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PROPAGANDA POLITICA E DISCRIMINAZIONE
RAZZIALE: I PALETTI DELLA SUPREMA CORTE.
di Andrea Trappolini
Con la sentenza n. 36906 resa il 23 giugno 2015 e depositata il 14 settembre
2015, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla previsione normativa
di cui all’articolo 3, comma I, lettera a), della legge 13 ottobre 1975, n. 654.
1. REATI IN TEMA DI DISCRIMINAZIONE: PRINCIPI COSTITUZIONALI
E
SOVRANAZIONALI,
EVOLUZIONE
NORMATIVA
E
VALORI
TUTELATI
Prima di soffermarci sul contenuto della pronuncia e sul caso sottoposto
all’attenzione della Suprema Corte, appare utile brevemente richiamare la
tematica sui reati di discriminazione evidenziando, in primo luogo, le
fondamenta costituzionali ed internazionali e, successivamente, lo sviluppo del
sistema interno1.
Può affermarsi che il riconoscimento dello ius puniendi rispetto a condotte
discriminatorie (su base raziale, etnica, etc.) poggia, nel nostro ordinamento, sul
principio di uguaglianza e pari dignità, come declinato dall’articolo 3 della
Costituzione2. Trattasi di disposizione che, nel caso in esame, va collegata ad
altre due norme costituzionali: gli articoli 2 e 10 comma II. La prima di queste
disposizioni garantisce il rispetto dei diritti inviolabili in quanto tali ed
indipendentemente dalla nazionalità, la seconda assume importanza perché
prevede l’impegno dell’Italia a conformarsi alle norme di diritto internazionale
generalmente riconosciute.
Orbene, il primo intervento normativo del legislatore italiano teso a
stigmatizzare in sede penale la discriminazione razziale è stato la legge 20
giugno 1952, n. 645 (c.d. legge Scelba) 3 . La propaganda razzista veniva
Fra i tanti contributi sul tema si segnala G. Pagliarulo, “La tutela penale contro le discriminazioni razziali”, in
Archivio penale 2014, n. 3.
2 Sul punto G. Pavich – A. Bonomi, “Reati in tema di discriminazione: il punto sull’evoluzione normativa recente, sui principi
e valori in gioco, sulle prospettive legislative e sulla possibilità di interpretare in senso conforme a Costituzione la normativa
vigente”, (2015) in www.penalecontemporaneo.it.
3 É la legge di attuazione della XII° disposizione transitoria e finale della Costituzione che aveva come
obiettivo principale il divieto di riorganizzazione del partito fascista.
1
1
considerata, dall’art. 1 della citata legge, come una delle modalità di
perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, la cui
ricostituzione veniva punita con la pena della reclusione da tre a dieci anni. Il
fenomeno
razzista
veniva,
quindi,
sanzionato
incidentalmente
ed
indirettamente, ma la legge Scelba restava comunque il primo atto normativo
con cui il legislatore italiano riconosceva il disvalore penale di condotte basate
sulla discriminazione razziale. Nel 9 ottobre 1967 veniva, poi, emanata la legge
n. 962, di attuazione della Convenzione contro il genocidio del 9 dicembre 1948,
che all’articolo 3, lettera c), dichiarava punibile il diretto e pubblico incitamento
al genocidio.
Di fondamentale importanza è la Convenzione di New York - approvata
dall’Assemblea generale dell’O.N.U. il 21 dicembre 1965 ed entrata in vigore il
7 marzo 1966 - sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. Il
trattato riveste un ruolo essenziale in quanto le disposizioni penali che
puniscono le manifestazioni di discriminazione razziale prendono le mosse
dalla ratifica della citata Convenzione intervenuta con la legge 13 ottobre 1975,
n. 654 (la cd. Legge Reale). Sino ad allora il rilievo in sede penale dei
comportamenti di discriminazione basati sulla razza era stato piuttosto
marginale.
L’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, ha introdotto nel nostro
ordinamento giuridico autonome fattispecie di reato caratterizzate dalla
matrice razzista: la propaganda razzista, l’incitamento alla discriminazione
razziale e agli atti di violenza nei confronti di persone appartenenti ad un
diverso gruppo nazionale, etnico o razziale, il compimento di atti di violenza
nei confronti dei medesimi soggetti e, infine, la costituzione di associazioni ed
organizzazioni con scopo di incitamento all’odio o alla discriminazione razziale.
