Hatha yoga: la porta di accesso allo yoga più

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Hatha yoga: la porta di accesso allo yoga più
Istituto Superiore
Formazione Insegnanti
ISFIY di Milano
corso 2004/2008
Titolo della tesi
HATHA YOGA: LA PORTA DI ACCESSO ALLO YOGA PIU’
PRATICATO IN OCCIDENTE
La trasmissione dello yoga nel rispetto dei suoi fondamenti classici e con
un’attenzione alla didattica dell’insegnamento
Candidato
LILIANA DEL POETA
Relatore
SUSI STEFANINI
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INDICE
Ringraziamenti…………………………………………………… pag. 3
La mia esperienza………………………………………………… “
4
• Premessa ………………………………………………………… “
7
• Accenni storici sullo sviluppo dello Yoga ………………………. “
9
• Concetto di Yoga…………………………………………………. “ 12
• Yoga Sutra di Patanjali…………………………………………… “ 16
• Il valore dell’esperienza personale nello Yoga…………………… “
20
• Hatha Yoga e i testi classici di riferimento……………………….. “ 23
• Concetto di Asana e sue caratteristiche ed effetti………………… “ 29
• Insegnamento dello yoga: osservazioni, elementi di pedagogia,
di programmazione e di metodologia didattica…………………… “ 46
• Conclusioni………………………………………………………… “ 68
Proposta di una seduta yogica – sequenza………………………. “ 74
Bibliografia………………………………………………………… “
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2
Ringraziamenti
Ringrazio tutti gli insegnanti ed i miei compagni del corso ISFY
di Milano che in questi anni hanno condiviso con me
un’esperienza di studio e di crescita;
e ringrazio il mio insegnante di yoga, Silvano Ferrazzo,
per avermi aiutato a comprendere
il significato profondo della“pratica yoga”,
e per il contributo ed il sostegno che mi ha offerto
nel corso di questo lavoro di ricerca.
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LA MIA ESPERIENZA
Ho sviluppato negli anni, e per diverse ragioni, una forte tendenza ad
ampliare il mio lato più “razionale”. Questo aspetto ha così finito per
occupare nella mia personalità uno spazio sempre maggiore, che se da un
lato ha favorito l’espandersi della mia capacità di comprensione rispetto a
molte situazioni, dall’altro non mi ha probabilmente consentito di
coltivare una crescita armonica dell’aspetto emozionale e le mie energie
più profonde e viscerali sono rimaste parzialmente “abbandonate”.
Tra l’altro ho sempre percepito una parziale incomunicabilità tra la mia
parte più istintiva e quella razionale. Generalmente affrontavo una
situazione basandomi d’impulso sulle mie emozioni, sui miei sentimenti
per poi fare una rincorsa sul piano razionale per riuscire a comprenderla
appieno e “sistematizzarla”. In questo senso il mio mentale ha dovuto a
volte percorrere sentieri impervi e affinarsi velocemente, restava tuttavia
sempre una zona “franca”, più o meno ampia, tra la mia parte istintiva che
sentivo più vitale, e quella mentale, più faticosa, ma necessaria per il
raggiungimento di un’integrità.
Circa sette anni fa, passando attraverso esperienze di sofferenza, ho
avvertito di essere alla ricerca di un nuovo equilibrio che tenesse conto dei
vari aspetti della mia personalità.
Faccio ora un salto indietro nel tempo per ricordare che all’età di circa 20
anni e per oltre un anno, avevo praticato yoga; se devo essere sincera non
ricordo quale fosse il fascino che questa disciplina aveva esercitato su di
me, ma ricordo tuttavia che praticavo ogni giorno.
Così, dopo vent’anni, ho ripreso la pratica con tenacia e perseveranza e ho
iniziato a frequentare una scuola di yoga. In quell’ambito, ciò che mi ha
trattenuta è stato inizialmente il senso di pace che provavo.. Finalmente
durante la pratica degli asana la mia mente si rilassava, e quando
l’insegnante ci parlava di alcuni concetti dello yoga le parole trovavano la
strada del cuore e mi stupivano per quella che definivo “semplicità”.
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Io, così “intellettualizzata”, ho faticato all’inizio ad accettare una gioia
così naturale…. Poi lentamente le mie resistenze hanno lasciato in parte il
posto a un “surrender”. Praticando yoga ciò che mi veniva trasmesso era
che se la mente può influire sul corpo, è vero anche il contrario: il corpo
influisce sulla mente.
Questo assioma, all’inizio della mia esperienza, mi ha destato solo
curiosità, mi sembrava una scommessa per me già persa in partenza: ma
perché non accogliere questa idea? Nel tempo avevo inconsapevolmente
stabilito l’assoluta priorità della mente quale motore per attuare i
cambiamenti possibili e seppure mi accorgevo che la mente da sola non
era in grado di generarli, mi ero arenata lì…
Con la pratica degli asana ho cominciato ad acquisire un maggior
“controllo” del mio corpo, che a sua volta mi richiedeva un impegno per
controllare la mente: i muscoli non si rilassano se non sotto il controllo
della mente…bisogna concentrarsi sui muscoli, “portarci l’attenzione” e
distenderli… e tutto ciò deve avvenire in maniera lenta e progressiva: la
mente deve rimanere concentrata, calma e serena, il respiro l’accompagna
lento e regolare… e così impregnando di consapevolezza il corpo ho
cominciato ad avvertire un’unità, una maggior coordinazione tra i miei
aspetti fisici e mentali e tra la mia parte più istintiva, più emotiva e quella
razionale. La calma mentale mi procurava serenità e potevo raggiungerla
attraverso la coscienza del mio corpo.
Ho cominciato lentamente ad avvertire di avere più vitalità, mi sentivo
meno pigra, più appagata e riuscivo più fluidamente a passare dal pensiero
all’azione e a dirigere le mie energie in una direzione prescelta.
Nel mio corpo fisico hanno cominciato a sciogliersi durezze, resistenze e
paure; è diminuita la mia paura di espormi, di sbagliare; cercavo di capire
e accettare i miei “limiti”; cercavo di accettare la frustrazione che deriva
dal non riconoscersi “perfetti”; accoglievo in maniera meno “oppositiva”
che nel passato i giudizi talvolta critici che mi venivano rivolti; cercavo di
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gioire dei miei passi avanti e di quelli degli altri; riuscivo ad esprimere
emozioni più coerenti con quello che vivevo; aumentavano i momenti in
cui riuscivo a stare nel “qui ed ora”.
La maggiore consapevolezza raggiunta sul piano fisico e mentale credo
abbia avviato un lento processo di “trasformazione”: la mia ritrovata
“unità interna” ha infatti favorito anche una “tensione” all’unità verso
l’esterno, verso gli altri.
Stavo progressivamente adottando uno stile di pensiero e di vita più
coerente con i miei bisogni ed è stato così naturale continuare con
determinazione il percorso intrapreso.
Tre anni fa mi si è presentata questa occasione formativa per insegnanti,
“curricolare”. Ne ho parlato a lungo con il mio insegnante che mi ha
sostenuta, sottolineando la qualità accreditata del quadriennio in
questione. Ci ho pensato e ripensato arrivando alla conclusione che si
trattava di un un’ulteriore occasione di crescita personale indipendente dal
fatto che poi si svolga o meno il ruolo dell’insegnante.
Insomma, eccomi qua!
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PREMESSA
Ogni uomo lotta per raggiungere la felicità e cerca con tutto se stesso di
allontanare da sé ciò che non gli procura gioia. Compie in questo senso
degli sforzi incessanti finalizzati a cercare il bene e a respingere ciò che lo
porta verso gli errori: la sua mente originaria sa infatti che l’esercizio del
male finisce col ridurlo all’infelicità.
A volte sembra che dentro di noi agiscano due persone, ciascuna delle
quali cerca di avere il sopravvento sull’altra. E’ il contrasto che nasce
dalla convivenza di due diverse nature che si contrappongono. Il
Samkhya, la dottrina filosofica che è alla base dello Yoga, le definisce
Prakriti e Purusha, il primo è il polo materiale, il secondo è quello
spirituale. Nell’essere umano il polo materiale forma il corpo e la mente
dell’individuo, corpo e mente che diventano il tempio dell’anima
individuale (Purusha). Questi due principi di natura diversa interagiscono
tra loro a volte in modo conflittuale e a volte in modo armonico. Questa
seconda condizione è precisamente quella che la disciplina yoga si
ripromette di perseguire e di realizzare.
Storicamente uomini di fede e di religione, si sono impegnati duramente
per raggiungere la bontà e l’elevazione, assecondando l’impulso della loro
natura originaria ma non si è mai visto nessuno che durante la sua
esistenza sia riuscito a vivere in modo completamente consono al suo io
originario. Ciò a riprova delle grandi contraddizioni esistenti nell’umanità
che vedono presenti in ogni singolo individuo due tendenze: quella della
sua mente originaria che lo sospinge verso il bene e, in opposizione, la
forza della natura che lo induce a seguire più volentieri il richiamo dei
sensi, piuttosto che i dettami dello spirito.
La nostra umanità si esprime oggi nello stile di vita proprio della società
occidentale “evoluta” dove i soldi servono copiosi per soddisfare
ridondanti bisogni materiali, dove il tempo ha acquisito il valore del
denaro e viene frequentemente investito in iniziative consumistiche, di
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breve durata e di scarso valore esistenziale. In questo contesto le persone
impiegano spesso il loro tempo per sperimentare molteplici ed esasperate
modalità di apparire, per conformarsi alle mode e ai modelli del momento,
per essere più visibili, più giovani, più eleganti, più sciolte, etc.
Dai beni da saccheggiare per raggiungere questi scopi non sfugge neppure
lo yoga e la sua millenaria disciplina, dal momento che in questi ultimi
vent’anni l’eco dei suoi benefici è arrivato lontano e si è fatto conoscere.
Ci rendiamo così conto che il singolo, il consorzio umano e il “sociale”
nella sua accezione più vasta, non presta più tanta attenzione alla sua
“mente originaria”.
Il bene che c’è nell’uomo però rimane, anche se sopito, e lo yoga guarda
ad esso, indicando da tanti anni, con sicurezza, che la razza umana è molto
più elevata di quanto essa sappia.
Come insegnante di yoga mi troverò dunque ad operare in questo contesto
sociale nel quale le persone che aderiscono ai corsi hanno spesso
aspettative coerenti con i valori del mondo che le circonda, aspettative che
sono ben lontane dalle finalità, quelle ultime, che lo yoga propone.
Risaputamene però questa disciplina , dal momento che è improntata alla
tolleranza, alla positività e alla fiducia, non demorde dal guardare
all’uomo con ottimismo. Si potrebbe così esprimere il suo invito all’uomo
moderno con questi versi antichi:
“Vieni, ritorna, chiunque tu sia,
qualunque cosa tu sia, vieni:
o miscredente o adoratore del fuoco
o tu che hai commesso peccato di idolatria, vieni.
Vieni anche se hai infranto la
tua penitenza cento volte.
La mia non è la porta della disperazione e del tormento.
Vieni.
Hz.Mevlana – Konya (Turkye) 1207-1273
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ACCENNI STORICI SULLO SVILUPPO DELLO YOGA
Lo sviluppo storico dello Yoga è molto discusso. Non è facile rintracciare
le sue origini, ciò nonostante, attraverso i reperti archeologici, la
letteratura e altre testimonianze, è possibile affermare che esso è molto
antico. Da scavi effettuati nella valle dell’Indo sono emersi reperti che
raffigurano una Divinità seduta in posizione meditante circondata da
quattro animali (un elefante, un toro, una tigre e un rinoceronte): molti
studiosi hanno individuato in questa divinità una forma originaria di
Shiva, che è il dio della meditazione dello yoga. Questo, insieme ad altri
indizi, ha portato a considerare che lo Yoga fosse una pratica indigena
molto antica, risalente al periodo preariano. E’ probabile, in altre parole,
come alcuni studiosi sostengono, che la disciplina dello Yoga fosse
preesistente all’arrivo degli indoari ma che poi questi ultimi l’abbiano
assorbita e modificata secondo le loro concezioni introducendovi le loro
idee e le loro pratiche.
Da un punto di vista letterario è nei RgVeda (risalenti al 1200-1000 circa
a.C., una raccolta di 1028 inni rivolti alle divinità), che si rintraccia la
prima documentazione delle tradizioni religiose e letterarie indoarie: in
questo testo compare il concetto di yoga seppure in forma rudimentale e
collegato soprattutto a descrizioni di esperienze mistiche.
In ogni caso le vere basi dello Yoga come sistema nascono con i testi delle
Upanishad (circa 550-500 a.C.), anche se per trovare un uso del termine
yoga identico a quello che facciamo noi oggi bisogna arrivare alle
Upanishad di media antichità. Formalmente le Upanishad completano la
tradizione vedica e sono chiamate Vedanta.
Una fonte preziosa di informazioni sullo sviluppo delle varie pratiche
yogiche sono i due grandi poemi epici indiani: il Ramayana e il
Mahabharata; soprattutto quest’ultimo nella parte della BhagavadGita, un
trattato di 700 versi che è una sintesi di varie idee e pratiche dello Yoga
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che è divenuto una delle scritture più importanti del mondo. Nel tempo
sono state scritte innumerevoli traduzioni e “commentari” di questo testo,
esso tratta delle qualità di uno Yogi realizzato (Sthita-Prajna) e delle tre
Vie: Jnana Yoga, Bakti Yoga e Karma Yoga.
Lo Yoga classico, come via filosofica prima ancora che pratica, è affidato
ad un testo molto conosciuto: gli Yoga Sutra di Patanjali. Contiene 195
aforismi divisi in 4 capitoli ed è il trattato sistematico più antico sullo
Yoga che si conosca. Come succede per tutti i grandi testi indiani, gli
Yoga Sutra sono stati commentati successivamente da vari autori che vi
hanno apportato il loro contributo.
Da un punto di vista “teoretico” lo Yoga si basa sulla filosofia del
Samkya, anche se vi sono con questa differenze molto importanti
riguardanti la concezione del tempo, l’evoluzione della materia e
soprattutto il rapporto col Divino. La concezione di base del Samkya è
invece perfettamente condivisa dallo Yoga: esiste il Purusha, il polo
essenziale maschile, che costituisce il principio spirituale, entità che è pura
conoscenza ed è inattiva, ed esiste la Prakrti, il polo sostanziale femminile
che non ha nessuna capacità conoscitiva ma è sommamente attiva e che
dispiegandosi genera l’intera manifestazione.
Concezioni differenti si
ritrovano nei vari livelli di manifestazione della Prakrti che per il Samkya
sono tre: la Buddhi (intelligenza universale), Ahankara (il senso dell’io,
l’egoità) e Manas (la mente ordinaria), mentre per lo Yoga si parla
solamente di Citta (coscienza, intelletto, mente, pensiero).
La filosofia indiana, dal punto di vista hindu, contempla sei “concezioni”,
per l’esattezza “visioni” ortodosse. Si tratta di una sorta di “sistema
filosofici” che guardano ai problemi fondamentali su cui si interroga
ciascun essere umano e a cui cerca di dare soluzioni (che cos’è l’universo?
dove va il mondo? qual è il destino dell’essere umano? chi è Dio?). Sia il
Samkya che lo Yoga sono due dei sei Darshana ortodossi.
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Le altre quattro “visioni” sono il Vedanta, di cui ho già fatto cenno, la
Mimansa, la Nyaya e la Vaisesika che affrontano sul piano astratto del
pensiero i temi della logica e della teoria della conoscenza.
I vari Darshana sono giunti alla loro formulazione sistematica nei primi
secoli e comunque entro il V secolo d.C.
Tornando allo Yoga vediamo che essa è una disciplina sviluppatasi nel
solco di una tradizione millenaria: la tradizione vedica. La parola “veda”
deriva da “vid” che vuol dire sia vedere che conoscere, sottintende cioè
una conoscenza immediata. Il Veda è una scienza che abbraccia ogni
ambito dell’esistenza, una conoscenza rivelata che gli antichi Rishi,
veggenti vedici, hanno raggiunto in uno stato di profonda meditazione e
che è stata tramandata fino ai giorni nostri. Dalla conoscenza rivelata poi
hanno preso vita altre dottrine e discipline che hanno sviluppato alcuni
aspetti della scienza universale, si tratterà in questo caso non più di
scienza rivelata ma di una conoscenza che si basa su una scienza rivelata e
lo Yoga è una di queste conoscenze.
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CONCETTO DI YOGA
Essendo lo Yoga una disciplina che ritrova le sue origini così lontano nel
tempo è accaduto che nel corso della sua evoluzione le fossero attributi
diversi significati e venissero mostrati svariati modi di avvicinarvisi.
Per comprendere il concetto di Yoga è necessario innanzitutto sgombrare
il campo da tutti i più comuni equivoci. Uno di questi è il credere che lo
Yoga non sia per tutti ma solo per pochi eletti ed in genere persone che
vivono al di fuori della società e si comportano in maniere “strane”.
Questa nozione nel tempo si è rafforzata quando attorno allo Yoga si è
creato un elemento mistico: semplici pratiche di yoga venivano
considerate segrete e coloro che erano in grado di praticarle venivano
considerati automaticamente “grandi uomini”.
Un altro malinteso in Occidente ha a che fare con la falsa convinzione che
lo Yoga sia un insieme di esercizi fisici, più adatto alle donne che agli
uomini, per cui in genere sono perloppiù donne quelle che prendono parte
alle attività dello Yoga.
Ma in realtà lo yoga è diretto a ciascun individuo nella società, a
prescindere dall’età, sesso, stile di vita, ed inoltre non vi è misticismo, non
vi è nulla di miracoloso nello Yoga.
Iniziamo con il capire il significato del termine yoga: è un sostantivo che
deriva dalla radice sanscrita “yuj” ed etimologicamente significa “unire”
“aggiogare”, quindi “unificazione”, “integrazione”, ’“soggiogamento”
“unione spirituale”, ma anche “meditazione profonda, concentrazione,
raccoglimento, contemplazione “.
Il concetto di “integrazione” lo si può ritenere centrale per la
comprensione del termine yoga e ad
esso si possono attribuire tre
significati: il primo è di riunire le parti separate, un altro è quello di
sistemarle nel loro giusto posto e nella giusta prospettiva, e l’ultimo, il più
importante, è quello di governarle in modo giusto. Per fare un esempio
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riprendiamo il termine “aggiogare” nell’immagine figurata di mettere il
giogo a due buoi
per farli lavorare insieme: il semplice riunire due
animali, legarli all’aratro, non significa che si muoveranno. Bisogna che
siano legati propriamente, entrambi nella giusta direzione, devono essere
attaccati bene all’aratro e ci deve essere anche una guida a governarli.
