Per una politica economica basata sul valore d`impresa

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Per una politica economica basata sul valore d`impresa
N. 1/2012
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RIVISTA BANCARIA
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MINERVA BANCARIA
ANNO LXVIII
ISTITUTO DI CULTURA BANCARIA «FRANCESCO PARRILLO»
Gennaio-Febbraio 2012
Tariffa Regime Libero:-Poste Italiane S.p.a.-Spedizione in abbonamento Postale-70%-DCB Roma
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MINERVA BANCARIA
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RIVISTA BANCARIA
MINERVA BANCARIA
ANNO LXVIII (NUOVA SERIE)
GENNAIO-FEBBRAIO 2012 N. 1
SOMMARIO
Editoriale
C. CHIACCHIERINI
Per una politica economica
basata sul valore d’impresa
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11
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45
Sosteniamo le nostre imprese (E.P. Pellicanò)
»
55
Rischi sovrani e nuova regolazione finanziaria: le sfide (C. Oldani)
»
57
Il sistema industriale italiano, all’inizio di una nuova recessione (P. Ciocca)
»
61
Il credito alle famiglie torna a indebolirsi
»
67
»
71
»
77
Saggi
G. RICOTTI
V. PINELLI
G. SANTINI
L. SANTUZ
E. ZANGARI
S. ZOTTERI
La pressione fiscale gravante
sul sistema bancario:
questioni metodologiche ed
evidenze empiriche
I. VISCO
Investire in conoscenza: giovani e cittadini,
formazione e lavoro
Interventi
Rubriche
Bankpedia:
Nuove voci pubblicate:
COMMERCIO EQUO (M. Michetti);
EARLY STAGE FINANCING (G. Calise)
Recensioni
F. Cannata - M. Quagliariello (editors), Basel III and beyond. A guide
to banking regulation after the crisis (D. Curcio)
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ISSN: 1594-7556
Econ.Lit
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Editoriale
PER UNA POLITICA ECONOMICA
BASATA SUL VALORE D’IMPRESA
CLAUDIO CHIACCHIERINI*
Per uscire dalla crisi del debito è auspicabile una “politica economica basata
sul valore d’impresa”. Diversa dalle soluzioni convenzionali, che ci impoveriscono stringendoci nelle spirali di debito e tasse; incentrata sui processi
sottesi alla competitività e alla prosperità delle imprese. L’economia del
debito ci ha tradito. La stagione delle cicale, in cui una maggiore ricchezza
apparente è prodotta dal debito attraverso l’incremento artificiale di consumi
e spesa pubblica, può durare decenni. Parallelamente al debito, però, cresce
anche il rischio paese, sino ad arrivare improvvisamente a un punto limite,
che spaventa e mette in fuga gli investitori. Balzano in alto così anche gli
interessi, per ripagare i quali si contrae altro debito o si aumentano le tasse
e i tagli alla spesa. Il default non è più così un’ipotesi estrema, anche per gli
effetti recessivi dei conseguenti austeri interventi fiscali e di bilancio.
Con quasi duemila miliardi di euro di debito pubblico, circa trecento dei
quali da rifinanziare nel 2012, l’Italia è in una situazione oggettivamente
rischiosa. Per questo motivo, i tassi di rendimento, al momento in fase di
raffreddamento, specie sul segmento breve della curva, hanno raggiunto area
8% sul BTP decennale (considerato da una recente ricerca di Bankitalia
come soglia di sostenibilità) nei momenti peggiori di questa crisi. Solo andando
alla radice del problema possiamo sperare di uscire da questa spirale negativa.
