il crocevia dei Mémoires d`outre-tombe

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il crocevia dei Mémoires d`outre-tombe
PER UNA STORIA DELLA MEMORIA AFFETTIVA
IL CROCEVIA DEI MÉMOIRES D’OUTRE-TOMBE
Nei Mémoires de ma vie, primo nucleo dell’opera che riconcepita e rimaneggiata nel tempo diverrà i Mémoires d’outre-tombe, l’incipit offre alcuni spunti di riflessione. Quell’incipit sarà
del tutto trasformato nell’opera definitiva: la luce che esso getta
sull’impresa memoriale di Chateaubriand è dunque un barlume
da cogliere prima che si spenga. L’autore dichiara la sua precedente intenzione di non scrivere memorie, e perciò stesso si costringe a motivare fortemente il libro che contraddice a
quell’intenzione. Adopera una parola che era già familiare al
lessico dei moralisti classici e che per i suoi contemporanei cambiava di peso e di malinconia, si addolciva e si idealizzava: «illusione»1. L’illusione è lì, sorella delle chimere di una volta, a
guardia dell’ingresso nel libro dei Mémoires. Ma soprattutto, a
guardia di quella soglia c’è un tema più importante: Chateaubriand scrive «pour rendre compte de moi à moi-même»2. Scostato il velo dell’illusione, emerge centrale il tema della conoscenza di sé: «personne n’a connu entièrement le fond de mon
cœur. [..] je veux avant de mourir remonter vers mes belles
années, expliquer mon inexplicable cœur, voir enfin ce que je
pourrais dire, lorsque ma plume sans contrainte s’abandonnera
1. «Après ces belles réflexions me voilà écrivant les premières lignes de
mes mémoires; pour ne pas rougir à mes propres yeux, et pour me faire illusion, voici comment je pallie mon inconséquence.», Mémoires de ma vie, a cura di J.Landrin e M. Bercot, Paris, “Le Livre de Poche”, 1993, p.53.
2. Ibid.
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à tous mes souvenirs»3.
Echi di queste affermazioni risuoneranno, com’è noto, nelle
prime pagine dei MOT. Ma qui, a un livello di minore elaborazione, è più facile avvertire la traccia di diverse culture che sembrano incontrarsi nell’opera memoriale di Chateaubriand e
contribuiscono a far di essa un grandioso crocevia della letteratura moderna. Chi può conoscere il fondo del proprio e dell’altrui cuore? I molti Traités de la connaissance de soi-même fioriti
nel gran secolo caro a Chateaubriand additavano quella profondità senza pretendere di dominarla. L’autore romantico riprende lo stesso linguaggio, nella sua sfumatura psicologica e morale: «il fondo del mio cuore», o nella sua dimensione quasi mistica: «il mistero del mio essere». I MOT hanno dunque come primo scenario la stanza della coscienza che s’interroga su se stessa: una nostalgia d’interiorità, che sembra non ignorare i modelli dell’analisi classica, né il cammino dell’uomo dei Lumi verso
l’autocoscienza, giustifica in prima istanza il libro che l’autore
non voleva scrivere.
L’«inesplicabile cuore», incapace di conoscere la felicità, non
cerca dentro di sé, come Montaigne – e come, più vicino, Restif
de La Bretonne, a giudicare dalla premessa di Monsieur Nicolas
– la forma intera della umana condizione. O forse sì, è in gioco
una posta così grande; ma raggiunta esaltando la singolarità e la
differenza: è René che cerca se stesso, ciò che lo fa solitario ed
unico, e insieme, paradossalmente, testimone di una generazione e figura di una quête umana insaziabile. Più che sul «cuore»,
centro della persona e luogo dell’umano immutabile, è allora
sul moi che converrebbe mettere l’accento. «J’écris [..] pour
rendre compte de moi à moi-même»: e in questa ricerca dell’io,
che dischiude un secondo scenario, segnato da una inquietudine egotistica romantica e già moderna, Chateaubriand non si affida a delle massime, bensì a dei ricordi. La spiegazione del suo
3. Ibid.
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cuore, la ricomposizione del suo io – sottolineo l’intima duplicità di tale démarche – la chiede alla memoria.
