Il restauro di un aereo della prima guerra mondiale non è cosa di

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Il restauro di un aereo della prima guerra mondiale non è cosa di
L’AEREO ANSALDO A-1 BALILLA. NOTE STORICHE E TECNICHE IN VISTA DEL RESTAURO
Il restauro di un aereo della prima guerra mondiale non è cosa di tutti i giorni, soprattutto se il velivolo in
questione è uno dei due soli sopravvissuti al mondo del suo tipo ed è in condizioni ancora originali, seppur non
perfette.
Per diversi motivi si contano pochi esemplari originali di apparecchi degli anni dieci e non tutti sono stati
restaurati in modo impeccabile.
Il restauro accurato di una macchina complessa non richiede solo approfondite conoscenze storiche e
tecniche, manualità considerevole, notevoli mezzi finanziari e passione per il proprio lavoro; presuppone
innanzitutto uno studio sistematico e approfondito della macchina, sia dal punto di vista storico che da quello
tecnico. Infatti è necessario intervenire sull’oggetto che si desidera conservare solo dopo averne
accuratamente studiato ogni aspetto, per scoprire ciò che ancora non si conosce sul suo passato e per evitare
di cancellare tracce preziose che, in quanto espressione visibile della vita del velivolo, ne raccontano la storia.
In questo senso ogni restauro pone problemi diversi, direi anzi unici, perché unica è la storia dell’oggetto che si
desidera conservare.
Un buon restauro comincia molto prima di ‘metter mano agli attrezzi’. E così in vista dell’intervento sull’aereo
Ansaldo A-1 Balilla, conservato presso il Museo storico della città di Bergamo, è stato necessario non solo
considerare la struttura tecnica del velivolo, ma anche ripercorrerne le vicende.
La storia - La guerra di trincea, per la quale la prima guerra mondiale sarebbe divenuta tristemente famosa,
impose ben presto il ricorso al mezzo aereo per l’osservazione delle posizioni avversarie e per il loro
bombardamento. Si presentò, di conseguenza, il problema di contrastare l’azione aerea nemica e, dati gli
scarsi risultati ottenibili con l’artiglieria contraerea di allora, nacque l’aereo da caccia. Relativamente piccolo,
ben armato, veloce e maneggevole, questo tipo d’apparecchio aveva un compito particolare: cercare,
raggiungere e abbattere ogni velivolo avversario, impedendogli così di completare la sua missione. Fokker,
Nieuport, Sopwith, Pfalz, Hanriot, Spad: questi i nomi dei migliori caccia della Grande guerra; nomi francesi,
inglesi e tedeschi. E gli italiani?
La nostra aviazione militare fu una delle più potenti del mondo nel 1918, in grado di dominare, per tutto l’ultimo
anno di guerra, un avversario coriaceo come quello austro-ungarico. L’industria italiana costruì alcuni tra i
migliori velivoli del conflitto, come i bombardieri Caproni, i ricognitori Pomilio e Sva e l’idrocaccia Macchi M5,
uno splendido idrovolante monoposto capace di rivaleggiare con qualunque caccia terrestre. Ma i nostri
cacciatori più famosi, come Baracca, Scaroni, Fulco Ruffo di Calabria, Ranza, Piccio e Baracchini, volarono
quasi esclusivamente su aeroplani di concezione francese, principalmente prodotti su licenza dalla NieuportMacchi di Varese. Nulla di strano per quei tempi, in verità. La stessa cosa accadde a molti piloti inglesi, russi e
persino statunitensi. Verso la fine della guerra, però, gli sforzi per introdurre un caccia di concezione nazionale
si intensificarono e sfociarono in due diverse realizzazioni, molto simili tra loro, entrambe fabbricate dalla
società Ansaldo & C. di Genova: lo Sva e l’A-1 Balilla. Nonostante le sue ottime caratteristiche, il primo non
incontrò i favori dei piloti inviati a provarlo. Fu impiegato su vasta scala come ricognitore tattico e strategico e
viene oggi ricordato, in termini relativi, come il miglior aereo italiano di tutti i tempi. Il Balilla fu giudicato invece
favorevolmente: più piccolo e maneggevole dello Sva, era anche molto veloce, ma la guerra terminò prima che
l’aeroplano potesse essere messo definitivamente a punto per l’impiego bellico. Alcuni esemplari furono
tuttavia forniti alle squadriglie 91 e 70 per le necessarie prove operative. L’unica vittoria confermata di un Balilla
italiano risale al 3 ottobre 1918, quando il tenente Leopoldo Eleuteri abbatté un caccia Albatros DIII austriaco.
