e fiori, lumache figlie delle lumache che ho salutato

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e fiori, lumache figlie delle lumache che ho salutato
e fiori, lumache figlie delle lumache che ho salutato l’anno scorso;
ritrovo il mulino, il fossato, le farfalle, le filo-filogne e il canto delle cicale.
Ritrovo il sapore di quel piccolo fiore azzurro dolce da succhiare e l’aspro
delle melucce selvatiche. Chissà se ritroverò quel paio di vecchie scarpe di
zia, col tacco alto, che ho nascosto l'anno scorso, per giocare ancora a fare
la signora…
Nonna Maria 'Trucchione'
La stradicciola sterrata disseminata di sassi bianchi è giusta appena
per una persona e l’asino con la soma; se due somari s’incontrano uno dei
due deve arretrare fino al primo slargo e aspettare che l'altro sia passato.
Sono manovre difficili, specialmente con certe bestie cocciute. Ecco la
tenna di Adelina e Antonio, vicini carissimi degli zii. Il loro primo figlio è
emigrato in Australia e fortuna che non ci sono cartine, mappamondi e
nemmeno l’idea di distanze così esagerate, così qui nessuno immagina
quanto è lontana l’Australia. Gli altri figli, Gianni e Giulio, hanno qualche
anno più di me e non vedo l’ora di rivederli. Di corsa salgo alla casetta
attaccata alla roccia e di corsa ne ridiscendo: a quest’ora non c’è nessuno,
sono tutti al lavoro nei campi. La casetta non è bella come la nostra, dal
pavimento di assi sale l’odore della stalla e il raglio di Cappuccino, il
somaro nero come la notte e cattivo come il fiele. Tutti dormono nella
stessa stanza, sui pagliericci di foglie di granturco. In quella stanza c’è
anche una cassapanca tarlata piena di giornaletti: Pecos Bill, Tex Willer,
Sciuscià, Mandrake, L'uomo mascherato. Giulio ci si perde, fra tutti quegli
eroi. Se lo mandano a fare una commissione in paese si riempie le tasche
di “strisce” e passa le ore a sfogliarle seduto sulla sponda del fosso,
scordandosi quello che deve comprare e anche di tornare a casa. È geloso
del suo tesoro, ma se gli gira bene mi permette di rovistare nella
cassapanca per scegliere qualcosa da leggere.
Dopo l’ultima svolta ecco la casa rosa, il ponticello di legno, l’aia, lo
scalino di marmo lucente, la porta verde accostata. E ritrovo l’odore che
non cambia mai, l’odore buono delle cose semplici.
Riarco
Nella grande cucina il camino, il lavandino di peperino, il fornello a
carbone, la lunga tavola e le sedie impagliate. Posta un gradino più in
basso la sala da pranzo, dove però non si pranza mai. Odora di grotta, di
mele secche, di salsicce e prosciutti. Nella credenza tazzine di porcellana,
bicchierini col bordo d'oro, bricchi, vassoi e il servizio buono dei piatti.
Sopra ci sono le camere da letto con le finestre che guardano il ruscello e il
fosso, uno davanti e l’altro dietro la casa; la scala di legno scricchiola ogni
anno di più.
Aldo a Riarcu
Fuori il chiosco coi rampicanti, il tavolo rotondo di marmo e la
panca che vi gira attorno. Più avanti il forno il pollaio la stalla il fienile, e
la cantina ricavata nel tufo.
Arrivano anche zia e mamma, stanno ancora raccontandosi. Zia
Palmira grida aù e in risposta arriva dalla collina l'aù di zio Benedetto che
subito accorre e ci abbraccia, felice: – Quinara mea, bella meluzza de zì
Bebetto...
Poi tutti a tavola. Brodo di gallina con i quadrucci, frittelle di fiori di
zucca, prosciutto…
– E Ninnacchio? – chiedo allarmata, ma mi dicono che il maialino sta
bene e intento a ingrassare. Non chiedo altro e mi gusto il prosciutto, il filo
di grasso si scioglie in bocca come crema.
Nonno Gigi è il padre di zio Benedetto, non è proprio mio nonno, ma
lo chiamo nonno lo stesso; i miei non li ho più, nonno Agostino e nonno
Giacamucciu li conosco solo per le fotografie che stanno sulle loro tombe;
quasi ogni giorno portiamo loro un fiore raccolto per via, il camposanto è
di strada quando si va in campagna. Nonno Gigi ha la pelle rosea di un
neonato, mangia sale grosso a puiji, lo manda giù con due o tre soreji
d’acqua, e si sciacqua la bocca con un bel bicchiere di rosatello.
Nonna Maria abita a Piazza Palma, al centro del paese, ma ogni
mattina a buonora viene a Riarco per dividere il lavoro con gli altri. Dal
guarnello di nonna Maria esce di tutto: mele secche ficorelle nocchie noci,
pezzi di pane bianco e di pizza gialla. Nonna odora di anice e di
finocchiella selvatica.
Appena finito di mangiare corro al fosso e saltellando sulle pietre
lucenti, attenta a non scivolare, m’incanto a guardare le pozze nere di
girini, la vegetazione aggrovigliata che si arrampica lungo la scarpata, fino
alla parete brufolosa della casa. Poi corro al ruscello davanti casa che
passa sotto il ponticello, continua il suo cammino e più avanti si unisce
agli altri corsi d’acqua.
La sera zio suona la fisarmonica e zia Palmira canta gli stornelli. E
io, alla fine del giorno di festosa accoglienza, mi domando e dico che altro
ci può essere di meglio al mondo.
I miei zii non hanno figli, ma noi nipoti siamo tutti figli loro. Della
famiglia fanno parte Frizzetto e Gigetto, cane e gatto, la mucca Stellina, la
somara Rosinella e quel certo Ninnacchio che non invecchia mai. Tutti gli
animali sono chiamati per nome e trattati con affetto, ma ognuno deve fare
il suo dovere.
La grinta di nonna Maria 'Peruzza'
Dopo cena arriva Adelina con tutta la famiglia, per salutarci. E
mentre Antonio detto Pellacchio discorre con nonna Maria detta Peruzza e
con nonno Gigi detto Mezzoprete, noi ragazzi ci osserviamo un po’
confusi; non siamo più gli stessi dell’anno scorso, siamo molto cambiati.
Gianni, il più grande, è un bel ragazzetto con gli stessi tratti delicati della
madre, Giulio si è fatto alto e robusto. La sua voglia di stuzzicarmi, però, è
sempre la stessa:
– Io dico nomi di città e tu li ripeti. Così: se dico Firenze tu dici
“mamma Firenze sono io”, capito?
– Capito.
– Roma.
– Mamma Roma sono io.
– Napoli.
– Mamma Napoli sono io.
– Milano.
– Mamma Milano sono io.
– Lucca.
– Mammalucca sono io. – E dopo essermi data della mammalucca
rincorro Giulio fingendo di essere arrabbiata, mentre i grandi ridono a
crepapelle. Si ride per niente, qui a Riarco.
Domani mamma riparte. Zia le dirà come sempre di stare tranquilla
per me, e sventolerà il fazzoletto fin quando la corriera sparirà alla prima
svolta.