Rimpicciolendo il debito pubblico, non ricomprandolo attraverso la BCE
(quantitative easing) o il nuovo fondo salva Stati Efsf, riducendo drasticamente
i costi della politica e tornando a crescere creando valore. Il resto serve solo
a illudere momentaneamente i mercati finanziari, quando addirittura non
è controproducente. E così sarà molto probabilmente anche per la nuova cura
“Monti”. L’obiezione è semplice. Una pressione fiscale opprimente, su patrimoni
immobiliari, redditi, consumi, associata al mancato adeguamento inflazionistico delle pensioni (oltre i mille euro per ora), può servire solo come soluzione tampone. Se non rapidamente sostituita da severi tagli alle ancora
*
Professore ordinario di economia e gestione delle imprese – Università degli Studi di Milano-Bicocca
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CLAUDIO CHIACCHIERINI
enormi spese inutili e da entrate sul fronte della crescita dell’economia reale,
sottrae solo soldi che i cittadini avrebbero destinato ai consumi. Senza contare
gli effetti inflazionistici dei previsti aumenti dell’IVA. Si entra così in una
fase recessiva, per curare la quale serviranno altre tasse, con i nuovi associati
effetti recessivi. Questo, in sostanza, ha già sperimentato la Grecia. Per ora
la ricetta “Monti” non è bastata ad evitare un doppio calo del rating, da “A”
a “BBB+”, a soli tre gradini (notch) dal livello spazzatura (investment
grade di tipo speculativo), associato ad un out look negativo legato alle previsioni recessive (40% di probabilità) dell’intera UE.
Pur riconoscendo alcuni punti di forza delle attuali linee programmatiche
di politica economica (pareggio di bilancio, norma costituzionale antideficit,
soglia minima utilizzo contante, liberalizzazioni ecc.) è necessario uscire
da viziose logiche convenzionali con innovazioni radicali nel modo di pensare e fare economia. La politica economica basata sul valore d’impresa
applica soltanto dei corretti principi economici di gestione aziendale all’economia nazionale. Così da trasformare le minacce che ora sembrano schiacciarci (debito pubblico elevato, alto costo della politica, crescita lenta) in
concrete opportunità capaci di farci primeggiare in Europa. Il risultato sono
soluzioni, di seguito sinteticamente illustrate, molto più concrete, rapide ed
efficaci di quelle proposte sinora.
Crisi finanziaria ma non economica. L’Italia, innanzitutto, ha la rara e
preziosa peculiarità dell’avanzo primario. La differenza tra le entrate e le
spese, senza contare gli interessi da pagare sul debito pubblico, infatti, è positiva. Questo vuol dire che, ridotto il debito, le nostre finanze migliorerebbero
automaticamente in modo sostanziale. Il debito però va ridotto ampiamente,
come in ogni tipo di crisi finanziaria. È difficile che la crisi del debito si
risolva intervenendo con altro debito (Eurobond, interventi dell’Efsf, allentamento quantitativo della BCE, sostegno del FMI ecc.). Serve invece
andare alla radice del problema all’interno della nostra economia, riducendo
il debito e i costi della politica e tornando a crescere creando reale valore.
Italia S.p.A. Disponiamo ancora di un elevato patrimonio pubblico, mal
gestito dalla “mano morta” statale e non strumentale rispetto al welfare, la
cui stima minimale è pari a una buona parte del nostro debito pubblico. Da
un'indagine della commissione Finanze della Camera, dedicata agli immobili
pubblici, il valore delle unità immobiliari e dei terreni statali sfiora i 400
miliardi di euro. Poi ci sono le partecipazioni dirette e indirette (ad es.
tramite Cassa Depositi e Prestiti) del MEF- Dipartimento del Tesoro, tra
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EDITORIALE
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PER UNA POLITICA ECONOMICA BASATA SUL VALORE D’IMPRESA
cui spiccano per importanza Enel, Eni, Alitalia, Anas, Rai, Finmeccanica
ecc. (http://www.dt.tesoro.it/it/finanza_privatizzazioni/partecipazioni/).
Un valore capace di ridurre sostanzialmente l’ammontare del nostro debito,
se si pensa che solo quasi dieci miliardi vale ai prezzi correnti la quota
pubblica in ENEL. Il dato è ancora maggiore se consideriamo il demanio
marittimo, i porti prima di tutto. Anche moltissime opere artistiche inutilizzate
e prive di vincoli della Sovrintendenza potrebbero essere avviate verso una
più utile valorizzazione economica. La soluzione più veloce ed efficace è il
loro conferimento in un fondo sovrano, da quotare su una borsa internazionale, la cui gestione potrebbe essere affidata a una società specializzata
nelle gestioni di grandi patrimoni mobiliari e immobiliari, anche acquisibile
con una fusione per incorporazione. Solo il fatto di aver trasformato un ammasso informe, per quanto grande, di beni pubblici, difficilmente vendibili
in blocco, in un veicolo finanziario velocemente valutabile e liquidabile
(ad es. mediante la cessione di quote ai sottoscrittori) migliorerebbe sensibilmente il nostro rating, con la conseguente riduzione del costo per il rifinanziamento del debito pubblico.