Nella sua formulazione originaria l’art. 3, comma I, della citata legge, in
attuazione della disposizione di cui all’articolo 4 della Convenzione di New
York, puniva con la reclusione da uno a quattro anni (lett. a) “chi diffonde in
qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale”, ovvero (lett. b) “chi
incita in qualsiasi modo alla discriminazione, o incita a commettere o commette atti di
violenza o di provocazione alla violenza, nei confronti di persone perché appartenenti a
un gruppo nazionale, etnico o razziale”.
Un più organico intervento legislativo a carattere antidiscriminatorio si è avuto
con il decreto legge 26 aprile 1993, n. 122,
2
coordinato con la legge di
conversione 25 giugno 1993, n. 205 (cd. Legge Mancino), recante: “Misure
urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa”. Sintomatica,
al riguardo, appare, in primis, la clausola iniziale dell’articolo 3, comma I, della
citata legge n. 654, come modificato dalla “legge Mancino”, dove viene precisato
che scopo delle successive previsioni incriminatrici deve considerarsi “anche”
quello di dare esecuzione all’art. 4 della Convenzione di New York, mentre con
la precedente formulazione della norma si affermava che le disposizioni penali
in essa contenute erano preordinate tout court “ai fini” di dare attuazione
all’articolo 4 del Trattato4.
Il testo dell’articolo 3, comma I, della legge 13 ottobre 1975, n. 654, novellato
dalla legge Mancino, puniva:
“a) con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla
superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di
discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;
b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a
commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali,
etnici, nazionali o religiosi5”.
Se ne ricavava che, in un quadro di complessiva attenuazione delle
conseguenze sanzionatorie (gli estremi edittali risultano infatti generalmente
modificati verso il basso rispetto alla previsione del 1975), venivano distinte le
condotte di mera “diffusione delle idee” e di mero “incitamento alla
discriminazione”, punite con pena meno elevata, da quelle di incitamento alla
violenza, o violenza, o provocazione alla violenza, punite più gravemente (ma
sempre con pene meno elevate rispetto alla previsione originaria: infatti il
minimo edittale scende comunque da un anno a sei mesi).
Nel quadro di una più complessa e articolata riforma dei reati di opinione, la
recente legge 24 febbraio 2006, n. 85, all’articolo 13, ha ulteriormente
modificato l’art. 3 comma 1 della legge 654/1975. In particolare alla lettera a),
oltre a un’ulteriore diminuzione della pena (che ora è alternativa: reclusione
fino a un anno e sei mesi, oppure multa fino ad euro 6000), vengono modificati
i termini definitori della condotta penalmente rilevante: è punito non più chi
“diffonde in qualsiasi modo”, ma chi “propaganda idee fondate sulla superiorità o
G. Pagliarulo, “La tutela penale contro le discriminazioni razziali”, in Archivio penale 2014, n. 3, pagg. 5-6.
Si veda E. Fiorino, “Brevi considerazioni sul reato di incitamento a commettere violenza per motivi razziali”, in
Cassazione penale, 1999, fasc. 3 (marzo), pp. 984-987.
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5
3
sull'odio razziale o etnico”; non più chi “incita”, ma chi “istiga a commettere o
commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o
religiosi”.
2. LA VICENDA SOTTOPOSTA AL VAGLIO DELLA SUPREMA CORTE E
MOTIVI DI RICORSO
Tanto premesso, per comprendere al meglio la vicenda sottoposta all’esame
della Suprema Corte occorre ripercorrere i fatti che hanno portato alla
pronuncia in esame. L’episodio da cui prende le mosse la citata sentenza ha, in
particolare, ad oggetto la diffusione di un volantino di propaganda elettorale
avvenuta in occasione delle consultazioni per il rinnovo del Parlamento
Europeo, tenutesi il 6 e 7 giugno 2009, nel corso delle quali il ricorrente faceva
stampare e diffondeva un volantino in cui:
-
su un lato compariva la propria foto sovrastata dalla scritta “Vota S.”, sotto
la quale si leggeva, a grandi caratteri, la frase “BASTA USURAI, BASTA
STRANIERI”. Sotto, il simbolo del partito di appartenenza (Destra Sociale –
Fiamma Tricolore), con una mano che vi appone una croce e scrive di fianco
“S.”. Più in basso, l’U.R.L.6 del blog del candidato;
-
sull’altro lato, in alto, la scritta: “Elezioni europee 6-7 giugno 2009 DIFENDI
L’ITALIA - VOTA S.”. Più sotto, sei caricature che raffiguravano: a) un
cittadino dai tratti somatici asiatici che vende prodotti “made in China”; b) un
Abramo Lincoln con tanti dollari che gli svolazzano intorno; c) un uomo di
colore che offre droga; d) un arabo con una cintura di candelotti di dinamite
pronto a farsi esplodere; e) una donna italiana con un bambino in braccio e,
di fianco, una mendicante rom che allunga le mani in direzione dello stesso.