Vita di campagna
Dopo il giorno di festa si torna alla fatica quotidiana. La vita di
campagna m’insegna quanto il contadino sia tenace e abituato al sacrificio.
Quando il canto del gallo mi sveglia, scendo in cucina e trovo il latte
appena munto a bollire sul fornello a carbone; zia con la punta del
cucchiaio trattiene la panna spessa un dito, mentre lo versa nel tazzone
dove ha già spezzato il pane. Sapone e asciugamano e scendo a lavarmi al
fosso, l'acqua gelata striglia la pelle e la mente. Quando risalgo, il sole
spunta dalla collina e rapido dipinge il mondo di rosa.
Ramazzo l'aia con la scopa di pungitopo, il mio primo compito e
forse anche l’unico quando si resta a lavorare a Riarco o quando zia fa il
pane. Invece, quando si vanno a lavorare i terreni alle Cone o in qualche
altro appezzamento, si parte presto, col somarello carico sia all’andata che
al ritorno.
Per andare alle Cone invece della mulattiera prendiamo la
scorciatoia. Rosinella si arrampica sui tufi graffiando la roccia con gli
zoccoli ferrati, in salita mi attacco alla sua coda e in pianura zia mi issa sul
basto. Mi sento allora corsara della montagna in groppa al mio focoso
destriero. Il povero animale è tormentato dai tafani, cerca di difendersi in
tutti i modi, ma quelli gli vogliono mangiare anche gli occhi, e me ne viene
rabbia e pena. Con una frusta di salice imperverso su Rosinella e chissà chi
la tormenta di più, se io o i tafani.
La tènna alle “Còne”
Arrivati alle Cone saluto il malvone rosa. Lo trovo sempre in fiore e
m’ immagino che sia fiorito tutto l’anno. Saluto anche i girasoli, che mi
ridono in faccia.
D'estate in campagna non c'è un attimo di riposo, salvo la domenica.
Giorno di festa
La domenica mattina ci laviamo a turno nella tinozza, davanti alla
fiamma del camino. Ci laviamo anche i denti, col sapone da bucato
strofinato sullo spazzolino. Indossiamo i panni buoni e per ultimo curiamo
i particolari. Con la brillantina Linetti si unge tutta la famiglia, anche la
pelata di nonno Gigi, anche il pelo del gatto che imbrillantino di nascosto.
Sul davanzale della finestra della sala c’è un frammento di specchio
considerato mio personale, scrostato dall'umidità: mi riflette immersa nella
nebbia, bella e irreale, senza nemmeno una lenticchia sul naso. Là davanti
mi pettino e mi faccio le linguacce. Prima di uscire ci ispezioniamo a
vicenda, un tocco e un ritocco e via in fila lungo la stradina, per lasciare
libera la corsia di sorpasso riservata agli animali da tiro. A quest’ora dei
giorni di festa si va tutti nella stessa direzione: in Cattedrale.
Lungo la strada saluti scherzi e scambi di notizie, una sorta di
settimanale completo di cronaca rosa e cronaca nera, di previsioni sul
tempo e sull'annata.
La messa dura parecchio, il prete pare sempre arrabbiato e sgrida tutti
per indurre a riflettere sulla gravità dei peccati commessi. I peccati li
commettiamo tutti, ma c'è una bella differenza fra peccato veniale e
peccato mortale: se muori in peccato mortale vai dritto all’inferno, se
invece sono veniali li vai a scontare in purgatorio prima di salire in
Paradiso. Molto dipende dal confessore che trovi, secondo la penitenza che
ti tocca ti fai un'idea del debito che hai verso Dio. Comincio a pensare che
ci voglia un ragioniere d’eccezione, per fare certi calcoli.
Colazione in piazza, pizza e prosciutto, uova sode, ciambelle e
ciambellette e un goccio di vino per mandare tutto a buon fine. Poi si
riprende la strada del ritorno ma camminando piano, tipo passeggiata.
Dalle finestre spalancate arriva il suono delle radio, le voci vellutate di
Giorgio Consolini, Claudio Villa, Giacomo Rondinella e Carla Boni
dolcificano l'aria, accompagnate dall’orchestra di Armando Trovajoli. In
campagna la radio non ce l’ha nessuno, ma tutti la vorrebbero avere. La
canzone in voga quest’anno è “Terra straniera” e fa scappare le lacrime; a
Subiaco tutti hanno un parente, un vicino, un conoscente emigrato. O il
proprio figlio. Tanti paesani sono emigrati in passato, anche la mia
famiglia. Ma non si sono allontanati troppo e ogni tanto si rifanno vivi.
Invece chi parte emigrante negli ultimi anni viaggia per giorni e giorni,
anche per mesi, su treno o per nave, e non torna quasi mai.
“…terra straniera quanta malinconia…”
E la terra straniera appare come un bosco intrigato da cui non si torna
indietro.
“…ma penso notte e dì alla mia casetta, alla mia vecchietta, che
sempre aspetta…”. Un bosco che imprigiona con mille braccia l’emigrato
perduto per sempre agli affetti. I pianti si sprecano, le canzoni sono
commoventi come i film.
Pranzo speciale, e nel pomeriggio musica, canti e balli. Nonna Maria
è uno schianto, sventola le sue cento vesti e la sua faccia si fa bella e ardita
mentre guarda di sguincio ora gli uomini ora le donne allineati su fronti
avversi. Emozioni violente per me, coinvolta nei giochi erotici e innocenti
ereditati nei secoli.
La comare Peppina col figlio Gino
Oggi è festa di nozze. La sposa in un completo attillato, coperta d’oro
e con l’aria trasognata; lo sposo in doppiopetto gessato, la cravatta
allentata, la faccia inondata di sudore. Sono sposini freschi ma non di
giornata, festeggiano la prima settimana di matrimonio. A tavola li ho di
fronte, non mi perdo uno sguardo né una parola. Quando lui le parla
all’orecchio lei abbassa lo sguardo e arrossisce fino alla radice dei capelli.
Le mani dello sposo non stanno mai ferme, la tovaglia sventola come
mossa dal vento, ma l’aria è ferma. Scivolo dalla sedia e infilo lo sguardo
sotto il tavolo, lo sposo attorciglia una gamba a quella della sposa, che
sembra ritrosa. Conosco questo modo di comunicare, l'ho già visto durante
le tombolate a Natale.
Lui le chiede: “Stasera lo rifacciamo, eh, bella, lo rifai con me?”. E la
bella, sciolta in una fiammata, lo scosta un poco, ma solo un poco e
mormora: “Sta buono, lo vedi, ci guardano…”. Allora lo sposo la prende
fra le braccia e la conduce in un giro di valzer, e girando girando la porta
fuori dalla cerchia e scompaiono verso il fienile ma nessuno se ne accorge,
così almeno credo, anche se mi sembra strano che nessuno faccia caso a
loro che sono i festeggiati. Tornano, lui con gli occhi lustri e lei con un
mezzo sorriso, e riprendono a mangiare e a bere con grandissimo gusto
come se fossero digiuni da giorni. Zia intona la canzone che parla di una
sposa che la prima sera si mangiò una cosa leggera, la seconda sera la
stessa cosa leggera con un’altra più sostanziosa e va avanti la tiritera fino a
che le portate diventano un centinaio, ma non saziano la sposa. Battimani
agli sposi, agli invitati, a chi ha cucinato, a chi ha mangiato, a chi ha
suonato e cantato. E alla fine di tanta candida orgia, auguri e figli maschi, e
un sialodatodio per la bella giornata.