Solo allora è possibile portarli nella giusta direzione.
Parlando di integrazione, riferendoci all’essere umano, dobbiamo
considerare che il termine Yoga si riferisce all’integrazione
della
personalità di un individuo nei suoi tre principali aspetti costituitivi:
l’aspetto fisico, mentale o psicologico e quello spirituale. Per comprendere
il concetto di integrazione si deve inoltre conoscere la relazione tra la
parte e l’insieme: l’insieme non può esistere senza la parte e le parti non
possono esistere separatamente. La personalità è un continuum, quindi
quando si tocca un aspetto, si coinvolge l’intera personalità. Ed infatti lo
yoga insiste sul fatto che quando si tocca una parte, si tocca l’intero, e
suggerisce vari mezzi per ottenere questa integrazione.
Ora accade sempre più spesso e per diversi fattori, in parte congeniti e in
parte acquisiti, che una persona sia “disarmonica” in maggiore o minore
misura. Le cause in termini yoga sono conosciute come klesha, che
etimologicamente significa “irritazione – disturbo – afflizione” e sono un
gruppo di cinque elementi negativi nella vita mentale: ignoranza (avidya),
egoismo (asmita), desiderio (raga), avversione (dvesa), adesione convulsa
all’esistenza (abhinivesa). Come superarli o ridurli d’intensità è lo scopo
dello yoga che si propone questo obiettivo
attraverso l’utilizzo di
innumerevoli metodi e tecniche.
Ogni individuo è diverso dall’altro, diverse le sue attitudini e le sue
limitazioni che, tra l’altro, nel corso del suo cammino evolutivo possono
cambiare. Si comincia con l’usare delle tecniche ma poi i nostri bisogni
cambiano, si presentano allora altri insegnamenti, altri strumenti più adatti
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ai nuovi bisogni e così si continua a perseguire la ricerca di risposte utili
alla nuova condizione che preme nell’intimo, “qui ed ora”.
Ognuno di noi percorre un cammino originale e potrà nutrirsi via via di
apporti diversi, anche in funzione della sua personalità: Hatha Yoga, Raja
Yoga, Laya Yoga, Mantra Yoga… ogni individuo in altre parole potrà
adottare le tecniche più adatte ai suoi bisogni, in quanto tutte conducono
verso lo stesso fine, quello dell’integrazione, quello della Perfezione.
Fra le varie tecniche o scuole non vi sono rigide separazioni o esclusioni,
esse possono essere complementari oppure propedeutiche le une alle altre,
così come è altrettanto vero che lo yoga può essere praticato a diversi
livelli d’impegno. Molte persone ad esempio cominciano ad avvicinarsi
allo yoga per ottenerne benefici fisici e poi continuano a percorrere tale
sentiero perché in esso scorgono nuovi traguardi da raggiungere nella
sfera mentale o in quella spiritualeSu questo tema può essere utile sottolineare una distinzione ben esplicitata
nella Bhagavad Gita , tra due diversi sentieri spirituali che conducono alla
stessa meta: essi sono la via dell’azione (Karma-Marga) e la via della
Conoscenza (Jnana-Marga). Azione (Karman) e Conoscenza (Jnana) sono
due vie differenti destinate ad individui di indole diversa. Non è semplice
dare la definizione di Azione e Conoscenza se anche Krshna nella B.G.
(IV,16), afferma “Che cos’è un’azione? Che cosa non lo è? Persino i saggi
sono perplessi a questo proposito.” Per necessità di semplificazione
possiamo affermare che l’Azione fa riferimento alla Prakrti, alle cose della
natura, (un’azione può essere compiuta con il corpo, la parola e la mente),
mentre la Conoscenza guarda a Purusha, al Principio cosciente. Ciò non
equivale alla conoscenza come a volte la intendiamo noi, ad esempio
attraverso lo studio di testi, perché questa riguarda l’Azione, ma come
“esperienza della pura consapevolezza”, cioè una Conoscenza innata, che
è già dentro di noi anche se nascosta: è quella dell’asceta che scopre la
conoscenza suprema, che diviene lui stesso Conoscenza. Questa via è
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preclusa alla maggior parte degli uomini perché la nostra mente è
offuscata dall’illusione, dall’ignoranza (karma delle vite passate), da
impedimenti che tuttavia possono essere rimossi dagli effetti delle azioni
presenti: e questo è lo scopo del Karma Yoga.
Afferma Krshna nella B.G. che (V,4) “colui che pratica correttamente una
sola di queste due vie, ottiene il frutto di entrambe”.
La pratica yogica che realizza il Karma Yoga è l’Ashtanga Yoga insegnato
da Patanjali negli Yoga Sutra, a partire dal secondo capitolo. L’aforisma
28, cap.II dice “Con la distruzione delle impurità, ottenuta grazie alla
pratica delle otto membra dello Yoga, sorge la luce della conoscenza che
culmina nella saggezza discriminante”.
Gli Asana, a cui presteremo attenzione in questo lavoro di ricerca, sono
solo uno degli otto Anga e vanno quindi guardati all’interno della
disciplina dell’Ashtanga Yoga. Al di fuori di questo contesto la semplice
esecuzione delle posizioni non ha alcun effetto ai fini di una ricerca
spirituale, e non possiamo identificarla con lo Yoga.
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YOGA SUTRA di PATANJALI
La datazione della redazione di quest’opera è molto incerta, ma la si può
far risalire ad un periodo che va dal II sec.a.C. al V o VI sec. d.C. Essa
viene attribuita ad un certo Patanjali, tuttavia sull’identità di questo
personaggio si è svolto un lungo dibattito fra gli studiosi: alcuni lo
identificano con l’omonimo grammatico autore del Mahabhasya (II
sec.a.C.), altri non condividono questa tesi e ritengono che l’autore dello
Yoga Sutra sia vissuto in un periodo successivo.
Fondamentali per la comprensione di questo testo sono i numerosissimi
commenti redatti nei secoli successivi da studiosi e “commentatori”.
Lo Yoga Sutra è scritto in forma di brevi aforismi, ricchi di significato: i
sutra. E’ proprio la brevità e la concisione delle strofe che compongono il
testo che ha consentito la loro trasmissione orale da insegnante a studente
nel corso dei secoli, prima che Patanjali ne scrivesse. Lo Yoga Sutra
enuncia con precisione i principi fondamentali dello yoga e ne sviluppa un
percorso composto da otto fasi, “anga”, ed è per questo che viene anche
chiamato Asthanga Yoga: lo Yoga delle otto membra.
Yoga per Patanjali è
yogascittavrttinirodah (I,2): “lo yoga è la
soppressione delle modificazioni della coscienza”, che possiamo anche
tradurre seguendo le indicazioni dei “commentatori” (Vyasa): “lo Yoga è
la capacità di dirigere la mente esclusivamente verso un oggetto e di
mantenere quella direzione senza distrazione”. Cerchiamo brevemente di
spiegare questo aforisma: “citta” lo si può identificare con la coscienza, la
mente, un organo sottile, non grossolano come il corpo, ma fatto
comunque sempre di materia; la parola “vritti”
deriva dalla radice
sanscrita “vrit” che indica un’attività vorticosa ed instancabile e sta a
significare la tendenza centrifuga e dispersiva della mente in preda agli
stimoli del mondo esterno ed interno (la memoria); ed infine “nirodha”,
che è un termine usato per decretare l’arresto, l’inibizione di questa
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tendenza, e quindi “l’arresto delle attività della mente” – quando l’attività
vorticosa della mente cessa si instaura naturalmente la condizione di Yoga
e di unità.
Proseguo ora con una breve descrizione degli otto “anga” di cui tratta
Patanjali:
I primi due anga, Yama e Niyama, sono delle discipline che riguardano
l’etica, il comportamento, l’atteggiamento dello yogin verso gli altri e
verso sè stesso. Hanno lo scopo di calmare e di purificare la mente
controllando (yam=controllare) gli impulsi e gli istinti per mettere la
persona in armonia con sé stesso e col mondo che lo circonda.
L’aforisma 30, cap.II definisce i cinque Yama:
- ahimsa : la non violenza;
- satya: la verità (sintonia tra pensiero e parola);
- asteya: l’assenza di desiderio per le cose altrui;
- brahmacharya: continenza, controllo sessuale, purezza;
- aparigraha: l’assenza di avarizia e del desiderio di possedere.
I cinque Nyama esposti nell’aforisma 32, cap.II sono:
- saucha: purezza relativa sia al fisico che alla mente;
- santosha: contentezza, appagamento, ottimismo;
- tapas: ardore, ascesi, sforzo costante ma senza eccessi;
- swadyaya: sviluppo di sé stessi, autoanalisi e studio dei Testi;
- Ishvarapranidhana: devozione, offerta di tutte le azioni a Dio,
alla Coscienza Suprema, alla Forza Cosmica, a ciò che ci è Superiore.
Questi ultimi tre nyama costituiscono ciò che Patanjali chiama Kriya Yoga
e che fanno quasi da preludio all’Asthanga Yoga, nel senso che
riassumono, in un certo modo, lo spirito della disciplina yogica.
Il terzo anga è costituito dagli Asana o posizioni. Patanjali ne dà una
descrizione enumerando due principii ad essi associati (cap.II,46):
sthirasukamasanam: “sthira” significa stabile, immobile; “sukam” indica
una condizione di benessere, e quindi la posizione deve essere immobile e
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piacevole da mantenere. L’ aforisma che segue (II,47) completa il
concetto esposto nel precedente ed afferma che nel momento in cui si è in
una postura e ci si abbandona ad essa senza sforzo, respirando con
regolarità, si va verso la felicità, verso l’unità, la mente rifletterà la
condizione dell’infinito e ci si sentirà una cosa sola con il macrocosmo.
L’aforisma II,48 invece dice che l’effetto degli asana è quello di porre
fine alle dualità, cioè alla differenziazione fra gli opposti e, da un
commento di Iyengar, infatti si legge che “nessun paio di opposti può
esistere per il praticante che è un tutt’uno con il corpo, con la mente e con
l’anima”, cioè egli non è più disturbato da una mente immersa nel
dualismo
e
c’è
solo
“perfezione
nell’azione
e
libertà
nella
consapevolezza”. Padroneggiare gli opposti vuol dire allora anche saper
padroneggiare un asana, in quanto dalla conoscenza del corpo nasce la
consapevolezza dei propri limiti e l’ideazione di quegli adattamenti
necessari perché la postura si realizzi.
La conoscenza del respiro che si acquisisce attraverso la pratica di asana è
il fondamento per iniziare la pratica di Pranayama, il quarto “anga”
(II,49). Tale tappa è importante perché costituisce il nesso tra il piano
fisico e quello mentale. Patanjali a proposito del Pranayama parla di
sospensione del movimento dell’inspiro e dell’espiro, il respiro continua
ma il suo movimento è così tenue da non essere più evidente. Da ciò ne
deriverà un corrispondente rallentamento del flusso dei pensieri.
Tecnicamente l’inspiro è detto puraka, l’espiro recaka, mentre la
sospensione volontaria del respiro, non la pausa fisiologica, è detta
kumbhaka. La pratica regolare del Pranayama favorisce la realizzazione
del Prathyahara che è il quinto “anga” (II,54). Prathyahara significa
“ritiro e controllo dei sensi”. Ritirare i sensi dagli oggetti sensoriali per
favorire l’interiorizzazione e osservare tutti i pensieri con attenzione e
distacco.
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Gli ultimi tre “anga” sono trattati nel terzo capitolo: Dharana – la
concentrazione, è per Patanjali il fissare la mente su un punto solo: la
coscienza, la mente assume allora la forma e le caratteristiche dell’oggetto
che contempla.
Dhyana, la meditazione, la si può considerare come un perfezionamento
della concentrazione che diviene duratura: “Dhyana è la facoltà di
mantenervi (nel punto prescelto) l’attenzione” (III,2).
Samadhi, l’ultimo “anga”, è uno stato in cui la coscienza si fonde con
l’oggetto della meditazione, (III,3):“Quando esso (dhyana) brilla della
sola luce dell’oggetto, privo, per così dire, della propria forma, si ha il
samadhi”.
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IL VALORE DELL’ESPERIENZA PERSONALE NELLO YOGA
La via che lo yoga ci offre per la “liberazione” è quella dell’esperienza, in
quanto se non si conosce la vita in modo concreto non si può ottenere la
libertà: “nello yoga vi è quindi una tendenza che gli è specifica: la
tendenza verso il concreto, verso l’atto, verso la prova sperimentale”
(M.Eliade).
Lo yogin difatti è un ricercatore e come tale deve avere la mentalità di
colui che sviluppa la capacità di fare l’esperienza: la capacità cioè di farecreare un’azione ed ascoltare ciò che emerge.
E’ importante soffermarsi su questo concetto: nel momento in cui una
persona sviluppa un’esperienza perché questa possa arrivare alla sua
coscienza, deve vivere il presente, qui ed ora, frenare qualsiasi tipo di
pulsione legata a delle proiezioni immaginarie, riuscire ad essere semplice,
vuota, non aspettarsi nulla; deve limitarsi ad accettare l’esperienza per
quella che è, sviluppando consapevolezza, attenzione, partecipazione,
coinvolgimento. Purtroppo invece il percorso che le persone tendono a
fare è quello di acquisire prima delle informazioni concettuali, nozioni
astratte accademiche, e poi da queste andare a ricercare le esperienze.
Succede allora che si lavora molto con l’immaginazione e si svia il
percorso conoscitivo. Infatti se noi ci aspettiamo qualcosa che abbiamo
ideato e l’andiamo a cercare, noi lo troveremo, ma è l’immaginazione che
influenza la nostra realtà interiore.
Il pericolo dunque nella pratica yoga può venire dal rapporto con
l’immaginazione che determina sensazioni che si presentano come reali,
quando invece sono solo ed esclusivamente sensazioni che provengono da
proiezioni immaginarie.
Questo avviene perché l’esperienza viene poco praticata: l’uomo moderno
non ha tempo di praticare e allora si nutre di immaginazione, di fantasia
che non ha nessuna relazione con la realtà.
20
Secondo il Vedanta noi siamo composti da cinque stratificazioni:
annamayakosha – il corpo fisico
pranamayakosha – il corpo energetico
manomayakosha – il corpo della mente “ordinaria”, degli automatismi
vjnanamayakosha – il corpo della mente riflessiva, della conoscenza
anandamayakosha – il corpo causale
e abbiamo la possibilità di sperimentarle tutte perché tutto è già in noi, la
verità in altre parole è già in noi, si tratta di renderla consapevole
attraverso l’esperienza.
Per riuscire ad entrare in un rapporto esperenziale con il corpo energetico
è necessario spengere il corpo fisico e questo si può farlo con la pratica di
asana. Diversamente da come molti credono l’obiettivo della pratica di
asana non è quello di esaltare la bellezza e la potenza del corpo fisico ma
quello di ridurre l’invadenza del corpo fisico sulla realtà mentale e sulla
realtà interiore.
Il corpo fisico influenza pesantemente le condizioni mentali della persona.
I disturbi fisici e i disagi che si provano durante la pratica degli asana sono
determinati da stress, da agitazione, da situazioni che rendono insofferenti,
e questa sofferenza non palesata su un piano immediatamente mentale, si
manifesta in forma diretta attraverso un disturbo, un disagio fisico, durante
la pratica degli asana.
In realtà l’acquisizione di un asana non è un’azione che si raggiunge
esercitando soltanto il corpo fisico; la pratica degli asana crea
un’educazione, un’integrazione al rapporto con sé stessi, in tutte le
componenti costitutive: corpo, sensazioni, emozioni, energie sottili (corpo
pranico), mente-consapevolezza.
Un asana è una disciplina che si rivolge al corpo fisico, alla sua struttura
materiale ma, nel suo svolgersi con la pratica, coinvolge l’atteggiamento
mentale e quest’ultimo ne diventa l’elemento fondamentale, perché quello
che si deve acquisire è la disponibilità psico-fisica a restare immobili in
21
una posizione qualsiasi: con l’abilità di stare immobili nella posizione si
traduce un cambiamento nel rapporto con il proprio corpo che
non
trasmette più nessuna sensazione fino a permettere agli altri strati del
nostro essere (kosha) di manifestarsi.
22
HATHA YOGA
Il primo significato che viene dato al termine Hatha Yoga è “Yoga dello
sforzo”. Poi generalmente viene data una spiegazione ulteriore perché la
parola Hatha è composta da Ha che significa sole e da Tha che significa
luna. Molte parole sanscrite che si riferiscono allo studio della personalità,
ci avverte infatti Swami Veda Bharati, un Maestro indiano, grande
studioso ed erudito tuttora vivente, hanno molteplici significati: a seconda
del nostro livello di comprensione sarà possibile adottare l’uno oppure
l’altro. Così avviene anche per la parola hatha, il cui significato più
grossolano sarà “forza, forzare” che sta ad indicare la forza, l’impegno
che, ad esempio, inizialmente si dovrà impiegare per abbandonare
l’abitudine di una postura scorretta (ad es. le spalle curve) ed entrare in
quella corretta; se questo “forzare” non sarà violento bensì gentile allora
si potrà comprendere un altro livello del significato di hatha: Ha come
sole e Tha come luna, noi in sintonia con l’universo. Quando poi si sentirà
l’universo in sé stessi, il sole nel respiro della narice destra, la parte
maschile, attiva, e la luna nel respiro della narice sinistra, la parte
femminile, intuitiva, ancora un’altra comprensione del termine hatha, a
livello più sottile, si sprigionerà per noi, e così di seguito...
L’Hatha Yoga, leggo questa definizione nell’Enciclopedia dello Yoga a
cura di Stefano Piano, è un “metodo di reintegrazione che, attribuendo
grande valore al corpo, mira ad ottenere una realizzazione spirituale
mediante discipline psico-fisiche” e comprende oltre all’aspetto puramente
fisico delle posizioni, anche gli aspetti energetico, mentale e spirituale.
Questo metodo lo si deve considerare all’interno del Raja Yoga, lo “Yoga
Regale” (cioè lo yoga come sistema classico esposto da Patanjali negli
Yoga Sutra) il cui scopo è quello di condurci verso quello “stato di yoga”
dove si realizza l’unificazione tra lo spirito individuale e quello universale.
23
Il Raja Yoga mette all’inizio del suo percorso la pratica di regole morali
(Yama e Niyama) necessarie per l’armonizzazione del piano emotivo e
mentale, mentre l’Hatha Yoga ritiene indispensabile lavorare sul livello
materiale e su quello energetico (purificazione del corpo e miglioramento
della salute) che automaticamente produrranno la purificazione della
mente e quindi lo sviluppo delle pratiche meditative.