Downsizing dei costi della politica. Abbiamo poi moltissimo valore da recuperare appiattendo e snellendo la struttura organizzativa/decisionale.
Troppi livelli decisionali (circoscrizioni, comuni, province, regioni, parlamento, consiglio dei ministri, presidenza della repubblica, parlamento europeo) separano il cittadino dall’esercizio del potere politico. Resistere allo
schiacciante peso della politica, infatti, è un altro importantissimo punto di
forza della nostra economia. Spendiamo 6,3 miliardi di euro, solo per il
costo di funzionamento della politica nazionale e regionale (Bilancio dello
stato 2010). Solo le indennità degli eletti nazionali e locali ammontano a
2,054 miliardi (Bilancio Camera/Senato 2010). Circa 145 mila sono i parlamentari nazionali ed europei, ministri sottosegretari e amministratori
locali. Tra Presidenti, Assessori e consiglieri, le regioni ne assommano più
di 1.350. Le Province 4.250 circa. I Comuni, tra Sindaci Assessori e Consiglieri, complessivamente arrivano a circa 138 mila. 12 mila sono ancora
i consiglieri circoscrizionali. Circa 24 mila sono poi i consiglieri di amministrazione delle 7 mila tra società, Aziende, consorzi, ed enti partecipati o
controllate da Stato ed Enti locali, il cui costo è circa 7 miliardi annui.
Ancora dobbiamo considerare quasi 318 mila titolari d’incarichi o consulenze
della Pubblica Amministrazione. Senza contare poi la moltitudine di assistenti
e collaboratori che operano ai vari livelli della politica. Si potrebbe tagliare
anche a occhi chiusi, perché la maggior parte di questi costi della politica
sono di dubbia utilità.
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CLAUDIO CHIACCHIERINI
Rifocalizzazione del business dell’“impresa” Italia e crescita endogena
romeriana. Siamo così lenti nella crescita, anche perché al riguardo mai favoriti da un’efficace politica industriale. I massimi risultati in questo campo
si otterrebbero promovendo la localizzazione e lo sviluppo sul nostro territorio
d’imprese ad alta tecnologia. La crescita economica prodotta dai settori
basati sulla tecnologia, infatti, è molto più rapida, intensa ed equa di quella
che realizzano i settori tradizionali, tra cui quelli tipici della nostra economia.
Equa perché i fattori (forme di capitale umano, intellettuale e sociale/relazionale) impiegati in questi processi produttivi sono caratterizzati da più
tenui diritti di proprietà, il che consente una maggiore condivisione del
valore prodotto da parte di lavoratori (salari maggiori), concorrenti (maggiore
concorrenza) e consumatori (crescita continua del rapporto prezzo/qualità).
Crescita rapida e intensa, perché fondata sul meccanismo dei rendimenti
di scala crescenti e su quello degli spillover tecnologici (letteralmente fuoriuscite
di tecnologia). I rendimenti di scala crescenti sono così sinteticamente spiegabili. Una nuova scoperta tecnologica, sostenuti i costi iniziali di sviluppo,
può essere applicata a un numero teoricamente infinito di prodotti/processi.
