Letteratura europea

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Letteratura europea
DIPARTIMENTO DI STUDI EUROPEI AMERICANI E INTERCULTURALI
SAPIENZA - UNIVERSITÀ DI ROMA
© Dipartimento di Studi Europei Americani e Interculturali 2012
© RCS Libri S.p.A. La Nuova Italia per i testi
Dante Alighieri, Divina Commedia, Francesco Petrarca, Canzoniere, Marcel Proust, Alla ricerca
del tempo perduto, James Joyce, Ulisse, Franz Kafka, Il processo, Luigi Pirandello, Sei personaggi
in cerca d’autore di Roberto Antonelli
Giovanni Boccaccio, Decameron, William Shakespeare, Amleto, Johann Wolfgang Goethe, Faust,
Gustave Flaubert, Madame Bovary, Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo di Maria Serena Sapegno
Elaborazione grafica dell’immagine in copertina di Roberto Di Bernardini
Edizione fuori commercio destinata ai partecipanti al Convegno
“La letteratura e la formazione degli europei”
Il presente progetto è finanziato con il sostegno della Commissione europea.
L’autore è il solo responsabile di questa comunicazione e la Commissione
declina ogni responsabilità sull’uso che potrà essere fatto delle informazioni
in essa contenute.
Letteratura europea
Il canone
a cura di
Roberto Antonelli
Gioia Paradisi
Maria Serena Sapegno
2012
Dipartimento di Studi Europei Americani e Interculturali
Indice
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Introduzione
Iliade
di Omero
ROBERTO NICOLAI
Odissea
di Omero
PIERO BOITANI
Divina Commedia
di Dante Alighieri
ROBERTO ANTONELLI
Canzoniere
di Francesco Petrarca
ROBERTO ANTONELLI
Decameron
di Giovanni Boccaccio
MARIA SERENA SAPEGNO
Amleto
di William Shakespeare
MARIA SERENA SAPEGNO
Don Chisciotte della Mancia
di Miguel de Cervantes
INES RAVASINI
Faust
di Johann Wolfgang Goethe
MARIA SERENA SAPEGNO
Madame Bovary
di Gustave Flaubert
MARIA SERENA SAPEGNO
I fiori del male
di Charles Baudelaire
LUIGI SEVERI
Delitto e castigo
di Fëdor Dostoevskij
MARIA SERENA SAPEGNO
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167
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Guerra e pace
di Lev Tolstoj
CESARE G. DE MICHELIS
Alla ricerca del tempo perduto
di Marcel Proust
ROBERTO ANTONELLI
Ulisse
di James Joyce
ROBERTO ANTONELLI
Il processo
di Franz Kafka
ROBERTO ANTONELLI
Sei personaggi in cerca d’autore
di Luigi Pirandello
ROBERTO ANTONELLI
Introduzione
In un convegno tenutosi all’Università “Sapienza” di Roma il 15 e 16 giugno 2007 furono discussi i risultati di un sondaggio fra i docenti di una
quindicina di università europee, volto a verificare se nella coscienza dei
docenti europei esistesse un comune sentire riguardo all’esistenza di un
canone letterario condiviso e se fosse quindi possibile immaginare un
insegnamento letterario fondamentale comune a tutta l’Europa.
Nel corso del Convegno fu avanzata anche l’idea di tradurre in pratica
i risultati della ricerca, raccogliendo brani antologici delle opere più votate e proponendoli alla scuola secondaria europea come prima proposta di
possibili letture comuni, derivata da un sondaggio certo preliminare ma
abbastanza indicativo e comunque da affinare nel prossimo futuro e da
aprire ad altre esperienze. Un minimo comun denominatore letterario
europeo, a partire dalla scuola, che è sempre stata, per più di duemila
anni, il principale veicolo della formazione giovanile.
La letteratura nel corso del tempo ha svolto un ruolo fondamentale per
la formazione dell’immaginario e del sistema affettivo delle giovani generazioni, in tutta Europa, e in particolare in Italia, per la funzione attribuita alla letteratura nella costituzione di un sentimento unitario. Ci siamo
pertanto chiesti se la letteratura potesse svolgere ancora un tale ruolo
positivo, malgrado la presenza sempre più forte dei moderni mezzi di
comunicazione di massa. Abbiamo risposto positivamente alla domanda,
soprattutto considerando che gli archetipi dell’immaginario mediatico
derivano in qualche modo e comunque da quelli elaborati in centinaia
d’anni nelle letterature dei vari paesi europei e che proprio nella comprensione della loro relazione con le comunicazioni di massa può essere
arricchito il senso critico dei giovani, la capacità di interpretare e agire criticamente rispetto alla quantità di informazioni che quotidianamente vengono immesse in rete.
L’antologia è un primo risultato di quella proposta, resa possibile da un
nuovo sondaggio svolto nella scuola secondaria e nelle università di cin-
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Introduzione
que paesi dell’Unione Europea: Germania, Italia, Portogallo, Romania,
Spagna. Raccoglie brani di quindici opere, da Omero a Kafka, più una
sedicesima opera, “nazionale” (o meglio “areale”) con cui i partecipanti di
ogni paese possono integrare la lista. Per l’Italia è stato scelto Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, ovvero di uno dei massimi
innovatori, nel mondo e non solo in Italia, del teatro novecentesco.
La decisione di limitare la scelta del canone ad autori europei non è
dovuta ad aprioristiche chiusure: se oggi è inevitabile pensare ad un canone mondiale, è anche vero che la letteratura europea presenta caratteristiche diverse da quelle americane o asiatiche o africane, se non altro perché è l’unica in cui il nesso tradizione-innovazione, così organico allla scrittura e all’interpretazione letteraria, poggia su una storia di quasi tremila
anni.
Una cosa però è certa: anche per quanto riguarda la letteratura occorrerà lavorare per un’Europa aperta, non chiusa in se stessa, consapevole
certo della propria specificità e identità, ma proprio per questo curiosa
delle letterature e dei canoni di altri continenti (posto che tale è la scala su
cui è insieme interessante e opportuno ragionare e confrontarsi).
L’antologia, del tutto sperimentale, è rivolta ai giovani, come primi destinatari, per affiancare la lettura degli autori “nazionali” previsti dai programmi ministeriali: è ridotta all’essenziale, in modo da non interferire
nella programmazione scolastica, ma speriamo possa ugualmente risultare
efficace per stimolare alla lettura e all’interpretazione critica.
Iliade
di Omero
La prima opera della letteratura occidentale non è un’opera letteraria,
almeno se consideriamo la letteratura come legata alla scrittura, alle litterae: nasce in una società caratterizzata da oralità primaria, si sviluppa
e prende forma in un contesto aurale e soltanto relativamente tardi viene
fissata per iscritto. Peraltro la lingua greca non ha un termine per indicare la letteratura e presso i Greci soltanto nella prima metà del IV secolo si comincerà a riflettere su quello che noi chiamiamo lo specifico letterario.
Un’altra grande differenza rispetto alle opere delle letterature moderne
è l’assenza di un autore: una differenza sentita già dai Greci, e piuttosto
precocemente, dato che ne crearono uno, come si inventa la figura del
fondatore di una città o l’antenato di una stirpe aristocratica. Omero nacque probabilmente ad opera di una corporazione di rapsodi, gli Omeridi,
che nel VI secolo era attiva nelle feste panelleniche e locali e che si diedero un capostipite. Col tempo sarebbero sorte persino tradizioni biografiche, anche queste integralmente inventate.
Nella fase orale le recitazioni dell’epos seguivano una dinamica
complessa, come risulta chiaro dalle scene, soprattutto dell’Odissea, in
cui compaiono aedi: il pubblico interagiva con l’aedo e ne condizionava le scelte. Tra l’aedo e il pubblico si stabiliva un rapporto di empatia che era parte integrante dell’esecuzione. Il forte coinvolgimento
emotivo del pubblico è ben espresso in due versi dell’Odissea, relativi a Odisseo che aveva raccontato le sue vicende (13. 1 s.): «Disse così
e immobili erano tutti, in silenzio / erano presi d’incanto nella sala
ombrosa» (trad. Aurelio G. Privitera). Il proemio dell’Odissea ci può
fare da guida nel tentativo di comprendere come si svolgessero le esibizioni degli aedi: dopo aver presentato Odisseo, l’eroe polytropos,
vengono esposte in sintesi le sue peregrinazioni e si fa cenno dell’episodio dei buoi del Sole. A questo punto, al verso 10, il poeta invoca nuovamente la Musa: «Racconta qualcosa anche a noi, o dea figlia
di Zeus». Ho riportato il verso nella traduzione di Aurelio Privitera che,
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R. Nicolai
come ha notato Luigi Enrico Rossi1, e come quasi tutte le altre traduzioni, non rende ragione dell’avverbio hamothen, che significa «da un
punto qualsiasi» (LSJ: «from some place or other»). Letteralmente il
verso significa: «Di queste cose da un punto qualsiasi, o dea figlia di
Zeus, dì anche a noi».
Il proemio dell’Odissea testimonia nella forma più esplicita che non esisteva neanche un testo che servisse da riferimento fisso, esisteva soltanto
un repertorio di canti, dal quale l’aedo poteva liberamente scegliere, individuando anche il momento del racconto da cui prendere le mosse. I
poemi epici, nella prima fase della loro elaborazione e almeno fino alla
cosiddetta redazione monumentale (la definizione è di Gilbert Murray), e
in certa misura anche dopo, non avevano quindi neanche quella caratteristica che per noi è normalmente associata a un’opera letteraria: l’unità e la
stabilità del testo. D’altra parte proprio i proemi erano tra le sezioni più
esposte a possibili variazioni e adattamenti: dell’Iliade, oltre al proemio per
noi abituale («Cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira funesta», il primo
verso nella celebre traduzione di Vincenzo Monti), circolavano nell’antichità due proemi alternativi, evidentemente realizzati per diverse circostanze di esecuzione e per diverse forme di organizzazione della materia.
Ne conosciamo l’inizio. Il primo suona così: «Narratemi ora, o Muse che
abitate le case dell’Olimpo, / in che modo l’ira colse il Pelide / e lo splendido figlio di Latona. Costui infatti, adirato col re, …». Del secondo possediamo un solo verso: «Le Muse canto e Apollo famoso per l’arco».
Quest’ultimo proemio si presenta come un inno alle divinità tutelari del
canto, le Muse e Apollo, e si può paragonare ai cosiddetti Inni omerici, il
cui scopo era proprio quello di introdurre il canto epico celebrando la divinità alla quale era dedicata la festa.
Odisseo che racconta ai Feaci è l’alter ego del poeta dell’Odissea, il suo
doppio: come l’aedo non partiva dall’inizio, cioè dalla partenza degli Achei
da Troia, così Odisseo (7. 241) afferma che è difficile raccontare in sequenza e parte dall’episodio di Calipso, quello che aveva aperto l’opera.
Soltanto quando dichiarerà il suo nome, all’inizio del libro IX, Odisseo racconterà le sue avventure dalla partenza da Troia all’arrivo nell’isola dei
Feaci. Ma anche in questo caso si chiederà che cosa dovrà narrare per
prima e che cosa per ultima (9. 14). Ogni aedo, compreso Odisseo, si pone
il problema del punto dal quale doveva prendere avvio il suo canto. Oltre
a Odisseo, l’aedo ha altri doppi: sono Demodoco e Femio, gli aedi, rispettivamente, dei Feaci e di Itaca. Può essere sorprendente notare quanta con1 Vd. da ultimo L. E. Rossi, La comunicazione orale: Omero ed Esiodo nell’arcipelago epico, in
«Critica del testo», 13/3, 2010, pp. 69-81, p. 74.
Omero, Iliade