L’Hatha Yoga appartiene alla grande tradizione del Tantra e il suo fine
ultimo è comune alle altre vie dello Yoga, tuttavia esso guarda al corpo
fisico come strumento privilegiato per lo sviluppo spirituale dell’uomo;
difatti nel Tantrismo, sviluppatosi in India a partire dal VI sec. d.C. e che
ha influenzato anche le altre religioni e visioni filosofiche indiane, il corpo
umano acquista una importanza mai raggiunta prima nella storia spirituale
del paese.
Per comprendere alcuni aspetti della pratica dell’Hatha Yoga bisogna
considerare che essa è nata all’interno di una tradizione dove tutti i
fenomeni che esistono nell’universo sono espressione di una forma
primordiale chiamata “prana”(energia).
Il prana è responsabile sia dei processi cosmici che dell’attività vitale di
un individuo. Le correnti praniche fluiscono attraverso il corpo e ogni
malfunzionamento del loro fluire dà luogo a disturbi del corpo e della
mente. Secondo la tradizione esiste nell’uomo un corpo sottile nel quale si
trovano numerosi canali detti “nadi”, dove il prana scorre e sei “chakra”
principali (centri di potenza) che sono come dei raccoglitori e distributori
di energia alle varie parti del corpo: l’Hatha Yoga si preoccupa di liberare
le nadi da ogni blocco per far fluire il prana e dirigerlo. Le nadi più
importanti sono tre e sono chiamate Ida, Pingala e Sushumna. Ida e
Pingala rappresentano le due polarità energetiche: la prima è l’energia di
tipo lunare (Tha), fredda, intuitiva, femminile; la seconda è l’energia
solare (Ha), calda, razionale, maschile. Sushumna è il canale centrale che
corre lungo la colonna vertebrale, ed è lì che l’Hatha Yoga si prefigge di
24
dirigere il Prana dopo aver armonizzato il flusso energetico nelle due nadi
laterali, ottenendo così uno stato d’equilibrio in cui l’individuo è in grado
di utilizzare tutte le sue potenzialità. Kundalini, che è l’energia
primordiale, ha sede nella base di Sushumna, nel chakra chiamato
Muladhara: quando l’energia scorre nel canale centrale, Kundalini si
risveglia e segue un percorso ascendente verso i chakra superiori che
rappresentano i diversi livelli di coscienza, assumendo varie qualità a
secondo del punto in cui si manifesta. Quando Kundalini raggiunge il
“chakra” più in alto, Sahasrara, lo yogin sperimenta in sé lo stato della
non dualità, l’unione di Shiva e della Shakti, il riassorbimento del mondo.
Scopo dell’Hatha Yoga è quello di armonizzare questi “poli” psico-fisici:
se si guarda all’efficienza del corpo tutto ciò si traduce in “salute”, se si
aspira a fini superiori questo significa “autorealizzazione”.
L’Hatha Yoga, oltre ad essere costituito da un complesso organico di
esercizi fisici, cura in modo particolare anche la respirazione perché non
solo essa esercita una grande azione sul sistema nervoso, sul cuore e
sull’efficienza generale ma perché attraverso la respirazione yoga
(Pranayama) si cerca di ridurre la quantità di energia (prana) che si
disperde all’esterno, o di impedirne completamente la fuoriuscita, per
dirigerla e dominarla al fine di prolungare l’esistenza umana e per destare
nuove energie spirituali.
Gli Yoga Sutra affermano (II,52) che con la pratica del pranayama la
mente acquista progressivamente chiarezza e si predispone alla
meditazione. Nel pranayama la mente va concentrata sul respiro e quindi
la respirazione deve avvenire in maniera consapevole. La pratica del
pranayama può essere favorita dall’esecuzione di asana che aumentano la
capacità dei polmoni e preparano, in particolare, i muscoli diaframmatici,
intercostali e della schiena.
Leggendo attentamente tutti i testi che si occupano di Hatha Yoga si
rileverà comunque che le discipline psico-fisiche da sole non sono
25
“sufficienti” per penetrare e “risvegliare” i chakra, rimane indispensabile
la meditazione, la “realizzazione spirituale”.
Sebbene dunque l’atteggiamento dell’Hatha Yoga rispetto al corpo umano
si traduca in una volontà di dominarlo, questo dominio non ha come meta
la ricerca della perfezione di carattere igienico, oppure atletico, bensì
considerando il corpo quale strumento per la realizzazione e la liberazione,
ritiene che esso debba essere mantenuto in buono stato per facilitarci la
pratica della meditazione.
Trovo infine che il pensiero di Swami Shivananda, uno dei più grandi
Maestri del ‘900, che tra l’altro era anche medico, sottolinei con incisione
alcuni aspetti dell’ Hatha Yoga e dello Yoga in generale; egli scrive:
“L’Hatha Yoga riguarda un sistema di esercizi yogici degli antichi Rishi e
Yogi indiani basati su principi scientifici. Non è una vaga dottrina. E’ una
scienza esatta… si può acquisire un controllo assoluto sull’intera natura
attraverso la pratica dello Yoga…lo Yoga porta un messaggio di speranza
al disperato, gioia al depresso, forza al debole e conoscenza all’ignorante.
Lo Yoga è il pass-partout che dischiude il regno della felicità e porta una
profonda durevole pace”.
Testi di Hatha Yoga
Fra i trattati di Hatha Yoga più significativi si possono citare l’Hatha Yoga
Pradipika (La lucerna dell’Hatha Yoga), la Gheranda-Samhita e la SivaSamhita.
L’autore dell’Hatha Yoga Pradipika è Swatmarama, ed il testo risale al
secolo XV. E’ un trattato di quattro capitoli (lezioni) dove vengono
descritte alcune posizioni yogiche (15 asana), le diverse tecniche di
purificazione (Shatkarman) ed esaminati i diversi pranayama; vi si ritrova
poi un approfondimento del Kundalini Yoga e infine la descrizione del
Samadhi e dei mezzi per realizzarlo.
26
Per ricollegarci a quanto è stato detto prima, sebbene questo testo ponga
uno speciale accento sulle pratiche yogiche fisiche, l’autore non ritiene
che l’Hatha Yoga ed il Raja Yoga siano due differenti modalità di yoga,
ma ne sottolinea la loro reciproca dipendenza: II, 76 “Non può essere
perfetto lo Hatha Yoga senza il RajaYoga, né il Raya Yoga senza
Hatha…” affermando così che essi non sono che i due aspetti di una stessa
disciplina – lo Yoga. Emerge poi dal complesso del trattato
che il
“praticante” all’inizio del suo sentiero comincerà a fare delle cose col suo
corpo e magari non percepirà che esse hanno una controparte mentale e
spirituale, ma gradatamente, lavorando in maniera introspettiva riuscirà a
cogliere anche quegli aspetti mentali e spirituali che sono propri dello
Yoga.
Grande importanza in questo testo viene data comunque alla pratica che si
inquadra nell’attenzione che, in generale, tutte le scuole tantriche
attribuiscono all’esperienza totale della vita: “Il successo è raggiunto solo
da chi pratica… il successo non si raggiunge solo col leggere libri” (I,65).
La Gheranda Samhita il cui autore è il saggio Gheranda è un trattato di
Hatha Yoga che affronta le numerose tecniche yogiche fino a spiegare le
varie forme di Samadhi. La forma di Yoga esposta da Gheranda è
composta da sette anga o parti: Shatkarman (purificazioni), Asana,
Mantra, Mudra, Pranayama, Dhyana e Samadhi. Il secondo stadio, quello
delle Asana, è accuratamente esposto, si descrivono 32 asana, ma anche
in questo testo la pratica delle diverse posizioni sottende un
“atteggiamento mentale”: Lo Yogi infatti pratica le Asana per dimenticare
il corpo, per disidentificarsi da esso, arrivando in questo modo ad
espandere il raggio della propria coscienza fino all’infinito.
Nel testo ( I, 8) il corpo umano viene paragonato ad un vaso d’argilla
cruda che si scioglie quando viene riempito d’acqua perché questo è
quello che avviene al corpo fisico che si logora nel sopportare gli aspetti
27
contrastanti della vita (dualità) se non è reso forte dalla pratica dello Yoga,
tramite cioè la disciplina fisica e mentale. Un corpo conservato a lungo ed
in buono stato è necessario per facilitare la meditazione , cioè per ottenere
la liberazione.
Infine la Siva Samhita, di autore anonimo, lo si può definire il trattato di
Hatha Yoga più accurato sul piano filosofico. La Shiva Samhita, così
come gli altri testi già citati, poggia le sue basi dottrinali sul Samkya, sullo
Yoga e sul Tantrismo ma risente anche dell’influsso del Buddismo e del
Vedanta. In questo testo si afferma che le asana sono 84 ma se ne
descrivono solo 4: siddhasana, padmasana, ugrasana e svastikasana. Le
varie tecniche ed i vari argomenti trattati quali la raffigurazione del corpo
secondo la concezione tantrica (come microcosmo, le nadi , i chakra), le
asana, il pranayama, le mudra, la dharana, etc. non sono esposti in maniera
sistematica ma piuttosto l’opera sembra sia stata concepita come guida
generica perché poi il cammino progressivo personale deve essere indicato
dal maestro (guru). Anche in questo testo si ripete che la pratica svolge
una funzione decisiva (IV): non si può ottenere nulla senza la pratica.
Il linguaggio usato talvolta non è molto lineare, bensì oscuro ed allusivo,
una caratteristica peculiare, questa, dei testi di carattere iniziatico.
28
CONCETTO DI ASANA
Asana è sinonimo di posizione, postura e la parola deriva dalla radice
“as” che significa “stare, sedere” o anche “stabilirsi in una determinata
posizione”. Esistono difatti asana da eseguire in posizione seduta, eretta,
sdraiati supini, in posizione prona e tanti altri, anche se anticamente
sembra che fossero considerati asana solamente le posizioni sedute , ciò
probabilmente in funzione della meditazione che privilegia questa
posizione. Per raggiungere la comodità nella posizione seduta e
mantenerla a lungo è necessario avere una spina dorsale in buona salute.
Se ci si mette seduti infatti vediamo che dopo 10-15 minuti si comincia a
piegarsi in avanti e questo a causa della debolezza nei muscoli spinali, per
chi non li abbia preventivamente rinforzati. Bisogna muovere la colonna
in tutte le direzioni allo scopo di sviluppare in essa forza e flessibilità ed è
per questa ragione che nel tempo si sono sviluppati ed affinati molti asana.
Migliorando la funzionalità della spina dorsale, essendo essa connessa a
tutte le parti del corpo, si creano stabili fondamenta per l’intera struttura
fisica. Nel mondo occidentale contemporaneo i disturbi alla schiena sono
uno dei principali problemi di salute derivanti dalle attività lavorative
molto sedentarie e dalle scorrettezze posturali. Di conseguenza il
rafforzamento di questa area ha una valenza molteplice.
Asana e sue caratteristiche
Due sono i principi enunciati da Patanjali sugli asana (II,46)
“sthirasukhamasanam”: “sthira” significa “saldo, stabile”, si riferisce alla
forza, la “stabilità” è la qualità essenziale del corpo; “sukham” vuol dire
“comodo, piacevole” e la “comodità” è una qualità della mente, perché il
confort è ad un livello di percezione.
29
Stabilità e confortevolezza sono qualità che associate ad “asanam” si
applicano sia alla condizione ideale del corpo che a quello della mente, tra
di esse c’è un legame funzionale e va continuamente ricercato un
equilibrio.
Gli asana comprendono dunque aspetti psico-fisici, stabilizzano sia il
corpo che la mente; si comincia a lavorare con il corpo e
contemporaneamente si rieduca la mente.
Un asana, in pratica, per essere definito tale deve avere alcune
caratteristiche, che via via analizzeremo:
-
stabilità;
-
immobilità;
-
temporalità (mantenuta per lungo tempo);
-
rilassamento (tenuta senza sforzo);
-
controllo o consapevolezza del respiro;
-
consapevolezza (del contenuto) della mente.
Per meglio approfondire queste caratteristiche è utile constatare che
l’asana si compone di due fasi: la fase dinamica e quella statica.
La fase dinamica consiste nel progressivo avvicinamento alla posizione
che si vuole raggiungere. L’attenzione va inizialmente portata sulla
tecnica che consente l’acquisizione corretta dei movimenti, delle
impostazioni di partenza e di ritorno indispensabili ad una efficace
esecuzione. E’ quindi necessaria “l’interiorizzazione”, vale a dire la
concentrazione mentale sul corpo e in particolare su quei muscoli che
nella fase successiva – quella dell’immobilità – saranno nello stato di
stiramento, al fine di poter continuare a rilassarli. Nello stesso tempo
vanno rilassate tutte quelle parti del corpo che non sono coinvolte nella
realizzazione dell’asana, tipo i muscoli del viso che in genere riflettono lo
sforzo fisico, e vanno attivate solo le parti interessate. Va quindi portata la
concentrazione sul movimento che deve essere lento, uniforme ed in
armonia con il ritmo del respiro e la calma della mente.
30
Raggiunta la posizione, fase statica, ha inizio il lavoro di “modellazione”
che ogni asana svolge.
Va prestata innanzitutto attenzione al lavoro di allungamento dei muscoli.
Il sistema muscolare è composto dai muscoli striati e da quelli lisci. I
primi sono quelli che consentono il movimento e sono sottoposti al
controllo della volontà, quelli lisci invece circondano gli organi interni e
normalmente non si riesce a controllarli. Qui ci occupiamo dei muscoli
striati o volontari che contraendosi fanno muovere il nostro scheletro. I
movimenti volontari sono indotti da impulsi nervosi che si originano nelle
aree motorie della corteccia cerebrale, gli impulsi sono poi trasmessi lungo
il midollo spinale fino al muscolo interessato, provocandone la
contrazione. Un muscolo oltre alla proprietà di contrarsi ha anche quella di
allungarsi, la misura di questo allungamento dipende dal suo grado di
elasticità. Quando un muscolo si contrae accorcia la sua lunghezza e
aumenta di spessore nella parte centrale, noi possiamo capire se è più o
meno contratto dal grado di scioltezza dell’articolazione a cui è collegato.
Un muscolo contratto è investito da una notevole quantità di energia
nervosa e noi sappiamo che dietro alle energie nervose vi è l’energia del
prana (Pranamyakosha) che le veicola e le gestisce; poiché ognuno di noi
dispone di un potenziale di energia alla quale attingono le diverse attività
fisiche e psichiche, se parte di questa energia viene mantenuta attiva in
contrazioni inutili, non potremo disporne per altre attività.
Gli asana hanno la particolarità di riuscire a sciogliere queste contrazioni o
tensioni lavorando sull’allungamento di uno o più gruppi muscolari con lo
scopo di riportarli alla loro normale e originaria lunghezza. Generalmente
infatti accade che i muscoli rimangano contratti per via delle nostre
abitudini di vita (scarso movimento, pratica di alcune attività sportive,
etc.) oppure in conseguenza di stati di tensione psichica che si
ripercuotono a livello fisico, in primo luogo sul tono muscolare (effetto
psicosomatico). Fra l’altro, molte contratture attinenti il corpo fisico, oltre
31
ad essere a noi inconsapevoli, generano a loro volta riflessi sul piano
mentale (effetto somatopsichico). Lavorare sul corpo per rimuoverle e
acquisire scioltezza e flessibilità ha dunque anche il significato di liberarci
dei nostri “limiti” a livello mentale. Gli asana, in questo senso, e ne
parleremo più ampiamente in seguito quando analizzeremo il loro aspetto
energetico
e
mentale,
svolgono
un’opera
complessiva
di
decondizionamento perché portandoci a conoscere dove sono le nostre
limitazioni fisiche (sul collo, nelle spalle, nelle gambe, etc.) ci consentono
di liberarcene. E questo lavoro di liberazione che avviene a livello del
corpo
fisico
(annamayakosha)
si
va
a
riflettere
sulla
mente
decondizionandola a sua volta, aiutandola, in altre parole ad avere una
nuova visione della realtà, non più filtrata da vecchie abitudini e “rigidità”,
ma supportata da una coscienza più libera e capace di manifestarsi.
Avevo prima accennato al fatto che l’allungamento di un muscolo dipende
dal suo grado di elasticità e torno ora su questo concetto per aggiungere
che ogni muscolo ha un suo proprio limite di elasticità, ed è quello entro
cui si realizza il movimento nella fase dinamica dell’asana. Qualsiasi
sforzo si effettua per oltrepassare questo limite provoca nel muscolo delle
resistenze che determinano a loro volta nuove rigidità o contrazioni. Gli
asana tuttavia prevedono allungamenti oltre il limite “normale” per quel
muscolo di tendersi, ma perché questo si possa realizzare è necessario
rispettare alcune “condizioni”. In primo luogo, il muscolo deve essere
“convinto” a distendersi per evitare la sua reazione difensiva naturale, la
contrazione. Quando ad esempio realizziamo un movimento di
allungamento come in Pachimottanasana, appena si raggiunge il limite di
flessione naturale subito si avverte che i muscoli iniziano ad irrigidirsi,
allora prima che questo si verifichi bisogna adottare il metodo
dell’interiorizzazione, cioè ci si deve, con calma, compenetrare sulle fasce
muscolari che subiscono lo stiramento e tentare di persuaderle ad andare
leggermente oltre il loro limite, aiutandole ad esempio con l’espiro. Ogni
32
espirazione consentirà al muscolo di distendersi un po’ di più e di subire
un lieve allungamento. Il procedimento ora descritto prevede l’elemento
tempo. Il muscolo accetta di allungarsi se gli si concede il tempo
necessario. Va bandita dunque la fretta e il muscolo lentamente e
progressivamente cede alla trazione e alla distensione. Infine, nella fase
dell’allungamento, bisogna proteggere il muscolo da ogni movimento
brusco e quindi vanno evitate trazioni improvvise, “a scatti”, tanto più che
in questo lavoro di distensione e allungamento i muscoli risultano
maggiormente vulnerabili in quanto hanno “accantonato” la loro naturale
reazione di difesa.