Dopo la guerra diversi esemplari di Ansaldo A-1 vennero assegnati ad un piccolo numero di unità operative,
senza venire impiegati in attività di particolare rilievo, con l’eccezione della partecipazione alla missione militare
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italiana del 1919 in America latina, nell’ambito della quale l’aereo fu impiegato per voli fra l’Argentina e
l’Uruguay1.
Il Balilla conobbe anche un certo successo commerciale. In tempi difficili come quelli degli anni 1919–1925 ne
vennero infatti venduti diversi esemplari ad Argentina, Stati Uniti, Urss, Polonia, Lettonia, Messico, Honduras e
Perù. Purtroppo le relative fonti documentarie sono praticamente inesistenti, ad eccezione di quelle riguardanti
l’utilizzo da parte polacca.
La Polonia fu il paese che impiegò più estesamente il Balilla per attività belliche, principalmente nelle guerre
contro l'Urss e l'Ucraina. Nel 1919 l’aeronautica polacca acquistò dall'Italia trentaquattro aeroplani, prodotti tra
luglio e ottobre 1919 dalla ex Pomilio e subito li assegnò ai suoi gruppi da caccia 18 e 7 (il famoso Kosciuzko).
Le pressanti esigenze della guerra contro l’Urss, la relativa inesperienza del personale di terra polacco e il fatto
che i motori importati dall’Italia necessitavano di una completa revisione, essendo rimasti inattivi per lungo
tempo, comportarono alcuni problemi tecnici, troppo sbrigativamente imputati ad una presunta inaffidabilità del
motore Spa 6A, che invece, durante la Grande guerra, aveva dimostrato di possedere ottime qualità. In realtà è
ragionevole ritenere che i piloti polacchi fossero abbastanza soddisfatti del loro nuovo aereo, tanto che, già nel
1920, ne fu decisa la produzione su licenza da parte della Zaklady mechaniczne plage i laskiewicz di Lublino.
Nonostante si trattasse di una ditta senza esperienza nella fabbricazione d'aerei, furono commissionati cento
esemplari, dei quali cinquantasette fabbricati fra il 1920 e il 1924. Purtroppo per i polacchi, i velivoli prodotti su
licenza si rivelarono qualitativamente inferiori a quelli prodotti in Italia e manifestarono gravi difetti, che
causarono anche incidenti mortali. Alcuni Balilla polacchi furono assegnati ad unità d'addestramento, come i
gruppi dei reggimenti 2°, 3°, 4°, 5° e 6°. L'impiego polacco dell'A-1 cessò nel 1926.
Attualmente si ha notizia certa della sopravvivenza solo di due esemplari originali: quello della collezione
Caproni (matricola A-1 16552) e quello di proprietà della città di Bergamo (matricola A-1 16553). L’Ansaldo A-1
16553 fu donato dal Municipio di Genova ad Antonio Locatelli2, uno dei migliori piloti da ricognizione di tutta la
prima guerra mondiale, e venne impiegato nei giorni 1, 2, 3 e 9 settembre 1918 per quattro ricognizioni
sull’altipiano del Grappa e del Piave, per un totale di circa dieci ore di volo. Il 15 settembre 1918 Locatelli fu
abbattuto sopra Fiume, mentre rientrava da una missione di ricognizione a largo raggio, ai comandi di uno Sva
5. L’A–1 fu quindi condotto in missione da Francesco Ferrarin. L’ultimo volo di questo Balilla avvenne ancora ai
comandi di Antonio Locatelli, sfuggito alla prigionia proprio il giorno dell’armistizio. Si trattò del trasferimento da
Ghedi a Ponte S. Pietro, avvenuto il 24 agosto 1920. Poco dopo Locatelli donò il velivolo alla città di Bergamo.