Sotto, come nell’altra facciata, il simbolo del partito di appartenenza (Destra
Sociale – Fiamma Tricolore), con una mano che vi appone una croce e scrive
di fianco “S.”. Più in basso, l’U.R.L. del blog del candidato.
Tale condotta è stata ritenuta idonea, inizialmente dal Tribunale di Udine (con
sentenza emessa in data 3 dicembre 2010), e successivamente dalla Corte di
Appello di Trieste (con sentenza emessa in data 24 aprile 2013), ad integrare il
reato di cui all’articolo 3, comma I, lettera a), della legge 13 ottobre 1975, n. 654.
Ed infatti secondo il Giudice di Appello il volantino elettorale propagandava
6
Uniform Resource Locator (sequenza di caratteri che identifica univocamente l’indirizzo di una risorsa internet).
4
idee fondate sulla superiorità di una razza rispetto ad un’altra e sull’odio
razziale.
Avverso tale pronuncia la Difesa dell’imputato presentava ricorso per
Cassazione deducendo due motivi.
In primo luogo il ricorrente lamentava la carenza di motivazione in ordine alla
sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestatogli, evidenziando
che la Corte d’Appello confermava la sua responsabilità richiamandosi alla
motivazione del Giudice di prime cure, il quale, però, non offriva alcuna valida
spiegazione del perché il volantino elettorale in esame avrebbe dovuto ritenersi
discriminatorio e, pertanto, tale da integrare il reato di propaganda razziale.
Secondo la tesi proposta in ricorso non si tratterebbe di un volantino contro
altre etnie ma contro i delinquenti di altre etnie.
Nel secondo motivo di ricorso il ricorrente lamentava l’erronea applicazione
della legge penale con riferimento all’articolo 3, comma I, lettera a), della
legge 13 ottobre 1975, n. 654. Secondo il ricorrente, infatti, la Corte di Appello
era incorsa in un errore di diritto laddove riteneva che la condotta dell’imputato
integrasse gli elementi soggettivi ed oggettivi del delitto di propaganda
razziale, soprattutto con riferimento all’elemento soggettivo del reato.
3. IL REATO DI CUI ALL’ARTICOLO 3, COMMA I, LETTERA A), DELLA
LEGGE
13
OTTOBRE
1975,
N.
654:
ELEMENTI
COSTITUTIVI
E
APPLICAZIONE DEL PRECETTO PENALE
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso annullando senza rinvio la
sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
Nel giustificare la propria pronuncia gli Ermellini colgono l’occasione per
svolgere delle importanti precisazioni riguardo gli elementi costituivi del delitto
in questione.
È stata preliminarmente affermata la continuità normativa tra l’articolo 3,
comma I, lettera a), della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e la medesima norma
come da ultimo modificata dall’articolo 13 della legge 24 febbraio 2006, n. 85: ed
infatti, secondo la Suprema Corte, la sostituzione del concetto di diffusione
delle idee razziste con quello di propaganda di tali idee, da un lato, e del
concetto di incitamento con quello di istigazione, dall’altro, non integra un
fenomeno di discontinuità normativa e ciò in quanto, la condotta di
propaganda delle idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico era
5
già ricompresa in quella, originariamente prevista, consistente nella diffusione
in qualsiasi modo, delle medesime idee7 (nello stesso senso si veda Corte di
Cassazione, III° Sezione Penale, sentenza n. 35781 del 7 maggio 2008). Ciò che
muta è, invece, il trattamento sanzionatorio che con la novella del 2006 è stato
sostanzialmente modificato in misura più favorevole al reo 8 . Sostanziale
equivalenza vi è, invece, tra la nozione di istigazione (così come adoperata dalla
normativa vigente) e quella precedente di incitamento. La sostituzione del
verbo “incitare” col verbo “istigare”, infatti, non è altro che una precisazione
linguistica che non modifica affatto la portata incriminatrice della norma.