Nella realizzazione di un asana, oltre alle condizioni appena descritte
necessarie per l’allungamento dei muscoli, è previsto l’intervento di tanti
elementi che, in sinergia, concorrono alla realizzazione della posizione,
quali la conoscenza del nostro corpo fisico che ci consente di concentrare
l’attenzione secondo l’anatomia attinente alla zona, utile per prevenire
infortuni e per approfondire la conoscenza della postura; un altro elemento
è lo sviluppo della consapevolezza del rispetto di sé che serve per favorire
l’ascolto e l’attenzione ai messaggi che ci provengono dal corpo quali il
fastidio, il dolore, il benessere; un allungamento doloroso oltre a causarci
un infortunio ci provocherebbe ansietà e paura e il nostro sistema nervoso
ne conserverebbe memoria frustrando i tentativi successivi di eseguire la
postura. Un altro aspetto importante nella “posizione” è la concentrazione
sul respiro, ad esempio sul suo naturale e progressivo allungamento
oppure
sulla relazione fra espiro e stiramento. Il lavoro di
interiorizzazione sul corpo permette inoltre di percepire, durante la
respirazione, le tensioni muscolari che limitano l’espansione della gabbia
toracica, del tronco e dello sterno.
Aggiungo infine che sebbene un asana sia statico, immobile per
definizione, questo non vuol dire che non si possano fare delle esecuzioni
dinamiche preparatorie prima di assumere e mantenere una posizione o
33
una serie di posizioni, con lo scopo di predisporre il corpo alla posizione
promuovendo le condizioni più favorevoli ad un’esecuzione che magari è
molto impegnativa.
La flessibilità del corpo dovrebbe andare di pari passo con la nostra
flessibilità mentale ad accogliere, soprattutto inizialmente, quegli
aggiustamenti, quegli adattamenti alla postura che guardino non tanto alla
forma finale da realizzare quanto alla “funzione” che un particolare asana
ha. In altre parole aderire rigidamente al modello astratto di un asana è
solo una questione di abitudine e di condizionamento, diversamente
l’adattamento del corpo ad una posizione, nel rispetto della sua funzione, è
un atto creativo.
Con ciò mi ricollego a quanto espresso precedentemente a proposito del
valore dell’esperienza nella pratica dello yoga, qui in particolare degli
asana, perché se si vuole raggiungere un pieno sviluppo della coscienza a
livello del corpo e dell’energia , è necessario “sperimentare” gli asana
abbandonando le abitudini fisiche, mentali (i soliti schemi di pensiero),
senza aderire passivamente a dei modelli fisici precostituiti di posizioni
bensì, nel rispetto dei propri limiti, delle condizioni , delle necessità e
attraverso il rilassamento e l’abbandono, si dovrebbe, partendo dal
modello classico proposto dall’insegnante, creare lo spazio perché il
nostro corpo con la sua consapevolezza ed intuizione viva l’esperienza di
un asana nostro, libero , non “copiato”. Attraverso il lavoro posturale
deve esserci un dialogo con il proprio corpo, una ricerca della “verità”
(Satya) e ci si deve continuamente domandare se si è “veri” con sè stessi,
se si è sviluppata comprensione circa le proprie possibilità e qual è la
capacità di accettazione dei limiti. Ogni volta che si pratica, poi, si deve
verificare la propria attitudine alla flessibilità.
Infine poche parole per sottolineare la valenza della pratica degli asana ai
fini della conservazione della salute e della prevenzione delle malattie.
Nell’Hatha Yoga Pradipika (I,17) si dice che gli Asana apportano stabilità
34
(sia fisica che mentale), salute ed un senso di leggerezza, mentre Patanjali
(Yoga Sutra, I,30) menziona
la ”malattia” quale primo ostacolo allo
sviluppo della chiarezza mentale, e dunque è importante prestare
attenzione anche a quelli che sono gli effetti fisiologici e “terapeutici”
degli asana, che operano tutti nella direzione di un generale riequilibrio
del corpo fisico nonché a vantaggio di numerosi disturbi e a favore di un
generale rafforzamento delle difese dell’organismo. Se ne beneficia , in
primo luogo, la circolazione del sangue, arteriosa e venosa; nelle diverse
“posizioni”, poi, molti organi ricevono una maggiore ossigenazione e
vengono tonificati perché il sangue va ad affluire in certe zone e defluisce
in altre, soprattutto grazie alla immobilità del corpo che permette alla
forza di gravità di esercitare la sua azione. Di essa si beneficia anche la
circolazione linfatica, soprattutto nelle posizioni capovolte oppure
nell’Aratro, che consente a questo umore composto di plasma e cellule di
scorrere nel nostro corpo più fluidamente e di svolgere in maniera più
attiva la sua funzione di difesa dell’organismo. Benefici dalle diverse
posizioni sono poi quelli che si realizzano a favore del nostro sistema
endocrino che opera in sintonia con il sistema nervoso, oppure a favore dei
vari organi e della muscolatura viscerale. Inoltre l’azione che esercitano i
piegamenti della colonna vertebrale sul nostro sistema nervoso autonomo
(simpatico e parasimpatico) è fondamentale per il buon funzionamento
degli organi che da esso sono stimolati e per mantenere tra le due parti un
equilibrio funzionale.
L’importanza del respiro negli asana
La base della pratica degli asana sta nella corretta associazione tra respiro
e movimento. Il respiro è ciò che ci collega al mondo esterno e possiamo
sintonizzarci con esso attraverso il metodo della semplice osservazione:
nell’inspiro l’aria viene verso di noi, nell’espiro l’aria va fuori del corpo e
35
questo movimento ha un suo ritmo, un ritmo che è personale e che se non
si è coscienti della propria respirazione non si può percepire.
Inizialmente è sufficiente sedersi o stendersi tranquillamente e iniziare ad
osservare il modo in cui si respira. Si possono ad esempio mettere le mani
sulla parte inferiore dell’addome per sentire che quando si inspira
l’addome si gonfia e che quando si espira l’addome si contrae. Via via
dall’ascolto della semplice respirazione addominale si può arrivare a
comprendere che esiste anche una respirazione diaframmatica che si
realizza quando, mantenendo una certa tensione nella parete addominale,
nella fase dell’inspiro il diaframma spinge verso il basso e crea un
ampliamento non solo nell’addome ma anche nella parte inferiore del
torace. Si presterà poi attenzione alla respirazione toracica, che coinvolge
soprattutto la parte superiore del torace, e a quella clavicolare che insieme
a
quella
addominale-diaframmatica
costituiscono
la
cosiddetta
“respirazione completa”, da attuarsi sempre con il controllo della cintura
addominale, cioè della zona tra l’ombelico e il pube.
Faccio
una
breve
annotazione
sulla
respirazione
addominale-
diaframmatica per dire che questa oltre ad apportare benefici fisici quali la
stimolazione della circolazione venosa e il miglioramento di quella
arteriosa, la tonificazione degli organi della cavità addominale per via del
movimento del diaframma oppure l’attivazione della peristalsi intestinale,
da un punto di vista energetico svolge un’azione decongestionante sul
plesso solare, cervello addominale vegetativo, a cui sono collegati i nostri
stati emotivi esplicando un importante effetto calmante se si è in uno stato
di ansia.
Tornando al respiro vediamo che di esso si può dire che ha una sua
“qualità” in quanto esprime lo stato interiore, sarà più calmo o più
affannato in relazione a quello che è lo stato del mentale; infatti, se ad
esempio, si vive una situazione di stress il respiro si fa più corto, più
veloce e si va a localizzare prevalentemente nella parte alta del torace e
36
inoltre questo tipo di respirazione, a sua volta, rinforzerà la tensione che
ha provocato lo stress.
Tutto ciò in altre parole vuol dire sia che lo stato della mente influenza il
respiro, sia che il respiro è capace di indurre nella mente diversi sentimenti
e stati d’animo.
Per modificare gli schemi respiratori involontari gestiti dalle nostre
emozioni più o meno inconsce, lo Yoga ci offre gli strumenti più
appropriati
consentendoci
attraverso
la
respirazione
completa
e
consapevole durante la pratica di asana di accedere direttamente alla
nostra mente.
Premessa l’importanza di una corretta respirazione, il primo passo nella
pratica di asana è quello di collegare volontariamente il respiro al corpo,
cioè di associare ogni movimento con il respiro nel momento in cui ad
esempio si assume o si scioglie un asana. Il controllo cosciente del respiro
fa sì che il movimento si sviluppi in modo armonioso e, per poter fondere
il movimento con il respiro, si deve comprendere che la durata delle
inspirazioni e delle espirazioni determina la velocità del movimento
stesso.
Inoltre è importante capire se un determinato movimento richiede di
inspirare o di espirare perché questa comprensione facilita la realizzazione
di un asana; è possibile verificare, ad esempio, che un piegamento
all’indietro come avviene in bhujangasana diventa più semplice e
completo associandoci volontariamente la fase dell’inspirazione, oppure
che un piegamento in avanti, come in uttanasana, quando le costole sono
schiacciate e l’addome è spinto in dentro, è più immediato eseguirlo nel
momento dell’espiro.
Il coordinamento del movimento con il respiro è essenziale e le regole di
base, che possono essere modificate se si vogliono ottenere particolari
effetti, consistono nell’associare l’espiro ad una contrazione del corpo e
l’inspiro ad una sua espansione.
37
In generale poi, nella pratica di asana, si può associare l’inspirazione che è
attiva alla fase di movimento o di assunzione di una posizione, mentre
l’espirazione che corrisponde al rilassamento muscolare, si può utilizzarla
nella posizione per favorire uno stato di relax o per decontrarre alcune
zone e favorire l’allungamento dei tessuti attraverso sottili aggiustamenti;
inoltre nelle tecniche di rilassamento la fase dell’espiro può servire a
suggerire una modalità di distensione a tutto il corpo.
La fase di ritenzione del respiro è possibile utilizzarla invece se si
vogliono aumentare gli effetti di una posizione: trattenere il respiro dopo
l’inspirazione intensifica gli effetti di una postura nella zona toracica e in
genere infonde energia e riscalda il corpo, trattenerlo dopo l’espirazione
intensifica gli effetti nella regione addominale e nella parte inferiore della
schiena.
Per
utilizzare
la
tecnica
della
ritenzione
è
tuttavia
preliminarmente importante esercitarsi affinché questa non ingeneri
tensione nel corpo. Per far ciò prima bisogna saper padroneggiare bene la
tecnica respiratoria (respirazione diaframmatica completa) altrimenti può
accadere che nella ritenzione, ad esempio, si tenda a trattenere un respiro
affannato che invece di calmare la mente provoca effetti contrari, quali il
rafforzamento delle cattive abitudini e inclinazioni (samskara). Se, quindi,
non si ha l’abitudine di respirare correttamente, la ritenzione fortificherà
alcuni “difetti”, così come, da un punto di vista psicologico, se uno è
arrabbiato le sue energie negative si rafforzano e il soggetto diventerà
ancora più arrabbiato.
Normalmente comunque, a meno che ciò corrisponda ad una scelta
volontaria, non bisogna trattenere il respiro nella esecuzione delle varie
posture, ma bisogna continuare a respirare.
Nella fase statica di un asana il respiro inoltre può rappresentare il più
spontaneo oggetto di concentrazione, osservarlo aiuta a diminuire il flusso
dei pensieri e quindi a controllare la mente. Nella fase dell’immobilità il
respiro dovrebbe essere lento, armonioso, con delle pause fisiologiche di
38
sospensione e questo ritmo segnala che la pratica che si sta realizzando è
stabile e confortevole. Se diversamente si sente che il respiro diventa corto
e faticoso vuol dire che si sta facendo uno sforzo eccessivo per superare
una resistenza, sia essa a livello fisico, che a quello mentale oppure
emotivo e che lo sforzo che si sta compiendo non è più “intelligente”, con
il rischio di trasformare l’asana da strumento di evoluzione a semplice
costrizione e limitazione energetica.
Un importante funzione che inoltre il respiro può svolgere nella pratica è
quella di fare da segnale, da feedback, per aiutare a comprendere quale è il
livello della propria consapevolezza, infatti, se durante la pratica, ci si
accorge che la mente si è allontanata dall’ascolto del respiro vuol dire che
non si sta realizzando un’integrazione tra corpo e mente, che non si sta
praticando yoga.
Nella fase dell’immobilità, per favorire lo sviluppo della concentrazione,
si possono adottare varie tecniche che prevedono ad esempio
l’allungamento della pausa tra l’inspiro e l’espiro e tra l’espiro e l’inspiro,
oppure è possibile, in alcune posizioni, introdurre un leggero ujjay,
occludendo parzialmente la gola e producendo un lieve suono. La tecnica
di ujjay ci consente sia di percepire che di udire il respiro e favorisce
l’ampliamento della sua lunghezza e profondità; inoltre il richiamo a
questa tecnica, da parte di un insegnante ai propri allievi, rappresenta un
invito ad entrare in contatto con il proprio respiro con l’offerta di un
supporto, di un’ancora, che non solo è semplice e predefinita nella sua
modalità di attuazione ma che ha, anche, la qualità di far approdare
naturalmente la mente del praticante a uno stato di armonia in cui è
possibile ritrovare, come nel respiro, ritmi lenti e pause.
Aspetto energetico e mentale degli asana
Swami Shivananda ha definito il prana come “la somma di tutte le energie
contenute nell’universo, e difatti il prana si manifesta quale movimento,
39
gravità, magnetismo, azione del corpo, corrente nervosa e forza del
pensiero.
Sappiamo che secondo le Upanishad l’uomo è costituito da cinque
involucri,
kosha,
che
si compenetrano
l’uno
nell’altro,
e
che
Annamayakosha è lo strato più denso, la materia laddove l’energia si è
cristallizzata,
il
corpo
fisico,
mentre
il
secondo
involucro
è
Pranamayakosha, la stratificazione pranica energetica, e che fra i due
strati vi è un legame indissolubile perché è il prana che sostiene e
mantiene la vita nel corpo fisico. Esistono poi due stratificazioni mentali,
Manomayakosha e Vijnananamayakosha e il livello pranico è quello che
fa da collegamento tra la parte mentale e quella fisica di un individuo. La
mente, nella cultura yogica, è una forma della manifestazione e come tutte
le forme “create” è insieme Coscienza (il principio maschile, statico) ed
Energia (il principio femminile, dinamico) e, poiché i vari involucri sono
in collegamento tra loro, se c’è energia perturbata nel corpo questa
trasmette disarmonia anche alla mente. Con gli Asana si lavora sul corpo
fisico e così si armonizza il corpo energetico, ma di riflesso si interviene
anche sul mentale.
Il mezzo più efficace che si ha a disposizione per rifornirsi di prana è il
respiro che consente, attraverso l’aria, di scambiare il prana interno con
quello esterno. Il naso è quindi il principale organo di “rifornimento” del
prana, da lì poi l’ossigeno passa agli alveoli polmonari e infine nel
sangue. Il prana inoltre viene assorbito dagli alimenti tramite la lingua,
oppure dall’esterno attraverso la pelle. Una volta che il prana, attraverso
gli organi di captazione, è stato introdotto nel corpo è necessario favorire
la sua circolazione e assimilazione cercando di rimuovere tutti quei fattori
che ne ostacolano il libero fluire, cioè i blocchi fisici, emotivi e mentali –
le tensioni.
Essendo il prana sotto il controllo del pensiero, è il “mentale” che può
dirigere volontariamente e consciamente l’assunzione, l’assorbimento e la
40
distribuzione di esso nel corpo umano. E questo è l’aspetto su cui si regge
la pratica del Pranayama, che in ogni caso acquista il suo pieno significato
e la sua completa efficacia attraverso il “tirocinio” di asana, che già da
solo agisce direttamente sul corpo pranico.
Come già in precedenza accennato, le energie sottili circolano nel corpo
umano lungo centinaia di migliaia di canali chiamati nadi di cui i più
importanti sono Ida, Pingala che scorrono lungo il lato sinistro e destro
della spina dorsale in corrispondenza con il ganglio nervoso simpatico ai
due lati della colonna vertebrale e la nadi centrale Sushumna che scorre
nel mezzo, in una posizione corrispondente a quella del midollo spinale.
Poi vi sono i chakra, in contatto con le nadi, che consistono in dei punti
situati lungo la colonna vertebrale, in cui il corpo psichico s’integra con
quello energetico, cioè nei chakra (centri di energia vitale) avviene che le
energie psichiche (mentali) cambino piano di manifestazione, che si
spostino nel piano del corpo pranico. I chakra sono dunque allo stesso
tempo dei centri di coscienza e di energia. Attraverso gli esercizi di asana
e pranayama è possibile modificare la circolazione del prana lungo le nadi
e nei chakra ma l’elemento dinamico fondamentale rimane il” mentale”,
da qui l’importanza di svolgere queste pratiche con la “concentrazione”.
La concentrazione della mente sul corpo difatti è la chiave che consente il
controllo dell’energia, come il sangue circola nell’organismo così lo Yoga
insegna che la mente può venire fatta circolare consciamente in tutto il
corpo, e come il sangue è il veicolo dell’ossigeno, la mente è il veicolo del
prana. Difatti secondo un assioma yogico,
lì dove va il pensiero , la
coscienza, lì va l’energia.
Parlando del respiro si è osservato in precedenza, che lo stato della mente
influenza il respiro e viceversa, quindi per poter agire sul prana è
necessario intervenire sulla mente e sul respiro. Percepire il respiro
significa percepire l’energia o prana che scorre nel corpo. Quando la
mente è tranquilla e cioè non vi albergano sensazioni di paura, di
41
scontentezza, di indecisione il respiro è lento e calmo e, per mezzo
dell’introspezione, si riesce ad entrare in relazione con le forze energetiche
sottili che si muovono attraverso il corpo. Riuscire a percepirle vuol dire
iniziare a controllarle e disciplinarle per riuscire poi ad avere la perfetta
padronanza di se stessi. Ma se nella mente, nella coscienza o nel corpo ci
sono dei “blocchi” si deve cercare di rimuoverli cercando, come primo
passo, di acquisire e/o acuire la consapevolezza del respiro. Concentrando
su di esso l’attenzione, seguendo il suo ritmo, pian piano si noterà che la
mente diviene il respiro stesso: in questo modo, indirettamente, si sarà
agito anche sul prana che, alla presenza di una mente resa chiara dal
movimento lento del respiro, potrà fluire dentro e fuori di noi più
liberamente.
La mente generalmente dirige la sua attenzione facendosi manovrare dai
propri condizionamenti, dalle tendenze latenti (samskara), cioè dalle
abitudini che sono state contratte nel tempo e che condizionano il
comportamento attuale a ripetersi, quasi coattivamente, sempre con le
stesse modalità.
