ANSALDO NOTE STORICHE - Fondazione Bergamo nella Storia

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ANSALDO NOTE STORICHE - Fondazione Bergamo nella Storia
L’AEREO ANSALDO A-1 BALILLA.
NOTE STORICHE E TECNICHE IN VISTA DEL RESTAURO DI ALBERTO CASIRATI
Il restauro di un aereo della prima guerra mondiale non è cosa di tutti i giorni, soprattutto se il velivolo in
questione è uno dei due soli sopravvissuti al mondo del suo tipo ed è in condizioni ancora originali, seppur non
perfette. Per diversi motivi si contano pochi esemplari originali di apparecchi degli anni dieci e non tutti sono
stati restaurati in modo impeccabile.
Il restauro accurato di una macchina complessa non richiede solo approfondite conoscenze storiche e
tecniche, manualità considerevole, notevoli mezzi finanziari e passione per il proprio lavoro; presuppone
innanzitutto uno studio sistematico e approfondito della macchina, sia dal punto di vista storico che da quello
tecnico. Infatti è necessario intervenire sull’oggetto che si desidera conservare solo dopo averne
accuratamente studiato ogni aspetto, per scoprire ciò che ancora non si conosce sul suo passato e per evitare
di cancellare tracce preziose che, in quanto espressione visibile della vita del velivolo, ne raccontano la storia.
In questo senso ogni restauro pone problemi diversi, direi anzi unici, perché unica è la storia dell’oggetto che si
desidera conservare. Un buon restauro comincia molto prima di ‘metter mano agli attrezzi’. E così in vista
dell’intervento sull’aereo Ansaldo A-1 Balilla, conservato presso il Museo storico della città di Bergamo, è stato
necessario non solo considerare la struttura tecnica del velivolo, ma anche ripercorrerne le vicende.
La storia - La guerra di trincea, per la quale la prima guerra mondiale sarebbe divenuta
tristemente famosa, impose ben presto il ricorso al mezzo aereo per l’osservazione delle posizioni avversarie e
per il loro bombardamento. Si presentò, di conseguenza, il problema di contrastare l’azione aerea nemica e,
dati gli scarsi risultati ottenibili con l’artiglieria contraerea di allora, nacque l’aereo da caccia. Relativamente
piccolo, ben armato, veloce e maneggevole, questo tipo d’apparecchio aveva un compito particolare: cercare,
raggiungere e abbattere ogni velivolo avversario, impedendogli così di completare la sua missione. Fokker,
Nieuport, Sopwith, Pfalz, Hanriot, Spad: questi i nomi dei migliori caccia della Grande guerra; nomi francesi,
inglesi e tedeschi. E gli italiani? La nostra aviazione militare fu una delle più potenti del mondo nel 1918, in
grado di dominare, per tutto l’ultimo anno di guerra, un avversario coriaceo come quello austroungarico.
L’industria italiana costruì alcuni tra i migliori velivoli del conflitto, come i bombardieri Caproni, i ricognitori
Pomilio e Sva e l’idrocaccia Macchi M5, uno splendido idrovolante monoposto capace di rivaleggiare con
qualunque caccia terrestre. Ma i nostri cacciatori più famosi, come Baracca, Scaroni, Fulco Ruffo di Calabria,
Ranza, Piccio e Baracchini, volarono quasi esclusivamente su aeroplani di concezione francese,
principalmente prodotti su licenza dalla Nieuport-Macchi di Varese. Nulla di strano per quei tempi, in verità. La
stessa cosa accadde a molti piloti inglesi, russi e persino statunitensi. Verso la fine della guerra, però, gli sforzi
per introdurre un caccia di concezione nazionale si intensificarono e sfociarono in due diverse realizzazioni,
molto simili tra loro, entrambe fabbricate dalla società Ansaldo & C. di Genova: lo Sva e l’A-1 Balilla.