sapevolezza dell’arte poetica vi sia in un’opera così arcaica. Quando
Femio, l’aedo di Itaca, scongiura Odisseo di risparmiargli la vita, descrive
le caratteristiche della sua arte (Odissea 22. 345-349): «Tu avrai rimorso, un
giorno, se uccidi il cantore / perché per i numi e per gli uomini io canto.
/ Da solo imparai l’arte, un dio tutti i canti / m’ispirò in cuore; mi sembra
che davanti a te canterei / come davanti a un dio: perciò non tagliarmi la
testa», trad. Rosa Calzecchi Onesti).
Nel contesto di una cultura aurale (seconda metà VIII-VI sec. a.C., e
anche per buona parte del V) i poemi continuarono a essere diffusi attraverso la viva voce degli aedi e dei rapsodi, e la scrittura fu usata soltanto
per garantire la conservazione e la trasmissione dei testi, che mantenevano ancora un forte grado di flessibilità, legati com’erano alle varie circostanze di esecuzione. Le redazioni scritte possono essere considerate una
prima forma di canonizzazione: nella scelta dei canti e nell’ordine nel
quale erano trascritti. La trascrizione dell’epos è connessa con la protezione del testo da parte delle istituzioni cittadine. Ad esempio la cosiddetta
redazione pisistratea fu realizzata in funzione delle esecuzioni alle feste
Panatenee di Atene.
L’Iliade racconta cinquanta giorni dell’ultimo dei dieci anni della guerra
di Troia, non racconta l’intera guerra, che era oggetto del ciclo troiano, una
serie di poemi composti intorno al VII secolo, in parte sulla base di materiali più antichi. Il ciclo partiva con i Cypria, i Canti cipri (giudizio di
Paride, rapimento di Elena, guerra di Troia fino alla contesa tra Achille e
Agamennone), proseguiva con l’Iliade, con l’Etiopide, la Piccola Iliade, i
Nostoi, la Telegonia. Uno dei Nostoi, i Ritorni degli eroi achei da Troia, era
l’Odissea. L’Iliade e l’Odissea si inserivano nel ciclo, pur essendo di proporzioni molto maggiori rispetto agli altri poemi. Nella prassi delle recitazioni, almeno da un certo momento in poi, i poemi erano collegati l’uno
con l’altro: per l’ultimo verso dell’Iliade (24. 804) è attestata una variante
che sostituisce l’epiteto di Ettore «domatore di cavalli» con «venne
l’Amazzone», in riferimento a Pentesilea, regina delle Amazzoni e protagonista dell’Etiopide, il poema che seguiva l’Iliade nel ciclo. Anche il ciclo
epico ha avuto importanza nel processo di canonizzazione, in questo caso
della saga troiana, che è diventata argomento privilegiato e ineludibile,
fonte per eccellenza di paradigmi. Il ciclo è completamente perduto, ma
ha offerto materia prima di tutto per la tragedia e poi per altre opere sulla
saga troiana, da Ditti Cretese e Darete Frigio fino ai romanzi medievali.
Nel V secolo a.C. abbiamo testimonianze di un interesse esegetico per
l’epos che, tra l’altro, portò a distinguere le opere considerate autenticamente omeriche da quelle spurie o di incerta attribuzione. Erodoto distingue Omero dall’autore dei Cypria (2. 117) e mette in dubbio la paternità
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R. Nicolai
omerica degli Epigoni, un poema del ciclo tebano (4. 32). Già intorno alla
metà del V secolo, quindi, all’interno della poesia epica si era formato un
canone più ristretto, che comprendeva soltanto i poemi considerati opera
di Omero: questo canone, che sarà poi ridotto ai due soli poemi maggiori, Iliade e Odissea, portò alla progressiva emarginazione del ciclo epico.
Nella Poetica di Aristotele la supremazia di questi due poemi viene definitivamente sancita: Iliade e Odissea sono superiori ai Cypria e alla Piccola
Iliade per la scelta della materia e l’articolazione del racconto (1459a 30
ss.). Conclude Aristotele (1459b 14 ss.): «i due poemi sono distintamente
composti, l’Iliade semplice e luttuosa, ma l’Odissea complessa, perché dappertutto sono riconoscimenti e carattere. Oltre a ciò, naturalmente, i due
poemi eccellono su tutti gli altri nel linguaggio e nel pensiero» (trad. Carlo
Gallavotti). Il giudizio di Aristotele arriva al termine di un lungo percorso,
attraverso il quale i due poemi omerici sono diventati il testo base per l’educazione dei giovani greci. Quando il sistema educativo cominciò a strutturarsi, verso la fine del V secolo e poi nel IV, la fase dello studio presso
il grammatico riguardava essenzialmente i poemi omerici, e così fu per
tutta l’antichità. Ma anche i retori, che insegnavano l’eloquenza e la composizione in prosa, usavano moltissime esempi tratti dai poemi omerici, ad
esempio per le figure retoriche. Iliade e Odissea sono quindi anche le
prime opere del canone scolastico greco e occidentale.
L’Iliade ci presenta un mondo molto lontano dal nostro: per fare un solo
esempio, durante i funerali di Patroclo, Achille sacrifica dodici giovani
troiani (23. 175 s.). La distanza antropologica che noi sentiamo rispetto al
mondo dell’Iliade è maggiore, ma non troppo, rispetto a quella che già
sentivano i Greci di età classica o ellenistica. Tale distanza deriva dall’oggetto del poema, che era antico già per gli antichi e che gli aedi contribuivano a rendere ancora più arcaico. La guerra di Troia per i Greci era un
fatto storico, uno dei pochi che conoscevano della loro storia più antica.
Questo non significa ovviamente che l’Iliade sia una fonte storica: il genere epico ha le sue leggi e, per di più, il poema si è formato nel corso di
diversi secoli attraverso una stratificazione di usanze, di oggetti della cultura materiale, di usi linguistici. Lo strato più antico, che risale al periodo
submiceneo, deriva in parte dalla tradizione poetica, in parte dal recupero, per così dire archeologico, compiuto dagli aedi. Nelle grandi tombe
micenee dovevano essere visibili armi e altri oggetti che gli aedi attribuivano all’epoca degli eroi che avevano combattuto a Troia. Di alcuni di questi, come, ad esempio, del carro da guerra, non sapevano quale fosse l’uso
in battaglia: nell’Iliade gli eroi si servono dei carri da guerra per raggiungere il campo di battaglia, non per travolgere le file dei nemici, come avveniva nelle culture del Vicino Oriente. La compresenza di istituti antropolo-
Omero, Iliade
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gicamente opposti, come le due forme di matrimonio, per dote e per
acquisto, all’interno dell’Iliade è un’altra testimonianza della stratificazione
compositiva dei poemi omerici. Il procedimento per cui gli aedi introducono elementi arcaici, coerentemente con la prassi del genere e con la collocazione dei fatti di Troia in un remoto passato, genera quello che è stato
definito un composto chimico irreversibile. Un buon esempio è costituito
dal libro X dell’Iliade, considerato recenziore già dagli antichi, nel quale
compare però uno degli oggetti più antichi dell’intero poema: l’elmo ornato di zanne di cinghiale dell’eroe Merione (10. 261-265). Quando
Schliemann scoprì le rovine di Troia, il problema del rapporto tra l’Iliade
e la storia sembrò risolto: in realtà, doveva semplicemente essere posto su
nuove basi. Il tentativo di ritrovare sulla collina di Hissarlik tutti i dettagli
presenti nell’Iliade, oltre che comportare enormi difficoltà, è in grandissima parte inutile, in quanto la funzione dei poemi non era certo quella di
fornire informazioni ai futuri archeologi.
A questo punto non si può eludere un problema: poiché l’Iliade è stato
definita una «enciclopedia tribale» (Havelock) o un «libro di cultura»
(Lotman), ovvero che genere di insegnamenti poteva dare agli ascoltatori
un poema che non rifletteva gli usi sociali di alcuna comunità storica? Si
può rispondere che l’Iliade non offriva puntuali precetti da seguire, ma
proponeva paradigmi, cioè esempi di comportamento, straordinari perché
relativi a circostanze eccezionali e a gesta compiute da eroi. La coerenza
dell’ambientazione storica non è uno dei requisiti indispensabili per l’esemplarità. Viceversa, la distanza cronologica è uno dei presupposti essenziali perché si attivi il meccanismo del paradigma. Quando viene a mancare, è sostituita da un altro genere di distanza, quella spaziale e antropologica: è questo il caso dei Persiani di Eschilo, ambientati soltanto otto
anni prima rispetto alla messa in scena della tragedia.
Il duello fra Ettore e Achille
Paradigmatici per eccellenza nell’Iliade sono i comportamenti dei due
eroi maggiori, Achille ed Ettore. La scena del duello tra i due eroi, che
occupa quasi completamente il XXII libro, rappresenta bene il comportamento che ci si aspetta da un guerriero in quella che gli antropologi chiamano «civiltà di vergogna». Leggiamo ora, nella traduzione di Giovanni
Cerri, la preparazione del duello, con la decisione di Ettore di affrontare il
nemico, malgrado le accorate insistenze degli anziani genitori, Priamo ed
Ecuba (Iliade 22. 33-138):
Il vecchio dette in un gemito, si percosse la testa con le mani
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R. Nicolai
alzandole in alto e gridava forte tra i gemiti
scongiurando suo figlio; che stava a piè fermo
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davanti alla porta, sempre deciso ad affrontare Achille;
a lui il vecchio tendendo le braccia miseramente diceva:
«Ettore, non affrontare, figlio mio, quell’uomo
da solo, lontano dagli altri, che tu presto non trovi la morte
sotto i colpi del Pelide, perché certo è molto più forte,
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uomo senza pietà; così fosse caro agli dei
quanto è caro a me: cani e avvoltoi lo mangerebbero subito
steso morto; mi svanirebbe dal petto questo tremendo rancore!
Lui che m’ha reso privo di tanti figli valorosi,
ammazzandoli, vendendoli schiavi nelle isole più lontane.
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Anche adesso due figli, Polidoro e Licaone,
non riesco a vedere tra i rifugiati a Troia,
me li dette alla luce Laotoe, signora fra le donne.
Ma se sono vivi laggiù dentro al campo, allora di certo
con bronzo, con oro, li riscatteremo; dentro casa ne abbiamo:
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molto dette a sua figlia il vecchio Alte glorioso.
Se poi ormai sono morti e stanno a casa di Ade,
strazio al mio cuore e alla madre, che li demmo alla luce;
ma più lieve sarà il dolore per il resto del popolo,
se non morirai anche tu, ammazzato da Achille.
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Su, figlio mio, torna dentro le mura, per potere salvare
Troiani e Troiane, per non dare ad Achille questo gran vanto,
perché tu stesso non resti privo della tua vita.
Abbi anche pietà di me, sventurato, non ancora uscito di senno,
disgraziato, che il padre Cronide sul limite estremo della vecchiaia 60
farà morire di sorte crudele, dopo aver visto tante sciagure,
figli ammazzati, figlie rapite,
talami profanati, bambini in fasce
scaraventati a terra nella mischia furiosa,
le mie nuore trascinate dalle mani maledette degli Achei!
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Me per ultimo i cani sulla soglia di casa
trascineranno voraci, quando qualcuno infilzandomi o bersagliandomi
m’abbia tolto la vita dal corpo col bronzo affilato,
i cani che tenevo in casa, alla mensa, alla porta,
che bevuto il mio sangue, ebbri in cuor loro,
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staranno stesi nel portico. Ad un giovane tutto sta bene,
quand’è caduto in battaglia, trafitto dal bronzo affilato,
anche restare sul campo; tutto è bello, quanto si vede, anche se è morto;
ma quando il capo canuto, il mento canuto ed il pube
sbranano i cani ad un vecchio ammazzato,
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questo è il più triste spettacolo per i miseri mortali».
Disse il vecchio, e si tirava con le mani i bianchi capelli,
strappandoli via dalla testa; ma non piegava l’animo d’Ettore.