Con la pratica degli asana, posture codificate nel tempo, si va a
decondizionare il proprio comportamento, in primo luogo quello legato al
corpo fisico: i gesti che si eseguono nelle posizioni sono “nuovi” e non
determinati dalle antiche abitudini, laddove dovesse, in ogni caso,
intervenire la tendenza meccanica alla ripetizione di un movimento
l’attenzione concentrata lo rileverà e ricercherà una modalità diversa per
realizzarlo: si può ad esempio eseguire una postura laterale iniziando dal
lato opposto a quello che automaticamente si sarebbe portati a scegliere,
anche il proprio programma di “pratica”, cioè la scelta delle posture da
effettuare, si dovrebbe cercare continuamente di variarlo in base a quelli
che sono gli obiettivi che via via ci si pongono, inserendoci quelle
posizioni che, in quel momento, si sente che apportano maggiori benefici.
Si può poi ricorrere all’uso di semplici tecniche, quali l’introduzione di
42
una breve pausa – o spazio – alla fine di ciascun movimento, all’interno di
un asana, per favorire sia la consapevolezza degli effetti del lavoro sul
corpo che la propensione alla concentrazione e all’autoanalisi.
Nella pratica degli asana il lavoro consiste, in primo luogo, nel cercare di
ridurre l’invadenza del proprio ego e, se si parte dall’idea che nel corpo la
prima affermazione dell’ego si realizza con una contrazione muscolare, il
lavoro di destrutturazione egoica sarà naturalmente lento. Esso agirà sul
corpo fisico inizialmente attraverso il rilassamento muscolare, ma sarà
solo dando il tempo, nell’immobilità, all’ asana di agire che il proprio “io”
più nascosto e profondo inizierà a sviluppare un’attitudine alla flessibilità,
all’espansione, alla libertà fino a superare i confini del corpo, resi
consapevoli dalla pratica, e a collegarsi, nel momento presente, con
l’intero universo. Patanjali circa gli effetti della pratica di asana ci ricorda,
infatti, che solo quando si saranno aboliti i confini del proprio ego ci si
potrà aprire verso l’infinito (Yoga Sutra II,47).
Appare allora chiaro che gli asana oltre a realizzare il decondizionamento
della struttura fisica liberano contemporaneamente la coscienza che, non
sentendosi più imprigionata nelle antiche abitudini fisiche, che
corrispondono a delle abitudini mentali, ha modo di sperimentarsi in
nuove possibilità espressive (fisiche-coscienziali). Attraverso la pratica di
asana ci si apre a nuove interpretazioni della vita, si rende il mondo
duttile, si offre alla coscienza la possibilità di espandersi, di uscire dai
limiti individuali per andare a congiungersi con la Coscienza, l’Energia
cosmica. La conoscenza da strumento di protezione dell’individuo si
trasforma in strumento di coscienza, di gioia e l’intelligenza diviene libera
dalle ragionevoli prudenze del mondo, finalmente creativa, cioè capace di
generare forme e visioni nuove, fuori dagli stereotipi posturali e mentali.
Concludendo la riflessione sugli aspetti energetici e mentali degli asana si
può infine
sottolineare che ogni posizione svolge una sua peculiare
funzione e direziona il flusso di prana secondo il principio che lo sottende,
43
ad esempio in pachimottanasana il respiro, e quindi l’energia, scorre
prevalentemente nella parte posteriore del corpo lungo la spina dorsale,
mentre in ustrasana fluisce in tutta la parte anteriore poiché nel
movimento il torace si apre.
Quale suggerimento da dare nel corso della pratica di asana per favorire lo
scorrimento dell’energia verso la nadi centrale, allo scopo di attivare
energie mentali e spirituali, vi è quello di fare ricorso, quale tecnica, alla
creazione dell’immagine mentale che vede il prana affluire verso la
colonna vertebrale: dirigendo l’energia in Sushumna il praticante
acquisisce il dominio cosciente del prana e dei chakra e con il suo
passaggio vi risveglia delle forze psichiche sottili.
In relazione alla tecnica cui si è appena accennato è importante aggiungere
alcune note che meglio chiariscono la natura e la validità della stessa.
Come premessa occorre precisare che il linguaggio della mente è
l’immagine, non la parola. L’immagine è in particolare il linguaggio
primitivo di quella parte del cervello che è l’ipotalamo su cui, nel corso
dell’evoluzione, si sono sviluppate altre stratificazioni quali la corteccia,
che invece comprende bene il linguaggio razionale. Utilizzando quale
tecnica la creazione volontaria di immagini nella mente si favorisce la
realizzazione delle stesse perché il nostro cervello le recepisce come dei
piani d’azione da eseguire. Rapportato questo meccanismo alla pratica di
asana si tratterà, ad esempio di far precedere l’esecuzione di una posizione
da una sua “visualizzazione”: si invia alla mente l’immagine del corpo che
esegue l’asana con facilità e scioltezza e quando poi si passa
concretamente ad eseguirla sarà la mente, da sola, che si attiverà per
tradurre nel miglior modo il “programma operativo” che le è stato
impostato e che ricercherà le modalità per superare le resistenze e le
“durezze” del corpo. Tutto ciò prevede chiaramente l’intervento
dell’elemento “tempo”, cioè sarà soprattutto nella fase dell’immobilità che
44
pian piano l’asana potrà emergere mentre si potrà guidare il pensiero nelle
varie parti del corpo, accompagnando mentalmente il respiro con l’OM.
A livello mentale gli effetti della pratica di asana si riveleranno, anche
nella vita ordinaria, attraverso una maggiore fermezza e solidità nonchè
una nuova padronanza. La mente attraverso il rilassamento, la
concentrazione e le frequenze respiratorie diverse lentamente si depura e
riporta in superficie tutto il condizionamento subcosciente rendendo
l’individuo più consapevole di sé stesso.
45
INSEGNAMENTO DELLO YOGA, OSSERVAZIONI, ELEMENTI
DI
PEDAGOGIA,
DI
PROGRAMMAZIONE
E
DI
METODOLOGIA DIDATTICA
Introduzione
L'insegnante di yoga è indissolubilmente legato a ciò che insegna e questo
non può essere lasciato al caso. Quello che insegna deve auspicatamente
passare al vaglio del giudizio e dell'intelletto ed entrare nella
consapevolezza insegnante prima che in quella degli allievi.
Per questo prima di attuare l'insegnamento è utile ricorrere a tutta una
serie di riflessioni, di iniziative e di tecniche di programmazione
collaudate che tengano conto di variabili importanti, pertinenti la persona
e/o il gruppo a cui si riferiscono.
A questo scopo presenterò qui di seguito, in sintesi, alcune precisazioni
metodologiche-didattiche inerenti il processo formativo e descrizioni
riguardanti i passaggi più importanti della programmazione.
Alla variegata umanità che si presenta nei corsi di yoga, che cosa può
proporre e come può proporsi un insegnante coerente con i principi della
disciplina?
Dall'esperienza e dalla ricerca pedagogica si possono enucleare
osservazioni, principi ed insegnamenti utili al caso.
Dal momento che oggi, prioritariamente, si tende ad insegnare nei gruppi,
si possono innanzitutto distinguere:
1) le iniziative dell'insegnante che precedono la formazione del gruppo;
2) le iniziative che seguono, quando il gruppo è formato.
1) Le iniziative dell'insegnante che precedono la formazione del
gruppo
Proporre un corso di yoga corrisponde all'offerta di un servizio le cui
caratteristiche devono essere chiare e leggibili ai potenziali fruitori già
46
nella fase iniziale e informativa, quella finalizzata alla pubblicizzazione
del corso.
Già da quel momento deve essere reso dunque esplicito:
- a chi si rivolge;
- che cosa offre nello specifico;
- con quale calendario, impegnativa oraria ed economica di svolgimento;
- e dando ogni altra informazione utile ad orientare la persona.
2) Le iniziative che seguono quando il gruppo è formato: la
programmazione.
Per programmare occorre :
• Avere consapevolezza della valenza formativa della propria disciplina;
• Avere chiarezza delle finalità del proprio progetto formativo;
• Avere padronanza della struttura disciplinare, per coglierne i nodi
concettuali e per poterla rappresentare in mappe concettuali che ne
evidenzino le connessioni;
• Saper scomporre la disciplina in moduli didattici significativi;
• Avere capacità di individuare, ricercare ed organizzare gli strumenti
educativi.
E’ inoltre utile che in ogni segmento formativo, non importa se inserito in
un corso breve, medio o di lungo periodo, l'insegnante si sottoponga al
vaglio di alcune variabili fisse utili all'analisi e alla comprensione di
quello che andrà ad insegnare, così da rendere più funzionale il suo agire.
Gli elementi di vaglio sono:
2.1) l’analisi della situazione (sulla base della valutazione dei dati
conoscitivi precedentemente raccolti);
2.2) la scelta degli obiettivi;
2.3) la scelta dei contenuti;
2.4) la scelta dei metodi;
47
2.5) la scelta dei mezzi e degli ausilii utili all’attività didattica;
2.6) le forme di valutazione (feedback): ricorrenti, intermedie e finali.
Queste variabili sono ripetitive e trasferibili e possono essere riferite sia
alla singola seduta come all'intero anno di corso.
Così, ad esempio, se vengono fissati i grandi obiettivi a cui tendere con un
corso di lungo periodo, parallelamente si possono fissare i piccoli obiettivi
di breve corso a cui mirare all'interno della singola seduta.
Il processo formativo
Il processo di apprendimento può essere rappresentato come un
movimento a spirale con un inizio, ma senza una fine.
Ogni segmento circolare costituisce una parte del processo formativo e
laddove c'è un punto di arrivo (cioè sono stati costruiti i prerequisiti) si
riavvia un punto di partenza.
48
Il segmento formativo
Il segmento formativo, compresa la sua programmazione, può essere
rappresentato, come sopra, alla stregua di un breve tratto circolare, parte
della grande spirale. Esso indica, nel suo piccolo, un processo di
apprendimento progressivo che continua e dura tutta la vita. Questo
segmento può essere assimilato ad un corso di yoga che può durare più o
meno a lungo, a seconda delle situazioni, in subordine alla volontà di chi
frequenta e della disponibilità di chi insegna. Di questo processo
indicherò, qui di seguito, tutte le sue variabili, ossia tutti quei punti di
attenzione a cui l'insegnante dovrebbe subordinare il suo agire e il suo
essere "maestro".
Il momento della programmazione formativa può essere inoltre
rappresentato come un processo circolare con un punto di inizio e un
punto di arrivo: la fine di un ciclo formativo fornisce i prerequisiti per
l'inizio di un altro.
analisi della situazione
obiettivi
contenuti
metodi
mezzi
feedback finale
feedback intermedio
feedback ricorrente
Durante la vita di un corso, i dati conoscitivi che scaturiscono dalla
valutazione ricorrente, intermedia e finale serviranno ciascuno per poter
49
programmare o riprogrammare rispettivamente la continuazione del corso in
itinere, nella sua fase intermedia o in quella finale.
Vediamo qui di seguito, uno per uno, gli elementi di vaglio che
caratterizzano il farsi della programmazione.
2.1) Analisi della situazione: raccolta e valutazione degli elementi
conoscitivi utili ad organizzare la pratica
Solo quando il gruppo è formato, anche se ancora in forma provvisoria, è
possibile procedere alla ricerca degli elementi conoscitivi che riguardano i
singoli: la loro specifica condizione ( es. età, stato di salute o di malattia ),
le loro motivazioni e aspettative, i prerequisiti che li caratterizzano, e così
via..
Possiamo definire questa prima fase come "analisi della situazione" . Essa
è finalizzata alla conoscenza del gruppo attraverso le singole persone che lo
formano.
Nel caso invece ci si riferisca a corsisti "storici" o a gruppi già collaudati
che continuano nel tempo, i dati conoscitivi delle singole persone, necessari
per riprogrammare l'intervento formativo che segue, saranno già disponibili
in conseguenza dell'osservazione e valutazione ricorrente, intermedia e
finale attuata via via nelle attività formative che li hanno caratterizzati.
Quello che importa è che l'analisi della situazione ci sia (hic et nunc), che
appoggi su dati certi, il più possibile oggettivi e non presunti, cosicché il
percorso formativo possa essere programmato o riprogrammato nella
continuità per rispondere al meglio alle aspettative, ai prerequisiti presenti
ed alle potenzialità evolutive delle persone coinvolte.
L’analisi della situazione crea il quadro conoscitivo necessario per poter
procedere all’analisi ed alla scelta degli obiettivi.
50
2.2) Gli obiettivi
Un insegnante deve essere in grado di formulare obiettivi educativi
pertinenti, valutabili e realizzabili
Quando si agisce, solitamente, lo si fa con uno scopo, per determinare un
risultato o per raggiungere una meta abbastanza chiara.
Ciò avviene anche con l’attività di insegnamento.
Gli obiettivi dell'insegnante che agisce collimano di solito con quelli della
disciplina che insegna e, nel nostro caso, parlando di yoga coincidono con
gli obiettivi indicati dai testi classici di riferimento.
Ogni singola situazione di insegnamento-apprendimento - anche quando è
caratterizzata da obiettivi ricorrenti di breve periodo - dovrà quindi essere
armonizzata agli obiettivi generali della disciplina e a questi dovranno pure
conformarsi anche gli obiettivi intermedi - che riguardano un periodo più
lungo - e quelli finali che possono collimare, ad esempio, con il ciclo
annuale del corso. Dico "finali" in senso relativo, dal momento che là dove
si chiude un ciclo se ne apre e riavvia un altro.
2.3) I contenuti
Fissati gli obiettivi ricorrenti, intermedi e finali da perseguire, è necessario
guardare ai contenuti, ai metodi ed ai mezzi con cui operare per realizzarli.
I contenuti che vengono veicolati con le attività dell’insegnamento, via via
nei diversi segmenti formativi, si diversificano in conseguenza di variabili
diverse.
Essi cambiano in subordine:
- alla particolare personalità e formazione ricevuta dall’insegnante ;
- alle peculiari scuole di yoga di riferimento e dei relativi Guru ;
- allo specifico segmento formativo collocato all’interno del processo
educativo, di breve, medio o lungo periodo, al tema che si sta trattando nel
contingente ed allo specifico livello con cui è concesso di approfondirlo
guardando ai prerequisiti degli allievi fruitori;
51
2.4) I metodi
L’espressione “metodi didattici”deriva dal greco méthodos ossia “via che
conduce.. strada attraverso cui..” e
indica le modalità che facilitano
l’acquisizione significativa, stabile e fruibile dei contenuti proposti
dall’azione di insegnamento. Essi solitamente consistono in una sequenza
di istruzioni scritte per eseguire una determinata azione, eventualmente
sulla base di un insieme di parametri, e in grado di restituire al programma
chiamante un valore di ritorno (o di output) di un determinato tipo.
Messi a punto e affinati gli strumenti che permettono di entrare e di
procedere nella selva ermeneutica (dal greco ερµηνευτική [τέχνη] - [l'arte
del] interpretazione, traduzione, chiarimento e spiegazione), il metodo è
una traccia, un sentiero che va prescelto e seguito in modo preciso, dando
conto delle difficoltà e degli ostacoli che si trovano sul percorso. Il metodo
è, quindi, un percorso o itinerario da seguire per ottenere risultati validi e
affidabili in un qualsiasi settore dello studio o dell’azione didattica. Non si
confonda qui il metodo didattico con la metodologia. La metodologia è
infatti la “riflessione sul metodo”.
E’ ormai convinzione consolidata che, nell’insegnamento, non si possa
parlare di un metodo capace di imporsi come “il metodo migliore”; gli
insegnanti hanno a disposizione una molteplicità di metodi didattici, che
vanno intesi un po’ come gli “attrezzi” del proprio repertorio professionale,
tra i quali scegliere, a seconda non solo dei propri convincimenti didattici,
ma anche delle condizioni di contesto e del tipo di obiettivi che si intende
perseguire.
La varietà dei metodi di insegnamento viene spesso riportata a tentativi di
classificazione, che forniscono un repertorio organizzato entro il quale
operare le proprie scelte.
Un esempio:
METODO DIRETTIVO O FUNZIONALE ( centralità della funzione guida
52
dell’insegnante,
programma
prestrutturato,
rigido,
finalizzato
prevalentemente all’adddestramento);
METODO NON DIRETTIVO (centrato sulla motivazione ad apprendere,
finalizzato all’autorealizzazione del soggetto; attento alla qualità della
relazione interpersonale /empatia, accettazione incondizionata, fiducia.../
[Rogers]);
METODO SKINNERIANO (prende il nome dal suo ideatore B.F.Skinner
psicologo e scrittore: teoria del condizionamento operante [importanza del
rinforzo], istruzione programmata, macchine per insegnare, etc.) ;
METODO
DI
ANIMAZIONE
/
GROUPWORK/
(processi
di
apprendimento centrati sul gruppo; gruppi di discussione; gruppi di lavoro;
T group, etc [ Lewin, Moreno] );
TEAM TEACHING
(insegnamento a squadre o gruppi di docenti; i
docenti interagiscono, integrano le loro competenze);
MASTERY LEARNING (attenzione a favorire il raggiungimento della
“padronanza” e il “rinforzo” dovuto al successo; programmazione di
strategie individualizzate e di formulazione di obiettivi specifici);
P. Goguelin (1987), noto psicologo, ad esempio, classifica i metodi nel
seguente modo:
METODI AFFERMATIVI. Il formatore è detentore della ‘verità’, chiede
all’allievo di eseguire, di imitare; l’allievo è ‘carta assorbente’, le sue
prestazioni vanno rafforzate al termine della prestazione;
METODI INTERROGATIVI.
Il formatore ricorre alla “maieutica”,
sviluppa un dialogo profondo; le domande seguono un ordine che si
sviluppa in una serie di tappe; l’allievo è guidato dal ragionamento;
METODI ATTIVI. L’allievo apprende solo attraverso la propria attività,
scopre in maniera autonoma, è posto di fronte al problema visto nella sua
interezza e complessità; il formatore fornisce consulenza, aiuto durante il
processo di apprendimento;
53
METODI PERMISSIVI. Il formatore non interviene direttamente, ma mette
a disposizione materiali ( es.libri, dispense, cassette, cd, dvd. ecc).
Quelli riportati non sono gli unici esempi, ma sono sufficienti ad
esemplificare la varietà dei metodi disponibili.
Per concludere c’è inoltre una certa confusione nell’utilizzo di espressioni
quali “metodi”, “tecniche”, “strategie”, per cui può essere utile una
distinzione convenzionale, come quella proposta di seguito:
a) le strategie riguardano l’orientamento complessivo che l’insegnante
assume in quanto facilitatore dei processi di apprendimento;
b) i metodi , come abbiamo visto, riguardano l’insieme di procedure che
l’insegnante attiva nella realizzazione delle singole unità didattiche che ha
progettato;
c) le tecniche riguardano aspetti specifici, finalizzati alla realizzazione di
particolari momenti dell’azione didattica, richiesti dal progetto che si sta
realizzando e collocati all’interno del metodo che si sta utilizzando.
