietà di patologie neurologiche (soprattutto ma non soltanto la sclerosi multipla), oculari (soprattutto il glaucoma) e altre che producono gravi sofferenze somatiche e psichiche di vario genere, come l’AIDS (27,28). I soloni della farmacologia ufficiale, infatti, seguitano anno dopo anno a sentenziare che non esistono prove sufficienti per formalizzare una serie di indicazioni terapeutiche della cannabis, così impedendo che questa faccia concorrenza ai più lucrosi farmaci industriali. Apparentemente essi confidano nel fatto che sinché resteranno in vigore i regimi proibizionisti, gli studi necessari, salvo alcune rare e lodevoli eccezioni, non potranno essere condotti. Altri esempi si potrebbero addurre di accanimento con- nizio del trattamento) – sono emerse ampie prove di altri tipi di danni causati dalle benzodiazepine, come le disfunzioni cognitive (disturbi della memoria a breve termine, stati confusionali) e vari fenomeni di disinibizione (agitazione psicomotoria, perdita di controllo sugli impulsi aggressivi, paranoia) (30). Anche le benzodiazepine sono invecchiate e quindi sfuggite poco a poco ai vincoli brevettutali, con una conseguente riduzione dei relativi margini di profitto. Quindi molti tentativi sono stati fatti per mettere a punto successive generazioni di ipnotico-sedativi e ansiolitici di diverse classi chimico-farmaceutiche. Questi tuttavia non hanno avuto il successo sperato, per un motivo molto semplice: cioè, il loro assai minore effetto gratificante, quella “valenza edonica” che insieme alla necessità di combattere i sintomi di astinenza dopo assunzioni prolungate, ha fatto continuamente crescere la domanda di prodotti benzodiazepinici. A parte il fatto che anche a prezzi ridotti le benzodiazepine, vendute in quantità sempre più massicce, seguitano a rappresentare un ottimo affare – in Italia, si noti, la irresistibilità della domanda è particolarmente evidente: salvo alcune indicazioni minoritarie, infatti, come quella antiepilettica, le benzodiazepine si pagano di tasca propria, non essendo a carico del Servizio sanitario nazionale (SSN) – l’ingegno degli esperti di cambio della guardia tra prodotti vecchi e tro prodotti naturali a bassa pericolosità, come quelle foglie di coca diventate pericolose solo a seguito del loro impiego per la produzione e il successivo commercio criminale di enormi quantitativi del principio attivo puro, la cocaina. La penalizzazione della foglia di coca serve ovviamente anche scopi politici, come quello di legittimare gli interventi statunitensi nel Sud del continente, le politiche del regime colombiano, le scorrettezze con le quali si tenta di mettere in condizioni di non nuocere lo scomodo cocalero Evo Morales. Ma a questo punto, possiamo rinviare alla nota opera di Saviano (29): meglio di tanti studi scientifici e documenti ufficiali, essa infatti spiega fuori dai denti come in tanti settori, oltre a quello della droga, siano sempre più stretti i rapporti tra le economie legali e criminali “globalizzate” e tra queste e molte forze politiche nazionali e sovranazionali. Giudizi sui rischi e benefici degli psicofarmaci di uso medico-psichiatrico Già si è fatto cenno, parlando di ipnotico sedativi e ansiolitici di successive generazioni, ai meccanismi che sin da tempi ormai remoti sono serviti a favorire i “cambi della guardia” tra farmaci vecchi e nuovi. Da allora, oltre alle evidenze sempre più forti sui fenomeni di tolleranza e dipendenza – e quindi sulla gravità delle sindromi da astinenza, anche con “sintomi da rimbalzo” (ansietà, insonnia e disturbi emotivi più intensi che non prima dell’i- N. 167 - 2008 nuovi non ha cessato di aguzzarsi, allo scopo di dirottare almeno una parte degli assuntori di benzodiazepine verso prodotti di altre classi, più redditizi in quanto di generazioni più recenti. Così, per esempio, si è “scoperto” che molti soggetti con sindromi d’ansia e altre sintomatologie tradizionalmente trattate con benzodiazepine potevano esser meglio curati con antidepressivi, soprattutto quelli più nuovi e costosi. Siamo così arrivati allo scottante e attualissimo problema della reale efficacia degli antidepressivi, del reale rapporto beneficio/rischio in rapporto agli effetti collaterali, infine a quello dei reali vantaggi dei successivi passaggi da una generazione all’altra dei prodotti. E su questo territorio è passato negli ultimi tempi più di uno tsunami. Qui va preliminarmente ricordato che sin dalla prima introduzione degli antidepressivi negli anni ‘50, tutte le valutazioni più affidabili avevano dovuto riconoscere che la loro efficacia era tutt’altro che uniforme, rispondendo alla regola cosiddetta dei “tre terzi”: cioè un terzo dei pazienti trattati, così come un terzo dei trattati con placebo, non miglioravano; un altro terzo dei pazienti miglioravano ugualmente sia col farmaco che col placebo; e infine in un ultimo terzo si riscontrava con il farmaco un miglioramento superiore a quello del gruppo placebo. Inoltre molto si è discusso sugli effettivi benefici del passaggio dalle prime generazioni di prodotti, so- I Servizi per le dipendenze patologiche prattutto i cosiddetti triciclici, alle generazioni successive e in particolare ai prodotti inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), come il Prozac. Infatti da un lato non sembra si sia mai modificata in senso favorevole la succitata regola dei tre terzi, mentre in luogo degli effetti collaterali spesso appariscenti, ma per lo più non pericolosi (salvo le aritmie cardiache), dei vecchi prodotti (a causa della loro azione anticolinergica causavano secchezza delle mucose, disturbi della urinazione, riduzione della potenza sessuale) si andavano via via dimostrando effetti collaterali meno appariscenti, ma a volte assai pericolosi, sino all’aumentato rischio di suicidio (31). Malgrado questi problemi, è proseguita senza soste una massiccia azione promozionale mirata a far crescere le prescrizioni e i consumi di antidepressivi. Si è così arrivati a inventare giustificazioni per includere tra i trattati non soltanto i soggetti clinicamente ammalati – giustificata o meno che fosse la diagnosi di depressione: con i criteri della “Bibbia diagnostica” più ampiamente diffusa, il DSM-IV dell’associazione degli psichiatri americani, è facile dichiarare depressa una persona che soffre solo di un transitorio salto dell’umore, con conseguenti alterazioni dei suoi ritmi di attività, a causa di qualche evento negativo nel suo percorso di vita – ma anche soggetti clinicamente sani: sani, sì, ma aspiranti a un senso “sopranormale” di benessere, a una maggiore efficienza e quindi a un maggior successo nel lavoro, a una più elevata facilità di socializzazione, ecc. ecc. Tale escalation, tuttavia, è incappata negli ultimi anni in una serie di ostacoli creati da nuovi studi e da più accurate analisi dei risultati più vecchi. In particolare: 1. L’efficacia dei prodotti è stata ulteriormente ridotta in base a un esame congiunto sia dei risultati pubblicati, per lo più ottenuti in studi sponsorizzati dalle Ditte, sia di quelli non pubblicati e stanati dai depositi della FDA (l’Agenzia statunitense per farmaci e alimenti), dopo lunghe battaglie legali in base alla legge americana che esige di fornire, a particolari condizioni, i documenti in possesso delle pubbliche Amministrazioni (32-34). Ancora di più si è ridotto il rapporto beneficio/rischio, a causa del già citato graduale affioramento di effetti collaterali più gravi di quelli originariamente svelati. 2. Analisi ancor più approfondite hanno mostrato come antidepressivi e placebo abbiano pari efficacia nella grande maggioranza dei pazienti con depressione lieve e di media gravità, mentre è solo nei pazienti con depressione più grave che resta un piccolo vantaggio del trattamento farmacologico, in quanto il placebo perde parte della sua efficacia (35). Per un altro spinoso problema tecnicamente più complesso, quello della effettiva Sae l ute Territorio 99 validità di studi tutti condotti senza sapere se gli effetti dei farmaci e quelli del placebo rispondano a un modello additivo o a un modello interattivo (nella seconda eventualità sarebbero tutti invalidi) dobbiamo rinviare a uno degli studi già citati (32). I problemi non finiscono mai Non possiamo estendere oltre questo campionamento dei problemi sia remoti che attuali. Nel campo delle valutazioni sulle droghe, si dovrebbe per esempio ancora discutere perché i ricercatori inglesi abbiano assegnato un così basso livello di pericolosità a una sostanza così universalmente demonizzata come l’allucinogeno LSD. Brevemente: in base al fatto che esso non viene praticamente mai iniettato in vena, che la dipendenza fisica che esso può produrre è minima o nulla, che dato il tipo di effetto, di per sé scevro di “valenze edoniche”, il numero degli assuntori e potenziali assuntori è assai ridotto (13,14). E come tale basso rischio renda assurdo il blocco oramai pluridecennale di ogni sperimentazione pur condotta col massimo di garanzie scientifico-professionali, etiche e altre. Nel campo delle valutazioni sui farmaci, non possiamo estendere l’analisi ad altre classi di prodotti: come gli antipsicotici o neurolettici, per i quali sono ampiamente dimostrati livelli di efficacia terapeutica assai meno brillanti di quelli generalmente propagandati, livelli di ri- l ute Sa e 100 Territorio schio assai maggiori di quelli generalmente ammessi e notevoli storture nella maggioranza delle sperimentazioni miranti a dimostrare la superiorità di ciascuna nuova generazione di nuovi e più costosi prodotti rispetto alle precedenti (per una analisi aggiornata ai primi anni ‘90, v. (36); per analisi più recenti, v. (37, 38); o come i vari psicostimolanti e altri farmaci (soprattutto ma non soltanto gli antidepressivi e i cosiddetti stabilizzatori dell’umore, come il va,proato), di cui si vantano gli effetti terapeutici in bambini e ragazzi con diagnosi di ipercinesia, deficit di attenzione o depressione precoce. Su due ultimi punti, tuttavia, vorremmo richiamare l’attenzione del lettore. Il primo riguarda i dati sempre più preoccupanti sull’assunzione di bevande alcoliche da parte di soggetti particolarmente vulnerabili come gli adolescenti, i giovani adulti e le donne. Per esempio, una recente indagine sui consumi in discoteca (Progetto “Il pilota” dell’Osservatorio nazionale Alcol dell’Istituto superiore di sanità, in collaborazione con la Società italiana di alcologia), i cui risultati sono stati presentati all’ Alcol Prevention Day ISS il 17.04.08, ha mostrato che in una serata i ragazzi bevono in media 4 bicchieri (1,5 di breezer o aperitivo alcolico, 1,5 di birra e 1 di superalcolico), le ragazze in media 3; e I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 che per buona giunta, una quota consistente di tali consumi è attribuibile a soggetti al di sotto dell’età legale. Il secondo punto riguarda dati statunitensii che dimostrano un progressivo spostamento dei consumi adolescenziali e giovanili, in gran parte per timore delle gravi sanzioni penali, da droghe illecite per lo più innocue o poco rischiose, per tipo e per quantità assunte (il caso più frequente e ovvio è quello degli spinelli fumati con moderazione) a farmaci di uso medico, procurati in modo ora lecito ora illecito e in genere assai più pericolosi: soprattutto sedativi, narcoticoanalgesici (in particolare l’ oxycodone, un oppiaceo di sintesi) e psicostimolanti (39-41). Un tale effetto perverso di un proibizionismo estremista e forsennato non ha bisogno di commenti, né a nostra conoscenza sono disponibili dati per valutare se un analogo fenomeno si stia verificando anche in Italia. sono per lo più dotati di sano buon senso; e magari anche di un pizzico di senso del ridicolo, che li trattiene dall’intervenire in forze, nel cuore della notte, per sradicare tre piantine di Cannabis indica da un vasetto sul balcone o da un angolo dell’orticello domestico, e poi condurre in cella a sirene spiegate, se ancora vivi dopo i pestaggi, i “rei” ammanettati, quasi fossero rapinatori armati sino ai denti pronti alla strage, o serial killer di prostitute extracomunitarie minorenni. Insomma, la correttezza, o viceversa la mistificazione, delle valutazioni scientifiche sono certamente importanti; e così pure sono importanti le normative più o meno proibizioniste e repressive di cui sono responsabili i politici, che condizionano pesantemente il modo come vengono trattati i problemi della droga. Ma forse ancora più importanti sono il clima, la cultura, gli atteggiamenti dell’uomo della strada, dai quali dipendono in buona misura i comportamenti dei singoli appartenenti alle forze dell’ordine e alla magistratura. Questi ricevono deleghe il cui corretto esercizio è spesso delicato e difficile: deleghe di vigilare, ciascuno nei limiti delle proprie competenze, sul rispetto dei diritti civili e sulla sicurezza di tutti, senza ricorrere ai metodi dell’Inquisizione, ai roghi di streghe e ai loro moderni equivalenti. Considerazioni conclusive I fenomeni sin qui analizzati in modo pur selettivo e sommario vanno visti nel contesto del grave deterioramento della situazione italiana nel mutato quadro politico-culturale. Qui va anche ricordato come a forza di veti incrociati e di eccessivo rispetto per i medesimi, praticamente nulla è stato applicato del programma del centrosinistra in materia di tossicodipenden- ze: la Fini-Giovanardi, in particolare, è uscita senza un graffio dalla legislatura appena conclusa. Tutto ciò non consente neanche il più cauto ottimismo sugli sviluppi dei prossimi anni, quindi sui destini di innumerevoli soggetti, per lo più di categorie deboli, i quali subiscono le conseguenze non solo di una normativa tendente alla tolleranza zero, rigida e repressiva, ma anche di un atteggiamento ideologico e operativo di buona parte delle forze dell’ordine e di non piccola parte della magistratura, che tende a inasprire al massimo le conseguenze negative di tale normativa. Nel Regno Unito oggi molto si discute delle pressioni esercitate sul prestigioso organo consultivo competente (il già citato ACMD) dal governo Brown e dai media che lo sostengono, perché si rimangi il precedente parere sulla cannabis, aprendo la strada alla sua risalita verso una classe di droghe più “dure” (la B anziché la C). Ora, se andiamo a vedere la normativa attualmente in vigore in Gran Bretagna per le sostanze in C, constateremo che essa consente condanne sino a ben due anni di galera per semplice possesso. Tuttavia tale “reato” – un reato, appunto, tra molte virgolette – raramente è bersagliato dalle azioni delle forze dell’ordine e raramente conduce a una condanna penale. Poliziotti e magistrati britannici, infatti, N. 167 - 2008 I Servizi per le dipendenze patologiche Bibliografia (1) Acker C.J. (2002), Creating the American Junkie: Addiction Research in the Classic Era of Narcotic Control, The Johns Hopkins University Press, Baltimore-London. 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Ignorano, gli amanti della diagnosi situazionale-sintomatologica, tipo DSM IV TR, che la task force dell’APA, che sta predisponendo il futuro DSMV, pare fare, dai documenti preliminari (17), un passo indietro rispetto all’inquadramento sindromico delle psicosi, ritornando all’ultimo Bleuler che considera l’espressività sintomatica un “continuum”, suggerendo quindi che la diagnosi è una metafora semplificante che, se aiuta i tecnici a sveltire la comunicazione, è appunto un codice metaforico, non la descrizione geografica-matema- tica della realtà: un canovaccio approssimativo, non una mappa satellitare. Il “furor diagnosticandi” diploico inoltre non sembra tener conto che se, su una generica diagnosi di disturbo di personalità, c’è una discreta concordanza tra psichiatri USA ed europei, quando si articola la diagnosi in cluster o sottotipi la concordanza scema decisamente a valori incompatibili col rigore scientifico, rendendo aleatoria la confrontabilità del dato diagnostico. Certo, come scriveva la Siani 20 anni fa “il compito assegnato ai Servizi è il controllo sociale, la scelta di curare è un optional il cui prezzo è a carico degli operatori”; ma, rivolgendomi soprattutto agli aspiranti guaritori, pongo alcune domande senza risposta Qual è il target atteso dalla “tolleranza zero”? 1. Medico-salutista?Allora N. 167 - 2008 The trend toward prescription drugs, The New England Journal of Medicine, 354, pp. 1448-50. (41) Boyd C.J., McCabe S.E., Cranford J.A., Young A. (2007), Prescription drug abuse and diversion among adolescents in a Southeast Michigan school district, Archives of Pediatrics and Adolescent Medicine, 161, pp. 276-81. perchè non proibire le sostanze, a seconda della loro reale tossicità? 2. Di ordine pubblico?Allora perché delegare al “mercato nero” la gestione di sostanze anche a bassa tossicità? Questo sì implementa la micro e macro criminalità. Viene il dubbio che la scelta della criminalizzazione possa essere connesso al fatto che i consumi di sostanze “altre” sottraggano liquidità al mercato “legale” di altre merci. Ma se così fosse dovremmo riflettere sul fatto che tutte le sostanze importate dai Paesi colonizzati (attuale “terzo mondo”) hanno avuto il medesimo percorso: 1. Criminalizzazione – ca ‘400/’600; 2. Monopolio – ca ‘600/’800; 3. Libero mercato ‘800/oggi. Si pensi al the, al cacao, al tabacco ed alle pene cruente comminate ai consumato- ri, nella prima fase di consumo, dall’Inghilterra alla Turchia. È ancora troppo presto perché lo Stato pensi ad un monopolio, nonostante che fino agli inizi del ‘900 marijuana, cocaina ed eroina fossero legali (dall’uso personale di Freud alla produzione dell’eroina Schiapparelli). Qual’è in questa prospettiva il senso della criminalizzazione delle “nuove sostanze” prodotte in Occidente in laboratori molto simili a quelli delle lobbies farmaceutiche? Qual’è la commistione tra mercato legale (desease mongering) ed illegale? Si pensi alla buprenorfina, legale in Italia e vietata in Francia perché diventata la prima droga d’abuso (18). Non rischiamo noi operatori di costituirci come” coloro che valicano i postulati preconcetti del senso comune”? (19) Bibliografia (10) Arvidsson A. (1971), Consumi, media e identità nel lungo dopoguerra. (1) Foucoult M., Storia della follia nell’età classica-Panopticon-Io Pier Riviere. (11) Merton R. (1974), Teoria e struttura sociale, Il Mulino, Bologna. (12) Galimberti, L’Ospite inquietante. (2) Pinel P. (1800), La Mania. (13) Lombardo Radice M., Giovani senza rivoluzione. (3) Basaglia F. (2000), Scritti; Conferenze Brasiliane. (14) Vento N., I giovani proletari, l’ideologia e il tempo libero. (4) Sasz T. (1974) Il mito della droga. (5) Morin E. (1977-2004), La méthode. (15) Croce G.P. Di Loreto; Sani e malati, Liberazione 19/03/08; www.ilsemesottolaneve. (6) Arvidsson A. 