Omero, Iliade
Dall’altra parte piangeva la madre versando lacrime,
scoprendosi il seno, con l’altra mano alzava la mammella;
e versando lacrime gli diceva parole che volano:
«Ettore, figlio mio, abbi rispetto di questa, abbi pietà di me,
se mai ti detti questa mammella, che faceva cessare il tuo pianto;
non lo dimenticare, figlio mio, evita quell’uomo terribile,
stando dentro le mura, non farti campione contro di lui,
sciagurato! Se quello t’ammazza, non potrò piangerti poi
sul tuo letto, figliolo caro, io che t’ho dato alla luce,
e nemmeno la sposa preziosa; da noi lontanissimo
ti sbraneranno i cani veloci alle navi degli Argivi».
Così piangendo quei due parlavano al figlio loro,
in preghiera accorata; ma non piegavano l’animo d’Ettore,
anzi attendeva a piè fermo il terribile Achille, che s’avvicinava.
Come serpente montano dalla sua tana aspetta il passante,
dopo aver mangiato erba maligna, e l’ha preso ferocia rabbiosa,
guarda con furia, contorcendosi dentro la tana;
così Ettore non arretrava, animato da odio inesausto,
alla torre sporgente appoggiato il lucido scudo;
disse allora turbato al suo stesso cuore animoso:
«Misero me! Se rientro nella porta e dentro le mura,
Polidamante per primo mi farà il suo rimprovero,
lui che in città m’esortava a riportare i Troiani
in questa maledetta notte, quando Achille divino si è mosso.
Ma non gli detti retta; e sarebbe stato assai meglio!
Rovinato adesso il mio popolo per la mia sventatezza,
mi vergogno di fronte ai Troiani, alle Troiane dai pepli fluenti,
che non dica qualcuno, benché peggiore di me:
“Ettore, presumendo della sua forza, ha distrutto l’esercito”.
Diranno proprio così: sarebbe allora per me assai meglio,
battendomi faccia a faccia, o uccidere Achille e tornare,
o essere ucciso da lui gloriosamente sotto le mura.
Se deponessi invece lo scudo ombelicato
e l’elmo pesante, ed appoggiata al muro la lancia
andassi incontro io stesso ad Achille perfetto,
gli promettessi che Elena e con lei le ricchezze,
tutte quante Alessandro sulle navi ricurve
portò via con sé a Troia, quello che della guerra è stato il motivo,
restituiremo agli Atridi, ed altro a parte daremo
agli Achei, di quanto possiede questa città;
esigerei dai Troiani in quel caso il giuramento degli anziani
di nulla nascondere, ma dividere tutta in due parti
quanta ricchezza la nostra bella città racchiude in se stessa …
Ma perché queste cose m’ha detto il mio cuore?
Temo che se vado a supplicarlo, non avrà compassione di me
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R. Nicolai
e nemmeno rispetto, mi scannerà indifeso come una donna,
una volta ch’io abbia deposto le armi.
Non è più possibile ormai conversare con lui
di questo e di quello, come un ragazzo ed una ragazza,
come tra loro ragazza e ragazzo conversano.
Meglio attaccare al più presto battaglia; vediamo
a quale dei due l’Olimpio concederà la vittoria».
Così pensava aspettando, e gli venne incontro il Pelide
che pareva Enialio, il guerriero dall’elmo ondeggiante,
librando il frassino pelio sopra la spalla destra,
tremendo; risplendeva il bronzo sulle sue membra
come raggio di fuoco che arde o di sole che sorge.
Ettore, come lo vide, fu preso dal panico; non osò più a lungo
restare lì fermo, si lasciò la porta alle spalle, si dette alla fuga;
lo inseguì il Pelide, fidando nei piedi veloci.
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Questo passo sintetizza molti dei valori che l’epos trasmetteva: anzitutto la ricerca della gloria (vv. 57; 110; 130), che può essere conquistata soltanto sul campo, combattendo faccia a faccia con il nemico. La gloria raggiunge sia il vincitore sia il vinto e non si possono cercare scorciatoie, attraverso il pagamento di un prezzo in denaro. Ma sull’eroe agisce anche la
pressione della comunità che lo spinge a provare vergogna (v. 105) e quindi ad affrontare un nemico più forte. Il massimo disvalore è rimanere insepolti, preda per cani e uccelli: questo scenario viene evocato da Priamo,
che prima augura questo destino ad Achille (v. 42 s.) e poi prefigura la sua
morte e lo scempio ad opera dei suoi stessi cani (vv. 69-71); quindi da
Ecuba, che immagina il figlio morto lasciato in preda ai cani vicino alle
navi achee (v. 88 s.).
I personaggi dell’epos, legati come sono ai paradigmi di cui sono portatori, non hanno un’evoluzione psicologica, sono caratteri fissi. Le loro
stesse reazioni emotive sono spesso rappresentate come indotte da forze
esterne, le divinità che interagiscono con loro. Le divinità, dal canto loro,
sono mosse da pulsioni e sentimenti non diversi da quelli che animano gli
eroi: la differenza è nel destino di morte, al quale gli uomini non possono
sfuggire. Gli eroi, in genere figli o discendenti di divinità, sono uomini con
caratteristiche eccezionali, in positivo o in negativo, e per questo motivo
sono paradigmi di straordinaria potenza.
I poemi omerici saranno riferimento permanente per la letteratura greca
e, in modo diretto o mediato, per tutte le letterature occidentali. Molta
parte della letteratura greca si può definire come un commento a Omero
e quegli autori che da Omero si allontaneranno lo faranno per sostituirsi a
lui nel ruolo di testi paideutici fondamentali: non è casuale che, nel
Omero, Iliade

momento del passaggio da una diffusione aurale a una diffusione prevalentemente scritta dei testi, tre autori fondamentali come Tucidide, Isocrate
e Platone si confrontino più o meno apertamente con Omero. Tucidide
propose, in luogo dell’epos, il paradigma di un grande evento recente ricostruito con accuratezza; Isocrate compose orazioni fittizie finalizzate alla
formazione retorica e politica; Platone traspose il dialogare di Socrate in
opere che ne dovevano perpetuare l’insegnamento.
L’Iliade è stata ipotesto per opere appartenenti a generi molto diversi.
Propongo due soli esempi, tratti dal passo che abbiamo letto. La contrapposizione tra la bellezza eroica del giovane caduto in battaglia e lo spettacolo offerto da un vecchio ucciso viene ripresa in un carme parenetico di
Tirteo, quasi con le stesse parole (fr. 10 W., vv. 21-30):
È uno sconcio che un vecchio cada in prima fila
e resti sul terreno innanzi ai giovani,
con quel suo capo bianco e il mento grigio, e spiri
l’animo suo gagliardo nella polvere,
con le mani coprendo le pudende insanguinate
(spettacolo indecente, abominevole),
nude le carni: nulla c’è che non s’addica a un giovine
finché la cara età brilla nel fiore.
Da vivo, tutti gli uomini l’ammirano, le donne
l’amano; cade in prima fila: è bello.
(trad. Filippo Maria Pontani)
Tirteo rifunzionalizza la scena omerica, insistendo sulla posizione nello
schieramento, la prima fila, fondamentale nella tecnica di combattimento
oplitica.
La scena di Ecuba che si scopre il seno per indurre il figlio a ritornare
dentro le mura di Troia viene ripresa, e anche in questo caso rifunzionalizzata, da Eschilo nelle Coefore (896-898):
CLITEMESTRA Fermati, figlio; abbi ritegno, figlio mio, di questo seno, su
cui spesso ti addormentavi succhiando con le gengive il latte che ben ti
nutriva.
(trad. Luigi Battezzato)
Quando Oreste sta per uccidere la madre Clitemestra, questa si rivolge
al figlio scoprendosi il seno, in un estremo tentativo di ottenere pietà. La
madre che supplica il figlio perché si salvi è sostituita da una madre che
implora il figlio di non ucciderla.
ROBERTO NICOLAI

R. Nicolai
E. A. HAVELOCK, Iliade
da E. A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura.
Da Omero a Platone, introduzione di B. Gentili, Laterza, Bari-Roma 1973
In una cultura orale, la conservazione e la permanenza della comunicazione sono
garantite dall’epos e dai suoi affiliati, e solamente da questi. Essi costituiscono il massimo grado di complessità e raffinatezza possibile. Omero, lungi dall’essere «specifico»,
impersona la mentalità dominante. Non dobbiamo pensare che il parlar quotidiano
della sua epoca, che per noi è andato perduto, rappresenti una gamma più ricca ed
ampia di espressione e di pensiero, entro la quale la visione omerica del mondo si
sarebbe costituita su una speciale base «poetica». Al contrario, è solo nel discorso conservato e significativo, dotato di vita propria, che si sviluppa il massimo di significato
accessibile alla mentalità di una data cultura. L’epos, malgrado il suo lessico lievemente esoterico (e addirittura in forza di questo lessico) rappresentava il discorso significativo, e non aveva concorrenti in prosa. La mentalità omerica era quindi, potremmo dire,
la mentalità generale.
Questa affermazione non può ovviamente venir suffragata da documenti dell’età
omerica, che era illetterata, ma può forse essere indirettamente illustrata da un esame
di quelle civiltà preomeriche del Vicino Oriente che conoscevano dei sistemi di scrittura. Questi sillabari erano troppo rudimentali e ambigui per consentire un uso corrente
o per promuovere l’istruzione generale. Quindi, la loro lingua non aveva il potere di
modificare il linguaggio generale della comunicazione orale, ma al contrario era costretta a riprodurlo, e in queste trascrizioni cogliamo fugaci tratti di quel tipo di parlare profano che in una condizione totalmente illetterata qual era quella dei greci non era conservabile, fintantoché non entrava a far parte dell’epos.
Le tavolette rinvenute a Pilo e a Cnosso rappresentano comunicazioni della civiltà
cretese-micenea e micenea. La loro decifrazione sembra indicare che nelle corti di re
di lingua greca si potevano affidare alla scrittura non soltanto gli inventarii ma anche
le direttive operative. Alcuni studiosi hanno ravvisato in queste direttive un greco dall’andamento ritmico. Se essi sono nel giusto, si può concludere che la direttiva prendeva forma per l’udito, non per la vista. Era modellata oralmente per l’apprendimento
mnemonico e la trasmissione verbale, e in seguito veniva anche ad essere scritta. Le
leggi della sua composizione sono acustiche, e la scrittura, invece di essere usata per
creare nuove possibilità alla prosa, rimane al servizio della dominante tecnica orale.
[…]
In tali culture illetterate, si potrebbe dire che il compito dell’educazione consista nel
conferire all’intera comunità una mentalità formulare. Lo strumento per far ciò era l’uso
delle epopee tribali come paradigmi. Naturalmente, il loro stile è più intenso. Il loro linguaggio mostra un virtuosismo che veniva forse imitato nelle transazioni comuni, ma
ad un più semplice livello d’arte. Un aedo doveva essere un uomo di memoria eccezionale, e forse anche il principe e il giudice. Ciò significava automaticamente un non
comune senso ritmico, giacché il ritmo era il mezzo per conservare il discorso. Alla
memoria ed al senso ritmico eccezionali doveva anche accompagnarsi una superiore
maestria nel maneggio delle formule. Coloro che tra il popolo avevano memoria più
Omero, Iliade