Le caratteristiche tecniche
L’Ansaldo A–1 è un ottimo esempio del livello tecnologico raggiunto dall’industria aeronautica italiana verso la
fine del primo conflitto mondiale, a soli quattordici anni dal primo volo dei fratelli Wright e dopo nove anni dal
primo volo effettuato in Italia.
Il Balilla fu prodotto in due versioni principali, che differivano tra loro solamente per l’apertura alare e per l’unità
motrice (rispettivamente maggiorata e più potente nella seconda versione, denominata A-1bis).
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La fusoliera
La struttura di fusoliera è l’elemento più interessante dal punto di vista tecnico. La progettazione della maggior
parte dei velivoli di quell’epoca seguiva ancora criteri in massima parte empirici. Si cercava semplicemente di
garantire un’adeguata robustezza alla cellula facendo tesoro dell’esperienza passata e applicando un certo
grado di prudenza, cioè sovradimensionando i componenti con funzione strutturale. Nel 1917, però, gli
ingegneri Savoja e Verduzio, che prestavano servizio presso la Dtam (Direzione tecnica aeronautica militare)
progettarono un biplano monoposto applicando criteri scientifici e giungendo ad ottimi risultati. Poco tempo
dopo l’Ansaldo mise in produzione quell’aeroplano con il nome di Sva. L’originalità dei criteri di
dimensionamento applicati dai due progettisti della Dtam si tradusse in forme del tutto particolari: la parte
anteriore della fusoliera, che ospitava serbatoi, motore e abitacolo, aveva sezione rettangolare, ma subito
dietro alla cabina la sezione diventava triangolare, conferendo maggior robustezza alla cellula e un risparmio in
termini di materiali e di peso.
Quando l’ingegner Brezzi (ingegnere meccanico presso la ditta Ansaldo) progettò il Balilla, fece naturalmente
tesoro degli studi di Savoja e Verduzio e dei relativi processi produttivi Ansaldo, adottando la medesima
struttura di fusoliera dello Sva.
La manutenzione interna era facilitata da sette portelli d’ispezione circolari, situati sui fianchi di fusoliera e nella
parte ventrale. Il motore era coperto da due pannelli totalmente asportabili in lamierino d’alluminio, connessi fra
loro da una lunga cerniera longitudinale. Il radiatore del liquido di raffreddamento, di forma trapezoidale, era
fissato davanti al muso e ne costituiva la parte anteriore. Il serbatoio dell’olio era installato dietro al motore, sul
fondo della fusoliera, anteriormente al serbatoio principale del carburante. Quest’ultimo, assicurato alla struttura
con due fasce metalliche, poteva essere sganciato in volo. Dietro il sedile del pilota poteva essere installata
una macchina fotografica planimetrica, fissata verticalmente alla struttura per mezzo di supporti elastici. Un foro
di circa 200 mm di diametro, chiuso da un vetro, consentiva l’effettuazione delle riprese. Con tutta probabilità, la
macchina fotografica montata sull’A-1 16553 era del tipo Lamperti e Garbagnati. Si trattava di un ottimo
apparecchio di fabbricazione nazionale, in grado di rivaleggiare con i migliori prodotti tedeschi dell’epoca. Era
dotato di un caricatore da dodici, ventiquattro o quarantotto lastre, che potevano essere esposte dal pilota
attraverso un comando manuale a cavo flessibile tipo Bowden. Nella fusoliera trovavano alloggiamento anche
le due armi tipo Vickers da 7,7 mm (con le relative cassette per il munizionamento). Le mitragliatrici Vickers,
sincronizzate con il movimento dell’elica, avevano una cadenza di tiro libero di circa 500 colpi al minuto
ciascuna.
Il pattino di coda, che aveva anche funzione frenante data la mancanza di freni alle ruote, era costituito da una
mezza balestra di cinque elementi d’acciaio, fissata su un supporto ligneo applicato sotto la coda.
