Riflessioni per un cammino di una comunità che vive e annuncia la

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Riflessioni per un cammino di una comunità che vive e annuncia la
Riflessioni per un cammino di una comunità che vive e annuncia la presenza e la
misericordia di Dio Padre (P.Paolo Bergamini, S.Felice del Benaco-24.10.2015)
Premesse.
Non sono un professore né un pastoralista, sono un prete da circa trent’anni.
Un detto ebraico narra che Dio creò il punto di domanda e lo depose nel cuore dell’uomo. La
prima parola che Dio rivolge all’ uomo è una domanda: “Adamo dove sei?” Il mio intervento vuole
essere non tanto un suggerire delle risposte quanto far crescere il nostro desiderio di interrogarci,
di metterci in ascolto, di cercare insieme nuovi percorsi, di costruire “ponti” e non “muri.”
Credo che dentro di noi debba essere chiaro che l’annuncio del vangelo non riguarda il parroco o il
curato o le suore, ma è la missione di una comunità di fratelli che hanno incontrato Gesù Cristo.
Andrea nel Vangelo di Giovanni dice: “Abbiamo trovato il Signore.” (GV.1,41). Troppo nelle chiese
hanno parlato coloro che non avevano trovato il Signore. Come posso essere testimone di Gesù se
io non l’ho incontrato. Se non conosco la strada come posso indicarla. Ecco qui la necessità in
primo luogo per ciascuno di noi che siamo qui di un serio cammino di fede.
Partiamo da una domanda:
Qual è la mia “immagine” di parrocchia?
Dalla nota pastorale della CEI sulle parrocchie:
“Possiamo individuare due possibili derive: da una parte la spinta a fare della parrocchia una
comunità “autoreferenziale”, in cui ci si accontenta di trovarsi bene insieme, coltivando rapporti
ravvicinati e rassicuranti; dall’altra la percezione della parrocchia come “centro di servizi” per
l’amministrazione dei sacramenti, che dà per scontata la fede in quanti li richiedono..”
- Parrocchia super mercato
- Parrocchia condominio
Il termine " parrocchia" deriva dal greco paroikìa, che significa "abitazione presso". Chi abita
presso qualcuno non è stabile, è uno straniero, uno che non ha lì la sua casa. Parrocchia significa
dunque "abitazione provvisoria ", "dimora temporanea" e questo si applica molto bene alla Chiesa
locale: è infatti per il cristiano una comunità di passaggio.
La Christifideles laici delinea la parrocchia: "Essa è l'ultima localizzazione della Chiesa, è in un certo
senso la Chiesa stessa che vive in mezzo alla case dei suoi figli e delle sue figlie"
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«La famiglia di Dio, come una fraternità animata dallo spirito d 'unità»
«Una casa di famiglia, fraterna ed accogliente»
Giovanni XXIII: «la fontana del villaggio» alla quale tutti ricorrono per la loro sete"
Papa Francesco nella esortazione apostolica Evangelii gaudium scrive: «La parrocchia non
è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme
molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della
comunità». (n. 28). Questo suppone, «che realmente stia in contatto con le famiglie e con
la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente».
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Quale direzione prendere?
La promessa di felicità
C’è in ogni uomo e in ogni donna di questo pianeta una chiamata verso la pienezza di vita, e
questa chiamata è più originaria di qualsiasi altra cosa, più originaria di ogni forma di peccato e di
male; è proprio questa chiamata alla felicità che alimenta la speranza. Lo sottolineavano i Vescovi
Italiani al n. 8 di Educare alla vita buona del Vangelo, il documento che offre l’orizzonte per il
cammino ecclesiale di questo decennio:
“Un’autentica educazione deve essere in grado di parlare al bisogno di significato e di felicità delle
persone. Il messaggio cristiano pone l’accento sulla forza e sulla pienezza di gioia (cfr Gv 17,13)
donate dalla fede, che sono infinitamente più grandi di ogni desiderio e attesa umani. Il compito
dell’educatore cristiano è diffondere la buona notizia che il Vangelo può trasformare il cuore
dell’uomo, restituendogli ragioni di vita e di speranza. Siamo nel mondo con la consapevolezza di
essere portatori di una visione della persona che, esaltandone la verità, la bontà e la bellezza, è
davvero alternativa al sentire comune” (n. 8).
Più volte l’uomo ha vanamente cercato il proprio benessere nel possesso dei beni, sperimentando
cuocenti delusioni. Quando invece il suo cuore si è aperto a vivere relazioni significative con gli
altri, allora dinanzi ai suoi occhi è apparsa la strada per la felicità.
In tal senso la parrocchia, comunione di persone, appare come il luogo dove sperimentare la
Grazia di una comunione risanante che corrisponde alla nostalgia che ci portiamo dentro. Siamo
frutto di un dono di amore e abbiamo l’amore trinitario del Padre, del Figlio e dello Spirito come
nostra origine.