È, in questo, figlio del suo tempo: il XVIII secolo aveva infatti elaborato, pur con le sfaccettature più varie, una risposta
chiara alla domanda che rappresenta l’estremo limite di autointerrogazione dell’uomo secentesco: «Qu’est-ce que le moi?»4
Dov’è l’io, chiedeva Pascal, visto che non risiede nel corpo, né
nella mente; che cos’è l’io, visto che si è perpetuamente diversi
da se stessi, in un tempo interiore di cui tutta la cultura morale
di allora sottolinea la discontinuità? La denuncia del discontinuo sfociava nell’antitesi che ha sotteso per intero la coscienza
secentesca della temporalità: dialettica tragica, contiguità feconda dell’istante e dell’eterno.
Ma come accennavo, la domanda pascaliana ha ricevuto nel
secolo successivo risposte molteplici. Sarebbe appassionante seguire il dibattito del pensiero illuminista intorno a quel problema dell’identità che era stato il rovello dell’uomo barocco. Sono
in molti a non aver dubbi che la spiegazione ai misteri dell’io risieda nella memoria. I Saggi morali di Shaftesbury lo affermano
senza trionfalismo, ereditando pur sempre la persuasione tradizionale che la memoria è fallace, e delineando dunque il paesaggio dell’io come un mondo incerto, fatto di «deserte regioni» e
«filosofiche ombre»5. Ma i lumi sorgono a poco a poco; i sensisti inglesi riflettono a lungo sul rapporto tra memoria, coscienza, e identità personale; i philosophes francesi faranno eco: l’Entretien entre d’Alembert et Diderot è uno dei testi che schematizzano alcune certezze del secolo:
Diderot: – Pourriez-vous me dire ce que c’est que l’existence d’un
être sentant, par rapport à lui-même?
D’Alembert: – C’est la conscience d’avoir été lui, depuis le premier
4. B.Pascal, Pensées, Br.323, Laf.688.
5. Cfr. Shaftesbury, Saggi morali, a cura di P.Casini, Bari, Laterza, 1962,
p.418 (Miscellanea IV, cap.2).
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instant de sa réflexion jusqu’au moment présent.
Diderot: – Et sur quoi cette conscience est-elle fondée?
D’Alembert: – Sur la mémoire de ses actions.
Diderot: – Et sans cette mémoire?
D’Alembert: – Sans cette mémoire il n’y aurait point de lui,
puisque, ne sentant son existence que dans le moment de l’impression, il n’aurait aucune histoire de sa vie. Sa vie serait une suite ininterrompue de sensations que rien ne lierait6.
La memoria è «la propriété du centre [..] comme la vue est la
propriété de l’œil»7. E ancora Diderot propone vaste metafore
di natura musicale, che vedono il pensiero organizzarsi in onde
di risonanze, in una propagazione di armoniche illimitate8, riutilizzando, forse senza saperlo, l’immagine che un moralista di
fine Seicento – François Lamy – aveva sviluppato per evocare i
rapporti fra il cuore ed il cosmo; e anticipando altre analogie,
non estranee neppure a Chateaubriand, circa l’essenza musicale
della memoria.
Mi si perdoni la digressione. Occorreva richiamare la rivoluzione avvenuta nella rappresentazione della vita interiore, allorché il mistero dell’identità, sottratto alla precarietà dell’istante,
perduto l’ancoraggio all’eterno, si è risolto in un nuovo mistero:
quello della memoria. La facoltà un tempo disprezzata, relegata
nei ranghi bassi, o nelle zone liminari ove l’immaginazione cercava ambigue alleanze, occupa invece il centro della scena. Domina, è vero, territori più ridotti: non sembra possedere il segreto del cuore, inteso come umano immutabile: fonda piutto6. Ed. J. Roger, Paris, Garnier-Flammarion, 1965, p.47.
7. Diderot, Œuvres philosophiques, a cura di P. Vernière, Paris, Garnier,
1956, p.354.
8. Entretien entre d’Alembert et Diderot, cit., p. 49. Su tutta questa tematica cfr. tra l’altro J.A. Perkins, The Concept of Self in the French Enlightenment, Genève, Droz, 1969 e J.-F. Perrin, Le Chant de l’origine: la mémoire et
le temps dans les ‘Confessions’ de Jean-Jacques Rousseau, “Studies on Voltaire...”, Oxford, Voltaire Foundation, n° 339, 1996.