Le superfici di volo
Le ali e i piani di coda erano di concezione tradizionale, con struttura in legno e rivestimento in tela, connesse
fra loro e alla fusoliera da montanti cavi in acciaio, controventati da tiranti in filo d’acciaio intrecciato. L’ala
superiore era basata su due longheroni a scatola e quaranta centine, più settantaquattro false centine per
l’irrobustimento del bordo d’attacco alare. Le ali inferiori seguivano lo stesso schema costruttivo. Un cavo
d’acciaio costituiva il bordo d’uscita di tutte le superfici di volo, conferendo loro il caratteristico profilo ondulato,
a sua volta causato dall’applicazione della vernice tenditela.
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Il carrello
Il carrello era basato su due elementi a ‘V’ e su un assale in profilato cavo d’acciaio, saldati fra loro. Le ruote
erano montate su un asse metallico la cui escursione verticale era limitata da ammortizzatori a corda elastica. Il
complesso era fissato alla fusoliera per mezzo di piastre metalliche imbullonate.
L’unità propulsiva
L’Ansaldo A-1 era propulso da un’elica bipala in legno laminato, azionata da un motore a sei cilindri in linea.
Quasi tutti i motori d’aereo di questo tipo vennero derivati, con opportuni alleggerimenti e aggiustamenti, da
motori per automobile. Il loro sviluppo e la loro produzione furono affidati, naturalmente, alle stesse fabbriche
automobilistiche, con buoni risultati, sia in termini qualitativi che quantitativi.
Il Balilla adottò due tipi di motore, entrambi fabbricati dalla ditta piemontese Spa (già famosa per le sue
automobili d’inizio secolo) e, su licenza, dalla ditta Breda. La versione A-1 ricevette il modello 6A da 200 cv,
mentre la variante successiva fu propulsa dal più potente 6A surcompresso da 220 cv.
L’abitacolo
Semplice, secondo gli standard dell’epoca, ma con dotazione completa, l’abitacolo era dotato di pannello
strumenti, manette, barra di comando, pedaliera, pompa a mano per la messa in pressione del serbatoio della
benzina e interruttore d’accensione. Il pannello strumenti raccoglieva l’indicatore del livello del carburante, il
tachimetro, il manometro dell’olio, l’interruttore d’avviamento, i selettori d’alimentazione, la pompa a mano e
l’ingrassatore. Il sedile, in legno compensato, era provvisto di cuscino e di schienale imbottito. Grazie alla staffa
di salita ricavata nel lato sinistro di fusoliera, l’accesso all’abitacolo era piuttosto agevole. La posizione dell’ala
superiore, poco al di sopra del livello degli occhi del pilota, garantiva una buona visibilità in tutte le direzioni.
Il sistema di pilotaggio
Il pilota controllava gli alettoni fissati sull’ala superiore per mezzo di un sistema di rinvii rigido, composto da
barre metalliche e snodi, del tutto simile a quello già adottato qualche anno prima dai sesquiplani Nieuport. Il
timone di direzione, invece, era comandato da due cavi d’acciaio connessi alla pedaliera. I ritmi del motore
erano regolati da una manetta posta sul lato sinistro dell’abitacolo, sullo stesso quadrante della leva di
arricchimento della miscela. Il Balilla era un aeroplano piacevole da pilotare, dotato d’ottima velocità orizzontale
e di buona maneggevolezza. Ben bilanciato, non soffriva dell’instabilità eccessiva di alcuni suoi più famosi
contemporanei (come il Sopwith Camel inglese, per esempio). Nel dopoguerra le sue buone qualità di volo e la
robustezza della sua cellula consentirono d’impiegarlo in ruoli molto diversi da quello per il quale era stato
progettato. Infatti fu utilizzato sia come aereo scuola che come velivolo d’acrobazia e per gare di velocità.
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Il restauro, note introduttive
Finalmente, dopo anni d’attesa, grazie al fattivo interessamento delle competenti autorità e al supporto della
Fondazione famiglia Legler, sponsor dell’iniziativa, è stato possibile avviare il progetto di restauro.
Responsabile di questo progetto è Mauro Gelfi, direttore del Museo storico della città, da lungo tempo
appassionato propugnatore dell’iniziativa, mentre chi scrive è stato prescelto quale coordinatore tecnico.