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L’Italia, negli ultimi trent’anni, ha avuto la più alta riduzione dei consumi alcolici tra i Paesi europei: dai 15,9 litri di alcol puro pro-capite del 1970 ai 6,9 del 2005, con una continua, costante discesa. Tale tendenza è soprattutto attribuibile alla drastica riduzione del consumo di vino (più che dimezzato, poiché si passa dai 113,7 litri pro-capite annui del 1970 ai 48,8 litri del 2006), non compensata dalla birra, pur passata dagli 11,3 litri del 1970 ai 29,7 del 2005. Contemporaneamente alla riduzione, si è assistito a una lenta trasformazione delle modalità del bere, con un apparente avvicinamento ai modelli di consumo nord-europei, soprattutto da parte delle più giovani generazioni. Venuto meno il valore nutrizionale ed alimentare, si è verificato un incremento dell’uso di alcol legato alla socia- I Servizi per le dipendenze patologiche Sae l ute Territorio 103 Le modificazioni dell’uso di alcol lità e, in parte, alla sua valenza di sostanza psicoattiva. È dunque di grande interesse interrogarsi su quali fenomeni siano all’origine della profonda modificazione che ha investito il rapporto tra individui e bevande alcoliche, in particolare il vino, nel nostro contesto e su quali siano le tendenze in atto. Un interesse accresciuto dal fatto che proprio in questo periodo, a livello dell’Unione europea, si è aperta la discussione sull’opportunità di rendere più omogenee le politiche dei singoli Stati in molti campi. Ciò investe anche la materia “alcol”, con riflessioni che riguardano sia gli aspetti di rilevanza economica, sia le preoccupazioni inerenti la salute e l’ordine pubblico. In questo contesto, il caso italiano della significativa riduzione dei consumi in assenza di politiche di controllo di tipo formale e istituzionale, appare tanto interessante quanto poco esplorato. Si è parlato, al proposito, di “paradosso italiano”: nel nostro Paese è stato possibile un decremento dei consumi di alcol nella sostanziale assenza di politiche di prevenzione e controllo, mentre – nello stesso periodo di tempo – i consumi alcolici sono aumentati proprio laddove, nell’Eu- La controtendenza italiana della diminuzione del consumo. Le ragioni culturali del fenomeno ropa “proibizionista” del nord, tali politiche sono intense e pervasive. Ecco dunque le ragioni per la ricerca di risposte a domande di grande rilievo: perché gli italiani, dall’inizio degli anni ’70, dopo un periodo di forte crescita che ha attraversato gli anni ’50 e ’60, hanno cominciato a ridurre il consumo di vino passando da valori molto elevati a valori moderati, che approssimano i livelli raccomandati dagli organismi internazionali per la protezione della salute? Quali fattori sono stati capaci di influenzare le scelte in ordine al quanto, al come e al perché bere nel contesto di una cultura così permeata della dimensione sociale e alimentare del vino? Possiamo parlare di meccanismi di “autoregolazione” che hanno permesso agli individui di adattare spontaneamente le loro modalità di rapporto con le bevande alcoliche alle nuove esigenze imposte dalle trasformazioni sociali? Infine: si tratta di una tendenza – quella della diminuzione dei consumi – che proseguirà nel tempo, oppure assisteremo presto ad una inversione del trend, come sembrano lasciare intravedere i consumi delle giovani generazioni? Intorno a queste domande si è sviluppato un ampio lavoro di ricerca, di cui qui richiamiamo alcuni elementi, soprattutto conclusivi, rimandando (in particolare per i dati che sostanziano le affermazioni qui svolte) ai lavori che più compiutamente li espongono: il primo dedicato alle trasformazioni del bere in Italia nel periodo 19702005 (Allamani A., Cipriani F., Prina F., 2006); il secondo ad una compiuta ricognizione delle ricerche e dei dati disponibili sul bere giovanile (Beccaria F., 2007; Beccaria F., Prina F., 2008). I fattori all’origine della diminuzione dei consumi di alcol in Italia Perché dunque gli italiani, dall’inizio degli anni ’70, in assenza di politiche di controllo del bere, hanno cominciato a ridurre il consumo di alcol? Per formulare una risposta esauriente si è scelto, l ute Sa e 104 Territorio in primo luogo, di descrivere i mutamenti nei consumi alcolici in Italia dal 1970 e di porli in relazione con una serie di indicatori dei mutamenti nei consumi alimentari e negli stili di vita. Si è poi andati alla ricerca dei meccanismi generatori del cambiamento, a livello delle scelte individuali, esplorando, con l’aiuto di una metodologia di tipo qualitativo, i nessi tra mutamenti nei modi di pensare e negli stili di vita degli individui e la diminuzione nel consumo di alcolici. I risultati cui si è pervenuti – relativamente alla ricerca quantitativa – possono essere così riassunti (Cipriani F., Prina F., 2006). Il consumo di vino ed alcol in Italia è coerente con la tendenza internazionale alla convergenza dei consumi alcolici, con riduzione della bevanda tradizionale ed incremento, per sostituzione o sovrapposizione, delle nuove bevande, soprattutto nelle generazioni più giovani. Di qui una tendenza alla convergenza del consumo di bevande alcoliche nelle differenti aree del Paese, sostenuto da una maggiore riduzione del vino nelle Regioni storicamente a più elevato consumo. La diminuzione del consumo non si è manifestata omogeneamente in tutte le categorie: osserviamo una riduzione dei non bevitori e un incremento relativo dei modici bevitori; cresce il numero di bevitori soprattutto tra i giovani e le femmine. La diminuzione è dunque sostenuta soprattutto dalla riduzione del numero dei forti bevitori (oltre mezzo litro di vino al I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 giorno), nella categoria che più contribuiva a determinare il livello del consumo medio: i maschi adulti. Il profilo del maggior consumatore di vino in Italia era intensamente legato alla tradizione rurale: parte dell’alimentazione, il vino era ritenuto bevanda priva di rischi, legata a valori positivi, sia nutrizionali che relazionali. Non poteva dunque essere senza conseguenze sui consumi il distacco di molta parte della popolazione da quella tradizione, nel passaggio di grandi masse alle città. La crescita del consumo di vino tra gli anni ’50 e ’60 è coerente con l’aumento del potere d’acquisto degli italiani: dopo gli anni di grande povertà, nelle tasche degli italiani c’erano risorse, tra altri beni di consumo, anche per quantità maggiori di vino. Al punto di saturazione degli acquisti alimentari della fine degli anni ’60, fattori diversi dal reddito e potere d’acquisto, prezzi e mercato devono essere considerati per spiegare la riduzione della domanda di vino. L’analisi dei trend temporali di consumo di alimenti e bevande, conferma che il vino segue l’andamento in diminuzione di altri alimenti tradizionali della cultura rurale, tra cui pane, pasta, legumi secchi, riso, pesce secco, a testimonianza che si tratta di bevanda associata allo stile di vita rurale, che richiama vissuti di miseria e carenza nutrizionale. Comincia a farsi strada negli anni ’70, come in altri paesi, la domanda di prodotti di qualità, a scapito della quantità, anche se la della curva trova spiegazioni plausibili, nella sua fase ascendente (anni ‘50 e ’60) soprattutto con i meccanismi dei redditi e dei prezzi, mentre la fase discendente può essere spiegata da più fattori. Alcuni di essi (inurbamento, lavoro nelle fabbriche e nel terziario), pur manifestandosi in modo intenso ancora nella fase ascendente del consumo di alcolici, hanno prodotto effetti evidenti sui consumi negli anni ‘70. Altri fattori (mobilità sociale, ridefinizione delle modalità di fruizione del tempo libero, cambiamenti della struttura familiare e del ruolo femminile, destrutturazione dei pasti, cura di sé e salutismo), si affermano e si consolidano a livello di massa solo negli anni ‘80 e ‘90, durante il continuare della fase discendente della curva e giocano un importante ruolo nel mantenimento dell’andamento decrescente del consumo, piuttosto che nella sua iniziazione. Tutti questi elementi desumibili dall’analisi di trend di carattere quantitativo, sono confermati nella parte della ricerca che ha interpellato i protagonisti del cambiamento, attraverso interviste e storie di vita a individui che hanno vissuto queste trasformazioni, distinti in due coorti, l’una di 40-45enni, l’altra di 65-70enni. Le interviste e le storie di vita, ricostruendo le esperienze e il modo in cui gli individui hanno vissuto i processi di cambiamento, mostrano come i meccanismi “situazionali”, strutturando i contesti sociali e culturali in cui gli intervistati hanno vissuto, hanno influenzato il lo- maggiore forza di questa tendenza si afferma negli anni successivi (’80 e ’90). Sono gli anni di espansione del vino DOC e DOCG, favoriti anche da decisioni europee che incentivano la riduzione della produzione a favore dei prodotti di qualità. Poco o nulla della diminuzione del consumo di vino, dopo gli anni ’70, è attribuibile a cambiamenti della struttura demografica della popolazione, in particolare all’invecchiamento. Più rilevanti sono fattori come il tipo di lavoro (il lavoro in fabbrica e soprattutto quello nel settore terziario, implicano minor dispendio calorico e richiedono maggiore attenzione rispetto a quanto richiesto dal lavoro nei campi); il cambiamento della condizione femminile con l’ingresso nel mondo del lavoro (con le evidenti ripercussioni sulla vita domestica, destrutturazione dei pasti, allentano il vincolo tradizionale tra vino e pranzo); la mobilità sociale ascendente (che spinge in direzione di modelli di riferimento nuovi, che investono i consumi e gli stili di vita, con l’abbandono delle abitudini popolari, ordinarie, considerate volgari, verso modelli più sofisticati); la progressiva crescita della domanda di prodotti, beni e servizi con forte impronta salutistica (il benessere fisico e la cura del sé appaiono componenti essenziali dell’edonismo degli anni ’80 e ’90). In conclusione, dalla ricognizione emerge che la curva del vino tra gli anni ‘50 e 2000 è ben inserita nei cambiamenti socio economici che connotano il periodo: l’andamento N. 167 - 2008 ro corso d’azione. Confermando quanto emerso nella parte di ricostruzione dei grandi mutamenti sociali, dalla ricerca si può evincere che: – i processi di industrializzazione e terziarizzazione della struttura occupazionale del nostro Paese hanno determinato mutamenti rilevanti nell’organizzazione del lavoro, modificando i contesti, i tempi e i ritmi di produzione; la richiesta di maggiore efficienza e produttività sul lavoro e la diversa strutturazione dei tempi di vita (tempo lavorativo, tempo costretto, tempo libero, tempo del loisir) hanno ridefinito gli stili di vita ed hanno influenzato, di conseguenza, gli stili di consumo, con un ridimensionamento del ruolo dell’alcol nella quotidianità; – l’inversione di tendenza nell’andamento dei consumi alcolici avviene nel periodo in cui prende avvio un processo di modernizzazione consumistica ed investe in particolare i membri della coorte più giovane (40-45enni), che sono protagonisti di rotture, innovazioni ed integrazioni rispetto ai modelli di consumo tradizionale. Al tempo stesso, avendo appreso in famiglia le norme del modello tradizionale, quando hanno dovuto affrontare nel loro corso di vita determinate transizioni (cambiando status tra la fase giovanile e la fase adulta), sono stati in grado di modificare il loro stile di consumo, evitandone l’impatto negativo sui fun- I Servizi per le dipendenze patologiche zionamenti sociali e ricercando non più il valore psicoattivo dell’alcol, ma quello alimentare e socializzante/conviviale; – anche i mutamenti nella struttura familiare e nelle relazioni di coppia, a partire dalla metà degli anni ‘70, influenzando gli stili relazionali degli uomini e delle donne, con l’indebolimento dei modelli patriarcali di relazione familiare e la crescente partecipazione delle donne al mercato del lavoro, hanno condizionato indirettamente i modelli di consumo: il riferimento ricorrente è alla “responsabilità” acquisita nel matrimonio o nella convivenza e a seguito della nascita di un figlio, ma anche all’importanza di una condivisione del tempo libero con la moglie/compagna e con i figli; – su questo processo si è innestata, in tempi più recenti, la sempre più diffusa sensibilità per la salute, con una maggiore attenzione ai consumi alimentari e una riduzione della quantità di alcol assunta, sia per gli intervistati della coorte più giovane (in nome dell’efficienza fisica), sia in quelli della coorte più anziana, per i quali ha ricoperto un ruolo di crescente importanza l’informazione salutistica (per la prevenzione delle malattie legate all’invecchiamento) ed il ricorso frequente a controlli sanitari a scopo di benessere e prevenzione. Nelle traiettorie di vita e di consumo degli individui intervistati, la socializzazione familiare all’alcol, ossia il processo attraverso il quale essi hanno acquisito un sistema di norme e di sanzioni sociali informali (positive e negative) che regolano non soltanto l’uso di bevande alcoliche, ma anche l’abuso, si è rivelata decisiva. L’apprendimento di regole per un uso alimentare/dissetante e socializzante/conviviale (soprattutto del vino), avvenuto in ambito familiare, ha rappresentato un utile riferimento anche per gli intervistati della coorte più giovane. Essi, pur adottando in gioventù modelli d’uso e abuso estranei alla cultura mediterranea (per l’esposizione ai modelli di consumo internazionali), hanno anche appreso dalle generazioni precedenti (padri e nonni) le norme tradizionali ed i relativi meccanismi di controllo dei comportamenti alcolici. Tali riferimenti interiorizzati sono “riemersi” e ne hanno orientato le scelte quando si sono affacciati a fasi diverse della loro traiettoria di vita. Peraltro, se si guarda al consumo attuale degli adulti intervistati si evince che sono cambiati i luoghi, le situazioni e gli attori dell’uso dell’alcol. Si beve ancora in casa ai pasti (la sera soprattutto) con coniuge e familiari, ma si beve di meno al bar con amici e soprattutto nel tempo di lavoro. Si beve frequentemente in contesti ritualizzati e standardizzati come ristoranti, feste e occasioni speciali, situazioni in cui l’abuso saltuario è tollerato, ma regolato. In questi contesti è dimi- Sae l ute Territorio 105 nuita la segregazione di genere, che segnava il consumo di alcol nelle culture mediterranee. Complessivamente si può dunque affermare che permane centrale l’uso alimentare di vino ai pasti, si è consolidato un utilizzo dissetante e in parte socializzante della birra, mentre tende a perdere di rilevanza il consumo con finalità intossicante e diminuiscono gli abusi. Si comprende, in questo contesto, perché la maggior parte degli intervistati attribuisca molta importanza all’“autocontrollo”, capacità che si acquisisce e che consente di distinguere l’uso “controllato”, “equilibrato”, “giusto” dall’uso improprio. Si conferma, tuttavia, che non è l’abuso in sé ad essere stigmatizzato, poiché è tollerato in determinate situazioni e momenti della giornata e/o della settimana, soprattutto nella misura in cui non ha un impatto negativo sui “funzionamenti” e sulle relazioni sociali. Alcune riflessioni sui consumi giovanili L’allarme sul rapporto tra giovani e alcol, recentemente espresso con insistenza sui media e sostenuto da alcuni ricercatori e soprattutto dai decisori politici in Italia, è in genere correlato dal presunto abbandono dei valori propri della cultura “bagnata” del bere – caratterizzata da una completa integrazione delle bevande alcoliche nella vita quotidiana – in favore di una adesione a stili di consumo tipici delle culture “asciutte”, in cui il valore prevalente è quello dell’intossicazione, ottenuta con l’assunzione di l ute Sa e 106 Territorio grandi quantità di alcolici concentrate in poche occasioni (Beccaria F., Prina F., 1996). Le giovani generazioni assumerebbero l’alcol per ricercarne gli effetti psicoattivi, con l’obiettivo di provare un’alterazione psicosensoriale simile a quella procurata da altre sostanze illegali. In virtù di questo mutamento di prospettiva, i giovani italiani andrebbero perdendo la capacità, tipica della cultura del bere mediterranea, di gestire l’ambivalenza della sostanza, con il rischio di una estensione dei problemi alcolcorrelati. I dati che è possibile reperire sui consumi delle giovani generazioni (ricordando che in Italia non è possibile fare molti confronti con il passato, non essendovi indagini sui consumi giovanili anteriori al 1983) mettono in guardia da una lettura schematica di questo tipo, confermando invece la complessità del quadro dei consumi alcolici giovanili. Pur in presenza di una tendenziale omogeneizzazione degli stili di consumo, dovuta ai processi di globalizzazione della società contemporanea, in Europa sembrano ancora persistere, anche tra i giovani, elementi tipici delle culture del bere che tradizionalmente caratterizzano gli specifici contesti sociali e culturali. Nel caso italiano, i tratti della la “cultura mediterranea”: si inizia a bere precocemente, il tasso di ubriachezza è relativamente basso, mentre è alto quello del consumo regolare di tutti gli alcolici. Osservando i dati comparati (Beccaria F., 2007; Beccaria F., Prina F., 2008), si può af- I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 fermare che il livello di rischio dei giovani italiani appare più contenuto rispetto ad altri Paesi. Se è vero, infatti, che il numero di bevitori è in (leggera) crescita negli ultimi anni e che i ragazzi italiani hanno più occasioni di consumo, anche regolare, rispetto ai coetanei stranieri, è altrettanto vero che ciò non implica necessariamente una tendenza alla reiterazione dei consumi eccessivi. L’aumento della platea dei bevitori di vino e di birra, in presenza di una riduzione del consumo globale, può avere il significato di una riduzione del consumo pro-capite e dunque di una crescente moderazione. A questa considerazione si obietta che saremmo invece in presenza di un mutamento nello stile del bere tale per cui cresce la concentrazione in poche occasioni del consumo in precedenza praticato nella quotidianità, con un aumento dei rischi che caratterizzano le culture “asciutte”. Due osservazioni consigliano cautela nel sostenere questa posizione. La prima è che, seppure in assenza di dati precisi sui contesti di consumo, ancora molto diffuse paiono le opportunità di bere a casa e durante i pasti, con modalità dunque informalmente “controllate”. La seconda si basa sui dati relativi all’incidenza dell’ubriachezza: tutte le ricerche concordano nel rilevare una frequenza decisamente al di sotto della media europea e soprattutto molto lontana dai dati relativi ai coetanei inglesi, danesi o finlandesi. Tutte le indagini evidenziano cioè che le abitudini alcoliche dei mente alle prospettive di vita e di consumo