All’interno di ogni metodo didattico è possibile rintracciare riferimenti alle
tecniche didattiche che rappresentano l’aspetto più “tattico” dell’azione
didattica e non sono esclusive di un metodo piuttosto che di un altro.
Quanto detto non deve portar a concludere che i diversi metodi siano
equivalenti e che sia indifferente adottarne l’uno o l’altro, ma va colta la
loro diversa funzionalità in relazione agli obiettivi che si intendono
perseguire ed anche all’idea di scuola nella quale si crede.
Bisogna, inoltre, saper utilizzare i metodi in modo corretto, proprio in
quanto “strumenti” dell’insegnamento, “utensili particolari” che, come
tutti gli ausilii, se usati male non garantiscono buoni risultati.
Ma in base a cosa possiamo dire che un metodo didattico è utilizzato bene?
La domanda introduce un impegnativo campo di riflessione e di ricerca, che
può contare già su un importante patrimonio di conoscenze, ma che rimane
ancora ampiamente da esplorare.
54
Posso qui fissare alcuni punti ritenuti ampiamente condivisi.
a) - L’idea di significatività (Ausubel)
L’apprendimento si può classificare secondo due diverse qualificazioni:
meccanico o significativo.
L’apprendimento
dell’apprendimento
meccanico
sono
si
verifica
semplicemente
quando
i
contenuti
memorizzati
o
diventano
automatismi, routine, ma senza che vi sia una personale elaborazione da
parte dell’alunno.
Al contrario, l’apprendimento è significativo quando l’alunno fa propri i
nuovi contenuti di apprendimento attraverso un personale lavoro cognitivo
che consiste nella rielaborazione dei nuovi dati e nella ristrutturazione della
propria “matrice cognitiva”, cioè dei propri schemi o concetti consolidati,
frutto di apprendimenti precedenti.
b) - L’idea di “comunicazione”
Esaminiamo la seguente definizione: “la relazione comunicativa è efficace
se vi è una cooperazione attiva dei partecipanti alla elaborazione dei
significati da attribuire ad un’esperienza ai vari livelli cognitivi, di
realizzazione personale e di costruzione dei rapporti interpersonali”.
(Compagnoni, 1983, psicologo).
Le condizioni perché vi sia una buona comunicazione didattica sono:
a) la chiarezza: riguarda la presentazione del contenuto;
b) la continuità tematica: riguarda la necessità di mantenere attenzione allo
stesso tema per un tempo sufficiente a consentirne l’esplorazione;
c) l’impegno comunicativo: riguarda il processo matetico o di mediazione;
d) il clima relazionale disteso: riguarda la qualità emotiva del clima
relazionale;
e) la circolarità: riguarda il grado di partecipazione.
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c) - L’idea di mediazione
L’insegnante, nel processo di comunicazione didattica, impiega varie forme
di mediazione. Per mediazione intendiamo l’azione di facilitazione nel
passaggio dall’oggetto di conoscenza al soggetto conoscente. I diversi
metodi di insegnamento ricorrono in modo diverso all’utilizzo dei
mediatori; possiamo ipotizzare che la varietà dei mediatori utilizzati
rappresenti un elemento di qualità importante, anche in funzione dei diversi
stili di apprendimento degli alunni e della pluralità delle loro “intelligenze”.
2.5) I mezzi didattici
Nell’attività di insegnamento si ricorre di solito a strumenti e mezzi diversi
scegliendoli con attenzione tra quelli che si rivelano utili a raggiungere lo
scopo e che portano a realizzare gli obiettivi preposti.
Nello specifico dell’insegnamento dello yoga la tradizione classica vuole
che lo strumento base sia l’insegnante, la sua parola, il suo esempio, la sua
empatia, la sua capacità di mediare lo spirito e il messaggio profondo delle
Scritture sapienzali.
Tuttavia altri strumenti possono integrare la centralità di questa figura,
soprattutto oggi che il rapporto non è più esclusivo tra l’insegnante e un
unico allievo, ma piuttosto tra l’insegnante e i singoli componenti, magari,
di diversi gruppi.
Per integrare l’attività insegnante, sia nel rapporto diretto che in quello a
distanza, ecco allora una serie di strumenti utili e di cui servirsi, in
subordine alle evenienze ed alle necessità del caso: fotocopie di materiali
dattiloscritti, dispense, libri di testo, manuali, carte murali e cartelloni,
lucidi per lavagna luminosa, utilizzo di strumenti multimediali e
tradizionali e così via.
56
2.6) Le verifiche
Per concludere la riflessione sugli elementi di vaglio che sarebbe utile
caratterizzassero la programmazione delle attività di insegnamento, torno a
sottolineare l’importanza delle verifiche. Data la programmazione delle
attività da svolgere nei corsi, finalizzate al raggiungimento degli obiettivi
chiariti, si ribadisce l’importanza delle verifiche ricorrenti, intermedie e
finali da inserire nel contesto formativo, necessarie queste ultime sia per
rendersi conto dei livelli di avvicinamento a ciò che si è proposto come
obiettivo finale o intermedio, oltre che a realizzare il quadro conoscitivo
necessario per poter riprogrammare, con dati certi, il ciclo successivo
quando il corso prosegua.
* * * * *
Sempre con riferimento alla metodologia didattica,
agli apporti
dell’insegnamento finalizzato a proporre in progressione
stimoli
educativi adatti, sperimentabili, idonei ad affinare la consapevolezza,
indico qui di seguito altri spunti di riflessione:
___L’insegnante deve concentrare tutti i suoi sforzi sulla formazione delle
persone che dovranno, con lui e poi magari senza di lui, continuare a
camminare sulla via dello yoga con disciplina e serietà. Tutto questo sarà
agevolato da una pedagogia pazientemente progressiva e da un rapporto
umano auspicatamente empatico.
___L’insegnamento, per sua natura, richiede una pedagogia paziente. Gesù,
impareggiabile maestro, non ha dato il suo insegnamento tutto d’un colpo.
Ha, giorno per giorno, studiato i suoi ascoltatori, e dosato le sue parole sulla
57
capacità progressiva di riceverle. Il percorso evolutivo dell’uomo richiede
tempi lunghi. L’uomo nasce in meditazione, in uno stato di non-mente,
avvolto nell’innocenza, nella beatitudine, nel silenzio straordinario proprio
della dimensione del bambino, con un pensiero ancora privo di desideri di
calcoli e progetti e con una spinta all’azione limitata alla pura
sopravvivenza. Solo in seguito apprende la via della mente, viene iniziato
agli schemi della società, gli insegnano a pensare, come fare i calcoli, come
ragionare, discutere, gli vengono passate le parole, il linguaggio, i concetti,
cosicché, pian piano, perde il contatto con la sua innocenza, si corrompe,
fino a diventare un meccanismo efficiente. Il processo di “civilizzazione”
diminuisce, non di poco, la sua umanità e gli toglie risorse essenziali per la
comprensione della sua natura e del suo destino. L’uomo perde così il suo
stato naturale di meditazione, di non-mente, di non pensiero e viene
oppresso continuamente da pensieri carichi di bisogni, desideri e progetti
tutti gravidi di spinte all’azione. Quello stato naturale che ogni uomo ha
già sperimentato e “dimenticato” può essere riportato in luce prendendo il
tempo necessario e, come si diceva, con una pedagogia molto attenta; si
tratta di invitare a fermarsi, per iniziare a scavare, per cercare un tesoro in
un luogo profondo. Nelle profondità dell’uomo permane la sua vera natura
resa irriconoscibile dalle fluttuazioni del pensiero condizionato, come si sa,
dal sociale e dall’educazione, come uno specchio che non può più riflettere
per la polvere stratificatasi nel tempo. La vera natura dell’umano, come una
sorgente sotterranea pronta a scaturire e a brillare appena si creano le
adatte condizioni, può così iniziare a rivelarsi ed emergere come succede ad
esempio attraverso gli asana e le altre pratiche yoga utili alla conoscenza e
al controllo della mente. Questa sorgente per trovare la sua via , per poter
riscaturire, ha bisogno quasi sempre di una pedagogia paziente, richiede la
presenza di un maestro che, giorno dopo giorno, approfondisca il rapporto
con le persone che chiedono luce; ha bisogno di una guida che cerchi le
58
parole e gli esempi adatti, dosati sulle capacità progressive di chi si dispone
a ricevere.
___ Studi e ricerche sull’apprendimento dimostrano che negli individui
esistono, oltre le diversità individuali, una fondamentale unità dei metodi di
apprendere. Dal momento che il processo di insegnamento, come quello di
apprendimento, dà vita a un fenomeno psicologico-comportamentale con
leggi osservabili e ricostruibili, non c’è motivo per cui ci si discosti
forzatamente dallo scibile pedagogico fin qui storicamente elaborato,
sperimentato ed accreditato.
Per programmare
apprendimenti “significativi”
fondati sull’esperienza
della pedagogia accreditata, espongo qui di seguito altre considerazioni utili
alla riflessione sul ruolo insegnante.
Bisogna considerare che la trasmissione della cultura, del sapere e del saper
fare, quando non parte dagli interessi e dalle forze vive della persona, è
destinata ad essere niente altro che un condizionamento o un addestramento
superficiale.
La psicologia e la pedagogia tradizionale hanno creduto che il
comportamento fosse provocato dallo stimolo. Questa concezione sta alla
base della “lezione” intesa tradizionalmente, presentata appunto come
stimolo dal quale ci si aspetta susciti l’attività intellettuale e le abilità
desiderate.
Ora la psicologia contemporanea ci ricorda che a provocare il
comportamento non è solo lo stimolo, ma anche l’interesse. L’individuo, di
norma, persegue infatti obiettivi che sono spesso di lungo raggio, degli
scopi di ampio respiro, e non solo la sparizione del singolo bisogno; ad
esempio è vero che l’uomo affamato desidera pane o cibo nell’immediato,
ma se allarghiamo l’osservazione possiamo constatare che, oltre a questo,
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esso tende ad assicurarsi e a migliorare la continuità, la sicurezza e la
qualità del suo regime alimentare nel tempo.
Da un punto di vista psicologico, pertanto, è più l’interesse che non il
bisogno a determinare il comportamento. Possiamo così definire l’interesse
come la cosa in grado di soddisfare il bisogno di una determinata persona
in un determinato momento: l’interesse esprime cioè un rapporto di
convivenza tra il soggetto e l’oggetto che lo attrae nel contingente, questo
però non lo esaurisce ed esso continua perciò a permanere nel tempo.
E’ anche vero che non c’è interesse senza bisogno e di tutti i bisogni
dell’uomo, fisiologici, sociali e spirituali, un posto importante e ricco di
possibilità va riservato a quello di conoscere.
La curiosità è una delle manifestazioni più importanti dell’intera crescita
mentale e sta alla base di tutti gli interessi che a poco a poco costituiscono
la ricchezza dell’individuo. La sua particolarità è che la si alimenta dandole
soddisfazione, saziandola, perché ogni risposta permette di aggiungere una
nuova curiosità, vale a dire un nuovo interesse.
Questi dati ci orientano ad un’organizzazione dell’insegnamento che non
uccida sul nascere la dinamica propria del processo psicologico, onde
evitare la casualità o peggio la pedagogia dogmatica, cattedratica, priva di
un valido e funzionale fondamento.
Poiché l’apprendimento è un insieme di operatività regolata dalla memoria
e dalle intenzioni, l’una non esiste senza le altre e viceversa e tutte si
limitano o valorizzano reciprocamente. Esempio:
• Non si può ripetere una risposta non memorizzata;
• Non si memorizza a fondo una risposta non motivata;
• Non ci si motiva ad una risposta che non sia in qualche modo appresa.
Il senso dello stretto rapporto che esiste tra operatività-memorizzazioneintenzione è stato colto e ben espresso dal neobehaviorista Skinner ( 19041990 noto psicologo e scrittore statunitense) che da esso ha tratto la sua
legge del “rinforzo in apprendimento”. Secondo questa legge qualsiasi
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risposta positiva dell’individuo nei confronti dell’ambiente tende ad
aumentare la sua possibilità di ripresentarsi (di ripetersi) in modo
preferenziale (tende cioè a motivare un comportamento) anche se tale
risposta è stata resa positiva da contingenze artificiali, come succede ad
esempio con le attività di apprendimento programmate.
Le origini degli apprendimenti possono essere a volte cieche, meccaniche,
talvolta occasionali, ma appena si cominciano a constatare dei risultati
positivi si strumentalizza il comportamento, ossia il processo intenzionale
aumenta, al fine di ottenere risultati sempre migliori.
Il tipo di comportamento osservato da Skinner, anche su animali, oltre che
operativo è detto anche strumentale, nel senso che l’animale esibisce una
risposta-strumento al fine di ottenere risultati desiderati.
___L’insegnamento esige che si osservino le persone a cui è rivolto per
poter capire, di ognuno, quali sono i prerequisiti esistenti, che cosa si può
offrire loro sul lungo o medio periodo, guardando anche ai bisogni più
urgenti da soddisfare. Tra questi, parlando di sedute yoga, non si può
dimenticare che quando le persone approdano sul tappetino sono stanche
per aver fatto molto altro, per essersi investite in molteplici attività
rispondenti agli impegni della loro vita. Ecco allora che ai grandi obiettivi
bisogna contemperare la normale umanità.
___L’insegnante non è l’attore che intrattiene e incentiva il gonfiarsi di
folle di postulanti quanto piuttosto la persona che si spende onestamente in
un insegnamento rispettoso di tutti fondamenti della disciplina che insegna.
Siamo consapevoli che la serietà e la disciplina non è di gran richiamo per
le masse, che le allontana, ma se il dovere è quello di insegnare allora
necessita attenersi al proprio dovere e al proprio ruolo. Quanto agli allievi,
talvolta li si porta all’’entusiasmo descrivendo loro le scoperte meravigliose
dello yoga e immediatamente dopo li si immerge nella “delusione”
impegnativa e dolorosa del lavoro, della disciplina, della fatica, della
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ripetizione, dei fallimenti e delle rivincite, della presa di coscienza di limiti
soggettivi e delle vittorie. E’ dura, ma è solo cosi che li si conduce per
mano nel mistero della nostra essenza.
___La pratica della disciplina dà la possibilità di sperimentare i molteplici
significati impliciti nella parola yoga. Immaginando la ricerca yogica come
un movimento in salita, da un piano di minor consapevolezza ad uno
maggiore, ogni singolo apporto (si tratti di asana, pranayama, meditazione,
dello studio o dei semplici atti che caratterizzano le attività di tutti i giorni)
quando il tutto viene vissuto e legato insieme con uno spirito di
integrazione, ogni momento permette di sperimentare ed intuire il senso di
unione che lega le cose tra loro rivelandone l’origine impermanente;
___In tutte le pratiche bisogna via via fare uno sforzo progresssivo per
accrescere il livello attentivo. Si tratta di portare e mantenere il più
possibile l’attenzione sul corpo, sul respiro e sulla mente, compresi i sensi
che sono inclusi nella stessa dinamica mentale. Benché sembri teoricamente
possibile che il corpo, il respiro e la mente funzionino in modo
indipendente questo non è vero e scopo dello yoga è quello di armonizzarliunificarli. Accade che gli allievi durante la pratica, soprattutto agli inizi,
tendano a guardare e a dare importanza più che altro all’aspetto fisico e si
preoccupino della flessibilità e della scioltezza fisica, del numero di asana
che riescono a praticare o di quanti minuti riescono a stare in una
determinata posizione. Tutte cose esteriori. E’abbastanza raro che essi
diano subito attenzione ed importanza al respiro, al modo con cui avviene,
al suo coordinamento con i movimenti del corpo, ed è ancora più insolito
che essi diano presto attenzione e cura alle sensazioni-emozioni che col
lavoro del corpo vengono sollevate. Per la cura di questi aspetti quindi si
rivela molto importante il ruolo dell’insegnante. Durante la pratica va
dunque sottolineato e ribadito via via che molto più importante delle
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manifestazioni esteriori è il COME, le posizioni e il respiro - l’asana nel
suo emergere -, vengono sentiti. L’asana non è il risultato di uno sforzo di
volontà, quanto piuttosto ciò che emerge quando la persona impara piano
piano a legare insieme, ad integrare il più possibile armoniosamente, tutti i
suoi aspetti costitutivi: corpo, mente, emozioni e spirito, intenzione ed
azione commisurata alle possibilità del fisico, respiro, movimento e
percezione del movimento e a vivere consapevolmente le energie che
caratterizzano l’essere impegnato ai suoi diversi livelli: fisico, emotivo,
mentale e spirituale.
___Asana, come abbiamo visto, significa “posizione” e la parola deriva
dalla radice sanscrita “as” che porta all’idea di “essere”, “sedere” o
“stabilirsi in una determinata posizione”.
E’ già stato sottolineato nel corso di questo lavoro che negli Yoga Sutra
Patanjali sottolinea in asana due qualità di fondo: “Shtira” e “Sukha”
(II,46). Sthira indica la stabilità e l’attenzione, lo stare comodi e attenti,
mentre Sukha indica la capacità di mantenere comodamente una posizione,
senza fatica e per un certo tempo.
Patanjali afferma quindi che ogni posizione deve integrare entrambe queste
caratteristiche. Se si raggiunge la stabilità e l’attenzione di sthira
dev’esserci quindi anche l’agio e la facilità di Sukha: entrambe le qualità
devono essere contemporaneamente presenti e permanere per un certo
periodo di tempo.
Far assimilare questi concetti, fino a renderli manifesti nella pratica, nelle
menti razionali acculturate all’occidentale non è davvero facile.
Si tratta quindi di far filtrare via via nell’attività di insegnamento tutti le
finezze e gli accorgimenti necessari per far capire che se non ci sono
queste due qualità non c’è neppure l’asana.
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La digestione e l’assimilazione di questi principi utili-necessari può essere
facilitata ricorrendo ad esempi pratici, come il far vedere concretamente che
le parti del corpo quando vengono sollecitate oltre le loro possibilità - nel
non rispetto dei loro limiti - tendono a difendersi, ad irrigidirsi o a flettersi
come nel caso degli arti, a scapito dell’ammorbidimento, della distensione,
dell’allungamento dei fasci muscolari e delle sottostanti escursioni
articolari.