debole dovevano accontentarsi di usare un linguaggio più semplice, meno elaborato.
Ma l’intera comunità, dall’aedo e dal principe al contadino, era sintonizzata sulla psicologia del ricordo. Un’epopea poteva registrare un intero complesso di fatti storici e
di consuetudini. In un villaggio, i capi locali erano forse in grado di ripeterla, mentre i
contadini probabilmente la ricordavano solo in parte. Ma tutti indistintamente erano
addestrati a rispondere a direttive formulari – un ordine militare, diciamo, o un’imposizione di tasse locali – in cui lo stile epico veniva imitato o riecheggiato. Ciò equivale
a dire che il poeta, e in particolare il poeta epico, doveva esercitare un grado di controllo culturale sulla sua comunità che è difficilmente immaginabile nelle condizioni
della moderna istruzione, in cui la poesia non fa più parte dell’attività di tutti i giorni.
Il suo linguaggio epico doveva costituire una specie di linguaggio culturale, un sistema di riferimento e una norma di espressione cui, in vario grado, erano rimandati tutti
i membri della comunità.
[…]
Il termine «linguaggio culturale» […] è stato limitato alle lingue che possiedono una
letteratura scritta. La teoria può essere integrata postulando che di conseguenza in una
società conservata oralmente sia soprattutto l’epos che di massima fornisce il linguaggio culturale. L’estensione della sua funzione per questo rispetto dipenderà dal grado
di virtuosismo che si impiega per conferire al discorso la forza di sopravvivere. […] Le
epopee omeriche costituivano un complesso di scritture invisibili impresse nella mente
della comunità. Rappresentavano un monopolio esercitato dalla tecnica epica sul linguaggio culturale. Tale controllo doveva essere collegato all’esecuzione funzionale per
essere efficace. Il fatto che la lingua omerica non era il vernacolo non fece che esaltare il suo potere di controllo. I tempi e le condizioni precise in cui i vari dialetti greci si
separarono sono ancora oscuri, ma in tutta l’età arcaica e classica, in Grecia si parlava
ancora omericamente, e si tendeva altresì a pensare omericamente. Non si trattava soltanto di uno stile poetico, bensì di uno stile internazionale, di un superiore idioma di
comunicazione.
Per un popolo, il controllo esercitato sullo stile del suo linguaggio, per quanto indiretto, significa anche un controllo sul suo pensiero. Le due tecnologie di conservazione della comunicazione conosciute dall’uomo, ossia lo stile poetico col suo apparato
acustico, e lo stile prosastico visivo col suo apparato visivo e materiale, ciascuno nel
suo rispettivo ambito, controllano anche il contenuto di ciò che è comunicabile. In un
certo complesso di circostanze, l’uomo riordina in parole la sua esperienza in un dato
modo; nell’altro complesso, riordina la stessa esperienza diversamente, con parole
diverse e diversa sintassi; e probabilmente, nel far così, l’esperienza stessa si modifica.
Ciò equivale a dire che gli schemi del suo pensiero hanno proceduto storicamente su
due distinti binari, quello orale e quello scritto. La giustezza di questa ipotesi non è
stata ancora verificata. Ma almeno Platone, se ci è consentito tornare a lui, sembra fosse
convinto che la poesia ed il poeta avevano esercitato un controllo non solamente sull’espressione verbale dei greci, ma anche sulla loro mentalità e sulla loro coscienza.
Secondo lui, questo controllo era stato fondamentale, e nella sua descrizione esso risulta di tipo monopolistico. Ciò si accorda con la nostra analisi della situazione del poeta
nei secoli oscuri della Grecia. Se ha ragione Platone, questa situazione era perdurata
virtualmente immutata per tutta l’età greca classica.
Odissea
di Omero
Il secondo poema omerico, generalmente datato all’VIII secolo a.C.,
presuppone il primo, l’Iliade, del quale riprende molti personaggi e vicende, pur essendo da quello completamente diverso per tema e struttura.
L’Odissea è il poema del dopo-guerra, del ritorno del reduce a casa: e delle
narrazioni dei nostoi, i ritorni dei vincitori greci di Troia, doveva originariamente far parte (frequenti sono in esso il contrasto con quello tragico di
Agamennone e il parallelismo con quello di Menelao).
Organizzato come l’Iliade in ventiquattro Libri, l’Odissea ha una struttura, come già sosteneva Aristotele nella Poetica, «complessa», e «intreccio
doppio»: non narra infatti il ritorno di Odisseo/Ulisse in patria, nella sua
Itaca, in sequenza cronologica, ma si serve (primo nella narrativa occidentale) di mirabili anticipazioni e flashback, e giunge alla fine (duplice,
appunto: punizione dei cattivi e trionfo dei buoni) dividendosi in tre grandi sezioni. Nella prima (Libri I-IV) il protagonista è fisicamente assente
dalla scena (ma la sua assenza costituisce un tema ossessivo), mentre viene
presentata la situazione di Itaca, nella quale i principi locali e delle isole
vicine, i Proci o Pretendenti, vivono nel palazzo reale consumandone le
ricchezze e facendo la corte a Penelope, la moglie che Odisseo ha lasciato venti anni prima per recarsi a Troia. Telemaco, l’unico figlio di Odisseo
e Penelope, è ormai un giovane uomo e, su impulso di Atena, parte per
Pilo e Sparta a cercare notizie del padre presso i suoi antichi compagni
d’arme, Nestore e Menelao. Con la seconda sezione (Libri V-XII) Odisseo
prende il suo posto di protagonista, dapprima ospite-prigioniero della dea
Calipso sulla sperduta isola di Ogigia, poi in navigazione su una zattera
verso Scheria, l’isola dei Feaci, infine nel palazzo del re di costoro, Alcinoo,
dove narra le proprie avventure (Libri VIII-XII) e dunque ritorna indietro
nel tempo costruendo egli stesso l’«Odissea».
Tutte le tappe di questa (Ciconi, Ciclopi, Eolo, Lestrigoni, Lotofagi, Circe, Ade, Sirene, Scilla e Cariddi, isola del Sole, Calipso: i mythoi o «apologhi di Alcinoo») sono fantastiche e ambientate in luoghi al di fuori del mondo reale (benché sin dall’antichità si sia tentato con caparbietà di ritrovar-

P. Boitani
ne l’ubicazione attorno al Mediterraneo o, più recentemente, in Scandinavia, e persino sull’intero pianeta). Tutte, dopo l’episodio di Polifemo, sono
dominate dall’ira del dio del mare, Poseidone, del quale Odisseo ha accecato il figlio Ciclope. È l’ira di Poseidone a determinare il lungo errare di
Odisseo (due dei dieci anni del ritorno, poiché uno egli ne passa con Circe e ben sette con Calipso), ma l’eroe non rifiuta mai, e anzi desidera, la
conoscenza di luoghi, esseri e costumi strani, mostruosi e pericolosi (come le Sirene, delle quali vuole a tutti i costi ascoltare il canto mortale).
La narrazione di Odisseo esercita inesauribile fascino già sui primi
ascoltatori, i Feaci stessi, che, in silenzio, sono disposti a seguire il racconto per tutta la notte; e poi attraverso i secoli sino ai nostri giorni, mentre sin dall’antichità ne emerge il carattere immediatamente esemplare, il
quale darà luogo ben presto alle interpretazioni allegoriche e morali. Che
l’incontro con i Mangiatori di Loto rappresenti la tentazione suprema dell’oblio è osservazione tanto ovvia a una prima lettura quanto tuttora pertinente. Il confronto con Polifemo può essere letto come lo scontro con
l’altro da sé, l’inumano, il mostro (l’orco delle fiabe), il selvaggio, il primitivo, il cannibale. Le Sirene rappresenteranno la seduzione del canto,
della morte, della conoscenza, della bellezza carnale (e Odisseo legato
all’albero della nave quando questa passa davanti alle Sirene verrà interpretato in ambito cristiano addirittura come prefigurazione di Cristo
inchiodato alla croce). Il lungo soggiorno presso Calipso, il rifiuto dell’immortalità, la «nostalgia» (letteralmente, «dolore del ritorno») potranno
essere prese per incrollabile fedeltà al proprio essere uomo, per rigetto
della divinità, ma anche come anelito di Odisseo non verso la terra natale, ma verso la Patria celeste (sarà il filosofo neoplatonico Plotino a consacrare questa interpretazione).
La visita all’Ade – la nekyia o evocazione dei morti: l’incontro con la
madre, con Achille, Agamennone, Aiace, gli eroi e le eroine del mito – è
collocata significativamente al centro di tale trama: perché costituisce l’esperienza suprema di ciò che non è più, del mondo della morte dal quale
l’eroe è toccato sin nel profondo delle sue radici esistenziali (la madre),
della propria giovinezza (i compagni di Troia), del passato tutto della sua
gente; nel quale egli deve sprofondare per poterne emergere vivo e
cosciente. Non sarà un caso, del resto, se proprio nell’altro mondo Platone
presenterà Odisseo al termine della Repubblica, nell’ambito del mito di Er:
dove il nostro eroe dovrà scegliere una figura per la sua prossima reincarnazione e finirà, felice, per contentarsi di quella di un uomo privato e insignificante, lontano dai furori eroici e dalle erranze infinite dell’Odisseo
omerico, preannunciando quindi l’«ognuno», l’uomo comune che Leopold
Bloom rappresenterà nell’Ulisse di Joyce.
Omero, Odissea

Tutta la terza e ultima sezione dell’Odissea (Libri XIII-XXIV) è dedicata
al ritorno a Itaca su una nave dei Feaci e alla riconquista da parte dell’eroe della sua reggia e della moglie insidiata dai Pretendenti. Odisseo, trasformato in vecchio mendicante da Atena, riparte ancora una volta da zero
(già arrivando a Scheria compariva nudo e incrostato di sale, come un vero
Nessuno, il nome col quale si era presentato a Polifemo). È questa la parte
del poema nella quale si succedono in crescendo l’una dopo l’altra le
scene di riconoscimento e mancato riconoscimento – con Telemaco, con
il cane Argo, con la nutrice Euriclea, con Penelope, con Eumeo e Filezio,
con il padre Laerte – che già avevano segnato le prime due, tali che proprio la loro presenza spingeva Aristotele a definire «complesso» il poema.
A poco a poco, attraversando scene comiche (la lotta con l’altro mendicante, Iro), patetiche (la morte del cane Argo) e apocalittiche (il riso cieco
dei Proci), Odisseo prepara la tremenda vendetta sui Pretendenti, che stermina tutti senza pietà dopo aver vinto la gara con l’arco proposta da
Penelope per chi la voglia sua sposa. Dopo la lunga notte che marito e
moglie finalmente passano insieme, il poema termina con il ricongiungimento di Odisseo al padre e la pace che Atena stabilisce tra Odisseo e i
suoi da un lato e i parenti dei Proci dall’altro.
Poema sfaccettato come il suo protagonista (Odisseo è polutropos, «dai
molti lati», e polumetis, dalla mente piena di molti accorgimenti), l’Odissea
odora di mare e sa di salmastro, ma è anche capace di entrare nei palazzi,
nelle capanne, nelle spelonche, nelle selve e nei giardini incantati. Capisce
l’animo di una moglie ferma e fedele, ma sola per vent’anni, e quello di una
fanciulla come Nausicaa, che per lo straniero venuto dalle acque prova un
sentimento di attrazione descritto con delicatezza senza pari. Si fa commedia “borghese” quando mostra Alcinoo, il padre di Nausicaa, che pensa di
maritarla allo sconosciuto del quale non sa ancora il nome. Esplora il regno
tremendo della morte, restando però aperta alla luce. È il poema della senescenza, nel quale tutti i personaggi sopravvissuti alla guerra di Troia sono invecchiati, ma celebra la vita e il perdurante amore di moglie e marito.
Penetra nella psiche di dèi, re, guerrieri, pastori, servi e, per la prima volta,
delle donne (Anticlea, Penelope, Elena, Nausicaa, Circe, Calipso, Euriclea).
Sonda gli abissi teologici della giustizia divina. Situa al suo centro l’eroe dell’esperienza umana, dell’intelligenza, della conoscenza e della sopravvivenza: che, ridotto a nulla, rifiuta l’immortalità offerta da Calipso e penosamente riconquista la propria identità di uomo. Epica nella forma, costituisce l’archetipo di quello che più tardi si chiamerà “romanzo”. Fa poesia della memoria, del racconto poetico e del canto: Aristotele, con intuito geniale, sosteneva che la scena di riconoscimento con Alcinoo avviene «attraverso la memoria», ma questa è destata dal canto dell’aedo Demodoco, e Alci-