Nonostante le sue ottime caratteristiche, il primo non incontrò i favori dei piloti inviati a provarlo. Fu impiegato
su vasta scala come ricognitore tattico e strategico e viene oggi ricordato, in termini relativi, come il miglior
aereo italiano di tutti i tempi. Il Balilla fu giudicato invece favorevolmente: più piccolo e maneggevole dello Sva,
era anche molto veloce, ma la guerra terminò prima che l’aeroplano potesse essere messo definitivamente a
punto per l’impiego bellico. Alcuni esemplari furono tuttavia forniti alle squadriglie 91 e 70 per le necessarie
prove operative. L’unica vittoria confermata di un Balilla italiano risale al 3 ottobre 1918, quando il tenente
Leopoldo Eleuteri abbatté un caccia Albatros DIII austriaco. Dopo la guerra diversi esemplari di Ansaldo A-1
vennero assegnati ad un piccolo numero di unità operative, senza venire impiegati in attività di particolare
rilievo, con l’eccezione della partecipazione alla missione militare italiana del 1919 in America latina, nell’ambito
della quale l’aereo fu impiegato per voli fra l’Argentina e l’Uruguay1. Il Balilla conobbe anche un certo successo
commerciale. In tempi difficili come quelli degli anni 1919–1925 ne vennero infatti venduti diversi esemplari ad
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Argentina, Stati Uniti, Urss, Polonia, Lettonia, Messico, Honduras e Perù. Purtroppo le relative fonti
documentarie sono praticamente inesistenti, ad eccezione di quelle riguardanti l’utilizzo da parte polacca. La
Polonia fu il paese che impiegò più estesamente il Balilla per attività belliche, principalmente nelle guerre
contro l'Urss e l'Ucraina. Nel 1919 l’aeronautica polacca acquistò dall'Italia trentaquattro aeroplani, prodotti tra
luglio e ottobre 1919 dalla ex Pomilio e subito li assegnò ai suoi gruppi da caccia 18 e 7 (il famoso Kosciuzko).
Le pressanti esigenze della guerra contro l’Urss, la relativa inesperienza del personale di terra polacco e il fatto
che i motori importati dall’Italia necessitavano di una completa revisione, essendo rimasti inattivi per lungo
tempo, comportarono alcuni problemi tecnici, troppo sbrigativamente imputati ad una presunta inaffidabilità del
motore Spa 6A, che invece, durante la Grande guerra, aveva dimostrato di possedere ottime qualità. In realtà è
ragionevole ritenere che i piloti polacchi fossero abbastanza soddisfatti del loro nuovo aereo, tanto che, già nel
1920, ne fu decisa la produzione su licenza da parte della Zaklady mechaniczne plage i laskiewicz di Lublino.
Nonostante si trattasse di una ditta senza esperienza nella fabbricazione d'aerei, furono commissionati cento
esemplari, dei quali cinquantasette fabbricati fra il 1920 e il 1924. Purtroppo per i polacchi, i velivoli prodotti su
licenza si rivelarono qualitativamente inferiori a quelli prodotti in Italia e manifestarono gravi difetti, che
causarono anche incidenti mortali. Alcuni Balilla polacchi furono assegnati ad unità d'addestramento, come i
gruppi dei reggimenti 2°, 3°, 4°, 5° e 6°. L'impiego polacco dell'A-1 cessò nel 1926. Attualmente si ha notizia
certa della sopravvivenza solo di due esemplari originali: quello della collezione Caproni (matricola A-1 16552)
e quello di proprietà della città di Bergamo (matricola A-1 16553). L’Ansaldo A-1 16553 fu donato dal Municipio
di Genova ad Antonio Locatelli2, uno dei migliori piloti da ricognizione di tutta la prima guerra mondiale, e
venne impiegato nei giorni 1, 2, 3 e 9 settembre 1918 per quattro ricognizioni sull’altipiano del Grappa e del
Piave, per un totale di circa dieci ore di volo. Il 15 settembre 1918 Locatelli fu abbattuto sopra Fiume, mentre
rientrava da una missione di ricognizione a largo raggio, ai comandi di uno Sva 5. L’A–1 fu quindi condotto in
missione da Francesco Ferrarin. L’ultimo volo di questo Balilla avvenne ancora ai comandi di Antonio Locatelli,
sfuggito alla prigionia proprio il giorno dell’armistizio. Si trattò del trasferimento da Ghedi a Ponte S.Pietro,
avvenuto il 24 agosto 1920. Poco dopo Locatelli donò il velivolo alla città di Bergamo.