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sto la soggettività della coscienza: collabora col «sentimento di
sé». Ma d’altronde, essa è anche la «mémoire immense»9, ben
più vasta della coscienza, qualcosa come una «ténébreuse et
profonde unité» nel cui seno le fratture dell’io possono esser
cullate fino ad un benessere, e che addormenta nel cuore la tormentosa nostalgia dell’eterno.
Da questa situazione della memoria nel retaggio culturale del
pre-romanticismo vorrei partire per rileggere alcuni passaggi dei
MOT. Essi sconcertano come espressione di una contraddizione
esistenziale, e per la confusa accoglienza dell’idea di memoria ad
avvaloramenti diversi. Cito ad esempio un brano dal primo libro: il narratore racconta di una punizione evitata, nella sua infanzia, grazie ad una straordinaria prova di memoria; soggiunge:
«Cette mémoire des mots, qui ne m’est pas entièrement restée, a
fait place chez moi à une autre sorte de mémoire plus singulière,
dont j’aurai peut-être occasion de parler». E commenta:
Une chose m’humilie: la mémoire est souvent la qualité de la sottise; elle appartient généralement aux esprits lourds, qu’elle rend plus
pesants par les bagages dont elles les surcharge. Et néanmoins, sans la
mémoire, que serions-nous? Nous oublierons nos amitiés, nos amours,
nos plaisirs, nos affaires; le génie ne pourrait rassembler ses idées; le
cœur le plus affectueux perdrait sa tendresse, s’il ne se souvenait plus;
notre existence se réduirait aux moments successifs d’un présent qui
s’écoule sans cesse; il n’y aurait plus de passé. O misère de nous! notre
vie est si vaine qu’elle n’est qu’un reflet de notre mémoire (I, 49-50).
Non è un brano isolato: molti passaggi gli fanno eco, là dove
si fondono i riti del ricordo e il lamento per l’universale caducità, e il monumento memoriale sorge, ma già fantasmatico e
con giunture d’ombra. Chateaubriand accoglie il tema classico
della vanità della memoria, che può nutrire solo di illusioni: la
memoria è il divertissement di anime che si sottraggono al com9. Diderot, Œuvres Complètes, éd. Assézat-Tourneux, Paris, Garnier,
1875-1877, IX, p. 370.
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pito di abitare pienamente il presente. Accoglie, al tempo stesso, la persuasione che l’io, il cuore, l’esistenza nulla sarebbero
senza la memoria, alla quale è affidata l’identità personale
(«sans la mémoire, que serions-nous?»). L’argomentazione dei
moralisti classici è capovolta; essi dicevano: che cos’è l’io, poiché esso dimentica le amicizie, cambia di sentimenti? Chateaubriand ribatte: che cosa saremmo noi senza la memoria che custodisce i nostri sentimenti? Esorcizza in tal modo quella discontinuità che Rousset ha chiamato «incostanza nera»10, e insieme denuncia l’impossibilità – che è poi l’immensa falla esistenziale rivelata nei MOT – di abitare il tempo presente. Ma d’altra
parte, anche l’argomentazione dei philosophes è capovolta: essi
vedevano la vita umana farsi storia, prendere unità organica,
nell’interiorità della memoria, ove l’io inizia quel dialogo con se
stesso che gli permette di costruire la sua stabile dimora, ossia la
coscienza di sé. Chateaubriand, con tanti materiali diversi, completa il suo sillogismo personale: la memoria è vana – l’io, l’esistenza, non sono nulla senza la memoria – dunque, «ô misère de
nous!» vanità dell’esistenza, inconsistenza dell’io, che è riflesso
di memoria, ombra di un’ombra.