Il sale, il medico e le medicine
L’alternarsi dei momenti belli e goderecci con i lunghi giorni di
durissima fatica senza soste mi rende confuso questo tipo di vita. Anche
l’abbondanza di cibo e il problema che si presenta quando sta per finire il
sale, e più raramente lo zucchero, mi confonde. Penso che gli zii sono
ricchi, ma senza soldi. Ed è così, se per ricchezza s’intende avere tutto ciò
che serve. Per procurarselo devono sgobbare tutto l’anno ed essere anche
fortunati; devono contendere il raccolto alla siccità, alla grandine, alle
infestazioni ed altri accidenti. Non sempre riescono a battere tanti nemici,
e allora danno fondo alle riserve.
Zia si ammala di pleurite. Ha sempre il fiatone e una febbricola
perniciosa, ma benché a stento e a rilento svolge tutti i lavori abituali.
Certe volte scivola seduta a terra bagnata di sudori freddi, e aspetta con la
vista annebbiata di recuperare le forze e riprendere l’attività.
Si presenta il dramma del medico e delle medicine, tutto a
pagamento. La visita specialistica e la ricetta spedita in farmacia mandano
in fumo i pochi risparmi.
Zio è nervoso, preoccupato su tutti i fronti. E forse a causa del
nervosismo si affetta un piede con la falce. Non dice niente a zia per non
darle un altro pensiero e se lo cura alla vecchia maniera: un impasto di
saliva fango e urina, credo. La ferita s’infetta, zio ha bisogno di riposo e di
cure serie. Per giunta piove sempre, tristi quei pomeriggi passati in silenzio
chiusi nella cucina, mentre il cielo scaglia lampi e tuoni e Frizzetto guaisce
in sordina.
Sgranocchio pane e frutta secca fino a ingozzarmi per tenere lontana
la tristezza.
I guai non vengono mai da soli, un vicino incolpa il nostro cane di
avergli mangiato le galline. Noi sappiamo che non può essere vero,
Frizzetto è affettuosissimo e per niente aggressivo, abituato a giocare con i
pulcini della chioccia. Anche il vicino lo sa, ma è un tipaccio, chissà in
quale brutta situazione si trova e siccome le volpi, a differenza dei cani,
non hanno padroni cui chiedere risarcimenti, presenta il conto e minaccia
la denuncia. Gli zii gli offrono galline in cambio di quelle perse, ma il
vicino non ne vuole sapere e batte a moneta sonante.
I miei zii non sono combattivi, per loro è più facile subire
l’ingiustizia che pretendere giustizia. Il vicino conosce bene la loro
mitezza e ne approfitta. Ha sempre spadroneggiato, con loro.
Così mio zio, ancora zoppicante, prende Ninnacchio e lo porta alla
fiera. Finché non torna io prego che non riesca a venderlo, ma vince la
preghiera di mia zia, contraria alla mia. Zio torna senza il maiale e scuro in
viso, va dritto dal vicino e regola i conti.
La sera passa, nera e tetra.
La mattina dopo, ancora a notte, sento uggiolare. Mi affaccio alla
finestra e vedo zio che dopo aver scavato una buca profonda tenta di
stordire Frizzetto con la pala e infine ci riesce e lo seppellisce. Lo
seppellisce ancora vivo ed io sto male da morire e so che non guarirò mai
più di quel momento atroce. Patisco l’ingiustizia di una pena capitale
applicata a una creatura innocente. Ogni volta che mi troverò direttamente
o indirettamente davanti ad un’ingiustizia, Frizzetto guairà dentro di me.
Me lo sento, come sento il suo spirito confuso al mio.
L’umore dello zio non cambia per tutta l’estate, zia consuma in
silenzio il suo male ed io affogo nella malinconia. Finché mi faccio
coraggio e dico a zia che voglio tornare a casa. Ma quando Bebetta mi
guarda dispiaciuta io le dico ridendo, a filastrocca: “Ci hai creduto, faccia
di velluto!”.
Non passiamo alla pesa una volta a settimana come facevamo gli altri
anni, perché non si va a j’ammassu a fare spesa. Poi, come dopo il
temporale torna il sereno, così le cose tornano a posto; zia Palmira
convalescente, zio rinfrancato nel vederla riprendere colore, qualche
soldino racimolato con la trebbiatura fatta per terzi.
Quando Bebetto va a lavorare nei poderi degli altri noi gli portiamo il
pranzo; la pastasciutta viaggia nella canestra sotto il solleone e arriva
scotta ma caldissima. Durante quei pasti consumati insieme a gente
forestiera, le risa e gli scherzi fanno le veci di dolce e caffè; e mentre il
sudore cola sulla pelle dorata dal sole e dalla polvere della trebbia, sento
più che mai la forza della vita.
Al mercato
Zia torna a preparare la grande canestra da portare al mercato, come
sempre fa in estate un paio di volte a settimana. Durante la malattia la
canestra è rimasta appesa e noi abbiamo fatto scorpacciate di verdure per
non mandarle a male. Zia la riempie con mucchietti di ogni cosa, separati
dalle foglie di vite; fagiolini al burro, così sottili che per coglierne un chilo
ci vuole un’ora, mazzetti di fiori di zucca e zucchine, trecce di cipolle,
patate, pomodori, qualche frutto, alcune dozzine di uova, erbe aromatiche
da dare in omaggio.
Appena fa giorno coglie le ultime cose e poi andiamo, zia quasi
sparisce sotto la canestra che cola rugiada, io le faccio compagnia con le
chiacchiere.
Arrivate al mercato, dopo aver arrancato per tutta la salita, zia espone
il carico ed io monto la guardia, col batticuore. Quando una donna si
avvicina guardando la nostra canestra e poi ci oltrepassa e acquista alla
canestra accanto, una sorta di mortificazione e di sdegno mi fanno
avvampare. Se poi la signora pretende lo sconto o un pugno di verdura in
più sul peso già abbondante, esigendolo senza gentilezza, e zia
l’asseconda, mi irrito con tutte e due e volto loro le spalle.
Al ritorno zia mi compera sempre qualcosa, caramelle o il gelato, o
la ciriola con la mortadella, sublime; me la gusto a morsetti per farla
durare più a lungo.
Zia Nazzarèna
La generosità di Letizia
Subito dopo l’Arco Trionfale c’è la casa di Letizia. Si dice che
l'anima eletta di Letizia sia in contatto diretto con tutti i santi, la Madonna
e forse pure con Dio. Il suo balconcino dà sulla strada e per abitudine ogni
volta che ci passiamo davanti alziamo gli occhi. Quando andiamo al
mercato lei ci chiama e dice a zia di lasciarmi con lei, così non mi annoio a
stare tutta la mattinata in piazza. Letizia ha una bella casa, il marito fa il
maniscalco nella bottega sottostante e l’unico figlio studia da dottore. Una
casa piena di oggetti belli e di libri, col pavimento cerato. Ma io non
voglio lasciare zia da sola ad affrontare l’ultimo pezzo di salita e le comari
cittadine che trattano la gente di campagna come servi, pretendono il peso
abbondante e non ringraziano mai, al contrario di zia che ringrazia sempre
quando prende i soldini.