Le caratteristiche tecniche - L’Ansaldo A–1 è un ottimo esempio del livello tecnologico
raggiunto dall’industria aeronautica italiana verso la fine del primo conflitto mondiale, a soli quattordici anni dal
primo volo dei fratelli Wright e dopo nove anni dal primo volo effettuato in Italia. Il Balilla fu prodotto in due
versioni principali, che differivano tra loro solamente per l’apertura alare e per l’unità motrice (rispettivamente
maggiorata e più potente nella seconda versione, denominata A-1bis).
La fusoliera - La struttura di fusoliera è l’elemento più interessante dal punto di vista
tecnico. La progettazione della maggior parte dei velivoli di quell’epoca seguiva ancora criteri in massima parte
empirici. Si cercava semplicemente di garantire un’adeguata robustezza alla cellula facendo tesoro
dell’esperienza passata e applicando un certo grado di prudenza, cioè sovradimensionando i componenti con
funzione strutturale. Nel 1917, però, gli ingegneri Savoja e Verduzio, che prestavano servizio presso la Dtam
(Direzione tecnica aeronautica militare) progettarono un biplano monoposto applicando criteri scientifici e
giungendo ad ottimi risultati. Poco tempo dopo l’Ansaldo mise in produzione quell’aeroplano con il nome di
Sva. L’originalità dei criteri di dimensionamento applicati dai due progettisti della Dtam si tradusse in forme del
tutto particolari: la parte anteriore della fusoliera, che ospitava serbatoi, motore e abitacolo, aveva sezione
rettangolare, ma subito dietro alla cabina la sezione diventava triangolare, conferendo maggior robustezza alla
cellula e un risparmio in termini di materiali e di peso. Quando l’ingegner Brezzi (ingegnere meccanico presso
la ditta Ansaldo) progettò il Balilla, fece naturalmente tesoro degli studi di Savoja e Verduzio e dei relativi
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processi produttivi Ansaldo, adottando la medesima struttura di fusoliera dello Sva. La manutenzione interna
era facilitata da sette portelli d’ispezione circolari, situati sui fianchi di fusoliera e nella parte ventrale. Il motore
era coperto da due pannelli totalmente asportabili in lamierino d’alluminio, connessi fra loro da una lunga
cerniera longitudinale. Il radiatore del liquido di raffreddamento, di forma trapezoidale, era fissato davanti al
muso e ne costituiva la parte anteriore. Il serbatoio dell’olio era installato dietro al motore, sul fondo della
fusoliera, anteriormente al serbatoio principale del carburante. Quest’ultimo, assicurato alla struttura con due
fasce metalliche, poteva essere sganciato in volo. Dietro il sedile del pilota poteva essere installata una
macchina fotografica planimetrica, fissata verticalmente alla struttura per mezzo di supporti elastici. Un foro di
circa 200 mm di diametro, chiuso da un vetro, consentiva l’effettuazione delle riprese. Con tutta probabilità, la
macchina fotografica montata sull’A-1 16553 era del tipo Lamperti e Garbagnati. Si trattava di un ottimo
apparecchio di fabbricazione nazionale, in grado di rivaleggiare con i migliori prodotti tedeschi dell’epoca. Era
dotato di un caricatore da dodici, ventiquattro o quarantotto lastre, che potevano essere esposte dal pilota
attraverso un comando manuale a cavo flessibile tipo Bowden. Nella fusoliera trovavano alloggiamento anche
le due armi tipo Vickers da 7,7 mm (con le relative cassette per il munizionamento). Le mitragliatrici Vickers,
sincronizzate con il movimento dell’elica, avevano una cadenza di tiro libero di circa 500 colpi al minuto
ciascuna. Il pattino di coda, che aveva anche funzione frenante data la mancanza di freni alle ruote, era
costituito da una mezza balestra di cinque elementi d’acciaio, fissata su un supporto ligneo applicato sotto la
coda.