che caratterizzeranno l’età adulta. Se per alcuni giovani il rapporto con l’alcol, così come con altre sostanze o comportamenti rischiosi, può ostacolare o rendere arduo il cammino verso la maturità, resta fondata – sulla scorta di molte osservazioni soprattutto di taglio qualitativo – la convinzione che la grande maggioranza di essi attraversi ancora queste esperienze, come in passato, alla stregua di altre esperienze “situate”, circoscritte cioè alle specificità della condizione adolescenziale e giovanile. Ma per meglio fondare queste convenzioni sarebbe tempo, anche in Italia, di pervenire ad un sistema di monitoraggio rigoroso dei dati e delle conoscenze, finalizzato alla descrizione ed alla comprensione delle persistenze e dei cambiamenti delle modalità di consumo, con ricerche ripetute e/o di tipo longitudinale, integrate con ricerche qualitative. Questo implica disponibilità ad un vero lavoro interdisciplinare, dove all’impegno di raccolta ed elaborazione di dati epidemiologici si associ la ricerca di buone spiegazioni sociologiche dei mutamenti sociali – in questo caso relativi ai comportamenti alcolici ed ai significati attribuiti a consumo ed abuso dagli attori sociali – fondate sulla ricerca di quei meccanismi sociali (Barbera, 2004) che regolano i comportamenti delle persone (essenzialmente in termini di desideri, credenze, opportunità). giovani italiani differiscono ancora in misura rilevante da quelle dei loro coetanei che vivono in Danimarca o in Gran Bretagna (dove il 60% dei 15enni si è ubriacato più di una volta nella vita, mentre tale evidenza si ha solo per il 20% degli italiani). Resta dunque persistente la complessità della cultura del bere dei giovani italiani. Tra di loro non è oggi rilevabile la predominanza di un modello piuttosto che di un altro, bensì l’affiancarsi a quello tradizionale di aspetti dei modelli tipici di altre culture. Ne consegue che non è semplice definire quali scenari si vanno prospettando. Come non è facile rispondere ad un interrogativo centrale in questo periodo di cambiamento: questi modelli di consumo innovativi verranno mantenuti nell’età adulta (dando luogo a crescenti problematicità) oppure verranno abbandonati con il passare degli anni, per effetto della persistenza della cultura del bere tradizionale? Nulla ci consente di rifiutare l’idea che, oggi come in passato, per la maggior parte dei giovani il consumo e l’abuso di bevande alcoliche presentino connotazioni peculiari proprio in quanto situati nel percorso di crescita dell’adolescenza, caratterizzato dall’orientamento alla sperimentazione ed alla trasgressione o almeno alla forzatura di limiti percepiti come imposti dagli adulti. Nulla sostiene il fatto che, in presenza di esperienze giovanili di abuso, il rapporto con l’alcol assuma necessariamente carattere di problematicità, né che sia elemento rilevante relativa- (segue a pag. 117) N. 167 - 2008 Carlo Favero Renzo Rolando* Educatore-animatore consulente Ser.T - ASL TO 4 *Psicologo DSM - ASL TO 4 I l presente testo è il risultato di un lavoro, impostato su criteri antropologici e psicosociologici, che ha permesso l’osservazione diretta di comportamenti d’uso ed il dialogo fiduciario con gli usatori di cocaina nei luoghi di aggregazione e socializzazione in Settimo Torinese. L’illegalità del comportamento non sembra costituire una grossa barriera alla discussione pubblica sull’argomento, purchè affrontato nell’informalità e negli incontri casuali. Questo ha favorito la raccolta di esperienze ed opinioni da parte degli usatori, che sembrano delineare una vera e propria “cultura d’uso”. La novità qualitativa del contenuto rilevato attraverso questa metodologia dialogica sembra essere l’uso della cocaina all’interno di riti generazionali di passaggio, tanto quanto questo un tempo avveniva con l’hashish. In questo, l’uso della cocaina sembra sovrapporsi nelle modalità e nella significazione alla cultura dell’uso dei derivati della cannabis, dove la discriminante percepita sulla gravità dei comportamenti non sta più nella differenziazione tra droghe leggere e droghe pesanti, ma nella distinzione tra uso inalatorio ed uso endovenoso. I Servizi per le dipendenze patologiche Sae l ute Territorio 107 La cultura d’uso della cocaina Non è stato rilevato spaccio di strada La modalità di smercio della sostanza non avviene tramite “offerta pubblica” al cliente anonimo in luoghi stigmatizzati: appare accertato quindi che i consumatori abituali sono in relazione tra loro e con le fonti in maniera strutturata e continuativa. Appare quindi diffusa la modalità di acquisto e di consumo in gruppo, ed in qualche misura l’accreditamento individuale presso le fonti sulla base di un riconoscimento reciproco dentro una relazione di appartenenza. Il consumatore sociale Si va quindi a definire una prima fascia di consumatori il cui uso è abituale, ma sostanzialmente controllato, ricreazionale e vissuto come una tra le opzioni del tempo libero, sullo stesso identico piano di altri comportamenti ed abitudini del tempo libero, senza particolare considerazione per la pericolosità o l’illegalità. Definiamo sociale questa categoria di usatori, perché compatibile con un ruolo sociale integrato, ma anche ampiamente accreditata e tollerata in una certa fascia sociale e di età: il comportamento è connesso ad una Una ricerca “sul campo” condotta da operatori accreditati come “adulti competenti” identità debole, in quanto non concorre ad uno specifico etichettamento, nè appare particolarmente criminogeno, se non sotto il profilo della cosiddetta induzione all’uso quando l’acquisto viene effettuato in modalità collettiva. Il consumatore problematico Il consumatore problematico va a costituire una seconda fascia difficilmente quantificabile, che viene formata principalmente da quegli usatori che probabilmente già in origine mostravano una certa vulnerabilità agli effetti della cocaina, e che anche nella fase più o meno sociale hanno sviluppato una modalità di uso come “autocura” in senso neurotico, in particolare verso insicurezze e inibizioni di tipo relazionale e personologico. Presso questa fascia l’uso si fa più individuale, e può portare al rapido incremento di posologia ed a doversi confrontare con problemi economici e possibile perdita di ruolo. La domanda rivolta in questo caso agli operatori è spesso quella di sostegno per ricondurre l’uso ad una misura più compatibile, ma valgono allo stesso modo una serie di strategie di copying socialmente sostenute per riprendere il controllo ed interrompere l’uso. È comunque lontana dall’orizzonte di questi consumatori problematici l’eventuale presentazione ad un Servizio per le dipendenze patologiche, proprio perchè sancirebbe la temuta perdita di ruolo e stigmatizzerebbe la crisi. Il consumatore dipendente La fascia della dipendenza in senso classico mette in atto più visibilmente tutti i comportamenti consueti a quelle categorie, è quasi interamente composta dagli ex-eroinomani che sono passati alla cocaina con le stesse modalità con cui vivevano la dipendenza dall’eroina o dalla sostanza sostitutiva, restano nel loro “menù” per un uso saltuario, o vengono anche totalmente sostituiti. (segue a pag. 117) l ute Sa e 108 Territorio S. Bertoletti C. Cippitelli* I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 Nuovi stili di consumo Responsabile area prevenzione Coop CAT Centro animazione tricche ballacche * Presidente nazionale “Nuove droghe” S ono passati oltre due lustri da quando alcune équipe di operatori della prevenzione muovevano i primi passi in quello straordinario fenomeno rappresentato dalla discoteca degli anni ’90. Le motivazioni che spingevano a cimentarsi con contesti inediti, in larga misura poco conosciuti dal mondo adulto (e proprio per questo da esso fatti oggetto di stigma e pregiudizio), sono da rintracciare nella convinzione che si fosse in presenza di cambiamenti significativi nei desiderata e nei comportamenti di una vasta fascia del mondo giovanile. La notte, il ballo, gli stati alterati di coscienza, le sostanze psicotrope, assumevano significati nuovi, poco esplorati dalla ricerca e dall’intervento sociale, ridefinendo l’idea stessa di piacere, e non solo per la generazione direttamente coinvolta ma – ritematizzandola – per l’intera società. Allievi consapevoli (e a volte inconsapevoli) di Maria Teresa Torti 1 , quegli operatori hanno cominciato ad abitare la notte, in modo professionale, ridefinendo 1 completamente metodologie, approcci, stili, obiettivi dell’intervento, spesso con grande fatica 2 , sempre senza la rete di sicurezza costituita dal consolidato e dal consueto: fuori dai facili schemi (prevenzione primaria, secondaria e terziaria), sprovvisti delle semantiche legate agli oppiacei (buco, tunnel, dolore, sofferenza, emarginazione, malattia e morte), nudi delle forme comunicative e degli strumenti abituali. Quelle équipe e quegli operatori hanno osato frequentare contesti che non li prevedevano, rischiando l’incongruità, tornando a riflettere in maniera originale sul loro ruolo, abbandonando le rassicuranti pareti dei servizi tradizionali (anche di quelli mobili, come i camper) per varcare il limen della nuova notte, delle nuove sonorità, dei nuovi consumi di sostanze psicoattive. Oggi, possiamo dire che da quelle esperienze pionieristiche è nata un’intera filiera di intervento, che ha profondamente modificato i saperi e le pratiche delle attività di prevenzione, connettendoli alle Fenomeni e interventi imprevisti. Un’occasione per rinnovare il sistema. I luoghi del loisir notturno politiche di riduzione del danno, alla ricerca sociale3 e più in generale alle pratiche di mediazione e sicurezza nel sociale. Varcare questi confini ha significato molte cose, ma soprattutto ha voluto dire immettersi in un flusso di cambiamenti continui e progressivi superando via via la soglia di ambienti che venivano conosciuti e che, come la discoteca, diventavano obsoleti, inventandosi soluzioni nuove per riuscire a stare e a venire accettati su un percorso sempre più frammentato e complesso. Policonsumi e contesti frammentati I luoghi del loisir notturno si sono trasformati e moltiplicati in pochi anni, e anche l’uso di sostanze psicotrope è cambiato velocemente; ormai non ha quasi più senso parlare di “droghe da discoteca”, intendendo con ciò sostanze che vengono usate prevalentemente o esclusivamente in quel contesto: vediamo invece come molte di esse vengono sperimentate e usate con modalità più trasversali, in luoghi diversi, fino ad arrivare ad un uso privato in casa propria. Va certamente compreso che stiamo parlando di modalità di uso e di sperimentazioni che si sono diffuse in modo orizzontale nella popolazione giovanile, tenendo ben presente che non si parla necessariamente di abuso o di dipendenza. Una distinzione che a qualcuno può apparire superflua, ma che risulta centrale nel panorama dei consumi, e segna un passaggio culturale importante. La dipendenza non può più rappresentare la chiave di lettura principale per ap- M.T. Torti, Abitare la notte, Costa & Nolan, 1997. A tale proposito, si veda l’articolo di Claudio Cippitelli Mai prima di mezzanotte, in Se mi tingo i capelli di verde è solo perché ne ho voglia, Castelvecchi, Bologna 1999. 3 Una per tutte, si veda la ricerca intervento pubblicata in: F. Bagozzi, C. Cippitelli, Giovani e nuove droghe: 6 città a confronto, Franco Angeli, Milano 2003. 2 N. 167 - 2008 procciare il fenomeno in oggetto e, soprattutto, per organizzare gli interventi di prevenzione. Sono necessari modelli più sofisticati, che possano aiutarci a calibrare messaggi, posizioni e proposte. Questo non significa negare l’esistenza di rischi e danni connessi anche al consumo, ma piuttosto tentare di comprendere meglio la loro natura, le diverse specificità. Spesso, nelle situazioni in cui si trovano a lavorare gli operatori la dimensione della dipendenza appare secondaria, anche se negli ultimi anni si è osservato un incremento dell’uso di oppiacei, quasi sempre all’interno di stili connotati dal policonsumo. Gli approcci utili per entrare in contatto con le persone in difficoltà, a causa del loro consumo di sostanze, devono tenere conto del contesto ambientale, della situazione specifica della persona, delle caratteristiche delle sostanze assunte e del tipo di mix sperimentato. La scelta è quella di intervenire sui rischi emergenti nel breve-medio termine: rischi legati all’incidentalità stradale e sul lavoro, ai malesseri o alle crisi con conseguenze psichiche, e ora più di prima, a problemi di natura legale. 4 I Servizi per le dipendenze patologiche Specializzazioni e trasversalità degli interventi Nel complesso, siamo di fronte a due tendenze generali che definiscono la prospettiva che vogliamo illustrare. La prima tendenza sottolinea la necessità di andare oltre la classica tripartizione degli ambiti della prevenzione (prevenzione primaria, secondaria e terziaria), superando inoltre le distinzioni tra le tipologie di consumatori, che oggi presentano caratteri di contiguità sempre maggiori. Non è più così agevole scegliere la metodologia di intervento esclusivamente in base al contesto: capita frequentemente di dover fare interventi nelle scuole adottando messaggi finalizzati alla riduzione dei rischi, sia perché la scuola è tutt’altro che estranea al consumo di sostanze, sia perché gli studenti con cui si entra in contatto spesso fanno riferimento ad esperienze di policonsumo. Vi è quindi una continuità in termini di contenuti e di messaggi che va tenuta ben presente e che in un certo senso avvicina molto le varie modalità di fare prevenzione. L’altra tendenza generale, solo apparentemente in contrasto con la precedente, si riferisce alla necessità di specializzare gli interventi rispetto ai contesti in cui si lavora. Si tratta di una tendenza messa in atto da molte équipe che, in questi anni, si sono trovate a lavorare nei luoghi del divertimento notturno, ad esempio allestendo postazioni complesse con aree chillout, in grado di integrare interventi sanitari di primo soccorso e interventi di accoglienza e animativi. Vanno in questa direzione lo sviluppo delle unità mobili che promuovono attività di animazione territoriale organizzando eventi, concerti, attività sportive, iniziative di valorizzazione degli spazi pubblici. Un fiorire di progetti rivolti ai diversi contesti aggregativi: pub, discoteche, grandi eventi musicali, piazze e muretti, scuole, palestre; progetti con finalità e metodologie specifiche. Sistemi e integrazioni: oltre la dimensione locale Appare sempre più necessario promuovere l’integrazione tra interventi locali diversi, componendo e sostenendo un sistema di progetti che metta in rete soggetti operanti in aree territoriali vicine e connesse. Le committenze pubbliche, ai diversi livelli, dovrebbero favorire la costituzione di tali network, superando una visione meramente Sae l ute Territorio 109 amministrativa del territorio. Gli Enti locali devono prendere coscienza del normale nomadismo dei gruppi giovanili rispetto ad occasioni ed eventi che si realizzano fuori del loro territorio e, parallelamente, il potere di attrazione extralocale degli eventi che si realizzano nei loro confini amministrativi4. La necessità di promuovere un maggiore livello di integrazione tra équipe e servizi diversi risulta evidente quando si parla di interventi specializzati sugli eventi di loisir giovanile, specialmente se si tratta di grandi eventi. In questo ambito, in Toscana, nel Lazio, in Emilia Romagna e in altre Regioni sono nati progetti5 che hanno l’obiettivo di sviluppare interventi di prevenzione e riduzione dei rischi nei grandi eventi (Festival musicali, rave party, raduni giovanili); progetti che da anni sperimentano una forte integrazione sia metodologica che operativa. I vantaggi di questo orientamento sono numerosi: permettono la continuità e la coerenza dei messaggi preventivi; la riconoscibilità di servizi anche come network; la possibilità di condividere e sperimentare pratiche innovative rispetto all’accoglienza, al contatto e alla gestione di situazioni critiche; In molti casi verrebbe da citare Zigmunt Bauman, quando sostiene che non esistono soluzioni locali a problemi locali: si può risolvere, ma anche solamente fronteggiare il problema della prostituzione e della tratta di esseri umani che coinvolge un territorio avendo come unità amministrativa di riferimento una circoscrizione? E quale sarà la risposta che in via prioritaria reclameranno i cittadini (o almeno una buona e rumorosa parte di essi) di un quartiere adiacente ad un’area di sosta per nomadi? 