Questo progetto sarà seguito passo per passo anche dagli altri componenti del comitato scientifico, fra i quali
l’Associazione arma aeronautica, sezione di Bergamo.
Lo scopo che si vuole raggiungere, già adombrato nelle premesse, è triplice:
riportare il velivolo alle sue condizioni originarie mediante un restauro di tipo rigorosamente
conservativo, risanando il maggior numero possibile di componenti originali e limitando le sostituzioni al minimo
indispensabile;
garantire la conservazione dell’aereo nel tempo, anche mediante una sua più adatta collocazione a
restauro ultimato;
costituire un archivio storico e tecnico sul velivolo, garantendone la consultazione a studiosi e
appassionati.
Tutti gli interventi materiali, ad eccezione di quelli relativi ai dipinti, verranno effettuati dalla sezione di Torino del
Gruppo amici velivoli storici (Gavs). Questo gruppo di appassionati restauratori può già vantare una notevole
esperienza in materia, avendo portato a termine tre progetti analoghi a quello dell’Ansaldo A-1 Balilla con ottimi
risultati: la pulizia e il restauro parziale dell’Ansaldo Sva-10, a bordo del quale Gabriele D’Annunzio partecipò al
famoso raid su Vienna del 9 agosto 1918 (attualmente esposto al Vittoriale degli italiani), il restauro dello Sva–9
di proprietà di Alenia Spa e quello dello Spad SVII di Francesco Baracca (attualmente esposto nel museo
dedicato a quest’ultimo, il maggiore asso italiano della prima guerra mondiale).
La rimozione dell’apparecchio dai locali dell’ex Museo del Risorgimento di Bergamo, presso la Rocca, è stata
portata a termine con successo il giorno 23 settembre 2000. Il progetto di restauro, denominato Progetto
S.Giorgio, è stato ufficialmente presentato nella mattina dello stesso giorno, nel corso di una cerimonia alla
quale hanno partecipato le autorità cittadine. Grazie al contributo della fanfara dell’Arma aeronautica e a quello
dell’Arma dei carabinieri, che ha messo a disposizione un elicottero per un’esibizione acrobatica, la cerimonia
ha concluso nel modo migliore la prima parte del progetto, relativa allo smontaggio e al trasporto del velivolo,
che ora si trova a Leinì, presso i laboratori di restauro del Gavs.
Non è ancora possibile elencare compiutamente le fasi del restauro e i tempi previsti, perché molto dipende
dall’effettivo stato di conservazione della cellula, determinabile solo dopo averne rimosso completamente il
rivestimento e averne analizzato compiutamente le parti.
Uno dei motivi d’interesse specifico legati a questo restauro riguarda i dipinti che ornano il lato destro della
fusoliera e l’estradosso delle semiali inferiori. L’A-1 è il solo esemplare decorato anche sulle superfici di volo,
uno dei motivi che rendono questa macchina davvero unica. Si tratta di opere eseguite dai pittori Nattini e Di
Stefano, entrambi di mano esperta, con buona vena artistica e ottima tecnica: sono quindi due veri e propri
dipinti, senza dubbio superiori agli usuali emblemi personali o di squadriglia che adornavano così spesso gli
aeroplani di quel periodo storico. Il restauro di queste opere verrà eseguito da un professionista del settore, che
curerà le necessarie operazioni di pulizia e l’eventuale rigenerazione e protezione, garantendone la
conservazione per lungo tempo.
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Il completamento del progetto è previsto orientativamente per la fine dell’anno 2002. L’aeroplano verrà quindi
esposto nei locali del chiostro di S. Francesco, in piazza Mercato del fieno, attuale sede del Museo storico della
città. I bergamaschi potranno così finalmente tornare ad ammirare questo splendido velivolo, simbolo di
un’epoca aviatoria ricca di fascino e quasi sconosciuta.