Sembra di essere di fronte alla liquidazione, anzi allo sperpero di eredità secolari che avevano offerto contrastanti, ma ricche risposte all’angoscia del tempo e all’interrogazione dell’uomo su se stesso. In realtà, lo sappiamo, siamo piuttosto a una
svolta: si preparano sintesi nuove: ma prima di accennare a tali
sviluppi, vorrei riprendere il brano appena citato, e notare in
esso una singolarità, che darà spunto all’articolazione maggiore
della mia analisi. Chateaubriand allude all’esperienza di due
memorie, relegando la prima – memoria di parole, memoria intellettuale – in un tradizionale disprezzo; della seconda non dice nulla: annuncia soltanto il segreto che, a poco a poco, la let10. Cfr. J.Rousset, Préface alla Anthologie de la poésie baroque française,
Paris, Corti, 1988 (Armand Colin, 1961).
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tura dei MOT andrà rivelando.
Che cos’è dunque questa «autre sorte de mémoire»11? Sfogliamo, un po’ trepidanti, i tomi dei MOT. Nessun segnale nel
testo ci avverte che Chateaubriand sta per entrare nell’argomento che ci interessa. Le soglie sono impercettibili, come
quelle che nelle antiche leggende bretoni separavano il mondo
di qua da altri indefinibili mondi. Cominceremo dunque, per
conto nostro, una inchiesta. Chiederemo ad altri autori prima
che a Chateaubriand se abbiano idea dell’esistenza di due memorie, e se sappiano darci notizie della più sconosciuta. Le attribuiremo così alcuni lineamenti, per riconoscerla finalmente
nelle pagine di Chateaubriand. Potremmo, certo, seguire il procedimento opposto – da Proust e da Bergson risalire controcorrente, leggendo la storia a ritroso, come già hanno fatto altri e in
particolare Michel Dassonville12 – ma vi è un sapore di scoperta
nel seguire l’itinerario più inconsueto.
Dapprima, credo, la si incontra per caso. Non è nemmeno
definita come memoria; si confonde con le astuzie delle passioni: François Lamy, nel suo trattato De la connaissance de soi-même (1694), dopo aver lungamente sottolineato l’inferiorità della
memoria (s’intenda: memoria intellettuale) rispetto alla facoltà
del giudizio, dimentica la sua polemica sulle potenze dell’anima
e si addentra in una più delicata «science du cœur»13. Con tutta
11. Devo a Jean-Claude Berchet un’annotazione interessante, che tuttavia
non va propriamente nel senso del mio studio. Lo specialista di Chateaubriand ritiene che un chiarimento alla questione della «autre sorte de mémoire» si trovi nel capitolo successivo a quello che ho citato, e precisamente là
dove Chateaubriand descrive il comportamento della propria memoria riguardo all’offesa, al risentimento, al perdono («Sous ce rapport, je suis singulièrement né: dans le premier moment d’une offense, je la sens à peine; mais
elle se grave dans ma mémoire, etc.»).
12. Cfr. M.Dassonville, Chateaubriand et le temps retrouvé, “Quaderni di
letteratura francese”, V, 1979, pp.182-190.
13. Cfr. F.Lamy, De la connaissance de soi-mesme (IV: De l’être moral de
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l’amarezza di un cartesiano che vede crescere le zone d’ombra
intorno al cono di luce della coscienza, con tutto il pessimismo
di un moralista che intravede i retroscena del teatro interiore,
egli analizza il «commerce d’illusion»14 con cui immaginazione
e passioni ingannano il cuore (a sua volta pronto a ingannare la
mente, secondo la massima di La Rochefoucauld). S’imbatte, a
questo punto, in fenomeni sinora poco osservati. Analizza il
brusco risveglio di passioni sopite, e credute morte, allo choc di
una sensazione: un suono, un colore, un profumo rivoluzionano la scena dell’anima. Stati d’animo immotivati, malinconie e
«rêveries» senza oggetto hanno la loro ragione nell’ordine di
segrete analogie. La mente non ne sa dar conto: la verità è che
l’«esprit» dimentica, mentre il cuore, più «conservatore», trattiene sul proprio fondo la patina del vissuto, e se ne intorbida
quando una vibrazione dal mondo esterno giunga a
risvegliarla15.