P. Boitani
noo stesso dice a Odisseo, un attimo prima che questi si riveli, una frase la
cui sbalorditiva portata fu sottolineata da Jorge Luis Borges: «Di’ perché
piangi e nel tuo animo gemi / quando odi la sorte dei Danai argivi e di Ilio.
/ A volerla sono stati gli dei: filarono la rovina / per gli uomini, perché avessero anche i posteri il canto». Infine, nell’Odissea il fiammeggiante spirito
agonistico dell’Iliade è sostituito, scriveva l’autore anonimo del trattato Sul
sublime, da un ondeggiare – «come l’Oceano, quando si ritrae in se stesso
e se ne sta solo nei suoi argini» – tra «favole straordinarie».
Il poema resta poi misteriosamente, enigmaticamente aperto: perché la
profezia che Tiresia pronuncia per Odisseo nel mondo dei morti promette sì il ritorno a casa, ma prefigura anche un «ultimo viaggio» verso un
paese che non conosce il mare, le navi, il cibo condito col sale, e dove un
remo potrà essere scambiato per una pala da grano: una landa insomma
al di fuori dell’esperienza della Grecia arcaica, e dunque un viaggio potenzialmente senza fine.
Infinito infatti nel tempo e nello spazio è stato l’itinerario di Odisseo/Ulisse nella nostra civiltà: dai vasi dipinti dello stesso VIII secolo agli
studiosi alessandrini e bizantini, dai poeti augustei alle passioni politiche
degli imperatori di Roma, da Boezio all’esegesi cristiana, dalle narrazioni
medievali irlandesi a Dante, sino alla pittura, alla poesia e alla musica del
Rinascimento e del Romanticismo, e oltre: all’Ulisse di Joyce, a La naissance de l’Odyssée di Giono, a 2001: Odissea nello spazio. Derek Walcott, il
poeta dei Caraibi insignito del Premio Nobel nel 1992, autore di una versione drammatica del poema e di un Omeros che è riscrittura dello stesso,
coglie appieno il senso dell’Odissea e della sua storia nell’immaginario occidentale quando nel 1981 compone la sua breve lirica Mappa del nuovo
mondo, rievocando il conflitto dell’Iliade e il sorgere del secondo poema
omerico per mezzo di un nuovo inizio: «Alla fine di questa frase, comincerà la pioggia. / All’orlo della pioggia, una vela. // Lenta la vela perderà
di vista le isole; / in una foschia se ne andrà la fede nei porti / di un’intera razza. // La guerra dei dieci anni è finita. / La chioma di Elena, una nuvola grigia. / Troia, un bianco accumulo di cenere / vicino al gocciolar del
mare. // Il gocciolio si tende come le corde di un’arpa. / Un uomo con occhi annuvolati raccoglie la pioggia / e pizzica il primo verso dell’Odissea».
XIX, 349-504: Il riconoscimento di Euriclea
È una delle scene più celebri della letteratura di tutti i tempi. Nella trama
dell’Odissea, riprende uno dei temi più insistenti, soprattutto nella seconda parte del poema, quella ambientata a Itaca: il tema del riconoscimento
e del non-riconoscimento. La scena con Euriclea è inserita all’interno di
Omero, Odissea

un’altra, che occupa in sostanza l’intero Libro XIX: l’incontro, dopo
vent’anni, tra Ulisse e Penelope. Siedono l’una di fronte all’altro presso il
fuoco, lei splendente di bellezza, lui nelle vesti di vecchio mendicante.
Penelope domanda subito allo straniero chi sia e da dove venga, ma
Odisseo, con la scusa che il ricordo gli accrescerebbe le sofferenze, non
risponde. È invece Penelope a raccontare al mendicante l’inganno per
mezzo del quale ha tenuto a bada i Proci per qualche tempo: la tela che
tesseva di giorno e disfaceva di notte per il sudario di Laerte.
Per parte sua Odisseo inventa per sé una delle svariate identità cretesi
con le quali si presenta in patria, questa volta addirittura di fratello di
Idomeneo, il condottiero dei Cretesi a Troia. Penelope mette l’ospite alla
prova, domandandogli come Odisseo fosse vestito e quali compagni fossero con lui in quell’incontro di vent’anni prima. La risposta precisa al minimo dettaglio le fa versare calde lacrime, ma non la conduce al riconoscimento, mentre il mendicante termina il suo discorso profetizzando l’imminente ritorno in patria di Odisseo.
A questo punto Penelope chiama la vecchia Euriclea a lavare i piedi del
mendico. Non appena ne tocca le membra, Euriclea riconosce la ferita che
un cinghiale gli aveva inferto durante una partita di caccia cui Odisseo
aveva partecipato col nonno materno Autolico sul monte Parnaso. Inizia
allora, con transizione fulminea, una delle digressioni più famose della storia della letteratura
Il segno del riconoscimento riguarda la carne stessa di Odisseo, la sua storia di adolescente e di uomo. Non è perciò un caso che Omero scelga la cicatrice per effettuare l’agnizione. Né è certo un caso che Aristotele, nel capitolo 16 della Poetica, indichi la scena del “Bagno”, questa appunto, come
esempio supremo di anagnorisis (riconoscimento) «per mezzo di segni» o indizi materiali: perché in essa si combinano in maniera “artistica” l’acquisizione della conoscenza (nella teoria aristotelica, il suo primo gradino, la conoscenza attraverso i sensi: qui la vista e il tatto) e la peripeteia, il ribaltamento della situazione narrativa (la scoperta che lo sconosciuto mendicante
è Odisseo stesso), producendo uno shock di sorpresa ed emozione. Maniera “artistica”, mentre quella usata più tardi, nel riconoscimento da parte di
Eumeo e Filezio attraverso la stessa cicatrice è, nota Aristotele, meccanica
(Odisseo mostra semplicemente la ferita come «segno chiarissimo»). E conoscenza radicale, basilare, quella dei sensi, che Aristotele pone per prima nella scala ascendente dell’anagnorisis e nella sua teoria della conoscenza.
Gli rispose allora la saggia Penelope:
«Ospite caro, un uomo così avveduto giammai
tra gli ospiti di terre lontane arrivò a casa mia più gradito,

P. Boitani
come sei tu che dici ogni cosa in modo chiaro e assennato.
C’è una vecchia con me, ed ha nella mente connessi pensieri1,
che crebbe e allevò con affetto quel misero,
accogliendolo nelle sue braccia, appena la madre lo partorì:
ti laverà i piedi costei, anche se è molto debole.
Dunque ora alzati, saggia Euriclea,
e lava un coetaneo del tuo signore: Odisseo certo
ha ormai i piedi e le mani ridotte così,
perché i mortali invecchiano subito nella sventura».
Disse così, e la vecchia si coprì con le mani la faccia,
versò calde lacrime, pronunciò lamentose parole:
«Per te, o figlio, m’accoro, impotente: tra gli uomini
Zeus odiò te di più, che avevi un animo pio.
Nessuno bruciò tra i mortali a Zeus lieto del fulmine
cosci grassi e scelte ecatombi così numerosi2,
quanti ne desti tu a lui, pregando di poter arrivare
ad una splendente vecchiezza e crescere il figlio illustre:
ed ora a te solo tolse del tutto il dì del ritorno.
Forse le donne dei forestieri di paesi lontani irridevano
così anche lui, quando arrivava nella casa illustre di uno,
come irridono te queste cagne, tutte;
ed ora, per evitarne l’oltraggio e le molte infamie,
non le lasci lavarti; e l’ha ordinato a me, consenziente,
la figlia di Icario, la saggia Penelope.
Ti laverò dunque i piedi, per riguardo a Penelope
e a te, perché il mio animo, dentro, è mosso
da compassione. Ma ora ascolta la parola che dico:
molti stranieri qui sono giunti, provati dalla sventura,
ma nessuno, dico, a vederlo somigliava tanto
ad Odisseo, come tu gli somigli, nell’aspetto, la voce, i piedi».
Rispondendo le disse l’astuto Odisseo:
«O vecchia, così dicono quanti con gli occhi ci videro
entrambi, che siamo assai somiglianti
tra noi, come affermi con senno anche tu».
Disse così, e la vecchia prese il bacile lucente,
in cui lavava i piedi, vi versò molta acqua
fredda e aggiunse poi quella calda. Odisseo
sedeva accanto al braciere, e d’un tratto si volse alla tenebra:
subito temette nell’animo che nel toccarlo
notasse la sua cicatrice e si scoprisse ogni cosa.
Lavava il padrone accostandosi e riconobbe all’istante
la ferita che gli inferse il cinghiale col bianco dente,
quando andò sul Parnaso, da Autolico e i figli,
dal nobile nonno materno, che spiccava tra gli uomini
per ladrocinio e spergiuro: glieli diede il dio stesso
Omero, Odissea
Ermete, al quale bruciava cosci graditi
di agnelli e capretti, e che lo scortava benevolo3.
Arrivando nel ricco paese di Itaca, Autolico
aveva trovato il figlio neonato di sua figlia;
sui ginocchi Euriclea glielo pose,
quando egli fini la sua cena, gli rivolse la parola, gli disse:
«Autolico, trova ora tu un nome da imporre
al figlio caro di tua figlia: fu tanto agognato da te».
Le rispose allora Autolico e disse:
«Genero mio, figlia mia, mettetegli il nome che dico:
io vengo qui con odio per molti,
uomini e donne sulla terra molto ferace,
e dunque si chiami Odisseo di nome4. Ed io,
allorché cresciuto verrà sul Parnaso5,
nel palazzo materno dove sono i miei beni,
a lui ne darò mandandolo a casa contento».
Per questi Odisseo andò, per avere gli splendidi doni.
Autolico e i figli di Autolico
l’accolsero con abbracci e parole gentili;
Anfitea, la nonna materna, strinse Odisseo,
gli baciò il capo e i due occhi belli.
Autolico ordinò ai suoi figli gloriosi
di preparare il pranzo: essi ubbidirono all’ordine.
Subito portarono un bue di cinque anni,
lo scuoiarono e prepararono, lo squartarono tutto,
lo spezzettarono con maestria, l’infilzarono in spiedi,
l’arrostirono con attenzione e le parti divisero.
Così tutto il giorno, fino al tramonto,
mangiarono, e al loro animo non mancò la giusta porzione;
appena il sole calò e sopraggiunse la tenebra,
allora si coricarono e colsero il dono del sonno.
Quando mattutina apparve Aurora dalle rosee dita6,
per la caccia partirono, sia i cani sia loro,
i figli di Autolico; il chiaro Odisseo andava
con essi. Salirono il ripido monte vestito di boschi,
il monte Parnaso, e presto arrivarono in gole ventose.
Il sole colpiva da poco i campi
fuori dal calmo e profondo Oceano fluente,
e i cacciatori arrivarono in una valletta: davanti ad essi
andavano i cani, cercando le tracce, e dietro
i figli di Autolico; il chiaro Odisseo andava
con essi, accosto ai cani, agitando la lancia dalla lunga ombra.
Lì, nella folta macchia, era acquattato un grosso cinghiale;
non la penetrava il vigore dei venti che spirano umidi,
né mai il sole lucente la colpiva coi raggi,