Le superfici di volo - Le ali e i piani di coda erano di concezione tradizionale, con struttura in legno e
rivestimento in tela, connesse fra loro e alla fusoliera da montanti cavi in acciaio, controventati da tiranti in filo
d’acciaio intrecciato. L’ala superiore era basata su due longheroni a scatola e quaranta centine, più
settantaquattro false centine per l’irrobustimento del bordo d’attacco alare. Le ali inferiori seguivano lo stesso
schema costruttivo. Un cavo d’acciaio costituiva il bordo d’uscita di tutte le superfici di volo, conferendo loro il
caratteristico profilo ondulato, a sua volta causato dall’applicazione della vernice tenditela.
Il carrello - il carrello era basato su due elementi a ‘V’ e su un assale in profilato cavo
d’acciaio, saldati fra loro. Le ruote erano montate su un asse metallico la cui escursione verticale era limitata da
ammortizzatori a corda elastica. Il complesso era fissato alla fusoliera per mezzo di piastre metalliche
imbullonate.
L’unità propulsiva - L’Ansaldo A-1 era propulso da un’elica bipala in legno laminato,
azionata da un motore a sei cilindri in linea. Quasi tutti i motori d’aereo di questo tipo vennero derivati, con
opportuni alleggerimenti e aggiustamenti, da motori per automobile. Il loro sviluppo e la loro produzione furono
affidati, naturalmente, alle stesse fabbriche automobilistiche, con buoni risultati, sia in termini qualitativi che
quantitativi. Il Balilla adottò due tipi di motore, entrambi fabbricati dalla ditta piemontese Spa (già famosa per le
sue automobili d’inizio secolo) e, su licenza, dalla ditta Breda. La versione A-1 ricevette il modello 6A da 200
cv, mentre la variante successiva fu propulsa dal più potente 6A surcompresso da 220 cv.
L’abitacolo - Semplice, secondo gli standard dell’epoca, ma con dotazione completa,
l’abitacolo era dotato di pannello strumenti, manette, barra di comando, pedaliera, pompa a mano per la messa
in pressione del serbatoio della benzina e interruttore d’accensione. Il pannello strumenti raccoglieva
l’indicatore del livello del carburante, il tachimetro, il manometro dell’olio, l’interruttore d’avviamento, i selettori
d’alimentazione, la pompa a mano e l’ingrassatore. Il sedile, in legno compensato, era provvisto di cuscino e di
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schienale imbottito. Grazie alla staffa di salita ricavata nel lato sinistro di fusoliera, l’accesso all’abitacolo era
piuttosto agevole. La posizione dell’ala superiore, poco al di sopra del livello degli occhi del pilota, garantiva
una buona visibilità in tutte le direzioni.
Il sistema di pilotaggio - Il pilota controllava gli alettoni fissati sull’ala superiore per
mezzo di un sistema di rinvii rigido, composto da barre metalliche e snodi, del tutto simile a quello già adottato
qualche anno prima dai sesquiplani Nieuport. Il timone di direzione, invece, era comandato da due cavi
d’acciaio connessi alla pedaliera. I ritmi del motore erano regolati da una manetta posta sul lato sinistro
dell’abitacolo, sullo stesso quadrante della leva di arricchimento della miscela. Il Balilla era un aeroplano
piacevole da pilotare, dotato d’ottima velocità orizzontale e di buona maneggevolezza. Ben bilanciato, non
soffriva dell’instabilità eccessiva di alcuni suoi più famosi contemporanei (come il Sopwith Camel inglese, per
esempio). Nel dopoguerra le sue buone qualità di volo e la robustezza della sua cellula consentirono
d’impiegarlo in ruoli molto diversi da quello per il quale era stato progettato. Infatti fu utilizzato sia come aereo
scuola che come velivolo d’acrobazia e per gare di velocità.
Il restauro, note introduttive - Finalmente, dopo anni d’attesa, grazie al fattivo
interessamento delle competenti autorità e al supporto della Fondazione famiglia Legler, sponsor dell’iniziativa,
è stato possibile avviare il progetto di restauro. Responsabile di questo progetto è Mauro Gelfi, direttore del
Museo storico della città, da lungo tempo appassionato propugnatore dell’iniziativa, mentre chi scrive è stato
prescelto quale coordinatore tecnico. Questo progetto sarà seguito passo per passo anche dagli altri
componenti del comitato scientifico, fra i quali l’Associazione arma aeronautica, sezione di Bergamo.