Ogni volta che passiamo davanti alla casa di Letizia cerco di distrarre
mia zia, mi piace credere che se non alziamo la testa Letizia non si affaccia
al balconcino. Ma la gentilezza vuole gratitudine e chi non accetta non
merita, dice zia, perciò ogni santa volta mi dice di restare con la santa
donna, che oltre tutto mi può insegnare qualche preghierina nuova. Letizia
e zia messe insieme non l’hanno mai spuntata, sono sempre riuscita a
restare con Bebetta per sostenerla nel piccolo commercio ma oggi hanno
per alleata la pioggia.
Stiamo attraversando il ponte di San Francesco, quando uno scroscio
di pioggia c’inzuppa da capo a piedi e noi non sappiamo che fare.
Restiamo sotto la volta finché la pioggia non rallenta, poi proseguiamo,
alla bbona de Ddio. La pioggia fa bene alle verdure, zia ha corolla e
canestra in testa che la riparano, l’unica esposta sono io e zia mi va
avvolgere nel suo grembiale. Prima dell’arco vediamo Letizia che ci viene
incontro con l’ombrello, mi afferra per un braccio e di corsa mi porta
nell’androne di casa sua e intanto grida a zia Palmira di stare tranquilla per
me e di non bagnarsi troppo, si ricordasse che la malattia le ha lasciato i
polmoni delicati.
Zia le dirà che ha bisogno di me, che non mi può lasciare tutta la
mattinata in custodia, che non può approfittare di tanta gentilezza, lo spero
vivamente. Invece zia si allontana con andatura dondolante, le mani sui
fianchi e la schiena diritta.
Attraverso un velo di lacrime vedo la cucina inondata di sole; il figlio
di Letizia seduto a fare colazione non alza la faccia, non mi guarda e non
mi saluta e nemmeno io lo saluto. Resto impalata sulla porta, Letizia mi
spinge avanti, mi fa sedere di fronte al figlio, mi porta una tazza di latte
bollente e una fetta di pane.
“Ho già mangiato” le dico. Da zia non manca nulla, non ho bisogno
di nulla e non voglio restare in questa casa dove non si saluta l’ospite, e
anche se si fa sedere alla stessa tavola non gli si rivolge la parola. Mi sento
a disagio e urtata, costretta a fare ciò che non voglio, ad accettare cose che
non si possono rifiutare perché vengono dal buon cuore e dalla generosità,
questo m’insegna zia. Oppressa da tanta sollecitudine e insistenza mangio
il pane e bevo il latte, come in sacrificio. Il figlio di Letizia esce con i libri
sottobraccio, salutando a stento la madre e rivolgendo a me un'occhiata
infastidita. La mattinata sembra lunga un mese.
Finalmente sento la voce di zia, che salendo le scale già mi chiama.
La canestra non si è svuotata, il maltempo non giova al mercato e zia è
venuta via prima del tempo. Anche lei è dispiaciuta, le sono mancata.
Nella sua semplicità capisce che ho subito un’obbligazione. Se ne scusa
con una carezza speciale, sono certa che non mi lascerà più a casa di
Letizia a ingozzarmi di latte e di amarezza.
Il compare Duilio
Il bagno
Andare al bagno è un problema da risolvere tutti i giorni. Il bagno
non è dentro casa, si trova in mezzo alla terra coltivata. Una profonda buca
quadrata recintata da una fitta incannucciata, un pavimento di assi
sconnesse con un buco centrale. L’odore del concime organico sale al cielo
in effluvi vaporosi, una preziosa riserva per l’orto. In campagna è vietato
lo spreco, i miei bisogni vanno depositati nel comune accumulo e così
anch’io contribuisco alla produzione. Tutto questo mi è chiaro, ma non
riesco, proprio non riesco a entrare là dentro, le poche volte che ci ho
provato mi si è scompigliato tutto. Ho tentato di spiegare che nulla può la
mia volontà di cooperazione, quella non manca, mi manca lo stomaco, ma
nessuno mi dà retta. La proposta di poter fare come i gatti, scavare usare e
ricolmare la buchetta personale, non è presa nella minima considerazione,
sono parte della famiglia e devo contribuire, le mie sono fisime di
ragazzina viziata.
Non mi resta che ricorrere all'astuzia. Quando zii e nonni sono
impegnati lontano dalla fossa di letame, io invento l’urgenza. Corro a mani
strette sulla pancia verso l’abitacolo di canne, ma anziché imboccare la
porticina l’aggiro e faccio quello che devo fare, badando a non lasciare
segni sospetti. Mi salvo dalla prova insostenibile dispiaciuta di sottrarmi al
doveroso apporto, ma c’è un limite per me invalicabile.
L’indigestione
Alberelli stenti danno frutta di qualità eccellente. C’è un piccolo
frutteto di pesche bianche a forma di cuore, con la punta pelosa. Colgo e
mangio i frutti con la buccia quando sono ancora acerbi, spruzzati di
verderame. Anche le albicocche, quando sono ancora nocciolo e pelle
rasposa, mastico e ingoio senza contarle. Per non dire dei lamponi, dei
mirtilli, delle fragoline selvatiche che spuntano come occhietti di coniglio
in mezzo alle fratte. E chicchi di rosciola, e melucce selvatiche, e
prugnette e peruzze, non ho mai la bocca vuota e lo stomaco a riposo. È
vero che non sto ferma un momento e macino tutto, ma un brutto giorno
tutta quell’acidità prende il sopravvento e scoppia un’indigestione paurosa.
Febbre altissima, vomito, diarrea e dolori di pancia, bruciore di stomaco e
delirio. E finisco nel lettone degli zii con il panno imbevuto d’aceto sulla
fronte ardente, martoriata dalla sete. Quella benedetta donna di Letizia, cui
mia zia è ricorsa per consiglio, ha proibito di darmi da bere e ha ordinato
di farmi mangiare verdura cotta spruzzata di limone.
Invoco un sorso d’acqua, un bicchiere d’acqua, una brocca d’acqua,
una botte d’acqua, che mi bagnino almeno le labbra. Ma Letizia ha detto
no, assolutamente no. Letizia non è medico, non è infermiera e nemmeno
farmacista, ma è in ottimi rapporti, come s'è detto, con quelli di lassù. Ciò
che dice le viene ispirato dall’alto e non si scherza coi santi: niente acqua.
La febbre supera i quaranta gradi, mi sto disidratando, perdo liquidi da tutti
i pori e i fori. A intervalli regolari, dispensata come una medicina, una
forchettata di cicorione spinto a forza in gola mi fa rovesciare anche
l’anima e impazzire le budella.
– Voglio mamma! – piagnucolo, gemo, pretendo. Ma nemmeno
questo si può fare, si dovrebbe mandarle un telegramma e ricevere un
telegramma è come prendere una coltellata, un telegramma si manda solo
nel caso estremo. Né acqua né mamma, solo delirio senza intervalli di
lucidità.
– Voglio il dottore! – ma il dottore non si chiama per una semplice
indigestione; e poi è vecchiotto, bisognerebbe andarlo a prendere e poi
riportare col somaro, altri mezzi non ci sono e di venire a piedi neanche a
parlarne.