5 Progetto “Extreme”, intervento nei grandi eventi giovanili finanziato dalla Regione Toscana dal 2001 alla Coop. CAT e al Comune di Firenze; attualmente (2006) intergrato nel Progetto IRMA2, finanziato dalla Regione Toscana a CNCA Toscana. Progetto “Nautilus”, finanziato dalla Regione Lazio, implementato dalle Cooperative romane Il Cammino, Parsec, Magliana 80, e dall’Associazione La Tenda; il progetto si occupa in modo specifico di interventi nei rave parties e nei grandi eventi giovanili. “Coordinamento regionale Unità di strada Regione Emilia Romagna”, coordinamento delle Unità di strada regionali finanziato da Regione Emilia Romagna; si occupa anche di grandi eventi giovanili e realizza attività in eventi importanti come la Street Parade di Bologna. l ute Sa e 110 Territorio l’attivazione di prese in carico anche di persone residenti nella Regione o nel Comune adiacente, colmando così quel gap che spesso si crea tra l’intervento di emergenza su un episodio critico e una presa in carico più complessiva nell’ambiente di vita ordinario della persona soccorsa. Allo stesso tempo si tratta di una prospettiva che consente di sviluppare ambiti di ricerca sul fenomeno con strumenti comuni confrontabili. Oltre la peer education L’educazione tra pari ha avuto un discreto sviluppo in Italia, in particolare nei progetti di prevenzione rivolti ai giovani, soprattutto in ambito scolastico. Vi sono diverse modalità di intendere la figura del peer educator e di disegnarne il ruolo; alcune, derivanti dai lavori di Bandura6 e successori, limitano questa figura ad un ruolo di “agente di diffusione” di messaggi; altre, vedono tale figura come un attore che si muove con autonomia e significatività all’interno della “subcultura” 6 I Servizi per le dipendenze patologiche di appartenenza, rielaborando messaggi ricevuti e creandone di propri. Nella nostra esperienza, la peer education è stata declinata come una strategia di potenziamento della capacità elaborativa e di comunicazione dei giovani attori coinvolti, mantenendo un pieno rispetto della loro autonomia di pensiero, dei ruoli rivestiti nei diversi contesti e delle culture che tali aggregazioni giovanili esprimono. In tal senso, la peer education diviene una strategia di empowerment che, nel potenziare l’autonomia dei soggetti coinvolti, non affranca gli adulti dai loro compiti e responsabilità, in un rapporto dialettico con le realtà giovanili con le quali operano. In questa logica, si è dimostrato molto produttivo lavorare sulla costruzione di autentiche partnership con gruppi (o singoli) coinvolti nella realizzazione di eventi di loisir giovanile; essi rappresentano una risorsa strategica nel promuovere cambiamenti culturali profondi in tema di aggrega- zione e intrattenimento giovanile; l’obiettivo è favorire maggiore partecipazione tra i frequentatori di eventi (spesso consumatori di sostanze) e di rinforzarne le forme di autotutela7. Ci siamo resi conto, lavorando a stretto contatto con chi riusciva ad avere uno sguardo “interno” ai contesti di loisir, che il numero e l’incidenza degli episodi critici e dei comportamenti a rischio risultavano strettamente correlati alle modalità di concepire l’ambiente, alla qualità delle offerte culturali, alla presenza di servizi adeguati e al coinvolgimento attivo dei partecipanti sulle pratiche di safeness. Nel tempo, le esperienze nell’area fiorentina e laziale hanno dato luogo ad una nuova modalità di interpretare il lavoro con gruppi di pari, passando da un ambito squisitamente educativo ad un panorama più ampio, nel quale si promuove la nascita di imprese giovanili in grado di gestire in sicurezza gli eventi, offrendo professionalità nuove sul mercato dell’intrattenimento8. N. 167 - 2008 Basse soglie diffuse Se l’intervento nei contesti di consumo ha visto uno sviluppo inedito in termini di modelli e strumenti operativi, non sono mancate le esperienze che hanno tentato di creare un più ampio sistema di connessione tra i servizi “classici” e altri luoghi di trattamento delle domande di aiuto. Tali esperienze possono rappresentare uno stimolo per aggiornare il sistema dei Servizi, dotandolo di “basse soglie diffuse” in grado di realizzare quella presa in carico precoce che, da tempo, propone Renato Bricolo. L’evoluzione dei progetti, capillarmente diffusi nei territori, insieme alla diffusione di attività di peer support, potrebbero favorire la nascita di luoghi dove accogliere con maggiore adeguatezza le domande portate dai giovani consumatori, al di là dei tradizionali Servizi specialistici (Ser.T, Psichiatria, Consultori). I modelli a cui ispirarsi sono vari, non certo numerosi specialmente in Italia, ma sufficienti per individuare dei riferimen- A. Bandura, H.W. Richard, Social learning and personality development, Holt, New York 1963; A. Bandura, Social learning Theory, General Learning Press, New York 1986. 7 Secondo questo approccio, quelli che una volta erano tematizzati come possibili fruitori dell’azione sociale (utenti, destinatari finali, …) divengono partner di un reticolo operativo tanto quanto gli altri Servizi presenti sul terreno di intervento. I questo senso, la partecipazione ad un rave, ad un tecknival, ad un free festival non è mai pensato solo come azione di diffusione di messaggi preventivi, ma come occasione di concertazione (con gli organizzatori in primo luogo, e con tutti i partecipanti) per la realizzazione di un evento safe, dove la progettazione di una sicurezza possibile deve essere responsabilità di tutti i soggetti che promuovono o che semplicemente partecipano alla festa. In questo senso, i Centri sociali, le tribe, gli organizzatori di rave party, rappresentano altrettanti nodi del network nel quale è collocata l’azione sociale; buona parte dell’attività dell’Unità di strada è dedicata alla cura delle connessioni con tali nodi, senza i quali è impensabile condurre, nei contesti in oggetto, una qualsiasi attività dotata di senso. 8 Questo aspetto ha trovato espressione nel Progetto EQUAL “Social entertainment service”, diretto da Consorzio NOVA, Consorzio nazionale per l’innovazione sociale – con un partenariato costitituito da: Comune di Firenze, Provincia di Arezzo, Università di Firenze, Fondazione Arezzo Wave, Cooperativa sociale CAT, Cooperativa “Al Plurale”, ASA (Associazione studentesca autogestita). Il progetto ha promosso l’avvio di un sistema integrato di collaborazione tra enti pubblici, imprese sociali, associazionismo giovanile e imprenditoria profit finalizzato alla costituzione di un impresa sociale (SWITCH: Social creative network) che sia in grado di: intervenire nell’ambito di grandi eventi musicali diretti ad un pubblico giovanile con la finalità di prevenire situazioni di rischio, promuovere prassi di salute e di sicurezza per i partecipanti e per i contesti sociali, curare forme di mediazione sociale tra l’evento e le Comunità territoriali. Promuovere eventi e gestire spazi all’interno del territorio regionale volti alla socializzazione, alla facilitazione della partecipazione giovanile, alla promozione delle competenze culturali e artistiche di gruppi e singoli. N. 167 - 2008 ti da sviluppare. Le caratteristiche comuni tra loro sono: la bassa soglia di accesso, lo stretto lavoro in rete con gli altri Servizi (di prevenzione, specialistici ecc.), l’informalità dell’approccio, la leggerezza organizzativa, ambientazioni e orari adeguati. Infoshop Sulla scorta di esperienze di eccellenza maturate in ambito europeo (uno fra tutti il negozio della prevenzione di Crew 2000 a Edimburgo), alcune realtà italiane impegnate in progetti di prevenzione e riduzione dei rischi si sono dotati di un infoshop, vale a dire negozi su strada, facilmente accessibili e a bassa soglia, nei quali accogliere singoli ragazzi e gruppi. Non si tratta di locali dove vengono distribuiti gli strumenti di profilassi specifici dei programmi di riduzione del danno (siringhe, acqua distillata…), quanto piuttosto luoghi di sosta o di transito dove trovare informazioni sugli eventi musicali, sulle attività in città e anche materiale informativo sulle sostanze psicotrope. Gli infoshop sono anche luoghi dove trovare consulenze di vario tipo (psicologiche, legali, ecc.), 9 I Servizi per le dipendenze patologiche dove organizzare la formazione e programmare le attività dei gruppi di peer education, dove poter accedere ai siti web specifici. Gli infoshop 9 nella nostra esperienza non vogliono assomigliare ad altre realtà indoor da tempo presenti sui territori, come i “Centri giovani” o gli spazi aperti con i fondi della legge 285. Il loro compito non è quello di offrire un ulteriore luogo di animazione o di accoglienza aspecifica: loro obiettivo è quello di collegare idealmente i contesti di intrattenimento notturno (la festa, l’extraordinario, i consumi…) con il giorno e la dimensione dell’ordinario. Sono un luogo dove orientarsi anche rispetto ai nuovi scenari di consumo, dove progettare e proporre azioni alternative, autonome, autogestite, un luogo dove trovare idee e portarne di proprie10. Creare un sistema di risposte accessibili Lavorare con l’appoggio di strutture territoriali non vuole intendere un ritorno alla rassicurante chiusura nelle mura dei Servizi, ma cercare di creare un sistema capillare di risposte integrate, che contempli attività outdoor e indoor. Questo è uno degli obiettivi più importanti da perseguire, alla luce dei cambiamenti prodotti dai nuovi stili di consumo e dagli attuali livelli dei consumi di cocaina ed eroina. Si tratta di avere coraggio e resistere alla tentazione di rimanere immobili nelle sedi tradizionali dei Servizi, pensando che in fondo tutto tornerà lì dentro, che la popolazione “dipendente” prima o poi arriverà a varcare quella soglia. Siamo convinti che sarebbe un errore grave e che invece la strada sia un’altra. Questa prevede il mantenimento del lavoro outdoor nelle sue varie articolazioni, mirando a rafforzare i vantaggi guadagnati: la conoscenza dei fenomeni e la possibilità di seguirne l’evoluzione in tempo reale, la fiducia e il riconoscimento da parte delle utenze, la possibilità di fornire risposte concrete in contesti che altrimenti rimarrebbero completamente irraggiungibili. Per procedere in questa direzione c’è bisogno di ampliare il sistema delle risposte che integrano il lavoro mobile delle Unità di strada, attivando iniziative che si pongano in Sae l ute Territorio 111 una posizione intermedia rispetto ai Servizi istituzionali. Sarà utile attivare altri punti in grado di accogliere bisogni specifici di utenze identificabili e definite. Il caso del mondo del lavoro vale per tutti: l’esperienza e la ricerca avvertono che una buona parte dei consumatori sono lavoratori che rischiano di essere intercettati, anche se in modo sporadico, solo dalle unità mobili presenti negli eventi notturni. La grande diffusione della cocaina nei posti di lavoro pone nuove domande, alle quali non è possibile rispondere senza l’attivazione di quelle strutture intermedie di cui si è detto, in grado di accogliere le domande in modo adeguato ai bisogni di chi ha una professione e, spesso, una famiglia. Esiste, nelle istituzioni, la consapevolezza della sfida che dovremo affrontare e della complessità organizzativa che la realtà imporrebbe? Forse; per ora, i tentativi di integrazione tra progetti e Servizi, alcune volte disperati, vengono operati quasi esclusivamente dal basso. Esclusivo patrimonio di chi, con fatica e scarso riconoscimento, li gestisce. Progetto Infoshop - centro Java - Comune di Firenze Coop. CAT; Centro Infoshop -progetto “Oltre il Muro” Coop PARSEC - Roma. L’esperienza del centro Java a Firenze, ci fornisce, soprattutto in questi ultimi due anni, buoni risultati nel lavoro con gruppi a forte rischio di marginalizzazione, come i punkabbestia. Giovani e giovanissimi consumatori problematici alcuni con problemi di dipendenza da eroina, che hanno riconosciuto il centro Java come uno spazio dove far riferimento abituale nei loro giri, e in molti casi uno luogo dove entrare in rapporto di consulenza con una psicologa. 10 l ute Sa e 112 Territorio Paola Rivaris Ed. Prof. - Ser.T. Settimo T.se - ASL TO4 P er inclusione sociale si intende quel complesso di promozione di pari opportunità nell’accesso all’istruzione, alla formazione, all’occupazione, utilizzando strumenti finalizzati allo sviluppo di empowerment sociale, sia individuale che collettivo. Molte sono le pratiche del lavoro sociale tese ad abilitare o a ri-abilitare persone che vivono processi di esclusione sociale poco sostenibili, o temporanee situazioni di svantaggio sociale. Il tema lavoro, inserimento al lavoro, risulta spesso centrale e di vitale importanza. Il lavoro permette un rinforzo identitario per la persona, la inscrive naturalmente all’interno di relazioni e scambi umani, è una risorsa fondamentale nel favorire riconoscimento sociale, modifica lo stigma sociale, rafforza quel bisogno di appartenenza e quella sperimentazione di un sé sociale, nodale in ogni percorso di cambiamento. Volutamente non parlo di inserimenti lavorativi, bensì di percorsi di inserimento al lavoro in quanto quest’ultimo è e resta una delle molte variabili in campo, in un processo di riabilitazione. Il lavoro è solo uno dei tanti dispositivi utili. I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 I percorsi di inclusione Come così bene descrive L.Ciompi, gli assi centrali di un processo riabilitativo devono comprendere contesti multipli quali casa, lavoro, gli affetti e competenze. Vi è una costante e circolare interdipendenza tra questi temi, appartengono tutti al mondo vitale di ciascun individuo ed è drammaticamente parziale enfatizzarne uno di essi a scapito degli altri. L’inserimento al lavoro va necessariamente inscritto all’interno di una progettualità sociale ed individuale dove la persona è soggetto e non mero oggetto di un intervento. Questo atteggiamento di ascolto, coinvolgimento, coprogettazione, non attiene ovviamente al solo campo preso in esame, bensì attraversa coerentemente ogni attività dei servizi di aiuto alla persona, sia in ambito sociale che sanitario. La necessità di formulare e condividere “progetti personalizzati” richiama inequivocabilmente quel delicato processo di ricerca di equilibri di vita possibili per l’individuo, propri di ogni intervento di cura. Il lavoro non può essere considerato un mero punto d’arrivo del processo riabilitativo-terapeutico, deve anch’esso inscriversi in una circola- Reinserimento sociale: reti formali ed informali rità di interventi, di momenti di vita, all’interno dello stesso percorso di cura. Non esiste un chiaro” prima e dopo” ma un costante “durante”, dimensione questa, spazio temporale, utile a definire e a ridefinire continuamente un senso a ciò che avviene, a quello che la persona scopre e sperimenta, alle relazioni che si sviluppano e che mutano, alle difficoltà che si incontrano, alle “ricadute” che possono diventare momenti di svolta significative, se trattate con la pratica della consapevolezza. Centrale diviene l’attribuzione di un senso e significato per la persona. Quello che sino ad alcuni anni fa era il campo delle tossicodipendenze oggi si è inevitabilmente trasformato e risulta più complesso da comprendere per le molteplici forme che lo vanno a rappresentare. Oggi il focus degli interventi, nei Servizi adibiti alla prevenzione, cura e alla riabilitazione dei soggetti con problemi di tossicodipendenza, si è ampliato. Si parla di dipendenze patologiche da sostanze legali e non, di dipen- denze patologiche non da sostanze,ma da comportamenti diventati disfunzionali per l’individuo. Al vecchio eroinomane di alcuni anni fa, si sono aggiunti nuovi personaggi e scenari, sia per quanto concerne l’uso/abuso, oramai prevalente, di altre sostanze(principalmente cocaina e alcol), sia per quanto riguarda l’insorgere di comportamenti caratterizzati dalla compulsività e dalla forte dipendenza non necessariamente da sostanze (ad esempio il gioco patologico). Quale nuovo significato può oggi assumere un processo di inclusione sociale? Se la sostanza eroina era principalmente utilizzata in modo autoescludente, questi nuovi scenari, quali la diffusione di massa di altre sostanze e di comportamenti, sono sicuramente più inclusivi e portatori di un potenziale uso egosintonico per i soggetti, nella società attuale. Come ridefinire i concetti di abilitazione e ri-abilitazione con soggetti che quando arrivano ai Servizi, portando diversificate richieste d’aiuto, è N. 167 - 2008 perché “qualcosa non ha funzionato, per l’insorgere di incidenti di percorso”? Anche negli attuali scenari delle politiche sociali e sanitarie si parla di “nuove povertà”, laddove fasce di popolazione non appartenenti alle classiche categorie sociali della multiproblematicità, evidenziano grosse difficoltà ad accedere a quei bisogni primari quali casa, lavoro, istruzione, sanità o da essi vengono estromessi per le diverse contingenze e contraddizioni delle società attuali? Come coniugare politiche di maggiore protezione sociale con la necessità di garantire sistemi di tutela, affinché soggetti socialmente ed individualmente più deboli non incorrano in percorsi di cronicizzazione della loro condizione di difficoltà, a volte temporanea, preludio di un possibile isolamento sociale? Sono questi temi aperti e complessi che non possono essere affrontati se non all’interno di una rivisitazione più ampia del concetto stesso di welfare e di sviluppo sostenibile. Sin dal 2000 con la Strategia di Lisbona, cioè quel programma di indirizzo di riforme economiche, approvato dai capi di stato e di governo dei paesi della Ue, rivisitata e rafforzata negli anni successivi, si parla chiaramente di migliore qualità della vita, di necessità di maggiore coesione sociale, di opportunità di sviluppare politiche complementari in grado di fronteggiare le nuove fragilità sociali, promuovendo progresso sociale, occupazionale e sostenibilità ambientale e del territorio. I Servizi per le dipendenze patologiche Viene fatta specifica menzione alla preponderante necessità di tutelare e garantire l’accesso ai servizi, alle risorse ed ai diritti con particolare attenzione alle fasce di popolazione più debole e marginale. Il tentativo di gettare un ponte, tra il mondo economico e quello sociale, tra l’area dell’esclusione e dell’emarginazione e quello dell’integrazione, non può non confrontarsi con le concrete pratiche sociali, sanitarie e di lavoro dei singoli territori. Tuttavia, per chi lavora nei servizi alla persona, sembra che i due mondi, quello economico e di sviluppo e quello che si occupa di politiche sociali e sanitarie, paiono non parlarsi. Sembrano essere complementari solo nell’ occuparsi l’uno dello scarto dell’altro. È evidente l’interdipendenza di questi due campi, solo apparentemente distanti. Molti degli interventi progettati e realizzati dai Servizi si collocano e attengono al campo degli inserimenti al lavoro. Sarebbe logico e naturale pensare ad uno stretto e naturale rapporto di collaborazione tra le organizzazione del mondo produttivo e i Servizi. Così non è. I rapporti vanno costruiti, istituiti i tavoli di collaborazione reciproca. È necessario uscire dalle reciproche stereotipie di visione e di linguaggio. Tuttavia oggi si parla sempre più diffusamente di” responsabilità sociale” delle aziende anche nel settore del profit, in quanto la consapevolezza di come sia forte l’interdipendenza tra lo sviluppo eco- nomico e lo sviluppo sociale di un territorio è cresciuta. Esistono “contenitori” locali di programmazione e di richiesta di finanziamenti per progettualità comuni. È necessario, per i Servizi, partecipare non con una presenza puramente formale e di facciata, ad esempio ai Piani di zona, che sono l’occasione offerta alle comunità locali per leggere, valutare, programmare e guidare il proprio sviluppo. Il Piano di zona va visto e realizzato come piano regolatore del funzionamento dei servizi alle persone. In particolare, il Piano di zona è lo strumento promosso dai diversi soggetti istituzionali e comunitari per sinergizzare le iniziative dei diversi soggetti, istituzionali, del volontariato e profit, al fine di implementare il benessere della popolazione. Presidiare questi spazi, con contenuti progettuali, significa anche farsi portatori di quei bisogni che gli “abitanti” dei nostri Servizi portano sovente adattandoli a domande predefinite o indotte (come ad esempio la richiesta di forte medicalizzazione), costituendo così la possibilità di trasformarli in domande vere che tendano ad attivare possibili risposte concrete. Spetta anche ai Servizi sociosanitari uscire dagli ambiti ritenuti di storica competenza, utilizzare questi luoghi altri di programmazione e di progettazione e sviluppare azioni di forte partnerariato a livello locale, volte a realizzare programmi e progetti di reale inclusione sociale, partendo dai nuovi e vecchi bisogni della propria utenza. Sae l ute Territorio 113 L’elemento unificante è rappresentato dal “territorio”, quel ricco microcosmo di relazioni di reciprocità. Un territorio non è solo uno spazio fisico, una mappa, un luogo con caratteristiche di staticità, bensì