Lo scopo che si vuole raggiungere, già adombrato nelle premesse, è triplice: riportare il velivolo alle sue
condizioni originarie mediante un restauro di tipo rigorosamente conservativo, risanando il maggior numero
possibile di componenti originali e limitando le sostituzioni al minimo indispensabile; garantire la conservazione
dell’aereo nel tempo, anche mediante una sua più adatta collocazione a restauro ultimato; costituire un archivio
storico e tecnico sul velivolo, garantendone la consultazione a studiosi e appassionati.
Tutti gli interventi materiali, ad eccezione di quelli relativi ai dipinti, verranno effettuati dalla sezione di Torino del
Gruppo amici velivoli storici (Gavs). Questo gruppo di appassionati restauratori può già vantare una notevole
esperienza in materia, avendo portato a termine tre progetti analoghi a quello dell’Ansaldo A-1 Balilla con ottimi
risultati: la pulizia e il restauro parziale dell’Ansaldo Sva-10, a bordo del quale Gabriele D’Annunzio partecipò al
famoso raid su Vienna del 9 agosto 1918 (attualmente esposto al Vittoriale degli italiani), il restauro dello Sva–9
di proprietà di Alenia Spa e quello dello Spad SVII di Francesco Baracca (attualmente esposto nel museo
dedicato a quest’ultimo, il maggiore asso italiano della prima guerra mondiale).
La rimozione dell’apparecchio dai locali dell’ex Museo del Risorgimento di Bergamo, presso la Rocca, è stata
portata a termine con successo il giorno 23 settembre 2000. Il progetto di restauro, denominato Progetto
S.Giorgio, è stato ufficialmente presentato nella mattina dello stesso giorno, nel corso di una cerimonia alla
quale hanno partecipato le autorità cittadine. Grazie al contributo della fanfara dell’Arma aeronautica e a quello
dell’Arma dei carabinieri, che ha messo a disposizione un elicottero per un’esibizione acrobatica, la cerimonia
ha concluso nel modo migliore la prima parte del progetto, relativa allo smontaggio e al trasporto del velivolo,
che ora si trova a Leinì, presso i laboratori di restauro del Gavs. Non è ancora possibile elencare
compiutamente le fasi del restauro e i tempi previsti, perché molto dipende dall’effettivo stato di conservazione
della cellula, determinabile solo dopo averne rimosso completamente il rivestimento e averne analizzato
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compiutamente le parti. Uno dei motivi d’interesse specifico legati a questo restauro riguarda i dipinti che
ornano il lato destro della fusoliera e l’estradosso delle semiali inferiori. L’A-1 è il solo esemplare decorato
anche sulle superfici di volo, uno dei motivi che rendono questa macchina davvero unica. Si tratta di opere
eseguite dai pittori Nattini e Di Stefano, entrambi di mano esperta, con buona vena artistica e ottima tecnica:
sono quindi due veri e propri dipinti, senza dubbio superiori agli usuali emblemi personali o di squadriglia che
adornavano così spesso gli aeroplani di quel periodo storico. Il restauro di queste opere verrà eseguito da un
professionista del settore, che curerà le necessarie operazioni di pulizia e l’eventuale rigenerazione e
protezione, garantendone la conservazione per lungo tempo.
Il completamento del progetto è previsto orientativamente per la fine dell’anno 2002. L’aeroplano verrà quindi
esposto nei locali del chiostro di S. Francesco, in piazza Mercato del fieno, attuale sede del Museo storico della
città. I bergamaschi potranno così finalmente tornare ad ammirare questo splendido velivolo, simbolo di
un’epoca aviatoria ricca di fascino e quasi sconosciuta.