– Voglio il prete! – voglio che il prete venga e ordini ai suoi fedeli di
“dar da bere agli assetati”. Ma che dici stupidina, ma che prete, il prete si
chiama per l’Estrema Unzione e non è cosa nemmeno da pensare!
Né acqua né mamma né dottore né prete.
– Voglio morire.
– Chiedi perdono a Gesù, che è morto per ridarti la vita e tu non la
vuoi.
– La voglio, la voglio, salvatemi, sto morendo!
– Povera piccola, la febbre le fa dire cose strane.
Esco dalla stanza e me ne vado, me ne vado al fiume, al fiume c’è
tanta acqua che forse basterà alla mia sete, è notte e io sto con la faccia
nell’acqua gelida del fiume e il fiume mi porta lontano lontano ma la sete
non passa. Torno a casa e scendo al fosso ma il fosso è secco, nemmeno
una goccia d’acqua, le pietre splendono asciutte nella notte. Torno nella
stanza dalla quale non sono mai uscita, se non nel delirio, e ritrovo intatto
il tormento, il tormento atroce della sete, io muoio e nessuno fa niente per
me.
– Nessuno mi salva!
– Bella meluzza, che vai farneticando? non senti le nostre preghiere?
Guarirai presto, prega anche tu.
Zia torna a chiedere aiuto e consigli a Letizia. Ha fatto tutto quello
che le è stato detto di fare ma la febbre continua a salire ed io non mi
lamento quasi più, troppa fatica, sono allo stremo. E zia torna con la ricetta
miracolosa: un bel pugno di sale inglese, laviamo la creatura da cima a
fondo e la liberiamo così di ogni cosa cattiva.
La natura ha i suoi segreti. Mi sussurra che sono in pericolo di vita,
sto per essere uccisa da quel bicchiere di ottimo purgante. So anche che
dovrò berlo, con le buone o con le cattive, e non ho le forze per scappare.
– Lo bevo. Ma voglio stare sola. Uscite tutti, chiudete la porta, ed io
lo bevo. – Non si rifiuta l’ultimo desiderio a un moribondo, ed io sto
morendo. Escono e si chiudono la porta alle spalle, il bicchiere sul
comodino aspetta. Scendo dal letto, lo prendo con le mani tremanti, mi
trascino fino alla finestrella che dà sul retro e lo svuoto dell'orripilante
appiccicoso giallastro contenuto. Al letto ci arrivo per misericordia, già
praticamente svenuta, trasudando l’ultimo liquido. Letizia ha detto che
dopo la purga devo bere acqua calda con un pizzico di sale e una mollica
di pane, e arrivano uno dietro l'altro i tazzoni fumanti che laveranno anche
l’ultima impurità. L’acqua salata e tiepida non è quella cercata nel delirio,
ma è la salvezza. Mi riprometto di confessare agli zii la mia marachella,
ma non adesso. Loro sono ancora convinti della bontà dei rimedi di
Letizia. Sarà pure una santa donna, ma per poco non mi rimandava al
creatore.
Frate cercatore
Ogni tanto passa un frate che viene da Bellegra. Al monastero di
Bellegra c’è Padre Giacinto, che dicono sia un santo. I pellegrini già gli
sfilacciano l’orlo del saio per prenderne un filo da mettere nella sacchetta
delle reliquie, da portare sul petto. Una domenica siamo andati a messa a
Bellegra, partendo dalle Cone dove c’eravamo fermati a dormire dopo la
mietitura. Dalle Cone sembrava che Bellegra si potesse toccare con un
dito, invece la strada è lunga e tutta in salita, e senza nemmeno una fronda
per ripararsi dal sole che picchiava. Ma lo spirito era alto e noi c’eravamo
arrampicati come capre fra una giaculatoria e l’altra. Dopo la messa
avevamo mangiato in un grande refettorio che odorava di minestra antica,
una scodella fumante e una fetta di pane a ogni fedele, che non viene mai
rimandato a casa a pancia vuota.
Questo frate che viene da Bellegra è un burlone, gli piace bere un
goccio in compagnia e raccontare storie che non si dimenticano. Dice che
lui guarisce le ferite con la lingua. Metti caso uno si fa un taglio e la ferita
s’infetta, lui s’inginocchia, prega e lecca la parte malata, e solo quando
vede la carne rosea e sana si tira su. Poi ordina di fare impacchi di acqua e
sale tre volte il giorno e di coprire la ferita con pezzuole di lino imbevute
di olio d’oliva. Funziona, la saliva del frate ha grandi proprietà
taumaturgiche, solo che dopo gli viene una gran sete, è capace di scolarsi
una brocca di vino.
Il frate cercatore racconta fatti straordinari, che a Bellegra succedono
tutti i giorni. Certe storie sono comiche, come quella del contadino che
voleva cambiare l’acqua in vino e passava la notte in cantina a fare le
prove, e prova che ti riprova una notte svegliò tutto il paese con grida di
giubilo perché era riuscito a fare il miracolo come alle nozze di Cana, ma
si scoprì che tra un travaso e l’altro aveva solo scambiato recipienti e dove
prima c’era l’acqua dopo c’era il vino. Da quel giorno lo chiamarono
Nazareno, anche se il suo vero nome era Duilio, e divenne lo zimbello dei
paesani che gli offrivano da bere solo acqua, tanto lui la poteva convertire
in vino. Il frate racconta anche di un certo Lazzaro che gli negò un fiasco
d’olio dicendo che non l’aveva e invece ne aveva tanto, e il giorno dopo
trovò un barilotto d’olio rovesciato e quasi vuoto, senza che nessuno
l’avesse toccato. Un castigo del cielo, chiaro come il sole. Questa storia
non è divertente, il frate secondo me non la racconta per far ridere, ma per
impressionare la gente semplice e convincerla a fare a lui la carità, quando
ne avrebbe per sé tanto bisogno.
Stellina
Il 26 luglio, giorno dei Santissimi Anna e Gioacchino, si va in
pellegrinaggio alla Santissima Trinità. Si parte di notte di buon passo con
le provviste e le coperte in groppa all’asinello. Qualcuno fa strada con la
torcia e si avanza nell’oscurità popolata di mille fantasmi. Il cielo è fitto di
occhi lucenti, il fiume chiacchiera senza posa, lo zoccolare dei somari e dei
pellegrini rimbomba per le valli. Si cantano inni, si recitano rosari, si prega
per i vivi e per i morti. Si racconta dei pellegrinaggi passati e di persone
che ora mancano, richiamate di là; si raccontano le cose belle ma anche i
guai, grossi guai. Il diavolo ci mette sempre lo zampino, nelle cose degli
uomini, per avvelenare questi quattro giorni di vita che invece si
potrebbero vivere in pace. Come quei fratelli che per un pezzo di terra si
ammazzarono di botte e uno andò in galera e l’altro al camposanto, o come
certi vicini che non si scambiano un pugno di sale e vivono come lupi e
non come cristiani.
Tra chiacchiere, preghiere e canti divoriamo la strada e la notte.