Un’altra forma di redimenti di scala crescenti è la tendenza di un sistema o
di una tecnologia a diventare standard di settore (si pensi a Facebook o al
sistema operativo Windows) per il maggior valore attribuito dai clienti a
una molto vasta base di utenza. Gli spillover tecnologici diffondono invece
il valore di ogni nuova scoperta, incrementando la base di capitale umano
e intellettuale degli individui e delle imprese che ne sono “contagiati”, attraverso l’imitazione, l’apprendimento e il miglioramento della base di conoscenza iniziale. Le nuove scoperte della cosiddetta economia della conoscenza rendono molto più semplice di quel che si creda lo sviluppo di settori
ad alta tecnologia in un paese avanzato come il nostro. Si tratta di andare
alle origini della crescita endogena basata sulla produzione di nuova conoscenza, sempre frutto della co-evoluzione di forme di capitale intellettuale
(conoscenza), umano, economico e sociale/relazionale (strutture e collegamenti che facilitano l’interazione fisica, fiducia e altre attitudini favorevoli,
schemi cognitivi e linguaggi scientifici comuni ecc.). La co-evoluzione tra
le forme di capitale economico, intellettuale (idee) e umano è spiegata dal
modello della crescita endogena del noto economista Paul Romer. Aggiungendo il capitale sociale e la prossimità territoriale delle organizzazioni pubbliche e private coinvolte nei processi innovativi, il modello si completa favorendo gli spillover tecnologici e la diffusione e lo sfruttamento delle conoscenze più recenti e prossime alla frontiera scientifica, le più preziose da
un punto di vista economico, ma anche le più difficili da trasferire e utilizzare.
Passare dalla teoria (modello di Romer ed economia della conoscenza) alla
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EDITORIALE
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PER UNA POLITICA ECONOMICA BASATA SUL VALORE D’IMPRESA
pratica (crescita economica) significa, quindi, costruire le cosiddette “fabbriche” del capitale umano e intellettuale: i cosiddetti college “visibili” (università e centri di ricerca) e “invisibili” (aziende high tech, meglio se localizzate
in uno stesso cluster spaziale di specializzazione). Strumentali rispetto a
questa politica sono la rilocalizzazione dei centri di ricerca pubblici e universitari, la presenza di un ambiente di ricerca pubblica e universitaria
avanzato e l’offerta di sgravi fiscali stabiliti in funzione della qualità delle
tecnologie importate, per attrarre sui nostri territori imprese straniere high
tech. Per la produzione del capitale sociale/relazionale, infine, funziona il
cosiddetto modello della Tripla Elica, basato sull’imprenditorialità accademica
(la prima Elica, di fatto assente nel nostro paese), su un maggiore radicamento
delle imprese private all’interno della comunità scientifica e della ricerca
(seconda Elica) e dal supporto in questa direzione degli organi pubblici
(terza Elica).
Concorrenza e valore d’impresa. Nei settori aperti alla concorrenza dinamica
le imprese possono solo creare valore attraverso strategie pro-competitive
basate sull’innovazione, sugli investimenti nella risorsa umana, sull’aumento
della qualità e sulla diminuzione dei prezzi. Il successo e il vantaggio competitivo sono transitori e basati sull’innovazione e per questo devono sempre
essere ricreati attraverso nuove azioni pro-competitive. La rendita del produttore si trasforma così in bene pubblico trasferendosi in parte ai consumatori
e alla società, che beneficiano dei risparmi di prezzo e degli spillover tecnologici
automaticamente prodotti dai nuovi sforzi innovativi. Nei settori protetti
dalla competizione vale esattamente l’opposto. La strategia utile alla creazione
del valore è di tipo anticompetitivo, perché basate sul rinforzo delle barriere
all’entrata, anche attraverso azioni continuative di lobby, e su un coordinamento collusivo per il controllo dei prezzi, della quantità prodotta, del
lancio di nuovi prodotti/servizi e per il condizionamento di cliente i fornitori.
Il valore d’impresa diventa così un bene squisitamente privato conseguito
innalzando i prezzi sopra il livello competitivo e frenando il naturale corso
del progresso tecnologico. In questo contesto, il progetto governativo di liberalizzazioni può fungere da meccanismo capace di favorire l’innovazione
e gli spillover tecnologici e di far scendere armonicamente i prezzi in modo
da bilanciare almeno parzialmente le maggiori uscite fiscali delle famiglie
prodotte dalla spirale delle tasse. Particolarmente utile al contenimento dei
prezzi al consumo è la liberalizzazione del commercio, specie della grande
distribuzione organizzata. Come testimoniato dal modello “Giavazzi” incentrato sullo studio degli effetti di contenimento dell’inflazione osservati
in Cile nel 2003 con l’ingresso del leader mondiale della grande distribuzione
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CLAUDIO CHIACCHIERINI
organizzata Wal-Mart. Per essere effettivamente efficaci, tuttavia, le liberalizzazioni devono essere strutturate in modo da rendere più efficienti i
mercati: 1) aumentando il numero dei concorrenti; 2) diminuendo le asimmetrie informative tra produttore e consumatore e 3) rendendo impossibili
accordi di prezzo tra concorrenti e lungo la filiera produttiva (ad esempio
accordi di esclusiva tra benzinai e società petrolifere). Devono infine colpire
i gangli economici nazionali, estendendosi soprattutto ai settori più rilevanti:
telecomunicazioni (specie la telefonia mobile), trasporti pubblici, assicurazioni
ecc.