1
Per eventuali approfondimenti rimandiamo il lettore alle seguenti fonti bibliografiche: R.Gentilli, P.Varriale, I reparti dell’aviazione italiana
nella Grande guerra, Roma, 1999; B. Di Martino, Ali sulle trincee, Roma, 1999; A.V., La Grande guerra aerea 1915–1918, Valdagno, 1998;
C. Bianchi, Antonio Locatelli e Giovanni Arrigoni: due aviatori bergamaschi, “Quaderni del Museo storico della città di Bergamo”, 2000,
n.20; G.Bignozzi, B.Catalanotto, Storia degli aerei d’Italia dal 1911 al 1961, Roma, 1962; P.Vergnano, Origini dell’aviazione in Italia,
Genova, 1964; “Windsock international”, novembre-dicembre 1990, vol. 6, n. 6, p. 8-14; “Notiziario modellistico”, 1997, n. 2, p. 3-18.
2
Antonio Locatelli, nato a Bergamo il 19 aprile 1895, compie in città studi tecnici e nel 1913 comincia a lavorare con la qualifica di
capotecnico presso le acciaierie Ansaldo di Genova. Con il fratello Carlo (tenente degli alpini, morto nell'assalto di Cima Presena nel
maggio 1918), inizia nel 1910 la propria attività alpinistica, che lo porterà nel 1914 a scalare il Cervino e il Monte Rosa. Chiamato alle armi
nel gennaio 1915 è assegnato al battaglione aviatori; dopo aver conseguito il brevetto, viene mandato al fronte con il compito specifico di
ricognitore sul campo nemico, attività per la quale gli viene concessa la medaglia d'argento. Abbattuto una prima volta dagli austriaci il 5
giugno 1916 durante una ricognizione nei pressi di Rovereto, partecipa a numerose attività belliche e il 2 febbraio 1918 passa alla
87asquadriglia, la Serenissima. Nell'agosto 1918, come ufficiale di rotta, è con D'Annunzio, Palli, Allegri, Granzarolo, Censi, Sarti, Massoni
e Finzi nell'azione culminata con il lancio di manifestini tricolori su Vienna. Il 15 settembre dello stesso anno viene abbattuto e fatto
prigioniero dagli austriaci, ma riesce a fuggire il 2 novembre. Nel luglio 1919, con la temperatura a -35°, pilotando un velivolo privo di
chiusure e senza l'ausilio dell'ossigeno, compie la trasvolata delle Ande, impresa che lo rende celebre. Ammiratore e amico di D'Annunzio,
partecipa all'impresa di Fiume, proponendosi di aiutare il poeta. Ritornato in città, aderisce ai Fasci e partecipa ad alcune spedizioni
punitive contro socialisti e sindacalisti. Nel gennaio 1923, con un biglietto di terza classe, parte per un giro del mondo, a testimonianza e
ricordo del quale rimangono bellissime fotografie, taccuini di viaggio e numerosi oggetti raccolti nel corso degli spostamenti. Insignito da
Mussolini di medaglia d'oro nel novembre 1923, eletto deputato, l'anno successivo compie il tentativo di attraversare l'Atlantico seguendo la
rotta nord. Fotografo di grande qualità e buon disegnatore, dopo il 1925 riprende le proprie attività alpinistiche e, in veste di presidente del
Club alpino italiano di Bergamo, favorisce la costruzione di rifugi in alta montagna (del 1930 è il rifugio al Livrio). Costretto a non presentarsi
alle elezioni del 1929 e allontanato dalla Compagnia aereo espresso per dissapori con ambienti politici del partito, diventa redattore del
"Corriere della sera" (unica sua fonte di reddito) e nel giugno 1932 è designato, dal podestà di Bergamo, conservatore della Rocca e del
Museo del Risorgimento. Viene a sua volta nominato podestà di Bergamo nel novembre 1930, ma, nonostante le riconosciute capacità
amministrative, un anno dopo è costretto a lasciare l'incarico per profonde divergenze con il Partito fascista in materia urbanistica (in
particolare sul piano particolareggiato di città alta) e di edilizia pubblica. Nel gennaio 1936 si arruola come volontario dell'aviazione nella
guerra di occupazione italiana in Africa ed è destinato all'attività di ricognizione in Somalia. Muore a Lekemti, in seguito ad un'imboscata
nemica, il 27 giugno 1936. Il giorno stesso gli viene conferita la seconda medaglia d'oro al valor militare, alla quale segue la terza, alla
memoria.
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