si avvicina più ad un habitat ricco di intrecci, di relazioni tra singoli e tra diverse “tribù” d’appartenenza. È fatto di scambi, di scontri, di emozioni, di identità, di abitudini, di attribuzioni di senso e significato. Non si vuole con ciò riproporre una mitizzazione, ormai superata, del territorio come di per sé “terapeutico”. Non dimentichiamo che la comunità è anche luogo di legami rigidi, di identità fossilizzate e di ostracismo del “diverso”. È quindi compito dell’operatore assumere anche il territorio e le sue complesse relazioni come ambito di intervento. Solo assumendo anche il contesto come campo di intervento è possibile operare affinché interessi particolari, invece di confliggere possano costituirsi in inter-essi. Per cogliere il senso ed i significati di un territorio è necessario incrociare le diverse mappe di tutti coloro che lo abitano, abbandonare le rigidità dei singoli, mettendosi nella condizione di fare nuove esperienze, perdersi, uscire dalle certezze per entrare nel campo dell’ascolto, della possibile ridefinizione di un significato comune e condiviso. Il delicato tema della globalizzazione, della comparsa di “non luoghi” neutri ed impersonali, impone a tutti, operatori sociali e sanitari compresi, l’imperante necessità di tessere o ritessere le- l ute Sa e 114 Territorio gami sociali forti, di recuperare anche quell’informale, quelle reti di relazioni famigliari, personali, di vicinato, di “comunità” che possono diventare tecnica di lavoro in campo sociale. Nel campo delle dipendenze patologiche, in una società che sviluppa, per sua necessità di sopravvivenza, la dipendenza come valore, la scommessa possibile diventa quella di sviluppare e sostenere quei legami, quel fare “rete” tra territori del formale e territori dell’informale permettendo all’individuo di sperimentarsi con modalità di interdipendenza. Quello che in altri termini viene oggi definito come clinica del legame (Benasayag, Schmit – L’epoca delle passioni tristi). La cura non è così solo la cura del singolo individuo ma anche quella dei suoi nodi relazionali possibili, dello sviluppo di quel senso di appartenenza che contempla anche i “legami deboli” come valore della tessitura di una rete umana e sociale, che consenta di sentirsi sostenuto anche nei momenti di difficoltà, che richiama alla possibilità di sviluppare competenze di relazione umana e sociale, che tenta di superare la dicotomia mente-corpo attraverso la sperimentazione della possibilità di emanciparsi da reti soffocanti o troppo vincolanti costruendo nuove possibilità di relazioni e di legami evolutivi. Gli utenti dei nostri Servizi sono spesso soggetti fragili che diventano “stranieri” nel proprio territorio, che ci mostrano le contraddizioni presenti con la drammatica evi- I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 denza dei loro agiti. Sono soggetti che non stanno alle regole implicite ed esplicite, che interpretano e sperimentano, anche in virtù delle loro singole e personali storie, modalità disfunzionali per stare al passo coi tempi. Se “il far serata”, il dictat delle prestazioni in campo sociale, lavorativo, interpersonale si coniuga con l’uso di additivi leciti e non, se, per l’imperativo del divertimento, dello stare “nel gruppo”,è necessario adeguarsi alle leggi del branco, chi non possiede o chi padroneggia a fatica una cultura della complessità, si trova spiazzato,ricorre inevitabilmente alle semplificazioni proposte dal mercato delle sostanze legali e non, rimanendovi, spesso, intrappolato. Gli operatori dei Servizi entrano così nel delicato campo dell’interculturalità, della multiculturalità come unica chance possibile per tradurre i significati dei comportamenti dei singoli soggetti. Onde poter progettare percorsi inclusivi è fondamentale che gli operatori posseggano strumenti per rileggere il comportamento agito in relazione alla multiculturalità che esprime. Le mappe culturali, sociali, emotive, personali che entrano in gioco e di cui il singolo soggetto si fa portatore con i suoi comportamenti, sono molteplici e attengono sia alla storia del singolo ma anche e soprattutto ai cortocircuiti dei tentativi di integrazione singoli e collettivi, che vengono utilizzati. Gli abitanti dei nostri luoghi di ascolto e di cura spesso ci portano forti contenuti di te la stessa relazione d’aiuto che si mette in campo. I Servizi e gli operatori diventano “laboratori” di incontro umano, relazionale, affettivo, di dialogo. Si attrezza l’individuo alla possibilità di scoprirne il valore ed il profondo significato di crescita. In questo quadro anche le esperienze che si propongono divengono novità per la persona che chiede aiuto. Da qui inizia il possibile percorso di inclusione. Per la persona che ha sperimentato l’uso di sostanze quale surrogato, stampella nel suo personale tentativo di inclusione, l’abbandono della stessa evidenzia sofferenze non sopite, limiti negati, onnipotenze artificiali. Ci si trova dinanzi ad un vuoto, anche, emotivo da riempire. Il Servizio è così chiamato a svolgere un delicato compito di costruzione di riletture e connessioni che non possono essere unidirezionali: dal soggetto al contesto, senza che questo, almeno, si interroghi sui suoi propri limiti, senza delegare ai tecnici, supposti onnipotenti, una normalizzazione che non riconosca l’espressione di alterità emozionali e culturali. La normalità proposta è spesso vissuta dal soggetto come deprivazione, come mancanza, come assenza; anche se, apparente paradosso, è lo stesso “ ex” ad autorichiedersi una ipernormalizzazione a volte persino caricaturale. La colpevolizzqzione, interiorizzata, fa si che la persona non riesca a ridare senso al suo percorso, “criminalizzandolo” lui stesso e con ciò ne- isolamento intra ed extra familiare. Hanno sostituito le relazioni, intese come scambio, come reciprocità, con una miriade di “contatti”. Possono anche essere “inseriti” dal punto di vista sociale ma si sentono e vivono da monadi in un arcipelago di pseudo relazioni. Manca lo scambio delle emozioni e dei sentimenti, ingrediente fondamentale per uno sviluppo armonico dell’individuo. Non possono più fare appello a movimenti collettivi esterni alla cerchia familiare, perché inesistenti o ridotti anch’essi a merce di scambio. Il senso di appartenenza si esplica all’interno di locali alla moda, con l’abbigliamento, con l’uso, più o meno consapevole di “sostanze di ogni tipo”, ma la logica sottesa è e resta quella del mercato,laddove si compra qualcosa in cambio di qualcos’altro,si soddisfano necessità momentanee “acquistandole” in un mercato coartato. I nuovi consumatori sembrano non conoscere l’esperienza dell’ incontro relazionale che presuppone la propria messa in gioco in nome della possibilità di un cambiamento, della scoperta della ricchezza delle relazioni interpersonali che produce crescita. Gli operatori si ritrovano di fronte a persone i cui comportamenti, proprio perché disfunzionali e portatori di malessere, si sono irrigiditi ed allora il compito diviene quello di permettere a queste persone di scoprire un campo relazionale nuovo, anche se antico come il mondo, quello della relazione come scambio, utilizzando sperimentalmen- N. 167 - 2008 gandosi la comprensione del significato, anche, positivo, della sua ricerca di contenuto, seppur sfuggita al suo stesso controllo. Il tentativo, tra cura e riabilitazione, diviene quello di colmare progettualmente questo iatus reale e percepito. Compito, questo, impossibile per un unico Servizio, per i singoli operatori. La domanda a specchio dello stesso soggetto e della società diviene così totalizzante, attribuendo ai tecnici una supposta onnipotenza,tale da contenere sin dall’origine il presupposto di un fallimento possibile. Quello che è fattibile realisticamente mettere in atto è accompagnare gli individui, nelle loro nuove sperimentazioni nel sociale e non solo nell’intrapsichico. Per farlo è necessario che il Servizio sia connesso con le reti che caratterizzano gli specifici spazi di inclusione, di cui per altro è uno dei punti di snodo, affinché le mappe d’incontro risultino possibili. Si torna così alla necessità di costruire, attivare, mantenere in vita, prendersi cura, anche,di quello stesso territorio di cui sopra. La trasformazione ed il cambiamento dell’identità personale è strettamente connessa con la ridefinizione di una nuova o più funzionale identità sociale,la quale non può che essere il risultato di un precipuo incontro di “quel” soggetto, con la sua unicità, in “quel” territorio con le sue specifiche peculiarità. Solo all’interno di una costante operazione di metic- I Servizi per le dipendenze patologiche ciato reciproco tra i diversi attori di una comunità locale, che diviene così essa stesso “laboratorio”, nella sperimentazione di nuove forme di convivenza, è possibile inscrivere e riscrivere le nuove forme dei percorsi d’aiuto anche per i singoli. È però indispensabile che il Servizio possegga, l’ umanità e le professionalità in grado di decodificare e connettere i bisogni del soggetto e del contesto ri-leggendo ed articolandone la rigidità e la stereotipia delle domande. I bisogni sottesi di una persona che ha abusato di eroina dagli anni ‘70\’80 ad oggi, e quelli di un cocainomane del 2000 sono del tutto diversi. Due casi di percorsi paradigmatici possono esplicitare questa differenza e quindi la necessità di diversificazione dei processi di inclusione. – Miriam, quasi, quarantenne: primi contatti con l’eroina in adolescenza, con alle spalle un nucleo d’origine multiproblematico, bassa scolarità, intelligenza pronta e vivace,. L’eroina come strumento di affrancamenteo/esclusione. “ Non posso essere normale: allora sono fuori dalle regole, dal sistema, da me stessa”.Utente storica, problematica, ha dato del filo da torcere a più di un operatore: lei ed il suo compagno, anche lui coinvolto con modalità analoghe, “giravano letteralmente i tavoli dei Servizi”. Poliabustrice, eroina, psico- Sae l ute Territorio 115 farmaci, sostitutivi. Poi percorso di “Operatrice pari”, anche se fatica a riconoscersi in una “professionalizzazione” della sua storia deviante. Due anni fa, rimane incinta. Questo evento, una bimba, nascitura, per la quale non vuole ipotizzare la ripetizione del suo percorso di esclusa, diventa l’occasione per un salto di qualità che, dentro, la disconnette dalla identità coatta, coartata, di “ex”. Fase conflittuale, di ambivalenze, di progressivo sgancio dalla sostanza illegale pur necessitando del costante supporto del sostitutivo. La bimba nasce in SAN e questo ovviamente porta all’intervento del Tribunale dei minori che affida la coppia ai Servizi, con tutti i controlli di Noi, c’eravamo… dentro Geppa* e Cori* Ho iniziato con l’eroina che avevo 15 anni. Arrivavo a casa fusa,ma mia madre si occupava di suo fratello che era tossicodipendente. Io andavo a vomitare in bagno ma lei sembrava non vedermi, era gelosa per via del fatto che mio padre abusava di me, e lei era convinta che fosse colpa mia. Sono poi andata a casa di una ragazza. Avevo quasi smesso. Conobbi un ragazzo che si faceva ogni tanto che mi offrì l’eroina come “cura” per i miei dolori articolari (ho sviluppato un lupus eritematosus), e da lì ricominciai. A 25 anni, ho conosciuto il mio attuale compagno, Poi sono finita in carcere per spaccio. Sono entrata al venerdì, si vedeva che ero in carenza in più ero piena di buchi. Non mi ha vista nessun medico del Ser.T, il sabato mattino stavo malissimo, mi hanno portato in infermeria, Niente esami delle urine e quindi niente metadone. Sono stata dentro 2mesi e ho continuato a farmi… lì non mi sono sentita discriminata come tossica, gli agenti carcerari sono meno escludenti della gente di fuori perché loro ci convivono., Battere, non l’ho mai fatto, io lavoravo. Usavo l’eroina come antidolorifico fisico e mentale. Non usavo la droga per stare “fuori” ma per “rientrare, per starci dentro”. Ho fatto la bidella, ho guardato gli anziani, e nessuno se ne è mai accorto che mi facevo. Il mercato è cambiato 10-11 anni fa. Prima era in mano ai calabresi poi è passato ai marocchini che però erano la manovalanza. Non mi vergognavo della merce che vendevo, non mi sono mai sentita in colpa, vendevo una merce, mi occupavo che fosse di buona qualità, come un barista che non frega i clienti. Non eravamo spacciatori di strada ma “professionisti” che cercavano di vendere a clienti selezionati. Mica andavamo ad adescare chi non usava. Quando abbiamo smesso di vendere, ci siamo trovati fuori casa perché non pagavamo più affitto e bollette. Il “drop in” è stato quello che ci ha impedito di diventare barboni. Lì ti danno una possibilità. Ti fanno un mucchio di proposte. Sarà anche una versione “garantita” del tossik park, ma non c’è nessuno che ti rompe.., è un abbraccio che ti danno. Gli operatori del Ser.T sono più “spacca coglioni”. Poi dipende nel primo Ser.T mi sentivo tranquilla, in un altro li sentivo troppo “professionali”. A volte, durante la gravidanza, ho sentito il Ser.T come gli esecutori del Tribunale. Non era quello che mi serviva, La svolta è stata il cominciare a sentirmi mamma, il pensare che con mia figlia non potevo essere “appannata”. Quando sarà il tempo le parlerò della mia storia. * nota del curatore: i nomi sono quelli di “battaglia” del periodo dello sbattimento, lo stigma persiste anche per gli ex… anche se “risocializzati”. l ute Sa e 116 Territorio monitorizzazione di routine. Entrambi i membri della coppia disoccupati, iniziano un percorso di inclusione; vengono alla luce, doti e capacita, progettuali e di abilità pratiche ed elasticità di adattamento. Il compagno riesce a piccoli passi a attivare una attività in proprio sufficientemente rimunerativa. Per Miriam, donna, non più giovane, madre,le possibilità di un suo autonomo spazio lavorativo sono decisamente più problematiche. La domanda al Servizio è esplicita” aiutatemi ad essere donna e madre, uscendo da dipendenze non solo da sostanze”. Si attiva la rete dei Servizi: Ser.T, Psicoterapeuta, Servizio sociale, Età evolutiva, Servizi per la prima infanzia. La connessione e le sinergie fra questa prima rete terziaria, permette, non solo di giungere ad un qualche inserimento lavorativo purchessia, ma a tutt’oggi M. è in preassunzione c/o un’azienda di una grossa rete commerciale essendo divenuta elemento portante di un progetto integrato tra diversi Enti pubblici, privato sociale, settore profit, per l’implementazione di reti solidali verso le nuove povertà. Questo percorso è stato possibile perché il Servizio, storicamente,ha sia, mantenuto una alta accessibilità senza delegare la “cronicità” a spazi altri, sia perchè il Ser.t era lui stesso incluso in una rete locale e si è da sempre posto come punto attivo, interagente con le diverse agenzie del territorio. – Davide, 28 anni, diploma I Servizi per le dipendenze patologiche superiore, iscritto, all’università, aveva un lavoro brillante e ben remunerato,con richieste notevoli di efficienza e performance sociale. Immagine di sè grandiosa. L’approccio con la cocaina come additivo per potenziare la resa. Famiglia operaia, religiosa, ipernormale. Lo conosciamo in carcere, dov’era era ristretto per una serie infinita di rapine in tutto il nord. Reati evidentemente connessi al crescente e massiccio coinvolgimento nell’uso della sostanza. Colpisce lo iatus tra ricchezza di mezzi economici e povertà del retroterra culturale. D. presenta una notevole scaltrezza che però, sospinta dalla sostanza ne inficia le capacità per un corretto esame di realtà. Traspare una onnipotenza dereistica ed una grandiosità nella ipervalutazione di se stesso. Accettiamo l’affidamento anche se appare evidente fin dai primi incontri la “strumentalità” delle richieste che D. pone agli operatori. Non pare “pentito”, in colpa, piuttosto, sconfitto, con desideri di rivincita. L’intreccio tra le sue doti professionali e l’abilità del suo legale gli permetto di essere autorizzato a lavorare presso una prestigiosa ditta nel suo settore, con possibilità di operare, contrariamente alla normale prassi,persino fuori Regione. Nel frattempo i numerosi incontri, con lui e la fami- glia, confermano che quest’ultima considera il figlio malato in quanto “avendo sbagliato non può che essere malato”. La richiesta di questi è quindi di “guarirlo”. Nuova carcerazione e nuove richieste, evidentemente strumentali, questa volta di affidamento in comunità. Scarcerato, seppur in attesa di ulteriori espiazioni, per procedimenti ancora in corso, nei vari gradi di giudizio, né lui né la famiglia portano al Servizio domanda alcuna. I casi di Miriam e di Davide paiono paradigmatici di come non sia possibile parlare di univocità dei percorsi di presa in carico, cura e riabilitazione,solo superficialmente omologati dall’abuso di sostanze, ma che sottendono, in soggetti ed in tempi storici, con sostanze diverse, un intreccio di problematicità, bisogni, domande e ricerca di soluzioni che necessitano di una pluralità di letture e di strumenti. Se per Miriam si può parlare di un problema connesso con le difficoltà di inclusione, Davide rappresenta la problematicità di un uso di sostanze iper includente. Come scrive R. Gatti: “Comprimendo” in Per una prevenzione efficace, “non si può non considerare che…” la droga, oggi, è un fenomeno diverso dalla droga anni ’70 perché si è inserita nel contesto in cui i desideri e gli istinti si appagano attraverso N. 167 - 2008 l’adesione a format di consumo dove come si comunica, ci si veste, si interagisce, si vive, è già, in qualche modo pre-codificato. Poiché spazi e tempi sono compressi, le droghe diventano normalmente una sorta di doping della vita quotidiana e, talvolta, un sostitutivo di ciò che è irraggiungibile per definizione: l’appagamento definitivo degli istinti (di consumo). La droga anni ’70 quella che “viene a riempire un vuoto causato appunto dal desiderio di morte e che è dunque un vuoto di cultura” (P.P. Pasolini) esiste, sempre meno nei paesi occidentali (sebbene ancora esista), perché è proprio dei processi di compressione il comprimere, prima di tutto, gli spazi vuoti. Anche la droga sta diventando totalmente un fenomeno di consumo mascherato (dal marketing) in modo che sembri un bisogno, il giusto appagamento di un istinto primario… (omissis)... se in passato la droga poteva essere un modo per rallentare e per morire oggi diventa un modo di vivere e di essere cittadini. Non importa che sia legale o illegale”. È sempre più evidente che non si danno processi inclusivi, scindendo i percorsi terapeuti da quelli riabilitativi, prescindendo dalla necessita di lavorare sulle reti complesse, prassico comunicative del territorio in cui si opera. Soggetto “inserendo” e spazi inclusivi richiedono che i Servizi e gli operatori implementino le capacità di un lavoro approfondito su diversi piani, individuali, relazionali e sociali. N. 167 - 2008 I Servizi per le dipendenze patologiche Sae l ute Territorio 117 Bibliografia (3) Barone R., Licari G, et al. (a cura di) (2006), Sviluppo locale partecipato e sostenibile, Cleup. (1) Aa.Vv. (1982), Atti del convegno “Le cooperative contro l’esclusione”, Fogli di Informazione. (4) Barone R., Bellia V. (2000), Il volo dell’airone, Franco Angeli. (5) Ciompi L. (1994), Logica affettiva, Feltrinelli. (2) Aa.Vv. (2000), L’integrazione socio lavorativa, Quaderni di Animazione e formazione, Gruppo Abele. (6) Leone L., Celata C. (a cura di) (2006), Per una prevenzione efficace, Il sole 24 ore. (segue da pag. 106): Le modificazioni dell’uso di alcol Sono infatti questi meccanismi che consentono di comprendere come gli attori agiscano in relazione ad una sostanza come l’alcol connotata in modo peculiare quanto a desiderabilità, quale sia il senso che danno alle loro azioni in rapporto alle credenze che hanno maturato culturalmente, quale ruolo essa possa assumere in circostanze date e di fronte alle opportunità di azione che ad essi si presentano. Solo questa comprensione profonda può consentire di evidenziare possibili tenden- Bibliografia Allamani A., Cipriani F. e Prina F. (a cura di) (2006), I cambiamenti nei consumi di bevande alcoliche in Italia: uno studio esplorativo sul decremento dei consumi negli anni 1970-2000, Quaderno dell’Osservatorio Permanente Giovani e Alcol n. 17, Casa Editrice Litos, Roma. Barbera F. (2004), Meccanismi sociali, Il Mulino, Bologna. Beccaria F. (2007), Giovani e alcol: un rapporto in evoluzione, La salute umana, 207, pp. 13-8. (segue da pag. 107): La cultura d’uso della cocaina La partecipazione, pur se marginalizzata, alla cultura d’uso prevalente della cocaina costituisce paradossalmente quasi un autoelevazione sociale, una sorta di “patente di normalità” rispetto alla conoscenza ed alla integrazione con i nuovi soggetti. Il consumatore sommerso Pur se scarsamente visibile sul territorio, ipotizziamo una possibile quarta fascia di consumatori, non rilevabile perchè fa riferimento a luoghi di aggregazione e ricerca della sostanza esterni al territorio, o comunque a fonti extra-territoriali: ambienti di lavoro di fascia “alta” i cui consumi, per qualità e quantità, sfuggono all’osservazione diretta. Ne viene riferita l’esistenza, ma proprio l’elusione del controllo costituisce la dinamica di questa cultura d’uso nel mondo adulto, che emerge drammaticamente negli esiti delle ze e, soprattutto, di porre in essere politiche efficaci di prevenzione delle conseguenze problematiche di tali comportamenti, valorizzando gli effetti “protettivi” della cultura tradizionale del bere (con particolare riferimento alle componenti di autocontrollo di cui è comunque portatrice), ma so- prattutto agendo su elementi quali la desiderabilità, le credenze, le opzioni disponibili, così evitando un duplice rischio: da un lato, il rischio di eccessivi e controproducenti allarmismi e, dall’altro, quello di altrettanto pericolosi ridimensionamenti e sottovalutazioni dei mutamenti in atto. Beccaria F., Prina F. (1996), Le dimensioni culturali e sociali dell’alcol, in A. Ruggenini Moiraghi (a cura di), Alcologia, Masson, Milano, pp. 17-57. Beccaria F., Prina F. (2008), Young people and alcohol in Italy: an evolving relationship, Drugs: education, prevention and policy (in corso di pubblicazione). Cipriani F., Prina F. (2006), I risultati della ricerca: sintesi finale e conclusioni, in A. Allamani, F. Cipriani, F. Prina, op. cit., pp. 273-90. intossicazioni acute per l’intervento del 118 o delle Forze dell’Ordine. Conclusioni Appare inefficace in questa fase definire a priori protocolli di accoglienza o offerte terapeutiche inseguendo il cocainomane come oggetto mancante alla cura. È forse necessario sospendere i criteri diagnostici tradizionali dei Ser.T, perseguendo e rilanciando invece una politica dialogica di interazione più dialettica con gli usatori, utilizzando quella pratica di lavoro definita “ fiduciaria informale”, per la conoscenza della situazione e degli attori. Solo in un secondo momento questa conoscenza permetterà la costruzione di possibili percorsi di decodifica dei bisogni che, a nostro parere, dovrà implicare necessariamente l’ammodernamento dell’architettura dei servizi; intesa questa non tanto in senso “murario” quanto come elasticizzazione dei criteri di accessibilità. l ute Sa e 118 Territorio Maria Teresa Ninni Educatrice Una strana cosa ci è cresciuta dentro all’anima, in fondo a sinistra. Prima ci hanno detto che si trattava di una scimmia che ci stava appollaiata sulla schiena. Non ci dispiaceva, le scimmie ci sono sempre piaciute. Poi ci hanno detto che era un tumore, una malignità dello spirito e del corpo. E ci ha dato fastidio, perché di malignità ce n’è già abbastanza e poi, diciamo la verità, tenercela dentro proprio noi, è mica uno scherzo. Poi ci hanno spiegato che era il drago, gli occhi spiritati, le lingue di fuoco, i micidiali artigli, ma niente di che preoccuparsi, si conosceva il rimedio. (Si sa i draghi non esistono, se li inventa il demonio e se in giro nascono dei buoni esorcisti tutto va a posto per forza). Solo che ci spostavamo sempre più spesso e, davvero, dava un po’ fastidio. Dai bar del centro a quelli della periferia, dalle strade alle prigioni o agli ospedali, dalle serate in tanti a quelle solitarie che vien voglia di piangere, dalle case con il cesso ai cessi senza casa. Ci dava un po’ fastidio... da Goffredo Firmin, Ci è cresciuta dentro, in Intorno al drago. La droga e il suo spettacolo sociale, a cura di R. D’Este, Nautilus, Torino 1990) H o pensato di iniziare il mio pezzo con la poesia di un amico che ben rappresenta i vari paradigmi con cui le persone della mia generazione, che hanno vissuto l’esperienza droga, si sono dovute confrontare. Dove una scienza carente di dati ed esperienze cercava di dare una lettura del fenomeno at- I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 L’accesso ai Servizi a bassa soglia traverso costruzioni ideologiche piene di pregiudizi e moralismi e dove la dimensione di ricerca-ribellione corale di una generazione diventava malattia e/o devianza rinchiusa in una dimensione individuale, dove la valenza sociale e politica veniva completamente rimossa. Che cos’è un Servizio a bassa soglia? I concetti di bassa, media o alta soglia si riferiscono al grado di accessibilità del Servizio. Tanto più le persone devono avere requisiti specifici ed osservare determinate regole e/o vincoli per afferire al Servizio, tanto più la soglia si alza. Un’Agenzia di bassa soglia offre risposte facilmente fruibili ai bisogni dell’utenza. I limiti più rigidi, ed evidentemente più significativi, sono legati all’orario di apertura e all’osservanza di minime regole di civile convivenza. Non vengono richiesti documenti di riconoscimento e quindi si lavora su presupposti di anonimato (anche nei confronti degli stessi operatori del Servizio). Ovviamente le persone che la frequentano con una certa regolarità, se instaurano relazioni fiduciarie con gli operatori o con altri frequentatori, decidono autonomamente se raccontare delle cose Unità di strada e “drop in” direttamente a contatto con la trasformazione dei bisogni degli utenti di sé oppure mantenere una posizione più anonima. Un’Agenzia di bassa soglia è, generalmente, sovrazonale, sia per quanto riguarda la provenienza degli utenti, sia per quanto riguarda il lavoro di rete. Per capire perché nascono i Servizi a bassa soglia non si può prescindere dal fare un breve “excursus” storico degli interventi sulle droghe messe in atto in questo Paese. Prenderò come data di riferimento il 1990 e l’approvazione della legge sulle tossicodipendenze n. 162/90 Vassalli-Jervolino che modificherà profondamente l’approccio rispetto alle dipendenze e ai consumatori di droghe illegali. Legge fortemente voluta dall’allora capo del Governo Craxi che si allineò alla politica di repressione intrapresa dal presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan. La legge precedente, la 685 del 1975 (figlia di una stagione che vede il fiorire di molte norme fortemente innovative, dalla legge 180/78 che prevede l’abolizione dei Manicomi alla legge 194/78 sull’aborto ecc…) anche se contraddittoria, cercava di far convivere il concetto dell’uso di sostanze come atto deviante, ma considerava la dipendenza come malattia, a cui dare risposte di tipo assistenziale e terapeutico; per la prima volta si sancisce la non punibilità dell’uso personale e si prevede un’articolazione territoriale dei Servizi preposti alla cura. Sulle ceneri di una norma mai veramente attuata e comunque con una profonda contraddizione di fondo, dove a lato di un intervento di cura spesso si inserisce un approccio di controllo, questa ambiguità resterà uno dei problemi non risolti ancora oggi nei Servizi sulle dipendenze. Si arriva così alla legge n. 162 del 1990, “legge manifesto” (inclusa nel Testo unico n. 309/90), ricca di affermazioni di principio, che esalta il credo del “divieto di drogarsi”. Una legge che mette al centro il controllo e che prevede un’ampia gamma di sanzioni sia amministrative che penali. Siamo di fronte alla N. 167 - 2008 criminalizzazione del tossicodipendente che viene, spesso, coattivamente spinto alla cura quale unica alternativa praticabile alla detenzione. Sono anni di forte propaganda che tende ad isolare e a ghettizzare il tossicodipendente, la parola d’ordine sarà il “toccare il fondo”: solo così le persone riusciranno ad emergere dalla condizione di abbrutimento morale a cui la droga li ha condotti. La modifica della legge e il grande rilievo mediatico dato, tra le varie ricadute ebbero anche quella di ingessare anche le forme della cura. Sono gli anni in cui il metadone diventa “droga di Stato” e viene prescritto in modo decisamente insufficiente, quando addirittura negato; la modalità di trattamento previsto è solo a scalare, e, cosa alquanto curiosa, vengono stabilite le quantità prescrivibili e i cicli permessi in un anno. Gli unici interventi considerati validi sono i percorsi in Comunità terapeutiche. A fianco delle modifiche legislative e alla repressione di quegli anni appare una nuova variabile che inciderà fortemente nelle politiche sulle dipendenze: l’AIDS fa la sua comparsa in Europa verso la metà degli anni ’80 e contribuirà a rendere la qualità della vita dei consumatori di sostanze ancora più compromessa. Sarà grazie al prezioso lavoro di denuncia fatto dai gruppi di persone sieropositive che si inizierà a ragionare su altri modelli di intervento, quali appunto la riduzione del danno. I Servizi a bassa soglia sono I Servizi per le dipendenze patologiche gli strumenti di questo approccio. Le Unità di strada prima e i drop-in center poi, sono stati il mezzo con cui entrare in contatto con una popolazione, il cosiddetto sommerso e/o risommerso, che non trovava più nei Servizi formali di cura le risposte al proprio malessere. I Servizi a bassa soglia e la filosofia della riduzione del danno accanto all’utilizzo di nuove figure professionali quali i peers supporters e gli operatori pari contribuiranno a portare all’interno dei Servizi lo sguardo del consumatore, non più come utente e malato, ma come “collega” portatore di un sapere non ancora conosciuto e riconosciuto. Inoltre, questi Servizi, hanno, a parer mio, un’altra specificità particolarmente significativa: gli interventi di bassa soglia si sviluppano quasi sempre in contesti gruppali recuperando di fatto uno sguardo di tipo sociale, politico e antropologico mettendo un po’ in crisi l’approccio più strettamente sanitario. Sono passati ormai più di dieci anni dalla nascita dei primi progetti di riduzione del danno nel nostro Paese ed è naturale fare una sorta di bilancio di quella che è stata l’esperienza di questi Servizi e che cosa hanno modificato… In Piemonte, Regione in cui vivo e lavoro, quasi tutti i progetti di riduzione del danno sono stati realizzati dal Servizio pubblico, che è stato in grado di accettare la sfida che i tempi imponevano. Ma la domanda a cui rispondere rimane: l’attivazione di questi Servizi ha contribuito a modificare l’approccio verso il consumatore? O ha significato solo creare un ambito in cui i cosiddetti “irrecuperabili” o “refrattari alla cura” potessero spendere il proprio tempo creando meno “disturbo” sociale possibile? Cos’è che fa sì che un drop-in non sia un ulteriore ghetto dove nascondere i brutti, sporchi e cattivi? Mi verrebbe da dire che alcune cose sono state fatte, in questi anni. Il sistema dei Servizi, grazie ad una storia di 30 anni di interventi, mi sembra, nella maggioranza dei casi, essere uscito dalle pericolose semplificazioni dei tempi passati, ha imparato a fare i conti con una complessità che non deve mai smettere di interrogarsi: troppo spesso il bisogno dell’operatore di classificare, incasellare per placare l’ansia che provoca la sofferenza altrui è una deriva accattivante, ma sappiamo anche quanto pericolosa. La bassa soglia è la porta sulla strada, è l’accesso facilitato al mondo dei Servizi, ma affinché questa non sia solo porta di entrata senza uscita il percorso è ancora lungo. Se non si instaura una dialettica e riconoscimento tra le diverse soglie rischiamo di riprodurre nuove e più pesanti emarginazioni. Se il consumatore che si rivolge ai nostri drop-in o Unità di strada (Servizi di prossimità) non riesce ad intraprendere percorsi di empowerment e di autonomia, se il sistema dei Servizi non riesce ad offrire opportunità di cambiamento per questi nuovi utenti vuol dire che la bassa soglia ha fallito il mandato che si era data. Rischia di es- Sae l ute Territorio 119 sere solo un’Agenzia assistenziale in più! La bassa soglia deve reinvestire con forza sul lavoro di empowerment e di advocacy, deve avere la forza di interrogare i Servizi con soglie differenti per creare percorsi di inclusione anche per quei soggetti che non hanno maturato la scelta dell’astinenza, ma ciò nonostante sono in grado di avere una vita “normale”, di svolgere un lavoro, di mantenere relazioni ecc… Abbiamo da sempre cercato di interpretare la filosofia della riduzione del danno, non solo come intervento sanitario per contrastare infezioni ed epidemie, ma anche come impegno sociale che restituisse protagonismo e cittadinanza al consumatore di sostanze. In questi ultimi dieci anni, inoltre, abbiamo dovuto confrontarci con non poche difficoltà: una sperimentazione che sembrava non dover mai finire (solo nell’ultimo anno si è iniziato a parlare di Servizi e non più di progetti), un precariato che non solo riguarda gli operatori che in questi Servizi lavorano, ma che investe tutti gli interventi di riduzione del danno; un sistema dei Servizi che per molto tempo non ha riconosciuto professionalità ai nostri interventi, confinando e classificando la nostre azioni come “connivenza” con l’utenza; il fenomeno del consumo di sostanze in continuo e rapido mutamento che ci porta continuamente a fare i conti con la mancanza di strumenti e conoscenze in questo campo. (segue a pag. 128) l ute Sa e 120 Territorio Paola Clelia Lenzetti Dimitri Travaglio* Psicologa-psicoterapeuta Cons Ser.T ASL TO 4 Ivrea Cons. Ministero di giustizia CC Ivrea *Educatore professionale Ser.T Intramurario ASL TO I l Ser.T d’Ivrea collabora dal 1991 con la Casa circondariale del territorio. Dal 1996 è stata stesa una Convenzione tra Casa circondariale d’Ivrea e ASL 9, con relativo protocollo operativo e varie revisioni, in riferimento alle linee d’indirizzo nazionale. Nel mese di aprile 2002 è stata steso un nuovo protocollo operativo, che, tra l’altro, definisce la prescrizione, l’approvvigionamento, lo stoccaggio e la somministrazione della terapia sostitutiva. L’operatività del Ser.T all’interno dell’Istituto penitenziario d’Ivrea Si articola all’interno della revisione e superamento del protocollo operativo, attualmente in vigore e allegato alla Convenzione stesa tra il Ser.T e la Casa circondariale, secondo lo schema di convenzione tra il Ministero di giustizia e le ASL, nell’attuazione delle “Linee d’indirizzo in materia di prevenzione, cura e riabilitazione dei detenuti tossicodipendenti e/o alcoldipendenti coinvolti nell’area penale”, emanate in data 11/12/92 e ratificate in data 10/03/94, e in riferimento alla legge 309. Finalità del Ser.T penitenziario – Diagnosi di tossicodipen- I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 La cura del detenuto tossicodipendente denza e alcoldipendenza. – Presa in carico. – Offerta di assistenza e cure specialistiche. – Supporto psicologico-riabilitativo. – Definizione di programmi individualizzati intra-extramurari, in integrazione con Servizi del territorio e il personale penitenziario. Attività ambulatoriale L’attuale organizzazione del Servizio ha come metodologia il lavoro di rete, l’équipe multiprofessionale e la costruzione di programmi terapeutici integrati e individualizzati. Vengono svolte: – Attività medica. – Attività psicologica. – Attività dell’educatore professionale e dell’assistente sociale. – Attività medica, caratterizzata da: • Valutazione clinico diagnostica. • Visita medica. • Colloquio medico. • Studio del diario clinico. • Consulenze tossicologiche. • Compilazione cartella clinica sanitaria. • Prelievo per esecuzione eventuali esami tossicologici su matrici pelifere. La specificità degli interventi dei Servizi operativi nelle carceri • Somministrazione terapia sostitutiva con metadone. • Attività di counseling sanitario. • Counseling sanitario rivolto alla popolazione detenuta tossicodipendente. • Azione di informazione e prevenzione rivolta ai soggetti detenuti non diagnosticabili come farmaco-tossico-alcoldipendenti, che vengono a contatto con il Servizio per le tossicodipendenze su segnalazione o su richiesta e che si trovano in situazioni potenzialmente rischiose per quanto riguarda il consumo di sostanze. • Attività di consulenza rivolta ai medici SIAS (medici penitenziari). • Attività di raccordo con: 1. Operatori Ser.T esterni, ASL. 2. Medici SIAS (Servizio interno assistenza sanitaria-Ministero giustizia). 3. Operatori UEPE (Uffi- cio espiazione pene esterne-Ministero giustizia). 4. Operatori penitenziari (Corpo di polizia penitenziaria ed educatori, Area trattamentale). 5. Operatori équipe sezione primo livello ASL. Attività psicologica caratterizzata da 1. Colloqui – di accoglienza, – psicodiagnostici, – di sostegno, – strutturati, – orientamento psicoterapici. 