Portiamoci intorno alla metà del secolo dei Lumi: Buffon e
Condillac rielaborano polemicamente, ciascuno a suo modo, la
lezione dei sensisti inglesi. Hume aveva ben distinto due specie
di memoria, ma così radicalmente da cambiare il nome a una di
esse, chiamandola immaginazione: quest’ultima è la facoltà che
ripropone le percezioni del passato in ordine scomposto e in
maniera «fiacca e languida», mentre la memoria ha al suo attivo la forza e la vivacità dell’impressione, spesso stimolata da un
particolare, «toccato per caso» e che «fa rivivere tutta la
scena»16. Buffon insiste sull’idea di ordine; attraverso una lunga analisi, giunge ad affermare: «[..] je distingue deux espèces
de mémoire infiniment différentes l’une de l’autre par leur caul’homme, ou de la science du cœur), Paris, Pralard, 1697.
14. Ibid., p.116.
15. Cfr. ibid., pp. 242, 244, 255, 260, e p. 380 ss.
16. Cfr. Hume, Trattato sulla natura umana, in Opere, a cura di E. Lecaldano, Bari, Laterza, 1971, I, p. 20 e p.98.
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se, et qui peuvent cependant se ressembler en quelque sorte
par leurs effets; la première est la trace de nos idées; et la seconde, que j’appellerais volontiers réminiscence plutôt que mémoire, n’est que le renouvellement de nos sensations, ou plutôt
des ébranlements qui les ont causées»17. La prima è memoria
nobile, umana per eccellenza; la seconda, più vile, appartiene a
ogni essere capace di sentire: consiste effettivamente in un
«commerce» di sensazioni, poiché una sensazione attuale risveglia quelle anteriori, «avec toutes les circonstances qui les accompagnaient»18, in una confusa unità emotiva ove si perde il
privilegio dell’anima di distinguere, confrontare e conoscere19.
Ecco dunque che l’«altra memoria» comincia a delinearsi: nasce, improvvisa, vivace e forte, per uno stimolo esterno anche
minimo, come sorgendo dal letargo della «mémoire immense»
di cui parla Diderot; fa rivivere il vissuto in una confusa globalità; fa sentire di nuovo ciò che si è sentito una volta: ma non
sappiamo se essa abbia alcuna funzione positiva nella vita
dell’anima.
Condillac, nell’Essai sur l’origine des connaissances
humaines, attribuisce una estrema importanza alla distinzione
tra i due tipi di memoria; prendendo di contropiede Hume,
chiama immaginazione la facoltà che non solo richiama l’idea
del passato, ma fa sentire le sensazioni passate come presenti;
sottolinea in tale esperienza il carattere di visitazione incontrollata e inaspettata; capovolgendo la gerarchia di Buffon, vede in
essa la pienezza della memoria, di cui l’altra, più intellettuale,
non è che l’anticipazione leggera. Buffon tende ad attribuire dignità alle elaborazioni più complesse della vita interiore, privilegiando una memoria che nasca, ordinatrice e organizzatrice,
17. Œuvres Complètes de Buffon, Paris, Rapet & Cie, 1817-1818, V: Histoire naturelle. Nature des animaux, p.569.
18. Ibid.
19. Ibid.
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dalla «puissance de réfléchir»20. Condillac, nella sua nostalgia
delle origini, si affida ad itinerari semplici. Sappiamo quale posto abbia, nell’evocazione della celebre statua che comincia a
vivere, il risveglio della singola sensazione e la sua immediata
complicità con la memoria. Ecco che a questo punto la storia
delle idee ci suggerisce un avvaloramento positivo da attribuirsi
a quel grado intenso di memoria che Condillac chiama immaginazione: essa permette al vivente di godere più pienamente del
proprio essere.
Dalla storia letteraria vengono conferme a tale avvaloramento, se è vero che nelle Confessions di Rousseau le esperienze di
memoria sensoriale, ad esempio l’episodio celebre della pervinca, sono poste sotto il segno di un bonheur tale da consolare per
l’incompletezza del presente, per il vuoto dell’avvenire. «Mon
imagination qui dans ma jeunesse allait toujours en avant et
maintenant rétrograde, compense par ces doux souvenirs
l’espoir que j’ai pour jamais perdu. [..] ces retours si vifs et si
vrais dans l’époque dont je parle me font souvent vivre heureux
malgré mes malheurs»21. E anche se una coscienza elegiaca del
tempo trascorso si fonde con la coscienza idilliaca (uso le categorie di Schiller)22 del sentimento ritrovato nella sua origine,
pure quell’esperienza di memoria «viva» e «vera» rimane fonte
di una particolare felicità, che si lega a un contatto certo e
profondo col proprio essere.