La famiglia diffonde la gioia del vangelo
Se la Chiesa, come afferma Evangelii Nunziandi, “esiste per evangelizzare” la famiglia come piccola
chiesa domestica vive continuamente questo mandato del Signore Gesù. “In ogni famiglia
cristiana, infatti, dovrebbero riscontrarsi i diversi aspetti della Chiesa intera. La famiglia, come la
Chiesa, deve essere uno spazio in cui il Vangelo è trasmesso e da cui il Vangelo si irradia. Dunque
nell'intimo di una famiglia cosciente di questa missione, tutti i componenti evangelizzano e sono
evangelizzati. I genitori non soltanto comunicano ai figli il Vangelo, ma possono ricevere da loro lo
stesso Vangelo profondamente vissuto. E una simile famiglia diventa evangelizzatrice di molte
altre famiglie e dell'ambiente nel quale è inserita”. Il luogo dove primariamente si vive
l’evangelizzazione è l’amore sponsale che, con la forza della grazia, diventa sacramento dell’amore
di Cristo per la sua Chiesa.
Nel discorso di Puebla del lontano 1979 San Giovanni Paolo II affermò che “la futura
evangelizzazione dipende in gran parte dalla Chiesa domestica”.
La porta aperta
I Padri sinodali nel Messaggio finale dell’anno scorso scrivono:
“Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse una casa con la porta sempre aperta nell’accoglienza,
senza escludere nessuno. Come diventare allora realmente questa porta aperta?”
È il Santo Padre stesso che in la sera della veglia del 4 ottobre del 2014 ha indicato i tre
atteggiamenti per fare sinodo, per essere una vera comunità cristiana in cammino, per “prestare
orecchio ai battiti di questo tempo e percepire l’«odore» degli uomini d’oggi, fino a restare
impregnati delle loro gioie e speranze, delle loro tristezze e angosce (cfr Gaudium et spes, 1).”
Sono gli atteggiamenti che si incarnano nel Samaritano, il quale passa lì per caso, ma ascolta con
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attenzione i battiti di un cuore ferito. Così quello che era un caso è diventata un’opportunità e il
suo tempo è divenuto un tempo di Grazia. Il Samaritano innanzitutto ferma il suo tempo e ne fa
dono; gli altri due conoscevano bene la legge del Signore ma non avevano compreso che “pienezza
della legge è la carità” (Rom 13,10).
Il dono dell’ascolto
Ascoltare è l’atteggiamento fondamentale per chi si lascia condurre dallo Spirito. È far riecheggiare
lo shemà di Deut 6, 4-9.
Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto
il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore.
Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via,
quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come
un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte. Il Papa ha però
precisato che si tratta di un ascolto di Dio, fino a sentire con Lui il grido del popolo; ascolto del
popolo, fino a respirarvi la volontà a cui Dio ci chiama.
La disponibilità a un confronto sincero
Dal dono dell’ascolto può scaturire la disponibilità a un confronto sincero. Qui penso in particolare
ai Consigli Pastorali parrocchiali, che talvolta si riducono a rappresentanze inerti di parti del
territorio o di gruppi presenti in parrocchia, o addirittura luogo sterile di comunicazioni, piuttosto
che spazio di confronto e lievito di comunione.
È solo dal confronto nutrito della luce della Parola e della sapienza del Magistero che ci si può
aprire ad una vera conversione pastorale.
Possiamo imparare dalla famiglia a costruire la comunità; una famiglia dove si vivono
quotidianamente i tre atteggiamenti indicati da Papa Francesco: permesso, grazie, scusa. La
famiglia è il metodo con cui avvicinarsi alle ferite del corpo di Cristo che ci è affidato. La famiglia si
presenta quale autentica Chiesa domestica, che si allarga alla famiglia delle famiglie che è la
comunità ecclesiale.
Mantenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo
Si tratterà allora di mantenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo per capire come procedere.
Papa Francesco ci chiede di diffondere “la forza rivoluzionaria della tenerezza” che convince ogni
uomo di essere amato da Dio. Si tratta allora di abbandonare quel vecchio criterio del “si è sempre
fatto così” per aprirsi a tre nuovi atteggiamenti: ascoltare, discernere, e convertirsi.
E’ necessaria una vera e propria conversione, seguendo il solco tracciato dagli ultimi Pontefici,
nell’impostare la comunità cristiana come una vera Famiglia di famiglie.