2. Laboratori e gruppi psico/ educativi 3. Attività di raccordo con – operatori Ser.T – Comunità, – UEPE, – operatori penitenziari. Attività dell’educatore professionale e dell’assistente sociale caratterizzata da Colloqui – di prima accoglienza, – di sostegno, – di verifica, N. 167 - 2008 I Servizi per le dipendenze patologiche Sae l ute Territorio 121 Case management Progetti terapeutici specifici come arte terapia contatti con – Ser.T esterni, – Servizi sul territorio, – avvocati, – famigliari. raccordo con – Servizi all’interno del carcere, – operatori della sezione di primo livello. Il percorso di cura penitenziario del tossicodipendente Il percorso di cura penitenziario del tossicodipendente detenuto presso la Casa circondariale d’Ivrea offerto dal Ser.T dell’ASL TO 4 è il seguente: – Fase di informazione – Fase di detossicazione – Fase di presa in carico integrata – Fase di programma terapeutico trattamentale presso la sezione di 1° livello o avanzato. Fase di informazione Il detenuto nuovo, proveniente dalla libertà o trasferito da altro Istituto penitenziario, che si dichiara tossicodipendente o alcoldipendente, viene segnalato al Ser.T attraverso – una scheda informativa dall’educatore ministeriale, – oppure, una richiesta di consulenza e/o una segnalazione dal medico SIAS. Gli operatori penitenziari forniscono al detenuto tossicodipendente e/o alcoldipendente ogni notizia utile concernente gli interventi relativi alla cura ed alla riabilitazione degli stati di dipendenza disponibili nell’I- stituto, i compiti assegnati all’ambulatorio Ser.T sede carcere e le relative modalità di accesso. Qualora il detenuto nel corso della visita medica si riveli tossicodipendente e/o alcoldipendente e rifiuti l’accertamento o l’intervento terapeutico e socioriabilitativo o il programma farmacologico con impiego di farmaci sostitutivi, rimane in carico al Servizio sanitario penitenziario che, per una idonea tutela della salute del detenuto, può avvalersi della consulenza plurispecialistica dell’ambulatorio Ser.T, anche nella prospettiva di una successiva presa in carico della persona tossicodipendente ai fini terapeuti- ci e socio-riabilitativi attualmente presso la sezione di 1° livello o avanzato. Fase di detossicazione Nel caso in cui all’ingresso in Casa circondariale il detenuto si sia dichiarato tossicodipendente e/o alcoldipendente e il medico SIAS abbia rilevato una sintomatologia astinenziale, il soggetto viene segnalato al medico dell’ambulatorio Ser.T sede carcere: in attesa, il medico SIAS imposterà una terapia sintomatica. Nel caso in cui il paziente sia in terapia sostitutiva, il medico dell’ambulatorio Ser.T sede carcere, informato, verificherà con il Ser.T di appartenenza il dosaggio attuale e visiterà, in un momento successivo, il paziente per impostare la prosecuzione del programma terapeutico. Fase di presa in carico integrata Qualora il detenuto tossicodipendente e/o alcoldipendente dichiari la propria disponibilità ad essere preso in carico e seguito dal Ser.T per sottoporsi ad un eventuale programma terapeutico e socioriabilitativo individualizzato, viene diagnosticato dal medico dell’ambulatorio Ser.T sede carcere secondo il D.M. 186/90 e, – se risiede nell’ASL sede carcere e risulta conosciuto, viene segnalato agli l ute Sa e 122 Territorio operatori dell’ambulatorio di riferimento, che proseguiranno, con la collaborazione dell’ambulatorio Ser.T interno al carcere, la presa in carico anche in ambito penitenziario; – se risiede nell’ASL sede carcere e risulta non conosciuto, prende contatto con l’ambulatorio Ser.T sede carcere, che decodifica la sua domanda prima di chiedere che gli operatori dell’ambulatorio di riferimento lo prendano in carico (verifica che la richiesta sia di essere seguito non solo in ambito penitenziario, di competenza dell’ambulatorio Ser.T sede carcere, ma anche per un percorso terapeutico extramurario); – se non risiede nell’ASL sede carcere, viene accolto all’ambulatorio Ser.T sede carcere, che invia comunicazione al Servizio tossicodipendenze di riferimento per concordare la presa in carico e, contestualmente, per elaborare un eventuale progetto terapeutico individualizzato (la temporanea titolarità del trattamento terapeutico-riabilitativo intramurario da parte dell’ambulatorio Ser.T sede carcere è attuata per garantire una continuità terapeutica al soggetto, attiva durante tutta la sua permanenza in Casa circondariale e ha una funzione di integrazione alla vera e propria titolarità da parte degli operatori del Ser.T di residenza, anche nel caso in cui il soggetto risulti sconosciuto). I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 Fase di programma terapeutico trattamentale presso la sezione di 1° livello o avanzato Successivamente, se il detenuto tossicodipendente preso in carico mostri una volontarietà manifesta ed esplicita di intraprendere un percorso terapeutico trattamentale intramurario presso la sezione di 1° livello, viene valutata la sua motivazione e la sua disponibilità al trattamento e la presenza di condizioni d’idoneità per l’inserimento. Ci si avvale della valutazione integrata dell’educatore penitenziario, degli operatori dell’équipe carcere del Ser.T, dello psicologo penitenziario, dell’assistente sociale ministeriale, dell’ispettore della polizia penitenziaria, responsabile degli agenti della sezione tossicodipendenti (ognuno formulerà una valutazione per quello che gli compete, in considerazione delle tre aree: terapia, trattamento penitenziario e custodia). Successivamente, attraverso le discussioni casi e i vari momenti di confronto sul trattamento tra gli operatori Ser.T, operatori penitenziari e del Ser.T di residenza, si concorda il programma terapeutico personalizzato con le relative verifiche periodiche in integrazione con gli operatori stessi. ti fanno richieste di Comunità e/o di progetti territoriali. Soprattutto, sovrastimano le loro potenzialità e disconoscono il valore della sostanza. Quando sei libero scegli tra le droghe e un progetto di recupero; da detenuto scegli tra la mancanza di libertà e un progetto di recupero. È complesso anche tentare di riportare il detenuto tossicodipendente al suo passato, all’esigenza della sostanza che avvertiva, al bisogno che aveva, a come era contestualizzata nella sua vita. Il soggetto è focalizzato sul qui e ora… Diventa anche complesso rimandargli il suo essere persona unica, per cui anche detenuto, in quanto reo, si sente e si presenta come utente. Spesso considerato dal sistema carcere, un numero. Diventa importante quindi anche ricomporre questa scissione che effettua tra la parte tossicomanica e quella deviante. E come se ti dicesse “Quando ero libero al Servizio non aspettavate altro che mi presentassi con questa volontà, ora perché fate tutte queste storie?” Diventa, a volte, difficile capire se è importante offrire una possibilità terapeutica, poi la motivazione si andrà a definire maggiormente, o se proteggerlo da eventuali fallimenti che potrebbero avere ripercussioni sulla sua identità tossicomanica. Altri elementi rispetto alla presa in carico carceraria sono la difficoltà di lavorare con progetti residenziali sulla cocaina e, ancor prima, sulla loro identità tossicomanica, che è sempre disconosciuta. Anno 2004 2005 Detenuti in carico: 149 Detenuti presi in carico appartenente all’ASL TO 4: 25 Detenuti stranieri:27 Anno 2005 2006 Detenuti in carico: 111 Detenuti presi in carico appartenente all’ASL TO 4: 22 Detenuti stranieri: 27 Anno 2006 2007 Detenuti in carico 103 Detenuti presi in carico appartenente all’ASL 9 TO 4: 17 Detenuti stranieri 43 Anno 2007 2008 Detenuti in carico 57 Detenuti presi in carico appartenente all’ASL TO 4:15 Detenuti stranieri 14 Riflessioni La presa in carico del detenuto tossicodipendente è notevolmente cambiata in questi ultimi anni. Fino a pochi anni fa vi erano detenuti eroinomani conosciuti da anni dai Ser.T d’appartenenza, oggi la popolazione del Ser.T interno è per la maggior parte composta da cocainomani ed extracomunitari che non hanno mai avuto rapporti coi Servizi. Il carcere si sta quindi presentando come primo strumento di intervento sulla tossicodipendenza, sta diventando una modalità per la presa in carico, per l’uscita dal sommerso. Una opportunità. Il lavoro però presenta la complessità che si incontra quando si lavora in un sistema totalizzante. È chiaro ed è sano che la motivazione principale dei detenuti sia finalizzata all’uscita dal meccanismo carcerario, questo implica però, per gli operatori, una notevole difficoltà nel capire e decodificare la loro motivazione al cambiamento. La struttura carceraria permette ai detenuti tossicodipendenti di presentarsi molto differentemente da come sono da liberi, vengono ai colloqui, sono collaborativi, disponibili, N. 167 - 2008 Nel meccanismo di negazione vi è anche la vecchia immagine, repellente per i loro nuovi modelli, di “tossicodipendente uguale eroinomane”, che si trascina per le strade, trasandato, malconcio, un relitto sociale, mentre loro, i cocainoman, sono gente vincente per cui la droga è uno “status”, non un problema. Una considerazione a parte merita il discorso sulla presa in carico dei detenuti extracomunitari. Rispetto all’inizio dell’arrivo in Italia dell’onda migratoria (10 anni fa), in cui quasi nessuno era solito consumare sostanze psicotrope, nell’ultimo anno la popolazione detenuta extracomunitaria è composta quasi esclusivamente da tossicodipendenti. Ci siamo presto accorti, come operatori, che non riuscivamo a rispondere, né con una presa in carico, né con una costruzione di una relazione significativa per entrambi. Le richieste che i detenuti extracomunitari fanno non possono essere accolte poiché, non essendo cittadini italiani, non vi è un Ente pubblico disposto a pagargli la retta e le modalità nostre di colloquio trovano da parte loro solo delle risposte a monosillabi. Come Ser.T interno ci siamo trovati in una situazione di I Servizi per le dipendenze patologiche difficoltà: riuscivamo a fornire solo un supporto farmacologico e, quando li vedevano per il primo colloquio, tutto si esauriva con una scarna richiesta di dati che alla fine non era per loro finalizzata a nulla e lasciava un non senso. Abbiamo così deciso di somministrare un questionario che ci aiutasse a capire di più chi sono, parlando con loro di loro e del loro progetto migratorio. Sono emersi alcuni dati significativi. L’idea della partenza dal Paese d’origine è presentata dai ragazzi come necessità di fuga da Paesi poveri, come supporto da dare alle proprie famiglie, in genere assai numerose ed indigenti; è il primogenito che si fa carico di ciò, a volte accompagnato da un fratello. La migrazione non è in genere “pensata”, sistematizzata, ma vissuta. Pochi sono i dati di conoscenza che i ragazzi hanno sul Paese nel quale si vogliono recare; anche per questo è abbastanza comune che i soggetti trascorrano 2-3 mesi in un’altra Nazione prima di giungere in Italia e che non sappiano indicare un motivo di scelta. Le Nazioni di transito prima dell’arrivo in Italia sono spesso limitate ad una di queste: Francia, Spagna o Belgio. L’arrivo nel nostro Paese determina subito molte difficoltà, anche solo di tipo logistico (es. reperire un’abitazione, trovare un lavoro ecc.). Questo sbandamento iniziale comporta che la popolazione intervistata si rivolga per i primi sostegni ai connazionali presenti da qualche tempo sul territorio (che molto spesso sono dediti all’attività di spaccio). I soggetti si ritrovano così, più che sovente, in abitazioni e in contesti di vita che ruotano intorno all’uso e alla vendita di sostanze stupefacenti. Anche se inizialmente non s’immettono in un ambito deviante o tossicomanico, la convivenza con i connazionali li porterà presto a seguire quel percorso. Nelle abitazioni gli orari e le modalità quotidiane sono legate allo spaccio, gli orari del sonno, piuttosto che quelli del cibo, risentono del tipo d’attività. Le case dove abitano sono affollate, vi è una mancanza di spazi personali nonché di una parvenza di vita “normale”. Nel progetto migratorio questa fase richiama più di tutte la mancanza d’individualità, di amicizie autonome e di un progetto proprio. L’attività di spaccio,spesso vissuta come unica opportunità, le fre- Sae l ute Territorio 123 quentazioni, la necessità di conoscere il prodotto, li porta ad avvicinarsi alle sostanze. Nei loro Paesi d’origine i soggetti erano soliti consumare esclusivamente hashish e/o alcol. Tra i vantaggi che i detenuti elencano dall’arrivo in Italia vi sono gli elementi delle società occidentali, senza che questi ragazzi abbiano gli strumenti intellettivi, culturali e storici per conviverci. Il danaro facile, l’autonomia, la libertà, la leggerezza nel vivere, la possibilità dello sballo sono gli elementi positivi che i soggetti elencano dal loro arrivo nel nostro Paese. Gli svantaggi cominciano a subentrare dopo un periodo, che in genere precede l’arresto, in cui usano eroina e cocaina (52 % solo cocaina, 26 % eroina associata a cocaina, 8 % solo eroina). In questa fase non sono più in grado di far fronte al mandato familiare e di spedire, per la sopravvivenza della famiglia, del denaro in patria. Le altre difficoltà sono sovrapponibili a quelle dei tossicodipendenti italiani “di strada”. Il questionario ci ha permesso di costruire una relazione, di conoscere una realtà che poi tende a ripetersi con una certa costanza. Le loro storie di partenza e arrivo paiono delle fotocopie. l ute Sa e 124 Territorio Arcangelo Alfano Mariella Orsi* Responsabile PO “Azioni di prevenzione e cura delle condotte di abuso” e delle dipendenze, Regione Toscana * Responsabile Centro studi e documentazione CESDA Dipartimento dipendenze ASL Firenze N ei suoi atti di programmazione, sanitaria e sociale, la Regione Toscana ha perseguito con continuità il principio dell’integrazione delle offerte terapeutiche così da favorire la continuità assistenziale ed assicurare un razionale utilizzo dei Servizi e dei livelli di assistenza. Un processo in cui è stato decisivo il ruolo dei Servizi tossicodipendenze (Ser.T) che oltre ad assicurare le attività di prevenzione, di diagnosi, cura, riabilitazione e reinserimento sociale si sono fatti promotori della cooperazione tra soggetti pubblici e non, per un’integrazione tra Pubblico e Terzo settore che è stata fortemente valorizzata a partire dalla Legge regionale 72/97. Le controversie ideologiche sono state pertanto superate a favore di una “politica del fare”, rispettosa delle differenze e con l’obiettivo comune di dare risposte concrete ed efficaci alle persone con problemi di dipendenza. I Servizi pubblici e privati sono stati dotati di un software gestionale (cartella clinica elettronica), unico per tutto il territorio regionale e specifici atti hanno precisato il diverso apporto dei Servizi al circuito di cura e definito gli I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 L’integrazioene delle offerte terapeutiche standard minimi da assicurare ai cittadini in ordine sia alla valutazione diagnostica multidisciplinare, sia nella predisposizione dei programmi terapeutici e socio-riabilitativi. È stata realizzata una rete di Centri antifumo unica in Italia e sono stati anche introdotti nei Livelli essenziali di assistenza regionali specifici pacchetti assistenziali per la disassuefazione dal tabagismo. Per altre patologie (ad es. gioco d’azzardo patologico), ad oggi non comprese nei LEA, sono state favorite specifiche sperimentazioni, anche residenziali. È stato dato un concreto impulso alla formazione professionale per dipendenze, come quella da cocaina, per la quale sono tuttora carenti terapie farmacologiche di comprovata efficacia. Per l’alcolismo e le problematiche alcolcorrelate si è provveduto ad istituire sia il Centro alcologico regionale che le équipes alcologiche territoriali ed a rafforzare la rete dell’associazionismo e dell’auto mutuo-aiuto. Il riordino delle strutture semiresidenziali e residenziali, sia a gestione pubblica che degli Enti ausiliari, avviato dal 2003, ha perfezionato la specificità dei Servizi e si è I progetti che hanno reso la Toscana Regione capofila nella programmazione della continuità assistenziale dimostrato di fondamentale importanza nel percorso di cura e riabilitazione per le persone con problemi di tossico-alcoldipendenza in quanto capace di garantire risposte appropriate ai molteplici bisogni di cura ed un sistema tariffario articolato per intensità di cura nelle quattro aree di intervento in cui si articolano oggi i Servizi: pronta accoglienza, terapeutico-riabilitativi, specialistici (doppia diagnosi, osservazione-diagnosi e orientamento, madri con figli) e pedagogico-riabilitativi. Tutte le strutture, sia pubbliche che degli Enti ausiliari, hanno raggiunto l’adeguamento ai requisiti minimi strutturali, organizzativi e funzionali previsti così che sono regolarmente autorizzate tutte le strutture che operano sul territorio regionale. In virtù di questo risultato, possiamo affermare che, ad oggi, la Toscana è l’unica Regione d’Italia ad aver concluso un percorso di riordino così complesso che, con un quinquennio di lavoro comu- ne tra operatori pubblici e privati ha prodotto, quale ulteriore risultato, un’approfondita ed estesa conoscenza dei punti di forza e delle criticità del sistema. Sono state avviate concrete azioni a sostegno di progetti di riduzione del danno e per persone a forte marginalità sociale. È stato infine avviato il processo di accreditamento istituzionale dei Ser.T in un’ottica di qualità e di efficacia nell’erogazione delle prestazioni. La ricerca, l’innovazione, l’informazione e l’osservazione epidemiologica regionale a) Il SIRT (Sistema informativo regionale sulle tossicodipendenze) La Regione Toscana, con una precisa scelta tecnico-metodologica e di innovazione tecnologica, ha realizzato da anni un articolato sistema di verifica e di valutazione degli interventi dei Ser.T con particolare cura per la formazione degli operatori sulla raccolta, N. 167 - 2008 elaborazione e utilizzo dei dati (cartella elettronica SIRT). La cartella elettronica SIRT è divenuta il principale strumento per la gestione unificata dei percorsi assistenziali da parte di tutti i soggetti pubblici e privati operanti in Toscana ed il sistema regionale, allineato anche con il Sistema informativo nazionale sulle dipendenze (SIND), è stato certificato come conforme rispetto a quanto richiesto dall’Osservatorio europeo. Il fabbisogno di dati e informazioni per la ricerca epidemiologica e per il monitoraggio di efficienza e di efficacia dei Servizi impongono di mantenere un elevato livello di integrazione tra il nuovo sistema informativo con le strutture preposte al monitoraggio, studio ed intervento sulle dipendenze. A tale scopo è già stato prodotto un insieme di indicatori, alimentati dall’enorme patrimonio informativo prodotto dal SIRT e funzionali al governo del sistema regionale e locale delle dipendenze La sfida del prossimo triennio consiste nel portare a regime l’utilizzo degli indicatori per far sì che i dati raccolti siano adeguatamente valorizzati, a fini conoscitivi e gestionali, sia per soddisfare le sempre maggiori richieste di approfondimento della conoscenza del fenomeno sia per orientare le scelte programmatiche in modo più mirato ed