L’aurora sboccia e il cielo si apre. Paesaggi indescrivibili, l'acqua gelida e
purissima della sorgente scivola tra i sassi come argento fuso. E saliamo
percorrendo i viottoli sullo strapiombo, ed ecco la montagna santa. A metà
dell’altissima parete si vede l’aratro che precipitò dall’alto e rimase
incagliato nella roccia, mentre i buoi toccarono miracolosamente terra:
“Due buoi da tanta altezza son caduti sopra i massi, riprendendo i loro
passi si rimisero a camminar...”, dice la canzone. Sul pianoro dove i buoi
atterrarono sani e salvi, grazie all’intercessione della Santissima Trinità
invocata dal padrone devoto, sorge la cappellina con tutti i muri affrescati.
Bisogna mettersi in fila per entrare, poi si segue la corrente e si va avanti a
spintoni. I ceri fumosi e gocciolanti fanno uno strato scivoloso e si rischia
di rompersi l’osso del collo ad ogni passo.
La giornata passa presto e si cerca il posto per la notte, che quassù è
freddissima, e si sta tutti stretti sotto le coperte riunite, come una sola
famiglia.
Messa comunione e colazione, un’ultima preghiera e si prende
cantando la via del ritorno con animo leggero, ansiosi di fare presto: i
lavori aspettano nelle campagne.
Zia mi indica Monte Livata e Campo dell’Osso, i boschi di faggio e
di querce dove nonno Agostino aveva la carbonara, e mi racconta di
quando lei e le sorelle andavano a turno ad aiutarlo, partendo in piena notte
da Subiaco con Pietro, il mulo, carico all’andata di provviste e al ritorno di
fascine e sacchi di carbone.
Quest’anno zio Benedetto non è venuto con noi. Quando arriviamo a
casa lo troviamo nella stalla e lui ci guarda e ride sotto i baffi: è nata la
vitellina e tutto è andato bene. È la cosa più bella che mi potessi aspettare,
uno spettacolo da lasciare a bocca aperta. Non voglio più lasciare la stalla
e la vitellina nemmeno per andare a mangiare. È tutta nera con una
macchia bianca in fronte, come la madre, e la chiamiamo Stellina.
Giacomo, Augusto e Maria, 1945
Il pane nella madia
Sopra la stalla c’è il fienile, cui si arriva per la ripida scaletta di legno
che termina con un piccolo pianerottolo. Mi piace stare appollaiata lassù, a
respirare l’odore caldo che sale dalle fessure del pavimento. Piove a
dirotto, zia all’ora di pranzo mi chiama, ma non ho voglia di scendere; sto
bene qui, sotto il cielo oscuro e rombante, illuminato dai lampi. Zia
riparandosi con un telone mi porta una scodella di fagioli con le cotiche, il
pane e l'acqua. Seduta al riparo della tettoia, senza perdermi un solo
bagliore del fantastico temporale estivo, ripulisco il piatto e con l’ultimo
pezzo di pane faccio la scarpetta. Un pranzo che non scorderò mai più,
come non scorderò l’odore che, mentre il pane lievita, sale dalla cucina
fino alla stanza dove mi crogiolo fino a giorno. Il forno caldo e ben
spazzato, zia che inforna, rossa sudata e allegra, e mentre cuoce il pane
prepara la pizza col pomodoro, e mentre cuoce la pizza col pomodoro
prepara i dolcetti e la pupazza per me. E le pagnotte messe a riposare nel
panno di lana, prima di andare a occupare la madia, dritte in fila come
scudi, tante per quanti sono i giorni della settimana. La madia sprigiona il
magico potere della spiga e del sudore, è la benedizione della casa. E la
casa degli zii è sempre benedetta.
Bebetta
Le galline razzolano libere, rientrano al tramonto quando le faine
stanno già in agguato. Zia Bebetta tutte le sere le conta come una
doganiera, e quando deve andare al mercato le tasta per regolarsi sulla
vendita delle uova. Stasera non le tornano i conti, manca all’appello
Rossella e non è la prima volta. – ‘Sta pipa da un po’ di tempo è strana –,
dice zia. Chiama e chiama, ma Rossella non si vede e zia chiude il pollaio
rassegnata; la povera bestiola avrà fatto una brutta fine, non si vede nei
giorni seguenti e alla fine quasi non ci pensiamo più.
Invece una sera eccola risalire dal fosso, tronfia e pettoruta, seguita
da un nugolo di pulcini già cresciutelli. Rossella ha depositato le uova, le
ha covate di nascosto e ora conduce a salvamento la numerosa figliolanza.
Non crediamo ai nostri occhi, è uno spettacolo commovente e divertente,
Bebetta fra riso e lacrime dice che la Natura è una continua meraviglia.
Zio Bebetto e zia Bebetta
Zia è nata e cresciuta in campagna, non è mai uscita dalla corolla dei
monti che cinge Subiaco. E ancora si stupisce di ogni cosa che pure vede
ripetersi, ogni mattina scopre che il sole si alza per maturare i raccolti, far
aprire i fiori e riscaldare gli uomini, per esempio. Ma la cosa più bella è
che ride per niente e si commuove con facilità.
Per tanti anni ha assistito la suocera rimasta cieca per il diabete, ha
dovuto imparare anche a farle le iniezioni d’insulina. Spesso vengono a
casa persone che hanno bisogno di fare le iniezioni e non sanno a chi
rivolgersi. Zia prende il bollitore con la siringa e l'ago e lo mette sul fuoco,
intanto si lava e disinfetta le mani, prende un batuffolo di ovatta imbevuto
di spirito e lo strofina a lungo per disinfettare la parte e quando meno te lo
aspetti con un colpo secco infila l'ago nel didietro delle persone, che
stanno in piedi fermi come statue. Nessuno mi dice di uscire e assisto allo
spettacolo, pensando a quanto è brava e coraggiosa mia zia. In cambio non
vuole niente, anzi offre il caffè. Qualcuno si presenta con un pacco di sale
e tanto insiste che zia deve accettarlo per forza, ma ricambia con una
bottiglia di vino o una cartata di uova.
Zia mi racconta tante cose, vita, morte e miracoli dei santi, storie e
leggende del paese. Ha fatto solo la terza elementare ma legge veloce, e
sfoglia con me i libri di scuola. Ogni giorno devo fare per regola un
compitino e ripassare storia e geografia, e la sera si passa alla lettura di
brani dell’antologia, che agli zii piacciono tanto.
Come tutte le donne di casa zia è brava a fare la sfoglia, sottile come
un’ostia per i capellini in brodo, più spessa per i tagliolini e le fettuccine,
che sono speciali col sugo di rigagli di pollo. Mi piace aiutarla, man mano
che lei taglia la pasta io la stendo ad asciugare sulla canna poggiata su due
sedie. Una volta, per la solita impazienza, ho allungato la mano troppo
presto e la lama ci è calata sopra, il sangue zampillava. “Non aver paura,
non è niente” zia mi diceva, mentre lei sbiancava. Dopo avermi
disinfettato e fasciato il dito ferito, zia mi consolò con un confetto del suo
sposalizio, avvenuto vent'anni prima.
I miei cuginetti
Ho tre cugini speciali: Augusto, Antonio e Pierina. Abitano a piazza
Palma nella casa grande che era dei nonni e ogni tanto li vado a trovare.