La giurisprudenza di legittimità, dunque, pur riconoscendo che la fattispecie
recente sia più ristretta rispetto a quella originaria9, ha ritenuto che «la nuova
formulazione introdotta dal legislatore del 2006 non ha circoscritto la
fattispecie penale prevista dal legislatore del 1993» poiché «la propaganda
prevista dalla norma del 2006 non è diversa dalla diffusione più incitamento
già contemplati dalla norma del 1993»10 e che non abbia avuto luogo un caso di
abolitio criminis ex art. 2, comma II, codice penale, ma di mera modificazione
della norma preesistente, ai sensi del comma IV del medesimo articolo di legge.
La Corte ricostruisce il reato in chiave plurioffensiva, poiché posto a tutela sia
dell’ordine pubblico (inteso come diritto alla tranquillità sociale) che della
dignità umana, con una preminenza, tuttavia, che dottrina e giurisprudenza
riconoscono al secondo. Trattasi, peraltro, di un reato di pura condotta, o di
pericolo astratto, nella misura in cui non rileva che l’azione abbia prodotto
degli effetti, id est che nell’immediatezza del fatto l’incitamento o la propaganda
siano stati o meno recepiti. Ciò che occorre, invece, in ossequio al principio di
materialità, è che le espressioni discriminatorie siano percepite da altra
persona, quand’anche questa non ne abbia colto la portata lesiva della
Non si può far a meno di rilevare, tuttavia, che secondo l’accezione linguistica corrente i termini di
propaganda e diffusione sono sinonimi e che l’etimo del primo sia nella lingua latina “propagare” che
significa diffondere.
8 “Hate speech e discriminazione per motivi razziali in un recente approdo della Corte di Cassazione”, (2015) in
www.giurisprudenzapenale.com.
9 Sul punto, Corte di Cassazione, Sezione III, 13 dicembre 2007, Bragantini ed altri, cit.; Id. Sezione Terza, 7
maggio 2008, Mereu, in Cassazione Penale, 2009, 3023.
10 Sul punto, Corte di Cassazione, Sez. III, 7 maggio 2008, Mereu, cit. Il ragionamento seguito dalla
Suprema Corte è il seguente: posto che la propaganda altro non è che una diffusione di idee tendente ad
incitare al mutamento del pensiero e dei comportamenti del pubblico, e che la norma del 1993 puniva
anche l'incitamento alla discriminazione razziale, la condotta da ultimo ridefinita era già penalmente
sanzionata prima della modifica del 2006, sia pure in due figure delittuose distinte.
7
6
propria dignità.
La normativa in esame, tuttavia, pone dei problemi interpretativi poiché non
contiene alcuna definizione dei concetti di razzismo, di discriminazione e di
odio razziale. A tal fine i giudici di legittimità procedono alla ricostruzione dei
citati concetti traendoli dai dati normativi e giurisprudenziali sovranazionali.
Quanto alla nozione di discriminazione, l’articolo 1 della Convenzione di
New York, sancisce che essa “sta ad indicare ogni distinzione, esclusione,
restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine
etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il
riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e
culturale o in ogni altro settore della vita pubblica”. Nell’ordinamento italiano
una nozione di discriminazione pressoché identica si evince dall’art. 43 del
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico sull’immigrazione), sia
pure in esclusiva collocazione alla normativa in cui tale disposizione è collocata.
Nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo il concetto di
discriminazione è, invece, descritto in modo assai generico ed ampio come “il
trattare in modo differente, salvo giustificazione oggettiva e ragionevole,
persone che si trovano in situazioni comparabili"(vedi CEDU, Willis c. Regno
Unito, ric. n. 36042/97, par. 48; cfr. anche CEDU, Zarb Adami c. Malta, ric. n.
17209/02, par. 71). Il fondamento della nozione fornita dalla Corte di Strasburgo
è costituito dall'art. 14 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo
secondo cui il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella
Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in
particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le
opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale,
l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra
condizione.