Abbiamo dunque acquisito un tratto in più per riconoscere
l’«altra» memoria, ossia il suo rapporto con un bonheur attinto –
secondo un sogno permanente di Rousseau, e non di lui solo –
nel chiuso recinto del sentimento di sé. Con questo identikit as20. Ibid., p. 368.
21. Les Confessions, libro VI, in Œuvres Complètes, I, Paris, Gallimard,
“Bibliothèque de la Pléiade”, 1959, p. 226.
22. Citate da Bernard Gagnebin e Marcel Raymond nell’introduzione alla
citata edizione delle Confessions, p. XXXVI.
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sai sommario, riapriamo i MOT. La riconosciamo, quella memoria che sarà chiamata un giorno affettiva o involontaria, nella ricca tipologia dell’immaginario sensoriale di Chateaubriand: lo
zirlo di un tordo risuscita, in un passaggio celebre, il mondo
dell’infanzia e dell’adolescenza a Combourg (I, 75); un raggio di
luna condivide il segreto delle veglie trascorse in attesa di madame Récamier, ed è promessa di poterle riassaporare nel ricordo
(II, 215); «une odeur fine et suave d’héliotrope», portata dai
venti di Terranova, risveglia non tanto un ricordo distinto quanto un confuso stato di emozioni e nostalgie (I, 211); la rivisitazione dei luoghi, a cominciare da quelli dell’esilio di Londra, sarà
un’occasione per una rivisitazione di tempi trascorsi (I, 194 ss);
l’incontro, non con «immensi oggetti» della natura, ma con un
fiore, un uccello, un campo di digitali, provocano un attacco di
«rêverie» in cui il mondo è dimenticato e l’anima misteriosamente ricorda l’eterno (I, 485).
Ma vissuta così da Chateaubriand, questa memoria corrisponde realmente ai tratti che abbiamo visto definirsi in un filone settecentesco? Era promessa di bonheur e sembra dispensare
soprattutto malinconia. Realizzava un sentimento di presenza, e
sembra invece misurare più concretamente la distanza che separa da cose assenti. Inghiotte gli anni, li annulla, ma per restituire
una coscienza pura della temporalità. Mette l’io in contatto con
le proprie sorgenti, perché esso si scopra com’è: labile, inconsistente. È una controprova al primitivo lamento: «O misère de
nous! Notre vie est si vaine qu’elle n’est qu’un reflet de notre
mémoire».
Si rilegga il passaggio più celebre fra i tanti che potrebbero
essere citati. Al centro non vi è il tema dell’infanzia o la nostalgia per i luoghi cari. È in gioco la grande, grave posta dell’esistenza: la ricerca della felicità. Di essa cantava il tordo nei boschi di Combourg; di essa canterà ancora il tordo nel parco di
Montboissier:
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Je fus tiré de mes réflexions par le gazouillement d’une grive perchée sur la plus haute branche d’un bouleau. A l’instant, ce son magique fit reparaître à mes yeux le domaine paternel [..]. Le chant de l’oiseau dans le bois de Combourg m’entretenait d’une félicité que je
croyais atteindre; le même chant dans le parc de Montboissier me rappelait des jours perdus à la poursuite de cette félicité insaisissable. Je
n’ai plus rien à apprendre; j’ai marché plus vite qu’un autre, et j’ai fait
le tour de la vie (I, 75).
Sbaglieremmo se pensassimo che in Chateaubriand la felicità
dispensata dalla memoria affettiva soccomba alla malinconia
del sentimento del tempo, come se nella stessa esperienza interiore lottassero, e non a armi pari, una pienezza ed una mancanza. No: ciò che risuscita al canto del tordo, è un passato già eroso da una béance: ciò che il canto del tordo rende presente nella
magia della sensazione rivelatrice è il sentimento di un’antica
assenza, che può incastonarsi, en abyme, nel sentimento di una
assenza definitiva, perché la felicità allora attesa si è rivelata
inafferrabile. È il segreto, struggente, di Combourg, ed è il segreto dell’«inexplicable cœur», che la scrittura memoriale si è
data il compito di spiegare. La presa di contatto con fonti
profonde dell’io, lungi dal favorire il naufragio nel dolce fluido
di una continuità personale o cosmica, risveglia la coscienza
della incomplétude del proprio destino.