Un cambio di passo
L’attuale Pontificato ci chiede di osare più Vangelo, di incontrare le periferie, di essere portatori di
una Chiesa che «non cresce per proselitismo ma per attrazione», con un rinnovato lavoro ricco di
relazioni umane su tutto il territorio. Dove la pastorale si è rinchiusa in un ambito, in una angusta
visione del proprio gruppo, quella stanza è diventata asfittica e l’aria irrespirabile. Quando invece
la cura pastorale della persona e della famiglia si è aperta alla fantasia creativa della Trinità, ciò ha
permesso di scrivere pagine sempre nuove nell’ossatura della comunità cristiana, consapevoli che
«vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito» (1 Cor 12,4). Questo richiede di avere acquisito
uno sguardo ecclesiale armonico e benevolo su movimenti, associazioni e nuove comunità, capace
di tradurre nella carne la Parola: «amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello
stimarvi a vicenda» (Rom 12,10).
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«Dalla cultura dello scarto alla cultura dell’incontro»
Costruire la comunità avendo nella famiglia il metodo, implica dare il primato alla paternità di Dio
e quindi riconoscere la paternità del presbitero e la maternità della Chiesa. È proprio il sacramento
della coppia che può permettere di passare «dalla cultura dello scarto alla cultura dell’incontro».
In famiglia non puoi scartare chi è parte di te nel legame di sangue: c’è un’appartenenza
incancellabile. Non puoi scartare tuo padre e nemmeno tua suocera: anche se sono anni che non
parli con loro, c’è qualcosa che ti lega nella parentela e che non puoi recidere. Così è tra il
presbitero e la sua comunità, e fra la piccola chiesa domestica e la Chiesa universale. È soltanto
concependo la Chiesa come una famiglia che si potrà superare ogni divisione e sperimentare il
dono di Gesù: «la vera guarigione (…) è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla
grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano». Questa corresponsabilità
nelle parrocchie fra le famiglie e il sacerdote sarà determinante per portare un lievito nuovo di
comunione alla vita della comunità parrocchiale, evitando per entrambi il rischio del clericalismo.
Così, la famiglia aiuta il sacerdote a incarnare nel quotidiano il suo ministero fra i pannolini, le
pappe, i dialoghi con i figli adolescenti e gli anziani da accudire. Il sacerdote dona alla famiglia
l’ossigeno della vita spirituale, la bussola della Parola di Dio, il corpo vivo di Cristo Sposo. In tal
modo, la Famiglia di famiglie che è la comunità, rinasce.
Da dove partire?
Un motto: "Tocca a me". Tutti dobbiamo metterci in cammino. E’ essenziale vivere la fede, NOI.
La nostra vita non avanza per ordini, per imposizioni, ma per una passione, la mia vita non
cammina per colpi di volontà ma per un ATTRAZIONE, sono cristiano per attrazione. La passione
per Dio nasce dall’aver scoperto la bellezza di Dio, la bellezza di Cristo. Dio non ci attira perché è
l’onnipotente, non ci seduce perché è l’onnisciente, per queste cose si può obbedire ma non
amare. Dio mi seduce con il volto e la storia di Cristo. Quest’ uomo libero come nessuno, amore
come nessuno, uomo come nessuno. San Giovanni Piamarta aveva scelto per se questo bel
proverbio di S. Francesco di Sales: “A Dio si va per addizione e non per sottrazione”: cercando, cioè
di darGLI sempre di più, senza mai ridurre la propria offerta.
Dio preferisce essere amato che obbedito da questi liberi meschini, splendidi figli che noi siamo.
S. Paolo lo dice bene: “Io corro perché conquistato da Cristo”. (Fil. 3,13).
Un detto medioevale dice: “I virtuosi camminano, i sapienti corrono, gli innamorati volano.”
Se volessimo trovare una frase che sintetizza il cammino di fede, potremmo dire: “La fede è avere
una storia d’amore con Dio.” Non una pratica di precetti, non osservare delle norme, non una
vuota ritualità, ma una storia d’amore con una persona, con un TU presente e intimo alla mia vita.
Vorrei concludere questa riflessione con l’Oremus della IV domenica di Pasqua:
“O Dio che unisci in un solo cuore le menti dei tuoi fedeli, concedi al tuo popolo di amare ciò che
comandi e desiderare ciò che prometti, perché fra le vicende del mondo, là siano fissi i nostri cuori
dove è la vera gioia.”
Noi viviamo in questo mondo dove siamo attratti, sedotti, condizionati dagli alti e bassi delle
vicende umane. Anche per questo abbiamo bisogno di un punto di riferimento sicuro che ci
permetta di vivere in questo mondo che passa, senza passare con il mondo. Chiediamo a Dio di
avere fisso il nostro cuore dove è la vera gioia, perché ponga i nostri desideri a contatto con il Suo
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desiderio di farci felici e ponga il nostro cuore nel Suo cuore, che non delude mai per essere, con la
nostra vita, segno della sua misericordia.
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