A
livello
giurisprudenziale
e
dottrinale,
invece,
si
noti
come
la
discriminazione venga descritta ponendo l’accento sulla violazione della
condizione di pari dignità degli individui; essa è infatti intesa quale
sentimento di avversione immediatamente volto alla esclusione di condizioni di
parità, ovvero come manifestazione di superiorità rispetto ad altri, legata alla
razza, all’origine etnica o al colore.
In merito alla nozione di odio razziale, la Corte, ribadendo un orientamento già
7
sostenuto, ha specificato che odiare significa manifestare un’avversione tale
da desiderare la morte o una grave danno per la persona odiata, per cui non si
può qualificare come odio qualsiasi sentimento di avversione o di antipatia11.
In ordine all’elemento psicologico, l'orientamento prevalente in dottrina e
giurisprudenza ritiene che sia costituito dal dolo generico, consistente nella
coscienza e volontà di propagandare idee tese a suscitare sentimenti razzisti ed
essendo lo scopo di condizionare la pubblica opinione insito nella condotta
propagandistica. A tal fine, secondo la Suprema Corte, è sufficiente che
“l’agente sia consapevole del contenuto dell’idea che volontariamente
propaganda e della idoneità oggettiva a condizionare l’altrui opinione”.
4. IL PERCORSO LOGICO – ARGOMENTATIVO SVILUPPATO DALLA
CORTE DI CASSAZIONE
Sulla base di quanto detto, la Suprema Corte è passata ad analizzare il punto
nodale
della
questione
che
non
trova
precedenti
significativamente
sovrapponibili nella giurisprudenza di legittimità esistente. Focus della vicenda
è stato stabilire se sia possibile o meno sussumere all’interno della fattispecie
prevista e punita dall’articolo 3, comma I, lettera a), della legge 13 ottobre 1975,
n. 654, la condotta perpetrata dal ricorrente.
In punto di diritto, avuto riguardo alle modalità grafiche del volantino
elettorale in questione, la Corte ha ritenuto che gli stranieri non fossero
additati come persone da discriminare in quanto meramente appartenenti ad
un’altra razza, ma solo nella misura in cui essi ponevano in essere una serie
di delitti12.
Così letto il comportamento giudicato illecito nei due gradi di merito, gli
Ermellini hanno ritenuto che non vi fosse spazio per l’integrazione della
condotta descritta nell’articolo 3, comma I, lettera a), della legge 654/1975, di
ratifica alla Convenzione di New York del 7 marzo 1966, così come via via
modificato fino alla versione, vigente al momento del fatto, introdotta dalla
legge 24 febbraio 2006, n. 85 che punisce “chi propaganda idee fondate sulla
superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di
discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.
“Hate speech e discriminazione per motivi razziali in un recente approdo della Corte di Cassazione”, (2015) in
www.giurisprudenzapenale.com.
12 Sul punto F. Baldi, “Nessun reato se il volantino elettorale valorizza solo i comportamenti illeciti degli stranieri”, in
Quotidiano giuridico 2015.
11
8
Così argomentando la Corte di Cassazione si riporta al dictum della sentenza
n.13234 resa il 13.12.2007 e depositata il 28.03.2008, emessa in un caso solo
apparentemente analogo ma decisamente diverso. Nel caso del 2008 – in cui la
Suprema Corte aveva annullato la sentenza impugnata con rinvio, demandando
al giudice di merito il compito di accertare se la condotta contestata agli
imputati, consistita nell’avere pubblicizzato una petizione contro i campi
nomadi abusivi, fosse stata determinata da un’idea discriminatoria basata sulla
semplice diversità etnica ovvero su un pregiudizio non sanzionabile – gli
imputati, nelle vesti di rappresentanti di un noto partito politico, avevano
assunto l’iniziativa di invitare i cittadini veronesi a sottoscrivere una petizione
in cui appariva palese la discriminazione degli zingari per il solo fatto di essere
tali, senza indicare alcuna plausibile ragione a sostegno dell’allontanamento.
L’iniziativa era stata pubblicizzata mediante l’affissione di manifesti sui muri
della città dal seguente tenore: “No ai campi nomadi. Firma anche tu per mandare
via gli zingari”.