Si allontana dunque la speranza di un bonheur attinto, quali
che siano le circostanze esterne, nel recinto del sentimento di
sé. Lo insidia, non la coscienza elegiaca del passare del tempo,
ma una più spirituale malinconia, per la quale il tempo umano è
radicalmente indigente, e il cuore radicalmente incapace di
coincidere con i propri aneliti. Dal commerce di sensazioni che
scatena la memoria affettiva sorge, non la ripetizione dell’identico, ma un affetto inedito di straordinaria energia virtuale, se è
vero che – come qualcuno ha osservato – Chateaubriand vi attinge di volta in volta la lena della scrittura e il potere della creazione poetica.
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Strana situazione quella di Chateaubriand, rispetto ai moralisti classici e rispetto ai philosophes settecenteschi. Se i primi
avevano intuito qualcosa della memoria affettiva, era stato per
denunciarne gl’inganni, e screditare le illusioni che da essa
prendono forma. Se i secondi avevano esitato circa il posto da
darle nella gerarchia della memoria, era stato per meglio delimitare il suo ruolo nello sviluppo di un io che almeno momentaneamente riempie, ricolma, con il commerce delle sensazioni, la
conchiglia del proprio essere. Per Chateaubriand i fenomeni
della memoria affettiva sembrano avere la precipua funzione di
far sentire la fêlure della conchiglia, o di svegliare quella eco di
un lontanissimo mare che si annida nei suoi meandri profondi.
La sete di un ancoraggio all’eterno si manifesta nella scrittura di
Chateaubriand come la risorgenza di un’abitudine antica: c’è
nel timbro di voce del memorialista l’accento di un classico, riverberato – direbbe egli stesso – sotto le immense volte di un
«tempio disertato»23.
A meno che, quando a sua volta usa il lessico dell’illusione e
del disincanto, egli non sia invece volto profeticamente in avanti, e non abbia già consumato la svolta – vitalissima per l’idea di
memoria – dal sensismo settecentesco all’idealismo romantico.
Ombre; immagini; sogni; chimere; «formes changeantes»;
barlumi; riflessi; illusioni; incanto e magia: tale è, nei MOT, il
corteo immaginario che accompagna il tema del ricordo. «Les
formes changeantes de ma vie sont ainsi entrées les unes dans
les autres» scrive Chateaubriand all’inizio dei MOT presentando l’«unité indéfinissable» della propria esistenza (I, 2).
Le navigateur, abandonnant pour jamais un rivage enchanté, écrit
son journal à la vue de la terre qui s’éloigne, et qui va bientôt disparaître (I, 77).
[...] il ne me reste que des images de ce qui a passé si vite: je des23. Cfr. Chateaubriand, Vie de Rancé, a cura di R. Barthes, Paris, Union
Générale d’Editions, 1965, p. 156.
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cendrai aux Champs-Elysées avec plus d’ombres qu’homme n’en a jamais emmené avec soi (I, 265-266).
[...] à l’époque de mon voyage aux Etats-Unis, j’étais plein d’illusions; [...] Ces jours me sont doux [...] Quinze ans plus tard [...] je ne
me berçais plus de chimères; mes souvenirs, prenant désormais leur
source dans la société et dans des passions, étaient sans candeur
(I, 269).
[...] descendu aux enfers dans ma jeunesse, j’ai un souvenir confus
des larves que j’entrevoie errantes au bord du Cocyte: elles complètent les songes variés de ma vie, et viennent se faire inscrire sur mes tablettes d’Outre-Tombe (I, 302).
Mes idées affaiblies flottaient dans un vague non sans charme; mes
anciens fantômes, ayant à peine la consistence d’ombres aux trois
quarts effacées, m’entouraient pour me dire adieu. Je n’avais plus la
force des souvenirs; je voyais dans un lointain indédeterminé, et mêlées à des images inconnues, les formes aériennes de mes parents et de
mes amis (I, 339-340).