P. Boitani
e neppure vi filtrava la pioggia: così fitta
essa era, e c’era un mucchio enorme di foglie.
Gli giunse il rumore dei piedi degli uomini e quello dei cani,
come cacciando avanzavano: sbucò loro incontro dal covo,
irto di setole, spirando fuoco dagli occhi,
e s’arrestò innanzi ad essi. S’avventò Odisseo
per primo, alzando la lunga lancia con la mano robusta,
bramoso di ucciderlo; lo prevenne il cinghiale, lo percosse
sopra il ginocchio, gli cavò molta carne col dente,
di fianco avventandosi, ma senza giungere all’osso dell’uomo.
Odisseo lo colse e ferì alla spalla diritta,
la punta dell’asta lucente lo passò parte a parte:
nella polvere cadde, stridendo, gli volò via la vita7.
Gli prestarono aiuto i cari figli di Autolico:
legarono con abilità la ferita
del nobile Odisseo pari a un dio, arrestarono il fosco sangue
con un incantesimo8 e subito giunsero alla casa del padre.
Autolico e i figli di Autolico,
dopo averlo ben curato, offertigli splendidi doni,
lietamente lo mandarono a Itaca, lieto,
rapidamente. Il padre e la madre augusta gioirono
che fosse tornato e gli chiesero in ogni punto
perché subì la ferita: e ad essi egli spiegò
che a caccia lo aveva aggredito un cinghiale col bianco dente,
quando egli andò sul Parnaso coi figli di Autolico.
Questa ferita la vecchia toccò con le palme
e al tatto la riconobbe: abbandonò il piede.
Piombò nel bacile la gamba, risuonò il bronzo,
s’inchinò dalla parte opposta, l’acqua si versò a terra.
Gioia e dolore a un tempo la colsero al cuore, le si empirono
gli occhi di lacrime, le si arrestò la voce fiorente.
Toccandogli il mento disse ad Odisseo:
«Ma tu, figlio caro, sei Odisseo: ed io prima
non t’ho ravvisato, prima d’aver tutto palpato il mio signore»9.
Disse e guardò con gli occhi Penelope,
volendo mostrarle che il caro sposo era in casa.
Ma lei non poteva vederla in faccia e capire:
le distolse Atena la mente10. Odisseo intanto
le prese e afferrò con la destra la gola,
con l’altra la trasse a sé e le disse:
«Balia, perché mi vuoi perdere? Mi hai nutrito tu stessa
al tuo seno! dopo tanti dolori sofferti, ora
sono tornato, al ventesimo anno, nella terra dei padri.
Ma poiché hai scoperto e un dio te l’ha posto nell’animo,
taci! nessun altro in casa lo sappia.
Omero, Odissea

Perché così io ti dico e così di sicuro sarà:
se un dio abbatterà per mia mano gli egregi corteggiatori,
non rispetterò te, che pur sei la mia balia, qualora le altre
ancelle uccidessi nella mia casa, le donne».
Gli disse allora la saggia Euriclea:
«Figlio mio, che parola ti sfuggì dal recinto dei denti11.
Lo sai, come è salda e non cede la mia volontà:
come una solida roccia starò, come il ferro.
Ma ti dirò un’altra cosa e tu tienila a mente.
Se un dio abbatterà per tua mano gli egregi corteggiatori,
allora ti enumererò quali sono in casa le donne
che non ti rispettano e quelle che sono innocenti».
Rispondendo le disse l’astuto Odisseo:
«Balia, perché vuoi dirmele tu? non è necessario.
Da me noterò e saprò di ciascuna perfettamente.
Mantieni il silenzio e fa’ agire gli dei».
Disse così e la vecchia uscì dalla stanza,
per portare l’acqua dei piedi: la prima s’era tutta versata.
(da Odissea, vol. V, a cura di Joseph Russo, trad. di G. Aurelio Privitera, Fondazione
Valla-Mondadori, Milano 19913).
Note
1. connessi pensieri: traduce il greco pukiná phresí, «dalla mente compatta».
2. ecatombe: è il sacrificio di cento buoi.
3. lo scortava benevolo: è il segno della speciale protezione che Ermes riserva ad Autolico.
Qualcosa della natura “ermetica” giunge dunque sino a Odisseo tramite il nonno paterno
4. Odisseo di nome: in tutta l’Odissea il gioco di parole tra il nome del protagonista e la voce
verbale (participio) odyssámenos è frequente, mentre qui l’espressione viene usata in funzione
etimologica; odyssomai contiene sia l’odio (latino odium) sia l’ira sia infine il dolore, sicché
Odisseo è dalla nascita l’uomo che li suscita (all’attivo) o li patisce (al passivo).
5. Parnaso: è la montagna che domina il centro della Grecia, sopra Delfi: era consacrato al
culto di Apollo e delle Muse, che qui avevano una delle loro due dimore.
6. Aurora dalle rosee dita: «dalle rosee dita», rododáktulos è l’aggettivo che sempre accompagna l’alba nei poemi omerici.
7. gli volò via la vita: l’allusione è alla credenza che il thymós, l’animo, abbandoni il corpo o
sia esalato quando un guerriero o un animale muore.
8. con un incantesimo: «Uno dei rari riferimenti alla fede arcaica nel potere magico degli
incantesimi cantati» (Russo, ed. cit., ad Odyss. XIX, 457-8).
9. prima d’aver tutto palpato il mio signore: entro la stessa frase l’emozionata Euriclea chiama
Odisseo prima «figlio», poi «signore».
10. le distolse Atena la mente: Penelope, dunque, non può vedere né capire a causa di un diretto intervento di Atena, la dea che protegge Odisseo.
11. recinto dei denti: Il «recinto dei denti» (érkos odónton) è l’espressione comune (in termini di
poesia nordica, una kenning) in Omero per «bocca».
PIERO BOITANI

P. Boitani
ERICH AUERBACH, La cicatrice d’Ulisse
da E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956, 2 voll.
I lettori dell’Odissea ricordano la scena ben preparata e commovente del canto XIX,
in cui la vecchia dispensiera Euriclea riconosce Ulisse, di cui era stata nutrice, da una
ferita alla coscia. Lo straniero ha conquistato la benevolenza di Penelope, che secondo
il desiderio di lui comanda alla massaia di lavargli i piedi; in tutti i racconti antichi è
questo il primo dovere dell’ospite verso lo stanco viandante. Euriclea, affaccendandosi a prender l’acqua e a mescolare la fredda con la calda, parla intanto dell’eroe scomparso, che potrebbe avere la stessa età dell’ospite, e che adesso forse va anche lui per
il mondo ramingo, e viene anche notando, stupita, quanto i due s’assomiglino. Nel frattempo Ulisse si ricorda della cicatrice, e si ritrae dove è più buio, per celare almeno a
Penelope il riconoscimento ormai inevitabile, ma non ancor desiderato. Non appena
Euriclea ha toccato la cicatrice, con lieto spavento lascia cadere il piede nel bacino, l’acqua trabocca, lei vuol gridare la sua gioia: Ulisse sottovoce, con lusinghe e minacce, la
trattiene; essa si riprende. Penelope, la cui attenzione è stata distratta dalle arti d’Atena,
non si è accorta di nulla.
Tutto questo è raccontato con precisione e con lentezza. Le due donne manifestano i loro sentimenti con discorso minuzioso, fluido, diretto; quantunque i loro sentimenti siano mescolati a qualche considerazione generale sull’umano destino, il legame
sintattico fra le parti è perfetto, e tutti i contorni sono nitidi. Tempo e spazio abbondanti sono concessi anche a una descrizione ordinata delle suppellettili, all’assistenza
all’ospite, ai gesti. Perfino nel momento drammatico del riconoscimento non si trascura di render noto al lettore che è con la mano destra che Ulisse afferra la vecchia alla
gola, per impedirle di parlare, mentre con l’altra la trae più vicino a sé. Uomini e cose
stanno o si muovono chiaramente circoscritti, limpidamente e ugualmente illuminati
entro uno spazio che si può tutto abbracciare, e non meno chiaramente ed esaurientemente sono descritti i sentimenti e i pensieri, ordinati anche nella loro violenza.
In questo mio riassunto ho taciuto finora tutta una serie di versi che rompono a
mezzo il racconto. Sono più di settanta, mentre la vicenda è narrata nei circa cinquanta versi precedenti e nei quaranta susseguenti l’interruzione. Questa interruzione, che
avviene proprio nel momento in cui la dispensiera riconosce la cicatrice, e cioè nel
momento della crisi, descrive l’origine della cicatrice, una disgrazia capitata a Ulisse giovinetto cacciando il cinghiale durante un soggiorno presso il nonno Autolico. Ciò dà
dapprima l’avvio a informare il lettore su Autolico, sul paese in cui abitava, sulla sua
parentela con Ulisse, sul suo carattere e, in modo diffuso e tuttavia incantevole, sul suo
comportamento dopo la nascita del nipote. Segue poi la visita del nipote divenuto giovinetto; il saluto, il banchetto con cui è accolto, il sonno, il risveglio, la partenza mattutina per la caccia, la traccia dell’animale, il combattimento, la ferita d’Ulisse per una
zannata, la fasciatura della ferita, la guarigione, il ritorno a Itaca, le ansiose domande
dei genitori; tutto viene minuziosamente descritto, senza nulla lasciare nell’ombra e con
perfetti legami. E soltanto allora il narratore ritorna alla camera di Penelope, ed
Euriclea, che già dianzi ha riconosciuto la cicatrice, soltanto a questo punto, dopo l’interruzione, lascia per lo spavento ricadere nel bacino il piede alzato.
Omero, Odissea