Secondo i giudici di legittimità, invece, nel diverso caso in esame e “in maniera
alquanto grossolana”, si vuole veicolare un messaggio di ostilità ed avversione
politica
verso
una
serie
di
comportamenti
illeciti
che,
con
una
generalizzazione che appare una forzatura anche agli occhi del destinatario
più sprovveduto, vengono attribuiti a soggetti appartenenti a determinate
razze o etnie: il cinese che vende prodotti contraffatti, l’uomo di colore che
spaccia sostanze stupefacenti, la rom che tenta di rapire il bambino, l’arabo che
si fa esplodere in un attentato terroristico, e Abramo Lincoln con i suoi dollari, a
rappresentare la finanza e le banche, e probabilmente correlato alla scritta “basta
usurai”. Va al riguardo ulteriormente osservato che, ad avviso della Corte,
proprio la presenza di Lincoln lascia intendere che il senso del messaggio
non possa essere quello di propagandare la superiorità di una razza rispetto
ad un’altra o l’odio razziale; si legge testualmente: “anche nella mente del più
razzista degli ideatori del volantino non si vede, infatti, su cosa potrebbe fondarsi una
pretesa superiorità di etnia o un odio razziale verso un simbolo dei popoli statunitensi”.
La Suprema Corte, quindi, si trova per la prima volta davanti ad un caso di
Hate Speech, con ciò intendendosi tutte quelle manifestazioni della parola di
estrema avversione ed intolleranza nei confronti di una persona o di un
gruppo sociale sulla base di alcune caratteristiche quali la razza, l’etnia, la
religione, l’orientamento sessuale e l’identità in genere. Ciononostante gli
9
Hate Speeches non possono integrare tout court il delitto di propaganda di idee
razziste, in quanto essi costituiscono pur sempre libera manifestazione del
pensiero, che, quale diritto costituzionalmente garantito ai sensi dell’art. 21
della Costituzione, tollera limiti solo davanti alla necessità di tutelare diritti
costituzionali di pari rango. Anche la Corte E.D.U., per cui pure il diritto di
libera manifestazione del pensiero è stato sempre considerato di fondamentale
importanza, si è trovata ad affermare reiteratamente la necessità del
bilanciamento con il divieto di discriminazione, solennemente affermato nel
citato articolo 14 della Convenzione13. Ed è proprio la preminente rilevanza
costituzionale del bene della dignità umana a giustificare, se lesa, la limitazione
del diritto di manifestare il pensiero. Nell’ottica di quanto riportato la
Cassazione rileva quindi come, in materia di bilanciamento tra la dignità
dell’uomo e la libera manifestazione del pensiero, non esista un orientamento
preciso ed univoco da parte dei giudici della Corte di Strasburgo, per quanto,
comunque, sia possibile trarre delle indicazioni generali per affrontare i casi in
cui si profilino dei punti di frizione tra i due beni giuridici tutelati. Alla luce di
quanto detto, pertanto, occorre sempre procedere ad un attento bilanciamento
dei valori costituzionali in gioco. A tal fine è fondamentale la corretta
contestualizzazione delle condotte e, secondo i principi del diritto penale, la
verifica che esse si risolvano in esternazioni davvero in grado di disvelare una
concreta
pericolosità
per
il
bene
giuridico
tutelato.
Nell’operare
il
bilanciamento, la Corte di Cassazione ricorda inoltre che nell’ambito delle
competizioni elettorali, la giurisprudenza costante in materia di diritto di critica
politica ritiene doversi tener conto del particolare clima in cui si svolgono le
competizioni elettorali e per ciò ammettere l’utilizzo di toni più pungenti ed
incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti interpersonali tra
privati (così, ex plurimis, Corte di Cassazione, V° Sezione Penale, sentenza n.
12013 del 21 ottobre 1999 e Corte di Cassazione, V° Sezione Penale, sentenza n.
38747 del 14 ottobre 2008)14.
Nel caso di specie la Suprema Corte, procedendo a tale bilanciamento e alla
contestualizzazione della condotta, ritiene che la diffusione del volantino
In realtà, come non ha mancato di sottolineare la dottrina, la Corte EDU,ha fatto quasi sempre prevalere,
sul piatto della bilancia, il diritto della libera manifestazione del pensiero, tranne che in relazione al
fenomeno del cd. negazionismo e limitatamente ai casi in cui lo stesso riguardi la Shoah.