e-procurement (acquisti Internet e aste al ribasso) come sistema unico di
spesa pubblica. Abbiamo bisogno di una moralizzazione a trecentosessanta
gradi del processo entrate-spesa pubblica. Sulla prima faccia del problema
si sta intervenendo con la limitazione dell’uso del contate (con un limite
forse ancora da ridurre) e con il controllo degli estratti conto da parte delle
agenzie delle entrate. Scelte sicuramente ben accette da chi non ha nulla da
nascondere. I restanti centottanta gradi del problema restano però ancora
del tutto scoperti. I processi di tangentopoli hanno dimostrato l’esistenza in
passato di una funzione accessoria della spesa pubblica: il finanziamento
illecito di un parte importante della politica. Oggi le cose sono cambiate veramente? Molte facce della politica si, ma non la sostanza delle regole di appalto della spesa pubblica. Il rischio che esistano ancora incentivi privati
all’inefficiente gestione della spesa pubblica non è stato quindi ridotto. Nelle
imprese industriali i rischi della gestione infedele della funzione acquisti
sono stati eliminati spersonalizzando la fase negoziale del processo. Non c’è
trattativa diretta e quindi possibilità di una gestione infedele di spese e
appalti con l’e-procurement. Le spese in beni standardizzati sono gestite con
il sistema di acquisti Internet, limitato a un set predeterminato di importanti
e convenienti siti internazionali di acquisti on line (es. Amazon) e nazionali
(es. Euronics). Mentre la funzione di spersonalizzazione degli appalti è affidata al sistema delle aste al ribasso. In questo caso il canale Internet permette
a chiunque, tra i soggetti abilitati alla realizzazione dello specifico appalto,
di essere informato e di partecipare con un’offerta competitiva al ribasso per
l’aggiudicazione della gara. La spersonalizzazione garantita dall’e-procurement è quindi la soluzione anche per la gestione efficace e fedele della spesa
pubblica (acquisti e appalti).
Executive compensation e costi di agenzia L’impresa moderna usa i sistemi
di ricompensa manageriali secondo il contenuto prescrittivo della teoria
dell’agenzia, che affronta il conflitto di interessi in tutti i rapporti caratterizzati
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EDITORIALE
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PER UNA POLITICA ECONOMICA BASATA SUL VALORE D’IMPRESA
dalla delega del potere decisionale. Il problema non è quindi pagare meno i
manager del vertice aziendale, come si vorrebbe fare con i nostri parlamentari,
ma pagarli di più. Solo e soltanto però per imbrigliarne l’operato all’interno
di obiettivi utili ai soggetti deleganti (nella fattispecie gli azionisti di maggioranza, nel caso della politica i cittadini). La delega del potere politico ai
propri eletti, da un punto di vista delle teoria, è un classico contratto di
agenzia. Ben vengano quindi anche aumenti dei compensi dei politici
(magari anche dei manager pubblici), sottoforma però di incentivi flessibili
e premi prestabiliti e collegati rigidamente al raggiungimento di obiettivi
di bilancio pubblico ambiziosi (ad es. avanzo secondario) o alla realizzazione
di progetti di importanza strategica (ad es. taglio delle Province).
Corporate governance. La nostra Costituzione. Che punto di forza sarà la
prevista prossima norma di incostituzionalità di ogni deficit di bilancio in
finanziaria! Ancor più sarebbe estendere questo virtuoso principio ai bilanci
di tutti gli enti pubblici.
Come sempre, potremmo concludere, in ogni crisi, oltre i rischi vanno viste
le opportunità. Una politica economica ispirata alla creazione di valore e
ai principi di buona condotta aziendale che i migliori manager già applicano
nel settore privato, potrebbe rendere le seconde ben più evidenti dei primi.
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