Il primo pensiero che si affaccia a un lettore moderno è che qui si sia mirato ad
aumentare la tensione, cosa non del tutto falsa, ma non decisiva per spiegare il procedimento omerico. Infatti si può dire che nei poemi omerici raramente si avverte la tensione; in genere il loro stile non vuole far trattenere il fiato. Ma un tale intento dovrebbe soprattutto far sì che quanto mira a provocare la «tensione» nel lettore non produca
invece la «distensione», come invece avviene molto spesso, e anche qui. L’ampia e graziosa scena di caccia, con tutti i suoi piaceri e la ricchezza delle sue immagini idilliache, mira a conquistar tutto per sé l’ascoltatore durante il tempo che la segue, a fargli
per l’appunto dimenticare quello che accadeva prima, al momento della lavatura dei
piedi. Intento proprio d’una digressione, che esalti la tensione ritardandola, è non riempire del tutto il momento presente, non fare dimenticare la crisi, di cui con ansia si
aspetta lo scioglimento, distruggendo così anche lo stato di «tensione». Crisi e tensione
debbono conservarsi, debbono rimaner presenti nello sfondo. Ma Omero […] non
conosce sfondo. Quello che egli racconta è sempre e soltanto presente, e riempie completamente la scena e l’anima dello spettatore. Così avviene anche qui. Quando
Euriclea giovane […] dopo il banchetto, pone sulle ginocchia del nonno il neonato
Ulisse, la vecchia, che pochi istanti prima ha toccato il piede del viandante, è completamente sparita dalla scena e dall’animo dell’ascoltatore.
[…]
L’excursus sull’origine della cicatrice non si distingue in fondo dai molti passi in cui
un personaggio o un oggetto non prima veduti, foss’anche in mezzo all’infuriare della
battaglia, viene descritto nella sua forma e origine, o da quelli in cui si dànno notizie
d’un dio novellamente apparso, di dove s’è trattenuto nell’ultimo tempo, di che cosa
v’ha fatto, e per quale via è arrivato; anzi mi sembra che perfino gli epiteti siano alla
fine da riportare alla stessa necessità di dare a tutto ciò che compare una forma sensibile. Qui è la ferita ad apparire nel corso dell’azione, ed è una cosa intollerabile per il
sentimento omerico vederla semplicemente emergere dal fondo oscuro del passato.
Essa deve uscire, chiara alla luce, e con essa un tratto della giovinezza dell’eroe; non
altrimenti che nell’Iliade, quando già brucia la prima nave e finalmente i Mirmidoni
s’accingono a correre in aiuto, si trova ancor tempo non solo per una splendida similitudine con i lupi, non solo per l’ordinamento delle schiere dei Mirmidoni, ma anche
per la descrizione esatta dell’origine di alcuni capi minori (Il., XVI, I55 sgg.). Senza dubbio l’effetto estetico che con ciò si raggiunge deve esser stato notato assai presto, e più
tardi anche voluto; ma tuttavia il motivo originale si dovrebbe cercare nella fondamentale tendenza dello stile omerico a presentare le cose in una forma finita ed esatta, palpabili e visibili in tutte le loro parti e nelle loro relazioni di spazio e di tempo.
Le cose non vanno diversamente per gli aspetti intimi: anche di questi nulla può
restare celato o inespresso. Gli uomini d’Omero manifestano il loro intimo senza nulla
tralasciare, e anche l’espressione delle passioni ha un suo ordine: quello che non dicono agli altri, lo dicono nel proprio cuore, sicché il lettore venga a conoscerlo. Nei
poemi omerici accadono molte cose orribili, ma accadono raramente senza che le bocche parlino: Polifemo parla con Ulisse, costui parla coi pretendenti quando comincia a
ucciderli; Ettore e Achille parlano a lungo prima della battaglia e dopo, e nessun discorso è così affannoso da mancare dell’articolazione logica e linguistica o da cadere nel
disordinato. E ciò vale naturalmente non soltanto per i discorsi, ma in genere per ogni

P. Boitani
cosa rappresentata. I singoli elementi della rappresentazione vengono ovunque messi
in chiarissima relazione reciproca, e un gran numero di congiunzioni, d’avverbi, di particelle e d’altri strumenti sintattici, tutti ben definiti nella loro importanza e finemente
graduati, delimitano fra di loro le persone, le cose e gli avvenimenti, creando nello stesso tempo un collegamento fluido e continuo. Come le cose singole, così assumono evidenza in una forma perfetta anche le loro relazioni di tempo, di luogo, causali, finali,
consecutive, comparative, concessive, antitetiche e limitative, sicché si ha un trascorrere incessante, ritmico e vivace dei fenomeni e non si scorge mai una forma rimasta allo
stato di frammento o illuminata a metà, mai una lacuna, una frattura, una profondità
inesplorata.
Divina Commedia
di Dante Alighieri
Dante Alighieri è considerato il più grande poeta del Medioevo: ancora
oggi è l’autore italiano più amato, letto e studiato in tutto il mondo. Nasce
nel 1265 a Firenze, che in quel momento si stava sviluppando impetuosamente, fino a rappresentare una delle massime potenze economiche del
tempo, alleata del Papato e della Francia. È il momento in cui il Medioevo
feudale sta finendo e in cui sta nascendo, proprio nei Comuni italiani (e a
Firenze in particolare), una nuova società, fondata sull’industria manifatturiera, il commercio e la finanza. Dante, pur nato in una famiglia della piccola nobiltà, sceglie per sé un compito difficile e controcorrente: vivere e
tentare di capire e interpretare quel mondo alla luce della cultura e della
poesia, sacrificando a questo scopo ogni altro interesse.
Quando viene condannato all’esilio, per la sua opposizione alla politica del papa Bonifacio VIII e del partito fiorentino filo-papale, è costretto
ad una vita dura ed errante nella quale trova però nuovi orizzonti di riflessione e di creatività, oltre i limiti degli orizzonti cittadini. Arriva così a organizzare in una amplissima e articolatissima visione poetica, la Divina
Commedia, l’intera storia personale sua e del mondo, dall’antichità più
remota alla contemporaneità, rivisitati attraverso il viaggio che il protagonista Dante (il primo personaggio che dice e racconta l’“Io” nella storia
della letteratura europea) immagina di aver realmente compiuto nell’oltretomba cristiano, in virtù della grazia divina. L’incontro e lo scontro con le
anime dei più famosi personaggi del passato e del presente, ormai sottratti alle finzioni del mondo e colti nella loro verità ultraterrena, come immaginata dallo stesso Dante, danno così luogo ad una rappresentazione
potentemente realistica dell’intera umanità, nelle sue miserie, tragedie e
grandezze.
Il carattere straordinario e abnorme del poema, non completamente
iscrivibile in realtà in nessun genere letterario e in nessuna regola o categoria precedente e seguente, ha determinato il successo immediato dell’opera. Proprio queste caratteristiche straordinarie l’hanno allontanata dall’apprezzamento dei lettori dall’età umanistica fino all’Illuminismo. Non si
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R. Antonelli
poteva disconoscere la grandezza indubbia della Commedia, ma essa si
presentava come troppo “medievale” ed estranea alle regole del classicismo e della ragione per poter essere pienamente accolta. Soltanto alla fine
del Settecento e nell’Ottocento proprio la potenza delle emozioni e dei
sentimenti rappresentati e la loro vitalità e originalità, l’hanno riproposta
all’ammirazione integrale dei lettori di tutto il mondo, fino ai giorni nostri,
rendendola una delle opere “canoniche” della letteratura mondiale.
Divina Commedia
La Commedia, definita con questo nome dallo stesso Dante (Inferno,
XI, 128), racconta il viaggio nell’oltretomba di un personaggio che si presenta come individuo particolare e storico, con tutte le sue idee ed emozioni, e insieme come rappresentante dell’intera umanità in quanto prescelto da una speciale grazia divina.
È un viaggio di conoscenza attraverso la storia di tutto il genere umano,
dalle origini alla contemporaneità, poiché Dante nell’oltretomba incontra
tutti i personaggi del passato e del proprio presente, offrendo la rappresentazione di tutte le possibili manifestazioni affettive ed emozionali, in un
quadro reso drammatico da incontri, scontri, riconoscimenti, spesso imprevisti o improvvisi. Dante immagina di essersi smarrito nella selva del peccato nel 1300, anno del primo giubileo, promosso dal suo acerrimo nemico, papa Bonifacio VIII. È guidato verso la salvezza prima da Virgilio e poi
da Beatrice, attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, dove incontra
i grandi protagonisti della storia e della contemporaneità. A ciascuno è
assegnato un posto nell’aldilà, una pena o un premio, in relazione a come
si è comportato nella vita terrena. Sin dai primi due versi del poema Dante
chiarisce che sta parlando di una vicenda personale (IO «mi ritrovai») ma
in realtà rappresentativa di tutti NOI, di tutta l’umanità («Nel mezzo del
cammin di nostra vita»).
Dante dunque può vedere le verità di questo mondo attraverso il viaggio nelle verità del mondo ultraterreno. Il suo è un viaggio interiore e penitenziale poiché la vista e l’esperienza delle pene e dei premi assegnati da
Dio alle anime dei trapassati costituiscono altrettante tappe di una riflessione critica sui peccati propri e dell’umanità contemporanea e storica, fin
da Adamo ed Eva.
L’accostamento delle anime di personaggi rappresentativi del presente
e del passato consente inoltre un’attualizzazione possente del racconto e
dei drammi rappresentati, che penetra violentemente ed efficacemente nell’animo del lettore, portandolo alla commozione e all’autoriflessione.
Contrariamente al pellegrinaggio giubilare indetto da Bonifacio VIII (e al
Dante Alighieri, Divina Commedia
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quale lo stesso Dante sembra aver partecipato), che assicurava ai fedeli
pellegrini a Roma l’indulgenza plenaria dai peccati, il viaggio del personaggio “Dante” è dunque un vero giubileo, tutto interiore, spirituale.
Bonifacio VIII, il papa responsabile del suo esilio, è sbattuto in anticipo
all’Inferno, fra i simoniaci, in quanto ritenuto organizzatore della vendita di
cose sacre (Inferno, XIX, 52-57). Dante si erge così a campione di una religiosità vissuta sinceramente, al di fuori della pompa e delle istituzioni corrotte.
L’autore della Commedia si pone perciò non soltanto come un giudice ma anche come un profeta, un nuovo Mosè (a sua volta “figura” di
Cristo nell’interpretazione cristiana), che intende portare in salvo il
popolo cristiano oltre il Mar Rosso della crisi morale contemporanea,
così come Cristo aveva salvato dal peccato originale, con la sua incarnazione e morte, l’intera umanità. Alla fine del viaggio, in Paradiso
(XXVII, vv. 63-66), sarà san Pietro a conferirgli il potere e il dovere di
riferire e svelare il Vero e salvare l’umanità in pericolo: «e tu figliuol, che
per lo mortal pondo [‘corpo’] / ancor giù tornerai, apri la bocca, / e non
asconder [‘nascondere’] quel ch’io non ascondo». Anche il lettore è chiamato dunque a prender partito: si trova infatti di fronte alla rappresentazione e alla valutazione di tutte le virtù, i vizi, gli affetti e le emozioni
degli esseri umani, passati e presenti che egli stesso è chiamato a giudicare.
L’incontro con Ulisse (Inferno, XXVI, 51-142)
Nel XXVI canto Dante e la sua guida, il poeta latino, Virgilio, scendono
nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno, ove sono puniti i consiglieri fraudolenti, fra i quali Diomede e Ulisse, colpevole di aver ideato l’inganno del cavallo che portò alla distruzione di Troia. Dante chiede a
Virgilio di conoscere le circostanze della loro morte. Ulisse, «lo maggior
corno della fiamma antica», risponde.
È uno fra i passi più famosi dell’Inferno e della Commedia e ha dato
origine a due diverse interpretazioni, sin dai primi commentatori; l’una ha
sottolineato il peccato di superbia di Ulisse e quindi una sua colpa che
spiegherebbe il fallimento del viaggio oltre le colonne d’Ercole, l’altra ha
invece posto l’accento sul suo essere comunque un eroe «magnanimo», di
animo grande, proteso ad accrescere la conoscenza delle cose e condannato al naufragio solo perché pagano e quindi privo della grazia.
Entrambe le posizioni contengono un nucleo di verità. Ulisse appare in
realtà come figura antinomica rispetto a Dante: viene condannato proprio
per aver voluto sfidare i limiti imposti da Dio al suo ingegno, fondato solo
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R. Antonelli
sulla “naturale” sete di conoscenza, sul sapere di tipo filosofico (come
Dante nel Convivio, l’opera precedente la Commedia). Dante riuscirà
invece ad ascendere sulla montagna del Purgatorio, dinanzi alla quale
naufraga Ulisse, proprio grazie ad un ingegno assistito dalla virtù e dalla
grazia divina, superando nella Commedia anche le proprie precedenti
posizioni. Dante raggiungerà la conoscenza suprema attraverso la visione
di Dio nel Paradiso, dopo un duro viaggio penitenziale nell’Oltretomba,
mentre Ulisse morirà nel suo tentativo. Come in altri casi della Commedia
perciò, la figura di un personaggio rappresenta la storia dello stesso
Dante, che incorpora nell’eroe greco il proprio percorso poetico-culturale: narra la storia e l’ambizione conoscitiva di Ulisse e la supera in una
diversa prospettiva, mistica. L’incontro con Ulisse permette così un’interpretazione duplice, a seconda del punto di vista del lettore: quest’ultimo
può privilegiare come il protagonista dell’Odissea la ricerca della conoscenza su questa terra e come Dante personaggio-poeta la ricerca della
salvezza per sé e per l’umanità. Per i lettori della Commedia Ulisse ha
comunque e perciò rappresentato, e rappresenta, il simbolo del destino
degli esseri umani, tesi irresistibilmente verso l’infinito («l’alto mare aperto») e verso sempre nuove conoscenze, ma destinati a un esito spesso tragico e quindi “eroico”, proprio in quanto uomini. Attraverso Ulisse, ma in
realtà in tutto il poema, Dante si interroga e giudica se stesso e l’umanità,
invitando anche il lettore a interrogarsi e a giudicare se stesso e il senso
della propria esistenza.
«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:
chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?».
Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta».
«S’ei posson dentro da quelle faville
parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,
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Dante Alighieri, Divina Commedia
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!».
Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto,
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto».
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore,
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
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R. Antonelli
«O frati,» dissi, «che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza».
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti,
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».
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Parafrasi
«Maestro mio – risposi – per averti ascoltato sono più sicuro, ma già mi sembrava
che fosse così e già volevo dirti: chi c’è in quella fiamma così divisa nella parte di
sopra, che sembra sorgere dal rogo di Eteocle e Polinice?»
Egli mi rispose: «Lì dentro sono puniti Ulisse e Diomede, che sono uniti nella punizione di Dio così come andarono insieme incontro alla sua ira; e nel loro fuoco si
piange l’inganno del cavallo di Troia, da cui ebbe origine la nobile stirpe dei Romani.
Vi si espia anche l’inganno a causa del quale, da morta, Deidamia ancora piange
Achille e vi si sconta anche la pena per il furto della statua di Pallade.»
«Se possono parlare dentro quella fiamma – dissi io – ti prego e ti riprego molto,
e la mia preghiera ne valga mille, maestro, che tu non mi neghi di aspettare finché
Dante Alighieri, Divina Commedia