Mi guardano curiosi, qui a Subiaco mi chiamano la romanina. Giochiamo
a prendere al volo le mosche sul tavolo di cucina. Gli diamo la caccia a
turno, vince quasi sempre Augusto, il più allenato; posa di taglio la mano
al bordo del tavolo di marmo, pretende il massimo silenzio e che nessuno
si muova, e appena le mosche si posano la sua mano sfreccia e le
imprigiona nel pugno. Anche Antonio è bravo, io miglioro verso la fine
dell’estate, dopo tanto esercizio, e Pierina è fuori gara perché troppo
piccola.
La casa di Piazza Palma ha il gabinetto nel cortile interno: un gran
lusso, ma l’aria è irrespirabile. Antonio sembra sempre triste, anche per
questo gli voglio bene. Ha conosciuto il padre che era già grandicello,
quando zio Pasqualino è partito per la guerra d’Africa lui non era ancora
nato, poi zio è stato fatto prigioniero ed è tornato a casa dopo tanti anni e
subito è nata Pierina.
Pierina, che non va ancora a scuola, ogni tanto viene a Riarco con
nonna Maria ed io mi occupo di lei mentre gli altri lavorano.
A sinistra Antonio Lanciotti
Il salvataggio
Gli zii vanno a fare il carico di acqua alla fontanella che il comune ha
messo da poco vicino al cimitero, e Pierina ed io restiamo a Riarco con
nonna Maria; sto andando da lei col pettine per farmi fare le trecce, quando
la vedo correre verso il fosso strappandosi i capelli e gridando mammaméa
e gesumméo. Le vado dietro e vedo Pierina sospesa in aria, trattenuta da un
ciuffo di arbusti, col rischio di cadere da un momento all’altro sulle pietre
che affiorano dall’acqua. È colpa mia, mi sono distratta e lei ne ha
approfittato per curiosare dietro la casa; camminando sul cordolo che
rasenta il dirupo chissà come è scivolata ed ora guarda per aria senza
spavento, curiosa di sapere come andrà a finire. Nonna Maria scivola di
pancia aggrappandosi agli spuntoni di radici e l'ha quasi raggiunta quando
il terreno comincia a franare, lei svelta acciuffa un sterpo e risale, e sempre
correndo scende al fosso e urla a Pierina che dondola nel vuoto di buttarsi
giù. La mia cuginetta comincia a frignare impaurita, io non so cosa fare e
non posso sapere se mia nonna sa quello che fa. Ho ancora il pettine in
mano.
– Vecchi da nonna, scirica – ordina nonna adesso calma, adesso
sicura. Allarga con le mani la sua robusta gonna arricciata e dentro quel
grande ombrello nero cade come una piuma Pierina, sana e salva. Nonna,
senza più una goccia di sangue, rigida e bianca, ci riporta a casa. Siede
sullo scalino e m’intreccia i capelli mentre Pierina, come nulla fosse, gioca
col gatto.
Un brutto incontro
Tutto mi piace di Subiaco, ma per le Cone provo un attaccamento
speciale. La casetta tirata su dai bisnonni con i tre scalini di tufo, la
porticina con la gattaiola, le pietre lucenti che pavimentano la cucina, il
camino grande e affumicato, la finestrella da cui si vedono i paesini sparsi
sui monti dirimpetto, il gradino alto e irregolare che porta alla prima e alla
seconda stanza, i soffitti di travi di castagno e un profumo misto di cereali
e frutta. Il sole quando esce batte alla porta della cucina e comincia a
girare per arrivare verso mezzogiorno a illuminare il retro della casa, la
lunga tavola all’ombra del pergolato e di una quercia gigantesca. Intorno
alla casetta tanti alberelli di frutta e ornelli sui quali si arrampicano le uve
rosate e asprigne. Farfalline azzurre piccole come un’unghia si trastullano
di fiore in fiore, i mosconi ronzano, le cicale friniscono, i tafani pungono.
Un sentiero stretto e tortuoso porta alla sorgente dove andiamo a rifornirci
d’acqua più volte al giorno, per bere e cucinare, mentre per innaffiare
l’orto ed altri usi si adopera l’acqua della cisterna. Vado sempre con gli zii
o i nonni per aiutarli a riempire secchi e brocche, solo una volta scesi da
sola alla sorgente. Risalivo con i miei due secchielli colmi, cantando per
tenere lontani gli animali pericolosi come mi è stato insegnato, quando vidi
quello che mi sembrava un bastone contorto messo di traverso sul viottolo.
Quando mi avvicinai quello si mosse come una vertigine nella testa e
scomparve nel sottobosco.
Compresi con un certo ritardo che non si trattava di un bastone, i
secchi rotolarono quasi senza far rumore sullo strato di foglie ed io corsi
fuori dal verde cupo. La luce dello spazio aperto mi entrò negli occhi
sbarrati, ritrovai la voce e urlai “aiuto” volando verso la tenna e gli zii
accorsero.
– L’ho visto, era lungo così – e allargavo le braccia.
– Che cosa? – disse zio Bebetto fingendo di non capire.
– Un serpente grosso così, lungo così…
– Ma va là, hai sognato.
– Mi dite sempre di stare attenta a dove metto i piedi perché ci sono i
serpenti, e adesso non mi volete credere?
Gli zii non me la dettero vinta, non volevano che m’impressionassi.
Negando il fatto, credevano di difendermi. Ma io non scesi mai più da sola
alla sorgente.
Zia Palmira con la nipotina
L’Inchinata
A Ferragosto si festeggia l’Assunzione della Beata Vergine. Le
immagini dell’Assunta e del Salvatore, partendo in processione chi dalla
chiesa di Santa Maria della Valle e chi dalla cattedrale di Sant’Andrea,
viaggiando sui baldacchini infiorati e pieni di ceri portati a spalla dagli
uomini, s’incontrano a piazza della Valle. È il momento dell’Inchinata, la
gente cade in ginocchio gridando per tre volte missiricordia!, mentre le
campane suonano a distesa e scoppiano i mortaretti dalla Rocca.
Dopo le funzioni religiose c’è la cena in piazza, ogni famiglia porta il
suo tegame di ciammarughe, la pagnotta il vino e i dolci, e si cena tutti
insieme accalcati sui tavoli sistemati davanti alla Rocca dei Borgia.
Mangiare le lumache non è cosa facile, si tirano fuori con stecchini
fatti in casa o spille da balia, e se l’ultimo pezzo non vuole uscire si rompe
col manico della forchetta il guscio e si recupera anche la coda. Questa è
soltanto l'ultima difficoltà, la vendetta delle lumache comincia assai prima.
Cena in piazza
I preparativi per la cena di ferragosto cominciano un mese prima. Ci si
accorda coi vicini e si esce a tarda sera, quando la guazza già inumidisce il
terreno, per scovare le lumache che escono a dissetarsi. Si battono prima le
zone rocciose, monachine e terrignole sono le qualità più pregiate, ma non
bastano a riempire i grandi tegami di coccio. Allora si cerca lungo il fiume
e intorno al cimitero e si riempiono secchi e sacchi di ciammotti; da sotto i
coperchi e dalla iuta escono cespugli di corna, e sulle corna si scherza,
nella notte appena rischiarata dalla fiammella delle torce, che mi strizzano
di paura. Tutto è molto eccitante.