Il praticare comodi e attenti (sthira), senza fatica, mantenendo la posizione
per un certo tempo (sukha) può essere agevolato inoltre dall’insegnamento
al rispetto dei seguenti principi:
• la seduta di yoga è un’occasione per rincontrare la propria persona, per
riprendere il rapporto con se stessi e per far agire insieme tutte le
componenti del proprio Sé. Bisogna iniziare quindi da quello che si è ed
accettarsi qui e ora.
• Di questo proficuo modo di agire e di manifestarsi, che un pò alla volta
viene approfondito durante le sedute, bisogna incentivarne la pratica e
l’esercizio anche fuori dal centro yoga di modo che diventi un progressiva
espressione dell’essere in tutte le situazioni della vita. Ogni momento della
pratica va inteso come una preziosa opportunità che darà un piccolo apporto
e questo sarà un granellino di sabbia che sommandosi costruirà un cumulo
di ricchezza.
__L’insegnante di yoga, pur tenendo presenti tutti i contenuti-guida dei testi
classici, credo che non possa esimersi dagli insegnamenti e dal prezioso
supporto costituito dagli YOGA SUTRA.
L’universalità di questo testo rispetto agli altri è dovuta al fatto che tratta
soprattutto della mente, delle sue qualità, dei vizi che la caratterizzano e di
come è possibile modificarne le sue espressioni.
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Altri testi di yoga esaminano Dio, la coscienza e altri concetti, non tutti
accettati e condivisi dalle varie scuole, filosofie e religioni. Poiché lo yoga
è una via potenzialmente percorribile da tutti, atei, agnostici e credenti è
perfettamente naturale basarsi sugli YOGA SUTRA, testo eccezionalmente
aperto, che
evita all’insegnante di dover parlare di Dio, dell’Essere
Supremo, tasto delicato che può urtare la sensibilità dell’uno o dell’altro.
Con il supporto e la mediazione dell’insegnante che veicola adeguati
contenuti-guida ognuno può incontrare il Divino a modo Suo, dal momento
che in Patanjali l’idea di Dio non viene rifiutata né imposta.
Alcuni passi dello YOGA SUTRA, preziosi per l’insegnamento, guardano
al nostro modo di percepire e riflettono sul perché nella vita incontriamo
tante difficoltà. A questo riguardo Patanjali sembra dire che se capiamo in
che modo creiamo i nostri problemi, capiremo anche in che modo
liberarcene. Come funziona la percezione? Gli YOGA SUTRA usano il
termine AVIDYA (II, 3-5) per indicare l’errata comprensione, la falsa
percezione e il fraintendimento. Come dire:l’uomo pensa spesso di aver
visto una situazione correttamente e agisce di conseguenza a ciò che ha
percepito. Può darsi però che in realtà si inganni, che quindi le sue azioni si
rivelino dannose a sè stesso e agli altri. Altrettanto problematica per l’uomo
è la situazione della quale non ha una percezione chiara, che lo blocca
dall’intervenire, quando invece dovrebbe attivarsi per modificare il corso
delle cose. Secondo gli Yoga Sutra di Patanjali “avidya” è il principale dei
cinque klesha, (o afflizioni dell’intelletto). Esso consiste nella erronea
concezione della vera natura del Sé, per la quale si attribuiscono ai
fenomeni fisici e psichici le qualità di permanenza e purezza che sono in
realtà prerogativa dell’anima (Purusa) e a causa del quale si identifica il
vero Sé dell’uomo con l’impermanenza del corpo e della sua struttura
mentale. Quando l’uomo non vede con chiarezza le situazioni che deve
affrontare, agisce confusamente; al contrario quando ha una comprensione
65
chiara agisce al meglio e con risultati positivi. In quest’ultimo caso l’azione
scaturisce da livelli percettivi molto profondi.
AVIDYA, caratterizzato da una percezione superficiale, determina non solo
l’attività cosciente dell’uomo, ma anche quella inconscia ed è uno dei
maggiori ostacoli che lo yogin incontra nel corso della sua ascesi.
Questo stato viene superato quando, in seguito alla completa interruzione
dell’attività mentale, l’anima si rivela a se stessa, realizzando la propria
sostanziale autonomia. Ci sono dunque due livelli di percezione: uno nel
nostro profondo, libero dal velo di avidya e un secondo superficiale,
oscurato dalle sue afflizioni.
L’insegnante, col suo agire, deve aver sempre presente questo limite della
condizione umana ed organizzare il suo intervento in maniera coerente col
fine dello yoga che è quello di assottigliare progressivamente il velo
dell’ignoranza ontologica così da permettere progressivamente alla persona
di potersi esprimere nelle maniere più corrette.
Raramente avidya si manifesta dando la possibilità alla persona di
rendersene conto; raramente la persona ha la sensazione che la sua
percezione sia sbagliata o sia oscurata: infatti avidya raramente si manifesta
in quanto tale e una delle sue caratteristiche principali è proprio quella di
rimanere nascosta; più facili da individuare sono invece le sue ramificazioni
ed è proprio attraverso queste propaggini (Asmita – Raga – Dvesa Abhinivesa) che possiamo constatarne la sua presenza.
Le quattro ramificazioni di avydia, agendo una alla volta o integrandosi
l’una con l’altra o talvolta agendo tutte insieme, velano la percezione
dell’uomo così da essere sempre presenti nella mente inconscia. Il loro
prodotto è un senso di profonda insoddisfazione e finchè queste propaggini
hanno modo di espandersi nella mente è naturale che l’uomo continui a
fare mosse false, in conseguenza del fatto che non può soppesare con
sufficiente attenzione le cose, né valutarle con un giudizio accorto e
profondo.
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Di fronte a qualsiasi problema possiamo essere dunque certi che avidya ha
concorso nel crearlo; lo yoga attraverso la disciplina, l’esercizio, il continuo
approfondimento
dell’introspezione,
del
vivere
qui
ed
ora
con
consapevolezza, diminuisce gli effetti di queste afflizioni dell’intelletto ed
opera alla radice perché possa prodursi una più vera comprensione.
Compito dell’insegnante è quello di creare l’adatto contesto, o campo, in
cui il Padrone del campo stesso possa indicare le più corrette percezioni e
giuste vie interpretative per conoscerlo. Quando si percepiscono le cose in
modo corretto, scompaiono l’agitazione, le tensioni e i conflitti e subentra
nell’uomo la pace. Quando c’è chiarezza e comprensione l’uomo si sente
interiormente calmo e sereno e questo è già un bel traguardo anche quando
con il contributo dell’insegnamento si riesce a favorirlo nelle persone anche
solo in parte.
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CONCLUSIONI
Si dice che un seguace di Lao Tzu (1) - un vecchio contadino - stesse
attingendo acqua da un pozzo e, anziché usare dei buoi, ne faceva le
veci, insieme a suo figlio. Era vecchio ... sudavano, mancava loro il
respiro. Era un lavoro faticoso.
Un seguace di Confucio passò di lì e disse al vecchio: “Non lo sai?
Oggigiorno, per questo lavoro si possono usare buoi o cavalli! Nelle
città, nei paesi, nessuno lavora più in questo modo ... è troppo
primitivo! La scienza ha fatto passi da gigante!”.
Il vecchio disse: «Aspetta, non gridare così. .. quando mio figlio si sarà
allontanato, ti risponderò», e mandò il figlio a fare un lavoro altrove,
poi disse: «Sei una persona pericolosa. Se mio figlio viene a sapere
queste cose, immediatamente si rifiuterà di fare questo lavoro: "Non voglio fare il lavoro di un bue", dirà, e pretenderà di comprarne uno».
Il discepolo di Confucio chiese: «Che male c'è?». E il vecchio gli
spiegò: «È un male enorme, perché si tratta di un'astuzia. In questo
modo il bue o il cavallo vengono ingannati e sfruttati, e una cosa porta
all'altra ... questo ragazzo è troppo giovane e non è saggio, quando avrà
capito che si possono ingannare gli animali molto facilmente, si
chiederà perché non essere astuto anche con gli uomini... una volta che
saprà che tramite l'astuzia è possibile sfruttare qualcuno, non so dove si
potrà fermare ... per favore, vattene, e non tornare più su questa strada.
E non portare le tue astuzie in questo villaggio. Noi viviamo felici!».
Lao Tzu, risaputamene, è contrario alla scienza, sostiene che la scienza
è astuzia. Essa inganna la natura e la sfrutta: attraverso le astuzie si può
forzare la natura ... e più l'uomo diventa scientifico, più diventa furbo, è
inevitabile.
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Un uomo innocente non ha una mente scientifica ed è molto difficile
che le due cose possano coesistere insieme. Ora l'uomo si è fatto molto
furbo ed astuto e Patanjali sapeva benissimo che essere scientifici
significa essere astuti e sapeva pure bene che l'uomo può essere
riportato alla sua natura grazie ad un nuovo espediente, una nuova
astuzia.
Lo Yoga è la scienza dell'essere interiore e poiché gli uomini in
generale, e quelli di cultura occidentale in particolare, non sono più
innocenti, possono essere ancora ricondotti a sé stessi attraverso
un'”astuzia”. Se fossimo innocenti non servirebbe alcun espediente e
non sarebbe necessario alcun metodo. Basterebbe una semplice
comprensione, la comprensione del bambino e saremmo trasformati.
Ma non lo siamo più, non siamo più bambini e per questo abbiamo
bisogno di Patanjali e della grande tradizione che esso ha raccolto,
codificato e tramandato.
L’uomo occidentale, nei rapporti con la natura e i suoi esseri ha
seminato e coltivato azioni opportunistiche, irrispettose del Dharma (2),
di sè stesso e delle regole a cui si conforma l’universo. Queste, reiterate
nel tempo, hanno sedimentato le sue abitudini di vita e il suo carattere:
l’hanno avviato ad una preponderante estroversione, all’esteriorità, ai
confini della superficialità.
Il capitalismo avanzato che caratterizza i gesti umani e le abitudini dei
nostri giorni spinge - se possibile - a non pensare, a consumare, a
guardare più all’esteriorità che all’interiorità, ad apparire più che ad
Essere.
In questa cultura, chi si avvicina allo yoga lo fa spesso con mire
estetiche-salutistiche, funzionali al corpo e al suo apparire e qualche volta
spinto dalla pressante esigenza di trovare un rimedio al disorientamento,
alle depressioni e ai disagi mentali.
69
L’esigenza di coltivare lo spirito inteso come input che spinge ad
iscriversi ad un corso di yoga è un evento davvero raro.
Ebbene, lo yoga in occidente, praticato per lo più attraverso gli asana,
prende per mano queste persone e comincia a far sperimentare loro
“sthirasukhamasanam” (3):
- il vivere qui e ora osservando le dinamiche dei diversi aspetti
costitutivi, la dimensione del corpo e della mente che si contemperano
via via con le energie che animano l’Essere;
- la dimensione interna, l’interiorizzazione;
- l’immobilità, il linguaggio con cui si esprime il corpo, i suoi codici
espressivi, il declinarsi delle sensazioni e il loro intreccio con
l’emotività;
- la consapevolezza della dimensione fisica che si contempera via via
con quella del respiro e della mente, nella direzione dello “yug”, della
unificazione, dell’ integrazione;
Lo hatha diventa così una buona porta di ingresso allo yoga per questo
motivo, perché parte dal corpo, da qualcosa che nella visione, nel
vissuto e nella scala di valori della cultura occidentale è l’essenza e il
fulcro dell’essere.
Lo
yoga
prende
allora
la
persona
per
mano,
assecondando
apparentemente i suoi falsi miti, mentre nel contempo lavora a livello
subliminale
per
apportare
nutrimenti
che
chiariscono
via
via
l’importanza delle altre dimensioni dell’essere, facendo crescere la
volontà
sempre più imperante di coltivarle, un’attenzione che col
tempo si rivolgerà sempre più
all’emergere ed alla crescita dello
Spirito.
70
Nell’elaborazione di questo lavoro di ricerca ho cercato di seguire, sulla
base delle riflessioni appena svolte, un percorso che andasse nella direzione
di cogliere e motivare la coerenza e la validità di una “pratica” centrata
prevalentemente sugli Asana in rapporto a quelli che sono gli obiettivi dello
Yoga.
Nella prima parte della tesi ho fermato la mia attenzione principalmente sul
concetto di Asana e su alcuni suoi aspetti, quali l’importanza di tenere la
posizione senza sforzo, nell’immobilità e con la consapevolezza del respiro
per far sì che la mente si calmi e si rilassi grazie al controllo continuo che
deve esercitare sul corpo e sul respiro. Ho introdotto, poi, il tema
riguardante l’azione rilevante che gli Asana svolgono nel favorire e
migliorare l’assorbimento e la distribuzione dell’energia vitale (prana) nel
corpo.
In questo percorso, per quanto riguarda l’hatha yoga, i riferimenti scritturali
mi sono stati forniti da testi quali l’HathaYoga Pradipika, la Gheranda
Samhita e la Siva Samhita che offrono un quadro in cui l’aspetto fisico della
disciplina occupa un posto di primo piano e il corpo diviene un vero e
proprio strumento di consapevolezza. Allo stesso tempo ho avvertito la
necessità di collegarmi al raja-yoga esposto negli Yoga Sutra di Patanjali,
dove spicca la presenza, nel sadhana dello yogin, delle regole del
comportamento etico (yama e niyama), e ho cercato, infine, di prestare
attenzione alle parole di Krishna , quando nella Bagavad-Gita , ci rivela la
dottrina dello Yoga. Inoltre, poiché la tecnica yoga si precisa come una
ricerca basata sulla sperimentazione diretta e sull’introspezione, nel
presente lavoro, oltre che attingere da altri testi scritti da maestri e
ricercatori, ho cercato di prestare attenzione a quello che finora l’esperienza
dello yoga ha significato nella mia vita, quale “praticante” e anche nella
mia breve esperienza di insegnamento. In questa comprensione è stato
determinante il supporto fornitomi dal mio insegnante, che mi ha sollecitato
71
ad indagare e ad approfondire non solo gli aspetti dottrinali e “tecnici” dello
Yoga, ma soprattutto la mia dimensione interiore e spirituale.
Nella seconda parte della tesi ho inteso focalizzare l’attenzione su alcuni
elementi di pedagogia, di programmazione e di metodologia didattica, senza
alcuna pretesa di completezza, ma con l’obiettivo di enucleare alcuni
principi, metodi e spunti di riflessione che possono orientare un insegnante
nella sua attività di trasmissione dello Yoga.
La “materia” di insegnamento dello Yoga la si può considerare composta da
diversi elementi e solo il relativo amalgama può dare valore allo stesso.
L’esperienza personale è l’elemento centrale che può essere trasmesso a chi
si avvicina allo Yoga; un insegnante, poi, è importante che sappia
sviluppare nei suoi allievi una serie di “abilità” quali ad esempio la capacità
di mantenere l’attenzione centrata su un oggetto (la coscienza del corpo, del
respiro), l’attitudine ad interiorizzarsi non solo nella pratica yogica ma
anche nella vita di tutti i giorni, la volontà di superare le difficoltà di vario
tipo che si incontrano nel percorso e quindi l’accettazione di una disciplina.
Nel rispetto dei principi generali, come ho già sottolineato nel corso di
questa ricerca, lo yoga può essere praticato in molte maniere diverse perché
diversi sono gli ambiti dell’esperienza umana che esso interessa.
L’equilibrio e l’armonia psico-fisica a cui guarda l’hatha yoga vanno
comunque nella direzione di una ricerca di unità intesa come armonia, che è
ciò a cui si rivolge in generale lo yoga, al di là dei diversi sistemi o scuole.
La pratica degli Asana non consente allora di sperimentare solo il livello
fisico, ma anche quello emozionale, mentale e spirituale. Il corpo, in altre
parole, attraverso varie posizioni, gli Asana, diviene uno strumento che
rivela le sue possibilità plastiche e creative spesso ignorate e soffocate da
gesti stereotipati e meccanici; l’esperienza del respiro, l’ascolto del suo
ritmo naturale, delle sue pause, dilata l’orizzonte della dimensione fisica e
suggerisce il legame fra respiro e stato della mente… Il raccoglimento, la
concentrazione poi creeranno i presupposti perché la “conoscenza” si
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manifesti da sé: “In verità non c’è in questo mondo cosa purificante quanto
la conoscenza: e questa chi ha raggiunto la perfezione nello yoga la trova
spontaneamente dentro sé stesso, col tempo” (4).
(1) Lao Tzu : considerato fondatore del Taoismo, a lui è attribuita la scrittura del
Tao Te Ching, testo sacro taoista. E’ una delle maggiori figure della filosofia
cinese. Secondo la tradizione visse nel VI secolo a.C., nel periodo delle “Cento
scuole di pensiero”.
(2) Dharma: è un termine sanscrito che può essere tradotto come Legge, Legge
cosmica, Legge Naturale, oppure il modo in cui le cose sono. I Cinesi chiamavano
questa legge "Tao". Vivendo in accordo con questa Legge, è possibile porre fine
alla sofferenza dovuta al ciclo delle nascite e delle morti (Samsāra). Poiché tutte le
azioni (Karma) producono frutti, l'unico modo per ottenere la Liberazione è
attenersi all'Ordine Universale e vivere in armonia con esso, senza attaccarsi ai
risultati piacevoli delle azioni virtuose, in modo che esse conducano gradualmente
alla Liberazione.
(3) Patanjali: Yoga Sutra, II/46
(4) Bhagadvagita, IV, 38
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Proposta di una seduta yogica finalizzata a favorire l’interiorizzazione
attraverso l’uso dell’introspezione indotta naturalmente dagli Asana
Eseguire durante la pratica un Ujjay semplice per favorire l’aspetto di
interiorizzazione.
1- SAMASTHITI (Posizione in piedi ben equilibrata)
Presa di coscienza iniziale.
Piedi leggermente divaricati e paralleli col peso equamente distribuito su
tutta la pianta, bacino in corretta retroversione, spalle basse, braccia e mani
abbandonate, mento rientrato.
2- TULITA - ASANA (Bilancia) “posizione instabile o in bilico”.
Esecuzione con variante: Partendo dalla posizione di “samasthiti” ci si
solleva all’inspiro sulle punte dei piedi, quindi, in espirazione, si piegano le
gambe, divaricando un po’ le ginocchia, fino a poggiare con le natiche sui
talloni. Le mani sono tenute ai fianchi mentre si scende e quando si risale.