Fermiamo una catena di citazioni che potrebbe proseguire a
lungo. Quasi in ognuna, l’ombra e l’incanto, la qualità aerea e
chimerica, o il valore di sogno, sono attribuiti inseparabilmente
al ricordo e all’oggetto del ricordo: come se la trasmutazione
operata dalla memoria rivelasse di ogni cosa quella sostanza
evanescente, quella «materia sottile» direbbe Joubert24, che
sembra prossima a dissolversi nel nulla, ma anche a trasfigurarsi nell’arte (tale è la pregnanza dell’idea di «chimère» in Chateaubriand) o ad essere assunta in una sfera spirituale.
Occorrerebbe a questo punto sfiorare almeno quella «semantica delle illusioni» di cui ha così ben scritto Lionello Sozzi25, e in cui sembra evaporare, sulla soglia dell’età romantica,
una inquietudine metafisica, una tensione verso l’ineffabile po24. J. Joubert, Pensées, éd. G. Poulet, Paris, Union Générale d’Editions,
1966 p. 53.
25. Cfr. L. Sozzi, Semantica delle illusioni, in Studi in onore di Giovanni
Macchia, Milano, Mondadori, 1983, I, pp. 454-477.
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co accolta dai philosophes settecenteschi. Non a caso proprio
Joubert, l’interlocutore di Chateaubriand, ha sviluppato una
teoria dell’illusione come medium posto da Dio tra gli organi
sensoriali e gli oggetti del mondo, perché potessero nascere i sapori, i profumi, l’armonia, la prospettiva, la bellezza26: «L’illusion étant le seul point de contact par lequel il fut possible que
la matière touchât l’âme, Dieu la créa»27. Ecco che l’illusione,
originaria, quasi archetipale, ha sottratto alla sensazione il primato che le veniva riconosciuto nella psicologia settecentesca.
Ed anche la memoria sensoriale va incontro a una spiritualizzazione: lo stesso Joubert attribuisce alla memoria il potere di
conservare, quasi al di là della realtà empirica, un mondo di essenze, pur operando tra «accessoires fugitifs» o «choses légères»28 come i suoni o gli accenti o i profumi o le altre sensazioni, figlie dell’illusione che introducono al mistero del mondo.
Indugiamo appena per cogliere alcune risonanze dello stesso
lessico nella scrittura di Chateaubriand. «Illusion» occupa nel
sistema dei MOT una posizione generalmente simmetrica a
quella di «souvenir», così come un’antica simmetria ha sempre
legato tra loro le idee di speranza e memoria. Il ricordo, orientato al passato, in Chateaubriand è l’erede dell’illusione, proiettata al futuro: le succede e le somiglia, plasmato nella stessa materia sottile: nel ricordo dell’illusione, le dimensioni del tempo si
coniugano, si fondono, sopra quel vuoto, quella leggerezza
dell’essere, che sommessamente allude all’eterno, non come
promessa ma come nostalgia, non nella tonalità della speranza
ma in quella della memoria.
È, insomma, a partire dai MOT che la facoltà della memoria
diviene, tra le potenze interiori, la vera sapiente, la grande veggente. È lei che sa qualcosa, non solo dei segreti dell’io, ma –
26. Joubert, Pensées, cit., p. 51.
27. Ibid., p. 53.
28. Ibid., p. 148
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per riprendere la nostra prima distinzione – del «fondo del cuore», del «mistero dell’essere». Si tratta, è vero, di un sapere in
negativo – qualcosa come il sapere di una sibilla cieca – ma è
l’ultimo e più profondo che possa essere raggiunto nel mero
ambito esistenziale. Non sorprende allora costatare che altri dopo Chateaubriand porranno nella memoria il segreto delle fonti, o la vedranno come analogia di quel rapporto con l’assoluto
che il mistico realizza nella contemplazione e l’artista nella creazione della bellezza. Ma s’intravedono a questo punto sviluppi
dell’idea di memoria di cui mi premeva solo richiamare, attraversando il crocevia dell’opera di Chateaubriand, qualche presagio o qualche lontana premessa.
Benedetta Papasogli