appropriato ai bisogni ed alla loro continua evoluzione. Attraverso protocolli di collaborazione la Toscana ha messo a disposizione, ad uso gratuito, il software SIRT alle se- I Servizi per le dipendenze patologiche guenti Regioni: Campania, Sardegna, Puglia. Il SIRT, con l’accordo del Provveditorato regionale per l’Amministrazione penitenziaria, viene utilizzato anche come cartella clinica sociosanitaria in ambito penitenziario. Attualmente è stato sperimentato in 6 Istituti penitenziari e a breve verrà esteso a tutto il sistema penitenziario toscano. b) La Rete CEDRO Una delle necessità più significative che emerge in area sociosanitaria è quella di ampliare il patrimonio di conoscenze specifiche su un tema, integrandolo con altre informazioni che ad esso si correlano. A questo si aggiunge, nel campo della documentazione, il bisogno di ottimizzare le risorse presenti sul territorio, favorendone lo sviluppo e la loro comunicazione e integrazione al fine di evitare di realizzare “doppioni”. A tal fine la Regione Toscana, tra le prime in Italia, ha promosso e finanziato un progetto di messa in rete dei Centri di documentazione di Firenze, Lucca e Arezzo allo scopo di ottimizzare e sviluppare la raccolta documentaria, la realizzazione di una rete informatica regionale in grado di coinvolgere progressivamente altri soggetti operativi, favorire la visibilità e l’accessibilità del materiale e delle attività organizzate, realizzare Centri di documentazione non solo come luoghi fisici per la raccolta di materiale bibliografico ma anche come sedi di incontri, confronto di esperienze, consu- lenze per la progettazione di interventi, guida per la stesura di studi, ricerche e occasioni di aggiornamento. Il progetto mette in rete i seguenti Centri: – Centro studi, ricerca e documentazione sulle dipendenze e AIDS (CESDA) - Dipartimento delle dipendenze Azienda USL 10 di Firenze; – Centro di documentazione Informalcol del Centro alcologico regionale; – Centro di documentazione sulle dipendenze del Dipartimento delle dipendenze dell’Azienda USL 8 di Arezzo (CEDOSTAR); – Centro Studi e documentazione provinciale sull’emarginazione di Lucca (CESDOP); – Centro documentazione sul tabagismo (INFOFUMO) dell’Asl 7 di Siena. Il CESDA di Firenze svolge il ruolo di coordinatore del progetto e cura la redazione del sito www.retecedro.net, della Newsletter (CEDRONEWS): il sito è oggi uno strumento di informazione e documentazione on-line che tratta un insieme eterogeneo di temi di rilevanza sociosanitaria, specificatamente orientato al settore delle dipendenze. I progetti nazionali che vedono la Regione Toscana come capofila L’alto livello raggiunto dalla Regione Toscana in termini di qualificazione dei Servizi, integrazione tra pubblico e privato sociale, ricerca e innovazione ha fatto sì che la Toscana venisse individuata dai competenti Ministeri (salute e solidarietà sociale) come Sae l ute Territorio 125 Regione capofila dei seguenti progetti nazionali tutt’ora in corso: a) “Sperimentazione di una metodologia di intervento per le problematiche sanitarie nell’ambiente carcerario” al quale partecipano 10 Regioni; b) “Problematiche sanitarie dei detenuti consumatori di droghe: risposta istituzionale e costruzione di una metodologia organizzativa” al quale partecipano 12 Regioni e la Provincia autonoma di Bolzano; c) “Impatto dei problemi alcolcorrelati nella popolazione afferente alle Aziende sanitarie territoriali e ospedaliere: epidemiologia, valutazione dei programmi di trattamento e costi”, al quale partecipano 14 Regioni; d) “Utilizzo della strategia di prevenzione di comunità nel settore delle sostanze d’abuso”, al quale partecipano 7 Regioni; e) “Budget per l’inclusione sociale di persone tossicodipendenti in trattamento o da attrarre in trattamento, ad elevata emarginazione”, al quale partecipano 18 Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano; f) “Formazione sull’identificazione precoce e l’intervento breve per la prevenzione dei problemi e danni alcolcorrelati nei contesti lavorativi e nell’assistenza sanitaria di base” diretto a tutte le Regioni e Province autonome; g) Programma di sensibilizzazione, informazione e consulenza finalizzato alla prevenzione dell’uso ina- l ute Sa e 126 Territorio deguato di alcol, diretto al personale di Aziende”, al quale partecipano 14 Regioni. Le criticità L’impegno programmatico profuso dalla Regione Toscana, si è concretizzato in alcune realtà territoriali che sono divenute veri e propri punti di eccellenza per il modello organizzativo, mentre altrove sono state riscontrate difficoltà che hanno ostacolato un’omogenea applicazione del modello nell’intero territorio regionale. Tali criticità possono così riassumersi: a) aumento assai rilevante delle persone in cura ai Servizi, dai 9000 casi del 1990 agli oltre 25.000 osservati nel 2007; tale incremento, cui si associa un diverso e più dinamico approccio diagnostico terapeutico, in alcune realtà non è stato affiancato da un parallelo e adeguato potenziamento delle risorse necessarie; b) istituzione del Fondo nazionale per le politiche sociali nel quale è confluito anche l’ex Fondo nazionale per la lotta alla droga, privando così di fatto il settore di risorse economiche finalizzate per la realizzazione di interventi organici e innovativi, soprattutto a livello locale; c) progressiva diminuzione dei trasferimenti statali agli Enti locali a fronte di un aumento delle competenze degli stessi e delle risposte socioassistenziali e sociosanitarie da garantire; I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 d) difficoltà operative legate alle recenti modifiche dell’assetto organizzativo del sistema sociosanitario regionale (Società della salute, Aree vaste); e) disomogeneità da parte delle Aziende USL nell’applicazione delle disposizioni regionali; le criticità maggiori sono state riscontrate nelle Aziende USL dove non sono stati costituiti i Dipartimenti delle dipendenze; f) permanere in molte parti della società civile e dei Servizi di uno stigma delle dipendenze come comportamenti devianti, immorali, criminali; tali orientamenti contribuiscono a ritardare l’accesso ai Servizi, ad impedire diagnosi precoci e a deresponsabilizzare i pazienti verso le cure; g) notevole incremento e diffusione delle droghe, legali e illegali, con nuove modalità e abitudini di consumo in particolare nelle fasce giovanili. Da tre progetti regionali, abbiamo tratto alcuni aspetti che ci sembrano degni di nota. “Salute in carcere” si propone come effettivo strumento di servizio e di incontro di esperienze, per questa ragione è stato costituito uno spazio nel quale ospitare progetti di altre Regioni e istituzioni (Progetto “valori” del Ministero di giustizia), ed è stato concordato con il PRAP anche l’inserimento di altri progetti nazionali e regionali relativi all’attuazione dei percorsi alternativi alla detenzione (CSSA) e di progetti realizzati per i Servizi giudiziari minorili). Di particolare interesse la sezione denominata “Buone Prassi”, all’interno della quale sono pubblicati i documenti relativi all’avanzamento del progetto, e, suddivisi per Regione, documenti relativi la presa in carico dei detenuti tossicodipendenti in carcere. Le modalità attraverso cui ciascuna Regione affronta la sanità penitenziaria è estremamente varia, le Regioni adottano procedure e protocolli a volte molto differenti l’uno dall’altro. Sempre all’interno della sezione “Buone prassi”, la sotto-categoria Linee guida, riporta i lavori prodotti nell’ambito del progetto. Il network europeo per le tossicodipendenze in carcere. A questo scopo è stato costituito un gruppo di lavoro specifico, coordinato dal responsabile scientifico del sottoprogetto toscano – dr.ssa Susanna Falchino – con lo scopo di sviluppare e promuovere i rapporti scientifici con i referenti nazionali rappresentati nel network europeo. 1. Progetto nazionale “Sperimentazione di una metodologia di intervento per le problematiche sanitarie in carcere”, promosso dai Ministeri salute e giustizia, che si propone di: a) analizzare e omogeneizzare i modelli organizzativi attuati nei percorsi assistenziali interni e esterni al carcere; b) favorire l’integrazione e la complementarietà del lavoro di rete tra i diversi soggetti istituzionali che attuano gli interventi; c) delineare linee guida nazionali, finalizzate anche allo sviluppo di modalità di revisione e valutazione dell’assistenza erogata. L’aspetto innovativo del progetto denominato anche “Buone Prassi”, è quello di aver utilizzato un modello di intervento che può essere definito come ricerca per la formazione/formazione per la ricerca. Gli scopi sono almeno tre. • Identificare i processi costitutivi dell’erogazione del trattamento sociosanitario dei detenuti tossicodipendenti in carcere nelle Regioni partecipanti al progetto. • Formare risorse interne al sistema organizzativo per svolgere la funzione di ricercatori (auditor) interni per i processi identificati. • Documentare le esperienze progettuali realizzate in Italia in questo settore,con un focus specifico sul tema della prevenzione delle patologie correlate, collegando il portale ai repertori specializzati sulle tossicodipendenze e dando un apporto italiano ancor più significativo al network europeo delle tossicodipendenze in carcere. Salute in carcere Il portale www.saluteincarcere.it si rivolge in prima istanza agli operatori impegnati nell’intervento socio-sanitario nei penitenziari, e costituisce un mezzo efficace per l’azione di scambio, confronto e di miglioramento delle diverse realtà operative. N. 167 - 2008 2. Progetto “Utilizzo di strategie di prevenzione di comunità nel settore delle sostanze d’abuso” assieme alla Società della salute di Pisa e la ASL di Grosseto, con la finalità di condividere con altre Regioni le modalità di comunicazione della campagna di prevenzione attivata. La stragrande maggioranza dei giovani comunica tramite Internet. La rete ormai sta diventando quasi un luogo “fisico”, che assomiglia sempre più al bar sotto casa. Abbiamo di conseguenza pensato ad uno strumento che potesse essere più efficace di altri per dialogare con i giovani, ma allo stesso tempo informarli e coinvolgerli in temi che riguardano i rischi e i pericoli derivanti dagli abusi delle varie sostanze, È con questo spirito, e partendo da queste riflessioni, che la Società della salute di Firenze, in collaborazione con l’Azienda sanitaria, il Comune di Firenze e l’Associazione ASA/ SWITCH, ha creato e messo on line dai primi di settembre 2007 il portale web www.sostanze.info. Una grande facilità di navigazione permette di muoversi agilmente attraverso le tre aree del sito: – le schede informative sulle sostanze d’abuso legali ed illegali; – l’area “discuti”, dove ogni lettore può pubblicare in forma anonima articoli, estratti da altri siti web, video, sempre sul tema sostanze (ad oggi circa 190 articoli pubblicati); – l’area “domande agli ope- I Servizi per le dipendenze patologiche ratori” dove chiunque, sempre anonimamente, può rivolgere quesiti alla redazione (ad oggi 150 domande). contrano senza gerarchie alto/basso. Un non luogo (il web) dove due o più comunità cercano di parlarsi, scambiandosi info e messaggi. Sostanze.info è un portale di discussione e informazione; è la community on line nella quale i ragazzi hanno la possibilità di ricevere informazioni, ma anche quella di scambiare e scambiarsi esperienze sulle più diffuse sostanze psicotrope, o di mettersi anche in contatto con degli specialisti che rispondono alle loro domande. Sostanze.info tenta di parlare davvero di uso e abuso, ascoltando innanzitutto i diretti interessati. Dopo l’attivazione di una campagna info/pubblicitaria mirata (creazione di una immagine accattivante accompagnata da uno slogan volutamente criptico “non sono da Comunità, sono da community”, messaggio e immagine che per tre mesi sono apparsi sugli autobus fiorentini e sulla free press locale) il sito è stato aperto nel settembre 2007. Ad oggi (febbraio ’08) i numeri di sostanze.info sono estremamente stimolanti: 50.329 gli accessi, 13.088 i visitatori, 7.522 i visitatori unici assoluti, media visite: circa 110 al giorno nell’ultimo mese, tempo medio sul sito per visita: 03’41”, visitatori che tornano almeno una volta dopo la prima visita: 53.97%. 3. Progetto di accoglienza a bassa soglia nella realtà fiorentina Nel corso del 2007 il Centro diurno Porte Aperte, gestito dall’Associazione Insieme, è entrato in contatto con 99 persone, di queste più della metà (il 53%) ha dichiarato nel colloquio di ingresso di non avere una dimora stabile e di vivere perlopiù in strada mentre il 22% risultano essere persone che usufruiscono di un alloggio temporaneo (dormitorio, Centro di accoglienza…). Si tratta nella maggioranza di persone che hanno alle spalle lunghe storie di dipendenza durante le quali hanno compromesso ogni relazione affettiva, sia familiare che amicale, persone che hanno perso lavoro e casa. In parte minore, ma non per questo meno importante, si tratta di persone immigrate, prive di permesso di soggiorno e di reti di riferimento. A partire da questo pressante bisogno (il 75% delle persone in contatto con il Centro) il Servizio si è trovato a confrontarsi sempre di più con il sistema delle accoglienze del territorio fiorentino nel tentativo di procedere ad interventi finalizzati al miglioramento delle condizioni di vita delle persone a prescindere dall’esistenza di un progetto riabilitativo (il rispondere a bisogni primari di tutela della salute è uno degli obiettivi principali dell’intervento di riduzione del danno). Non Il nostro obiettivo è quello di trasformare il sito in un “contenitore” dove linguaggi e codici comunicativi diversi si in- Sae l ute Territorio 127 sempre è stato però possibile soddisfare questo bisogno soprattutto a causa dell’assenza per la maggioranza delle persone dei requisiti richiesti per l’accesso alle strutture. Spesso infatti coloro che dichiarano di vivere in strada, oltre che essere prive di una dimora stabile, hanno anche perso i requisiti propri dello status di cittadino: non hanno più una residenza, non hanno Servizi di riferimento, non hanno un permesso di soggiorno. La conseguenza di tutte queste “astratte deficienze” è la concreta impossibilità di accedere ad un sistema di accoglienze che svela nei loro confronti il suo lato più escludente. I Servizi istituzionali infatti seguono il criterio della territorialità, hanno competenze per le persone residenti in un determinato territorio; questo – che nella sua accezione positiva significa maggior legame con la comunità, maggior conoscenza delle risorse informali, maggior coinvolgimento della comunità sociale – può tradursi nell’espulsione di coloro che non appartengono a nessun territorio. Oltre a ciò gli interventi proposti sono settoriali, strutturati per trattare precise categorie di persone escludendo le persone con disagio multiplo e bisogni maggiormente articolati. Infine, la metodologia di lavoro prevede progetti a termine ai quali le persone devono aderire e adeguarsi: è il servizio che valuta la disponibilità, l’affidabilità dell’utente, la sua capacità di utilizzare correttamente nei tempi e nelle modalità previste le risorse che gli sono dedicate. Gli in- l ute Sa e 128 Territorio I Servizi per le dipendenze patologiche N. 167 - 2008 terventi di bassa soglia e/o prossimità rappresentano di conseguenza, per molte persone, l’unica opportunità di aggancio ed emersione al sistema dei Servizi. Il rischio, come evidenziato in precedenza, è che per questa tipologia di persone sia possibile attuare solo azioni di sostegno mirate al superamento dell’emergenza contingente senza poter attivare meccanismi di autopromozione e valo- rizzazione delle competenze personali. I progetti di bassa soglia/riduzione del danno come già evidenziato svolgono una funzione di contatto, di accoglienza, di tutela sociosanitaria, di ponte “dalla strada ai Servizi” a partire da due presupposti: – rendere il più possibile minimi i criteri per l’accesso alle prestazioni offerte al fine di facilitare il contat- to con coloro che per motivi diversi non si rivolgono ai Servizi; – attivare una relazione di aiuto significativa con chi accede al Servizio che abbia qualche possibilità di essere mantenuta nel tempo. La facilità nell’accesso e la capacità di costruire relazioni significative, che rappresentano i due principali punti di forza dei Servizi di bassa soglia/riduzione del danno, diventano punto di debolezza nel momento in cui all’aggancio non segue la presa in carico da parte dei Servizi istituzionali a causa dei motivi sopraesposti (mancanza di residenza, di permesso di soggiorno, di dimora stabile ecc.), azioni di sostegno mirate al superamento dell’emergenza contingente senza poter attivare meccanismi di autopromozione e valorizzazione delle competenze personali. (segue da pag. 119): L’accesso ai Servizi a bassa soglia tarti con il fenomeno del consumo e con le sue modificazioni. Certo in un drop-in afferisce solo un certo tipo di utenza, spesso la più povera e marginalizzata, ma comunque lì è possibile incontrare, conoscere e comprendere le persone osservando, dall’interno, i vari momenti della giornata, nelle varie fasi del loro consumo ecc… resti- tuendo loro un visione di insieme. Trovo estremamente preoccupante, invece, l’utilizzo, da parte di alcuni Servizi di altre-alte soglie, di concetti quali la “doppia diagnosi”, con il rischio implicito di una nuova psichiatrizzazione della dipendenza. Oggi il mercato si è spostato dall’uso di una sostanza “tranquilla” come l’eroina al consumo di una sostanza molto più eccitante e prestazionale come la cocaina. Questo cambiamento di stile di consumo non può non incidere sui comportamenti delle persone, forse dobbiamo ancora investire in indagini e conoscenze prima di poter trovare una semplificatoria soluzione. In conclusione, vorrei affrontare e problematizzare alcune derive che i Servizi per le dipendenze stanno intraprendendo. Lavorare in un contesto come è un Servizio di prossimità ti permette quotidianamente di confron- Bibliografia Pepino L., Sorgi C. (2000), Primo non nuocere. Politiche e pratiche per la riduzione del danno, EGA, Torino. Gallo A. (1998), L’inganno droga, Sensibili alle Foglie, Tivoli. O’Hare P.A., Newcombe R., Matthews A., Buning E.C., Drucker E. (1994), La riduzione del danno, EGA, Torino. Corleone F., Zuffa G. (2005), La guerra infinita, Menabò, Ortona. D’Este R. (a cura di) (1990), Intorno al drago. La droga e il suo spettacolo sociale, Nautilus, Torino. Arcidiacono C., Gelli B., Putton A. (1996), Empowerment sociale. Il futuro della solidarietà: modelli di psicologia di comunità, Franco Angeli, Milano. Brandoli M., Ronconi S. (2007), Città, droghe e sicurezza, Franco Angeli, Milano. Piccardo C. (1995), Empowerment. 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