1
Per eventuali approfondimenti rimandiamo il lettore alle seguenti fonti bibliografiche: R.Gentilli, P.Varriale, I
reparti dell’aviazione italiana nella Grande guerra, Roma, 1999; B. Di Martino, Ali sulle trincee, Roma, 1999;
a.v., La Grande guerra aerea 1915–1918, Valdagno, 1998; C. Bianchi, Antonio Locatelli e Giovanni Arrigoni:
due aviatori bergamaschi, “Quaderni del Museo storico della città di Bergamo”, 2000, n.20; G.Bignozzi,
B.Catalanotto, Storia degli aerei d’Italia dal 1911 al 1961, Roma, 1962; P.Vergnano, Origini dell’aviazione in
Italia, Genova, 1964; “Windsock international”, novembre-dicembre 1990, vol. 6, n. 6, p. 8-14; “Notiziario
modellistico”, 1997, n. 2, p. 3-18.
2
Antonio Locatelli, nato a Bergamo il 19 aprile 1895, compie in città studi tecnici e nel 1913 comincia a
lavorare con la qualifica di capotecnico presso le acciaierie Ansaldo di Genova. Con il fratello Carlo (tenente
degli alpini, morto nell'assalto di Cima Presena nel maggio 1918), inizia nel 1910 la propria attività alpinistica,
che lo porterà nel 1914 a scalare il Cervino e il Monte Rosa.
Chiamato alle armi nel gennaio 1915 è assegnato al battaglione aviatori; dopo aver conseguito il brevetto,
viene mandato al fronte con il compito specifico di ricognitore sul campo nemico, attività per la quale gli viene
concessa la medaglia d'argento. Abbattuto una prima volta dagli austriaci il 5 giugno 1916 durante una
ricognizione nei pressi di Rovereto, partecipa a numerose attività belliche e il 2 febbraio 1918 passa alla 87a
squadriglia, la Serenissima. Nell'agosto 1918, come ufficiale di rotta, è con D'Annunzio, Palli, Allegri,
Granzarolo, Censi, Sarti, Massoni e Finzi nell'azione culminata con il lancio di manifestini tricolori su Vienna. Il
15 settembre dello stesso anno viene abbattuto e fatto prigioniero dagli austriaci, ma riesce a fuggire il 2
novembre.
Nel luglio 1919, con la temperatura a -35°, pilotando un velivolo privo di chiusure e senza l'ausilio dell'ossigeno,
compie la trasvolata delle Ande, impresa che lo rende celebre.
Ammiratore e amico di D'Annunzio, partecipa all'impresa di Fiume, proponendosi di aiutare il poeta.
Ritornato in città, aderisce ai Fasci e partecipa ad alcune spedizioni punitive contro socialisti e sindacalisti.
Nel gennaio 1923, con un biglietto di terza classe, parte per un giro del mondo, a testimonianza e ricordo del
quale rimangono bellissime fotografie, taccuini di viaggio e numerosi oggetti raccolti nel corso degli
spostamenti.
Insignito da Mussolini di medaglia d'oro nel novembre 1923, eletto deputato, l'anno successivo compie il
tentativo di attraversare l'Atlantico seguendo la rotta nord.
Fotografo di grande qualità e buon disegnatore, dopo il 1925 riprende le proprie attività alpinistiche e, in veste
di presidente del Club alpino italiano di Bergamo, favorisce la costruzione di rifugi in alta montagna (del 1930 è
il rifugio al Livrio).
Costretto a non presentarsi alle elezioni del 1929 e allontanato dalla Compagnia aereo espresso per dissapori
con ambienti politici del partito, diventa redattore del "Corriere della sera"(unica sua fonte di reddito) e nel
giugno 1932 è designato, dal podestà di Bergamo, conservatore della Rocca e del Museo del Risorgimento.
Viene a sua volta nominato podestà di Bergamo nel novembre 1930, ma, nonostante le riconosciute capacità
amministrative, un anno dopo è costretto a lasciare l'incarico per profonde divergenze con il Partito fascista in
materia urbanistica (in particolare sul piano particolareggiato di città alta) e di edilizia pubblica.
Nel gennaio 1936 si arruola come volontario dell'aviazione nella guerra di occupazione italiana in Africa ed è
destinato all'attività di ricognizione in Somalia. Muore a Lekemti, in seguito ad un'imboscata nemica, il 27
giugno 1936. Il giorno stesso gli viene conferita la seconda medaglia d'oro al valor militare, alla quale segue la
terza, alla memoria.
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