14 “Hate speech e discriminazione per motivi razziali in un recente approdo della Corte di Cassazione”, (2015) in
www.giurisprudenzapenale.com.
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10
non sia sufficiente ad integrare il reato di propaganda di idee razziste proprio
per la mancanza del requisito della propaganda, come sopra descritto. Ed
infatti, interpretando la nozione di propaganda non come mera diffusione di
idee ma come condotta richiedente un quid pluris, cioè come manifestazione in
grado di fare nascere ed alimentare lo stimolo che spinge all’azione di
discriminazione, la Corte ritiene che la condotta del ricorrente non abbia tali
requisiti.
In conclusione i giudici di legittimità affermano che spetterà al Giudice di
merito valutare nel caso concreto, dandone adeguatamente conto in
motivazione, se l’azione sottoposta al suo giudizio, per le sue intrinseche
caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, nonché in relazione al
concreto pericolo di comportamenti discriminatori, costituisca reato, in modo
da raggiungere un soddisfacente punto di incontro tra i valori costituzionali in
gioco. In particolare, con riferimento al caso in esame, va evidenziato che il
Tribunale di Udine prima, e la Corte di Appello di Trieste poi, non avevano
operato la suddetta valutazione, che avrebbe avuto un esito favorevole per
l’imputato. Ad avviso della Corte appare evidente, infatti, che il messaggio del
volantino era quello di propagandare un’avversione non verso i soggetti sullo
stesso raffigurati in maniera caricaturale, ma verso le attività illecite dagli
stessi posti in essere. Tuttavia, nel necessario bilanciamento di interessi
costituzionalmente protetti di cui si è detto, da operare di volta in volta nel caso
concreto, appare nell’occasione prevalere il diritto alla libera manifestazione
del pensiero politico nell’ambito di una competizione elettorale.
5. PRINCIPIO DI DIRITTO E CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Alla luce di tale ragionamento, la Suprema Corte ha affermato il seguente
principio di diritto: la propaganda razziale è penalmente rilevante quando si
fonda sulle qualità del soggetto e non sui comportamenti, onde la
discriminazione per l’altrui diversità è cosa ben diversa dalla discriminazione
per l’altrui criminosità; un soggetto può anche essere legittimamente
discriminato per il suo comportamento, senza che si incorra in una sanzione
penale, ma non per la sua qualità di essere diverso. Tanto premesso, ne deriva
che il presupposto per la configurabilità del reato di propaganda di idee
discriminatorie previsto e punito dall’articolo 3, comma I, lettera a) della
citata legge è l’effettiva sussistenza di un’idea discriminatoria fondata sulla
11
diversità determinata da una pretesa superiorità razziale o da odio etnico,
nazionale o religioso.
Alla luce dell’indicato arresto monofilattico e del percorso argomentativo ivi
seguito, a parere di chi scrive, la decisione assunta con la pronuncia in esame è
assolutamente condivisibile. Del resto una soluzione diametralmente opposta
non troverebbe addentellati ordinamentali giustificativi creando una grave
disarmonia sistematica.
Il tema è quanto mai ampiamente dibattuto in Dottrina e, considerato il
drammatico momento storico in cui versa la situazione dei migranti, alla luce di
tutti quei proclami di discriminazione ed odio nei confronti delle diverse etnie,
occorre un monitoraggio attento della problematica che è inevitabilmente
destinata a conoscere un’ imponente espansione.
Non vi è dubbio, in ogni caso, che al di là del rilievo penale, la condotta oggetto
della pronuncia appare comunque sintomatica di un decadimento del dibattito
politico-culturale che sotto altri versi spiega il ricorso a toni eccessivamente rudi
e volgari, rispetto ai quali il mondo della politica e della informazione devono
porre necessariamente un argine al fine di evitare il pericoloso ritornello dello
scontro di civiltà che sta avvelenando la dialettica dei rapporti sociali ed
internazionali.
Rimane, alla luce di quanto detto, illuminate l’insegnamento di Albert Einstein,
il quale, quando cercò rifugio in America, dovette compilare un modulo per il
passaporto. Richiesto di indicare a quale razza appartenesse rispose: “IO
APPARTENGO ALL’UNICA RAZZA CHE CONOSCO, QUELLA UMANA”.
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