Una volta conseguita la posizione il busto è raddrizzato, le cosce sono
parallele al pavimento, le mani poggiano sulle cosce a palme in basso, si
rimane nell’ immobilizzazione (circa 1 minuto), si respira normalmente, poi
all’espiro ci si chiude ad “uovo” arrotondando il dorso ed abbandonando il
capo, braccia sulle cosce; all’inspiro si torna su e la colonna è ben dritta,
mani sulle cosce, se si avverte che la posizione è molto stabile si può
eseguire un breve ciclo di “kapalabhati”,
poi si abbandona l’asana
distendendo le gambe, abbassando i talloni e tornando nella posizione di
partenza. La posizione può essere resa più difficile eseguendola ad occhi
chiusi
Effetti: è un asana che affina il senso dell’equilibrio, rinforza i muscoli delle
gambe e delle caviglie, richiede un attento controllo e un esercizio della
volontà.
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3- ARDHA CHANDRA “Posizione a mezza luna”
Esecuzione: Si può eseguire una prima volta a gambe divaricate, per iniziare
a sperimentare l’asana con una appropriata stabilità, in seguito le gambe
saranno unite.
In piedi, busto eretto, braccia lungo i fianchi. Inspirando si solleva
verticalmente un braccio tenendo il palmo della mano rivolto verso il lato
opposto, espirando si lascia incurvare il tronco verso tale lato, anche il
braccio alzato segue la direzione. Si mantiene la posizione e si avverte che la
respirazione avviene soprattutto sul lato del tronco che viene esteso. Il
braccio che non è sollevato deve rimanere rilassato.
Inspirando ci si
raddrizza e si abbassa il braccio. Bisogna fare attenzione che il movimento
sia esclusivamente un piegamento laterale, evitando di incurvare in avanti il
tronco o il braccio.
Dopo aver eseguito su un lato, prima di eseguire sull’altro è utile fermarsi
per rendersi conto dell’effetto della pratica.
Effetti: Elasticizza la colonna vertebrale, sblocca il respiro nelle parti laterali
e favorisce la motilità intestinale.
Cautele: In caso di problemi renali o scoliosi, in quest’ultimo caso vanno
diversificati i tempi di tenuta sui due lati
4 - TALA-ASANA “Posizione del palmo della mano”
Esecuzione: Con i piedi leggermente distanziati, inspirando ci si solleva sulle
punte dei piedi e contemporaneamente si solleva ruotandolo in avanti il
braccio destro fino a portarlo in verticale. Pausa del respiro a polmoni pieni.
Palmo della mano guarda verso l’interno. Poi espirando si abbassa il braccio
ruotandolo indietro e i talloni tornano ad appoggiare a terra. Si ripete con
l’altro braccio, (2-3 volte per lato), poi con entrambi. Si deve cercare una
buona coordinazione facendo in modo che il movimento del respiro, quello
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del braccio e quello del sollevamento comincino e finiscano tutti nello stesso
istante. Si può eseguire anche ad occhi chiusi.
Effetti: Sviluppa il senso dell’equilibrio. Educa alla respirazione completa e
quindi anche all’utilizzo degli apici polmonari, aumenta la capacità
respiratoria e il volume toracico. Elasticizza la muscolatura e allunga la
colonna vertebrale.
5- NATARAJA-ASANA “Posizione del re della danza” E’ questo uno dei
nomi di Shiva.
Esecuzione: Comprende tre fasi, di cui la seconda e la terza vanno eseguite
quando la precedente è acquisita con sicurezza e precisione.
Nella prima fase si piega un ginocchio afferrando la caviglia con la mano,
tenendo le ginocchia sullo stesso piano del bacino in retroversione. Nella
seconda fase si solleva l’altro braccio portandolo in verticale. Si esegue il
Jnana-mudra (pollice e indice a contatto) con la mano del braccio sollevato.
Nella posizione completa, espirando si inclina il busto in avanti tenendo il
braccio alzato allineato con esso, e si tira indietro con una certa decisione il
piede della gamba piegata, allontanandolo dal bacino. Si resta in posizione
con l’attenzione sull’ampiezza del respiro o su un punto esterno e ci si
risolleva inspirando e ripetendo i movimenti inversi per sciogliere la
posizione.
Effetti: Gli stessi di tutte le posizioni d’equilibrio. Migliora lo stato della
colonna vertebrale.
Cautele: in caso di problemi alla colonna va eseguita senza forzare
6- PADAHASTA-ASANA “Posizione delle mani ai piedi”
Prima variante: In piedi, gambe divaricate, inspirando profondamente, si
sollevano le braccia verso l’alto, ci si estende lateralmente per aprire bene la
parte alta del torace, ci si riallinea ed espirando ci si inclina in avanti dalla
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base della colonna vertebrale e si continua il movimento avvicinandosi col
capo verso terra mentre il bacino si sposta spontaneamente all’indietro, si
aggiusta la divaricazione delle gambe, mani a terra. Nella posizione statica ci
si abbandona completamente, senza cercare di spingersi più in giù
volontariamente. Si abbandona il capo. E’ la forza di gravità che
gradualmente trascina il corpo sempre più in giù. Al ritorno si diminuisce la
divaricazione delle gambe nella misura che ci consente di raddrizzarci, si
inspira e, piegandoci lievemente sulle ginocchia (per proteggere le vertebre
lombari), si torna lentamente con le braccia che si aprono verso l’alto ed
all’espiro si abbassano le braccia.
Seconda variante: In piedi gambe unite, braccia allungate dietro il corpo,
pugno dx dentro il palmo della mano sx, espirando ci si chiude in avanti,
distanziare le braccia dal corpo quanto possibile per favorire l’apertura delle
spalle. Ad ogni espiro, nella fase statica, si può notare che le braccia tendono
a sollevarsi di più verso l’alto.
Al ritorno le mani restano tenute insieme, si inspira e piegandoci un po’ sulle
ginocchia si torna lentamente in verticale, le braccia sono dapprima
distanziate dal corpo, ad un nuovo espiro le abbandoniamo sulle ossa del
sacro, ad un altro espiro sciogliamo le braccia lungo i fianchi e rimaniamo in
ascolto degli effetti del lavoro effettuato.
Effetti: Le vertebre tendono a distanziarsi l’una dall’altra, allunga la
muscolatura, e sblocca il respiro nella parte posteriore del tronco. Ha anche
effetti di posizione capovolta e favorisce l’afflusso di sangue al cervello.
Cautele: Chi ha il dorso rigido o disagi alla regione lombare deve attenersi ad
alcune indicazioni quali il piegamento delle ginocchia nella posizione di
ritorno. Quando la posizione è
eseguita a gambe divaricate presenta
maggiore facilità già di per sé, rispetto ad assumerla a piedi uniti. Chi soffre
di ipertensione deve assumerla lentamente e per breve tempo; chi soffre di
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ipotensione deve rialzarsi molto lentamente ed eventualmente sdraiarsi dopo
l’esecuzione.
7- SAVASANA “Posizione del cadavere”
Esecuzione: Supini, gambe leggermente divaricate, punte dei piedi che
naturalmente cadono verso l’esterno, le spalle non devono rimanere sollevate
da terra, braccia distese un pò distanziate dai lati del corpo, palme delle
mani rivolte verso l’alto, il mento è rivolto verso il petto, occhi chiusi e
labbra chiuse, ma non serrate. Tutto il corpo immobile e rilassato.
Per perfezionare lo stato di abbandono si percorrono mentalmente, o dietro la
guida dell’insegnante, le diverse parti del corpo, avvertendo che le tensioni
residue tendono a dissolversi per effetto dello scorrere della consapevolezza
sulle membra. Dopo la fase di rilassamento muscolare si può perfezionare
l’interiorizzazione portando l’attenzione sul respiro e seguendo il flusso
spontaneo dell’aria. Al termine i movimenti vanno ripresi con gradualità,
iniziando col muovere le dita delle mani e dei piedi.
Effetti: induce in un profondo stato di rilassamento psico-fisico.
8 - ANANTA-ASANA “Posizione di Ananta” Ananta significa infinito,
eterno, così è chiamato il mitico serpente Sesa sul quale Visnu giace (in una
postura che ricorda questa asana) al di sopra delle acque cosmiche al termine
di una dissoluzione del mondo.
Esecuzione - variante in dinamica: a terra, distesi sul fianco sinistro, braccio
sinistro allungato sotto il capo, palmo della mano a terra. Si porta
l’attenzione al respiro e dal respiro a tutto il corpo in attesa che l’appoggio
sul fianco si faccia stabile e sicuro e poi all’inspiro lentamente si inizia il
movimento di apertura del braccio dx che all’espiro si chiude verso quello
sx, le mani si incontrano. Via via che la posizione diviene più stabile si apre
e si chiude in sincronia con il braccio anche la gamba destra. L’esecuzione
dapprima può essere più dinamica, poi diviene più lenta. Si presta attenzione
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che il movimento di apertura e chiusura degli arti avvenga in maniera
sincronica ed armoniosa e seguendo il ritmo naturale del respiro.
Dopo una breve pausa di rilassamento si ripete sull’altro fianco.
Effetti: Affina la consapevolezza del “qui ed ora” e della dinamica del
respiro, elasticizza le gambe e le spalle, snoda le articolazioni, aiuta a
rilassare la schiena
9-MAKARASANA “Posizione del coccodrillo” Posizione di rilassamento
Esecuzione: Sdraiati proni sul pavimento con le gambe leggermente
divaricate, il taglio dei piedi interno cerca l’aderenza al pavimento così come
il pube in retroversione, si piegano le braccia in modo che la mano destra
poggi sulla mano sinistra, con i pollici aperti, così che le mani sovrapposte
servono da sostegno per la fronte e il capo è abbandonato con il viso rivolto
in basso. L’attenzione viene portata sul respiro spontaneo e sul movimento
indotto dalla respirazione, della zona lombare inferiore e dei glutei.
Effetti: A livello fisico si ha un rapido recupero di energie. Inoltre il
rilassamento profondo, prima a livello muscolare, poi nervoso consente di
eliminare tutte le tensioni causa di diversi disturbi psicosomatici. Si realizza
poi anche un rilassamento a livello mentale con una riduzione del flusso dei
pensieri.
10 –ARDHA BHUJANGASASANA “Posizione della sfinge”
Esecuzione: distesi proni con il viso rivolto a terra con la fronte poggiata,
gambe allungate, piedi uniti, le piante dei piedi sono rivolte verso l’alto. Le
braccia sono piegate,
la punta delle dita in corrispondenza circa della
sommità del capo. Inspirando si inizia il movimento, si porta il naso in
avanti, sfiorando il pavimento e si solleva la testa, le braccia si sposteranno
un po’ in avanti così che appoggiandosi sui gomiti e gli avambracci risulti
agevole portare tutto il corpo in avanti. Si eserciterà una trazione con le
braccia ma solo nella parte alta della schiena. I lombi, l’addome , i glutei, le
cosce, i polpacci e i piedi restano rilassati. Lo sguardo è diretto in avanti. In
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tutto l’esercizio l’addome va conservato al suolo, non soltanto l’ombelico ma
anche le costole fluttuanti perché lo scopo è quello di flettere la colonna
vertebrale all’indietro ma solo nella parte superiore, cioè sopra la cintura e
particolarmente tra le scapole, mentre la parte inferiore della schiena, almeno
la colonna lombare, rimane passiva. Si rimane nella posizione per una decina
di respiri.
Effetti: richiede una fine attenzione nell’esecuzione, procura sollievo alle
lombaggini e a tutta la muscolatura dorsale, rinforza la muscolatura della
schiena lungo la colonna, maggiore irrorazione di sangue alla muscolatura
dorsale, rilassa i muscoli della nuca e li irrora maggiormente favorendo una
maggiore irrigazione sanguigna del cervello
Cautele: non vi sono particolari controindicazioni, ma va evitata la fretta
nell’esecuzione.
11 - MAKARASANA
12- JANUSIRSHASANA “Posizione della testa al ginocchio”
Esecuzione con tre varianti:
1) Seduti a terra, gambe distese, si piega la gamba destra portando il
ginocchio all’esterno in modo che aderisca al suolo. Si afferra il piede dx con
le entrambe le mani e, in espirazione, contraendo l’addome, si porta la pianta
del piede a contatto della coscia sx in modo che il tallone prema contro il
perineo. Con un inspiro si portano le braccia in alto, poi all’espiro si flette il
busto in avanti e si afferra l’alluce sinistro (o la caviglia all’inizio).
Lentamente si torna.
2) Si esegue una torsione del tronco verso la gamba dx piegata. Inspirando si
portano le braccia in alto e all’espiro ci si chiude con il busto in avanti sulla
gamba piegata. Gli organi addominali sono compressi e massaggiati nella
posizione, contro la coscia. Si rimane abbandonati in questa posizione circa 1
minuto.
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3) Si sposta il busto lentamente più verso il centro, il corpo è sempre chiuso
in appoggio sulla coscia, mentre il braccio sinistro si allunga verso la gamba
sx allungata fino a prendere l’alluce con la mano.
Si ritorna lentamente risollevando il tronco e aiutandosi con l’appoggio delle
mani sulla gamba, si scioglie la torsione e si esercitano con dei piccoli
movimenti le tre articolazioni della gamba che è rimasta allungata.
Effetti: Aumenta la mobilità dell’articolazione coxo-femorale e ne previene
gli stati patologici. Tonifica la colonna vertebrale e la elasticizza aumentando
la capacità respiratoria. Tonifica il fegato, la milza e tutti gli organi
addominali e stimola la funzione renale.
Da un punto di vista psichico favorisce l’introspezione e la concentrazione.
Cautele: In caso di scoliosi, sciatica o problemi della regione lombare. Nel
periodo mestruale va evitata se il flusso è troppo abbondante, oppure in caso
di appendicite e altre infiammazioni, e in stato di gravidanza
13- JATHAPARIVARTANASANA “Posizione di rotazione dell’addome”
Esecuzione: Supini, con le braccia aperte all’altezza delle spalle, mani a
palme in su, espirando si portano le ginocchia al petto, poi inspirando si
sollevano le gambe estese portandole in verticale, espirando le si fanno
ruotare portando lentamente i piedi accanto a una mano, la testa ruota
dall’altro lato, si mantiene staticamente continuando a rilassare il dorso e il
bacino, senza staccare le spalle da terra, si tiene la posizione statica poi si
torna nella posizione centrale spingendo le gambe in appoggio sul suolo e si
esegue dall’altro lato.
Effetti: Massaggia gli organi addominali, snoda il bacino, previene i dolori di
schiena e mantiene la colonna elastica.
Cautele: va eseguita con prudenza se vi sono problemi vertebrali, nel caso
meglio eseguire la posizione con le ginocchia piegate.
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14- SUKHA-ASANA (Posizione facile o comoda”) Si potrà sedersi, secondo
le proprie possibilità, in Padma-asana oppure in Siddha-asana.
La colonna vertebrale deve essere in posizione verticale e rispettare le
normali curvature fisiologiche, l’angolo ottimale del bacino è di circa 30°.
15- ESERCIZI PER LA NUCA E LE VERTEBRE CERVICALI
Ricordarsi di mantenere sempre i muscoli del collo, della nuca e delle
spalle più rilassati possibile
Primo movimento: Seduti ricercare con cura una posizione d’equilibrio
della testa così che la stessa sia il prolungamento diretto della colonna
vertebrale. Concentrarsi nella regione della nuca. Iniziare a ruotare
lentamente la testa verso la spalla sinistra utilizzando la tensione
muscolare minima per realizzare il movimento. Poi, senza arrestarsi,
eseguire il movimento contrario. Ripetere 10 volte.
Secondo movimento- il pendolo: lasciando cadere la testa in avanti,
avvicinare il mento al torace. Muovere poi, la testa come un pendolo,
dalla spalla sinistra alla spalla destra e viceversa, mantenendo la massima
distensione della nuca. Eseguire 10 movimenti.
Terzo movimento- Rotazione completa della testa. Ruotare la testa e
concentrandosi sul mento, immaginare di descrivere una O più grande
possibile, lasciando cadere la testa indietro, in avanti, di lato. Ripetere 5
volte in un senso, 5 volte nell’altro.
Quarto movimento – Laterale: Mantenendo sempre la testa in
equilibrio, senza muovere le spalle, portare l’orecchio sinistro verso la
spalla sinistra e viceversa. Ripetere 10 volte.
Quinto movimento – Avanti e indietro: lentamente lasciar cadere la
testa indietro e in avanti. Ripetere 10 volte.
Al termine degli esercizi, fermarsi e ascoltare le sensazioni sulla nuca e il
collo.
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Effetti: questi semplici movimenti tendono a ristabilire mobilità alla nuca,
anche i nervi che fuoriescono dalle vertebre cervicali ne vengono
tonificati. A livello muscolare si eliminano le contratture che spesso
riducono la circolazione del sangue verso la testa causando emicranie.
Migliora e normalizza l’afflusso di sangue al cervello.
A livello mentale, questi esercizi, conferiscono pace e calma, per questo
si suggerisce di eseguirli con un atteggiamento mentale introspettivo,
portando l’attenzione su ciò che provoca l’attività in atto, che deve essere
lenta e armoniosa.
Cautele: non esistono particolari controindicazioni. I movimenti vanno
sempre eseguiti con lentezza.
16- CANTO DEL MANTRA OM
La ripetizione del mantra Om ha l’effetto di rallentare il flusso dei pensieri e
di portare la mente verso l’unità.
17- NADHI SODHANA PRANAYAMA – seduti in una postura meditativa
che risulti agevole, spina dorsale dritta e l’addome sotto controllo
(lievemente contratto). Con la mano destra formare uno speciale
mudra(Visnu –mudra) ripiegando contro il palmo l’indice e il medio uniti
(altrimenti possono essere portati uniti verso un punto tra le sopracciglia),
l’anulare e il mignolo restano distesi per chiudere la narice sinistra, mentre la
narice destra viene chiusa con il pollice. Espirare lentamente a fondo senza
chiudere le narici. Con la narice dx chiusa, inspiro (puraka) attraverso la
narice sx, poi chiudo anche la narice sx. Durante la ritenzione si eseguono
jalandhara-bandha e mula bandha (fase del kumbhaka) . Espiro con la narice
dx (recaka). Inspiro di nuovo con la narice dx, poi ritenzione, espiro a sx,
etc.
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Il rapporto tra le fasi può essere inizialmente 1:2:2, quando la pratica sarà
maggiore 1:4:2. Il respiro è dolce e nessun suono deve essere prodotto
dall’attrito dell’aria nelle vie nasali. I principianti eseguiranno questo
pranayama senza kumbhaka, ma al limite con una semplice pausa.
Effetti: La respirazione alternata attraverso le due narici provoca
un’armonizzazione delle opposte funzioni corporee, la mente raggiunge una
condizione d’equilibrio; la consapevolezza è rivolta ai processi del respiro, e
questo aiuta a creare uno stato di tranquillità e di pace mentale.
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