Le povere bestiole dopo la cattura subiscono lo spurgo, il digiuno
spezzato solo da qualche foglia di lattuga e un pugno di crusca perché non
se ne muoiano stupidamente di fame durante il trattamento; devono
arrivare in salute al giorno dell’ultimo martirio, che precede la gloriosa
fine.
Un paio di giorni prima di ferragosto si va al fiume col pacco di sale
grosso, la bottiglia dell’aceto e le vittime. Comincia il lavaggio, con le
ginocchia a mollo nell’acqua gelata, sulle stesse pietre dove ogni settimana
zia s'inginocchia per fare il bucato. In un grosso recipiente con acqua,
aceto e sale s’immergono le bestiole che sbavano sfrigolando, si
stropicciano a lungo con un movimento leggero dall’alto in basso
schiumando continuamente il moccio denso e giallastro, poi vengono
risciacquate, fatte riposare per qualche minuto e ricomincia il supplizio
fino a quando l’acqua non risulta limpida. Le lumache col guscio tenero
non superano la prova, mezze tramortite trascinano la casa diroccata
sull’erba e quelle si lasciano pascolare, rimesse alla volontà di Dio.
Poi si carica tutto sulla testa di zia e si torna a Riarco. Strada facendo le
povere bestiole si rianimano e quando arriviamo a casa parecchie
antennine sono già risorte. In caso di dubbio, zia procede alla prova
dell'ago pungendo le lumache sdilinquite e controllando che ci sia
reazione. Solo pochissime se ne trovano passate a miglior vita, alle altre
tocca ancora sopportare il momento più crudele. Caldaia sul fuoco, acqua
calda ma non bollente, le lumache colano a picco e risalgono incerte sul da
farsi, non sapendo se ritirare le antenne o esplorare quella nuova zona di
orrore. Quando inizia il bollore, per loro è finalmente tutto finito.
Segue la fase regale. Odori che salgono al cielo, alleluia di aromi.
Mentuccia, aglio fresco, peperoncino e pomidorelli, il sughetto poco denso
per non sopraffare il gusto delle carni nervose. Chi ha più arte la usa, la
sera della grande cena ci si confronta col resto del paese. Anche la
presentazione ha la sua importanza, quando zia svuota la canestra sulle assi
coperte dalla tovaglia damascata, la nostra bella figura è garantita. Nonno
Gigi offre il vinello della passata vendemmia, ormai agli sgoccioli, come
un re che distribuisca onorificenze. Il risucchio riecheggia per la valle, le
pagnotte tagliate da culetto a culetto spariscono in un amen, l’allegria sana
e sincera sale alle stelle.
Augusto e Giacomo Lanciotti in via dell'Elcino 1934
1953, i miei undici anni
Andiamo con zia Palmira a fare la foto da Orlandi, a piazza sant’Andrea.
Ho l'impressione che questo sia l'ultimo anno di qualcosa, ho terminato le
elementari e cose nuove mi aspettano. Indosso un abito di lana, sì, di lana
in pieno agosto; mia madre quando sceglie i tessuti non guarda le stagioni,
guarda la qualità. Il vestito della festa è bianco, con tanti mazzetti di fiori
variopinti ricamati a mano da Lucietta, la sartina che l’ha confezionato. È
un bel vestito, ma al solo pensiero di indossarlo tutto comincia a prudermi,
a partire dalla testa con una selva di capelli arruffati che sono il vanto di
mia madre, e guai a parlare di forbici.
Tornando alla foto, il signor Orlandi mi fa sedere sullo sgabello, mi
slaccia i primi due bottoncini del vestito e mette in mostra la catenina
d’oro col crocifisso. Mi raddrizza le spalle e mi solleva il mento, fa due
passi indietro e mi rimira. Non soddisfatto, prende posizione dietro la
macchina e mi studia attraverso l’obiettivo, mi riguarda senza obiettivo,
rifà due passi in avanti, resta pensoso indeciso sul da farsi, poi con rapida
mossa mi toglie le mollette ai lati della fronte, scompiglia i capelli e li
risistema a suo modo. Mi fa inclinare leggermente la testa e tutto
concentrato infila le dita tra i capelli, smuove e ancora smuove, poi fa
scivolare le dita e i riccioli ricadono tesi sulla fronte, ma subito si
riavvitano come molle. Nonostante tutto il signor Orlandi ha l’aria
soddisfatta, torna in postazione e fa clic. – Verrà una bella fotografia – dice
convinto, mentre intasca un piccolo acconto.
Amiche
Agosto 1953 – Foto Orlandi
Prima di ripartire faccio il giro dei parenti per salutarli. E l’ultimo
saluto è per quella casetta attaccata al muro di cinta della rocca, la casa
paterna aju Rucinu, che sta per via dell’Elcino. Qui vengo a salutare la
casa dove è nato e cresciuto mio padre, dove mia madre ha vissuto nei
primi anni di matrimonio, dove sono nati i miei fratelli.
Dalla casa dei nonni, che si affaccia sullo strapiombo, si vede il
camposanto con tanti lumini accesi; sembra una torta piena di candeline
per festeggiare i centenari defunti. Saluto tutti i miei cari che lì riposano e
anche quelli che non conosco.
Poi vado. Saluto i sampietrini uno a uno, saluto le porte e le finestre,
saluto i vasetti di basilico, saluto il fiume che scorre allegrotto fra ali di
pioppi e salici. Saluto, e già prima di partire mi afferra la voglia di tornare.
Quando rivedo mia madre, che è venuta a riprendermi, mi sembra più
bella ed elegante del solito, col vestito nero a fiori grigi, i sandali col tacco
e i capelli ondulati raccolti nella retina. Zia Bebetta mostra orgogliosa il
foglietto di carta che attesta il mio peso, aumentato di un paio di chili,
garanzia di ritorno per la prossima estate; poi tira fuori alcune copie della
foto di Orlandi e il negativo, e si tiene l’originale sul quale zio Bebetto ha
scritto sul retro: ‘Agosto 1953, Maria a undici anni’.
1953 Maria Lanciotti (Foto Orlandi)
Prima di salire sulla corriera saluto Giulio, che adesso lavora dal
marmista di fronte alla fermata, e quando le porte si chiudono lui mi saluta
con un sorriso bello che mi ricorda i girasoli delle Cone e mi viene da
piangere. Gli occhi di zia sono umidi, ma lei sorride mentre sventola il
fazzoletto e ci accompagna con lo sguardo finché non giriamo alla prima
curva. Zia Bebetta, dolce e fresca come il gelato fragola e panna di certi
pomeriggi di festa.
Quando non sento più la voce del fiume, il mio pensiero corre a
Ciampino. Arriveremo a sera, vedrò da lontano la pista e le luci
dell'aeroporto e quando passeremo col treno davanti al passaggio a livello
vedrò la strada di casa mia, se non sarà tanto buio la vedrò, casa mia,
all’inizio di via Giuseppe Verdi, dove papà e i miei fratelli ci stanno
aspettando e io non vedo l’ora di riabbracciarli.
E penso che è bello partire perché è bello tornare, ma è un pensiero
complicato che per ora metto via, aspettando di crescere per tornare a
ragionarvi sopra.
[Tratto e riveduto dall'autrice
dal libro Campo di Grano, Anni Nuovi Editrice, 2003]