la fiamma doppia (cornuta) venga qua: vedi che per il desiderio mi protendo verso
di lei!».
Ed egli a me: «La tua preghiera è degna di grande lode e perciò l’esaudisco, ma
trattieni la lingua. Lascia parlare me, perché ho capito ciò che desideri: forse essi
disdegnerebbero di parlare con te poiché furono greci.»
Dopo che la fiamma fu arrivata dove al mio maestro parve opportuno, lo udii parlare in questo modo: «O voi che siete racchiusi in due in una sola fiamma, se io acquisii meriti presso di voi mentre ero vivo, se io qualche merito ebbi presso di voi quando scrissi il mio poema, non muovetevi, ma uno di voi mi dica dove se ne andò a
morire, perduto.»
La cima più alta della fiamma antica cominciò a ondeggiare mormorando, proprio
come il fuoco agitato dal vento, quindi scrollando la punta più alta qua e là, gettò
fuori la voce come fosse una lingua che parlasse, e disse: «Quando mi separai da
Circe, che mi sottrasse a me più di un anno vicino a Gaeta, prima che Enea le desse
questo nome, né il dolce affetto del figlio né il rispetto pietoso per il vecchio padre,
né il dovuto amore coniugale che doveva rendere felice Penelope, poterono vincere
dentro di me il desiderio ardente di conoscere il mondo e i vizi e le virtù degli uomini, ma mi misi per il profondo e sconfinato mare, solo con una nave e con quella
piccola compagnia dalla quale non fui abbandonato.
Vidi l’una e l’altra sponda, vidi infine la Spagna e il Marocco e la Sardegna e le
altre isole che quel mare bagna.
Io e i compagni eravamo vecchi e lenti quando arrivammo a quello stretto dove
Ercole mise i suoi segni, affinché l’uomo non li oltrepassi; sulla sponda di destra mi
lasciai Siviglia, sulla sinistra avevo già oltrepassato Ceuta.
«O fratelli, dissi, che attraverso centomila pericoli siete giunti all’Occidente, in
questo periodo di vita così breve rispetto al resto, non vogliate negare l’esperienza
di esplorare il mondo disabitato, seguendo il corso del sole. Pensate alla vostra origine: non foste creati a vivere come animali non razionali, ma per perseguire valore e sapere».
Con questo piccolo discorso io feci i miei compagni così desiderosi di andare
avanti che dopo avrei potuto trattenerli a fatica, e rivolta la poppa della nostra nave
ad oriente, rendemmo i remi come ali per il nostro folle volo, continuando ad inoltrarci sul nostro fianco sinistro.
La notte mostrava ormai tutte le stelle del polo antartico e quelle del nostro polo
tanto basse che non si alzavano oltre l’orizzonte del mare.
Per cinque volte si era riaccesa e altrettante spenta la luce sotto la faccia inferiore della luna, da quando eravamo entrati nel profondo cammino, quando ci apparve una montagna, scura per la distanza, e mi sembrò tanto alta quanta mai ne avevo
veduta alcuna.
Noi ci rallegrammo, ma subito la gioia si volse in pianto, poiché dalla terra appena vista si levò un vento turbinoso e percosse la parte anteriore della nave.
Tre volte la fece girare insieme alle acque intorno; alla quarta la poppa si alzò in
alto e la prua andò in basso, come volle altri, finché il mare si richiuse sopra noi.
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R. Antonelli
Note
54. dov’ Eteocle fu col fratel miso…: i due fratelli s’uccisero a vicenda ma il fuoco nato dal
rogo dei loro corpi si divise in due.
62-63. Piangevisi … porta: Diomede e Ulisse smascherarono con un inganno Achille, travestito da fanciulla per non partire per la guerra di Troia: Deidamia, figlia del re presso cui Achille si
nascondeva e innamorata di lui, piange ancora la sua perdita. Ulisse e Diomede rubarono la statua della dea Atena (Pallade), protettrice di Troia (secondo la leggenda la città non sarebbe caduta finché la statua fosse rimasta al suo interno).
75. e’ fuor greci: i greci avevano fama di essere ingannatori (proprio a causa del cavallo di
Troia) e superbi.
90. Circe: la maga che stregò i compagni di Ulisse riducendoli a maiali e sedusse lo stesso
Ulisse.
94. né dolcezza di figlio… né la pietà del vecchio patre, ne’l debito amore…: Dante allude al
diverso e pietoso comportamento di Enea (che salva padre e figlio dalla distruzione di Troia)
rispetto ad Ulisse. Il poeta si propone infatti, nel suo viaggio nell’Oltretomba, sin dall’inizio della
Commedia come “nuovo” Enea. In quanto fondatore dell’Impero romano in cui nacque Cristo,
Enea era ritenuto investito di una missione divina, come Dante, e al contrario di Ulisse.
108. dov’Ercule … riguardi: lo stretto di Gibilterra e le cosiddette colonne d’Ercole.
141. altri: Dio, non nominato dal pagano Ulisse.
ROBERTO ANTONELLI
Dante Alighieri, Divina Commedia

ERNST ROBERT CURTIUS, Dante
da E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 1992
Che cosa ha reso possibile la Commedia? Il lettore comune attento solo al piacere
estetico non si pone questo problema; ma lo storico della letteratura deve necessariamente affrontarlo. [… ] Durante le nostre indagini sulle forme e tradizioni tipiche del
Medio Evo latino, abbiamo dovuto citare esempi danteschi ad ogni piè sospinto.
Bisogna dunque concludere: accanto alla lirica provenzale ed italiana, è il Medio Evo
latino l’elemento-base da analizzare per lo studio della genesi della Commedia. Fu
caratteristica comune a tutta la Romània, l’arricchimento delle lingue e letterature
romanze con la cultura latina; ma le forme di questo processo si differenziarono in
Francia, in Italia, in Spagna.
In Italia, tale sviluppo era favorito dalla maggiore somiglianza fonetica e lessicale
del volgare al latino. Si considerino i due primi versi della Commedia: «Nel mezzo del
cammin di nostra vita / Mi ritrovai per una selva oscura». «Nostra vita» è sia italiano, sia
latino; «una selva oscura» differisce appena dal latino una silva obscura. Le corrispondenti espressioni spagnole – nuestra vida e bosque oscuro –, nonché le antico-francesi
– nostre vie e forest oscure –, differiscono assai di più, foneticamente e lessicalmente.
Nel contempo, però, le analogie fra volgare e latino provocano talvolta particolari difficoltà al poeta italiano: questi può sentirsi chiamato a commisurare, ad assimilare, la
lingua volgare alla latina, soprattutto quando vi sono implicate le rime. Tra il volgare
ed il latino può allora insorgere una certa tensione, che sarà tanto maggiormente percepita quanto più il poeta sarà impregnato di cultura latina ed incline a sperimentazioni.
Dante assorbe dai Provenzali, in particolare da Arnaut Daniel, l’ideale stilistico della
tecnica difficile. Le riflessioni tecniche nascono in lui parallelamente al processo creativo; vorrebbe trovare, per l’Inferno (XXXII 1), «rime aspre e chiocce», nel Paradiso
(XXX 36) lotta con «l’ardua sua matera» e (Par. XXX 33) aspira alla perfezione stilistica,
«come a l’ultimo suo ciascuno artista». Egli è un tecnico ed un artista dell’elocuzione e
– per questo fatto stesso – deve sempre confrontarsi con le teorie letterarie antiche e
medievali. Fra tutti gli autori delle letterature romanze, nessuno – neppure Gongora –
ha sentito così profondamente come Dante la problematica del rapporto, talora conflittuale, tra lingua volgare e lingua latina. Questa specie di tensione è rintracciabile in
tutte le sue opere e si manifesta non solo con 1’alternare scritti latini e scritti italiani,
ma anche col trasferire locuzioni e forme latine in lingua italiana; così si giustificano
certi manierismi tecnici, ad es. l’uso della perifrasi e dell’annominatio, e si spiegano
anche alcune peculiarità nella topica e nella tematica della Commedia.
[…]
La dovizia di personaggi presenti nella Commedia si spiega grazie alla più incisiva
e più feconda innovazione che il genio di Dante abbia introdotto nel patrimonio artistico-letterario ereditato dall’Antichità e dal Medio Evo: il riferimento vivo al mondo
contemporaneo. Dante chiama in causa papi e imperatori del suo tempo, re e prelati,
politici, tiranni e condottieri, uomini e donne della nobiltà e della borghesia, delle corporazioni di arti e mestieri e della scuola. L’ignavo Belacqua, liutaio semisconosciuto,

R. Antonelli
trova posto nell’aldilà, esattamente come ladri, assassini, santi, artisti e poeti, filosofi ed
eremiti, gente di ogni professione e di ogni gradino sociale. La Divina Commedia è in
pari tempo una Comédie Humaine, in cui nulla di umano appare troppo elevato o troppo misero. Il poema si muove integralmente all’interno della trascendenza; questa però
è costantemente pervasa dall’alito della storia, dalle passioni del presente.
L’atemporalità e la temporalità non solo si giustappongono e si contrappongono vicendevolmente, ma anzi s’intessono e s’intrecciano a tal punto che i fili non sono più separabili. Il violento irrompere della storia vissuta nell’insieme degli elementi epici, mitologici, filosofici e retorici che formavano la cultura del Medio Evo latino rese possibile
la congiuntura da cui nacque la Commedia. È la risposta dello spirito di Dante al destino di Dante: l’esilio. Per l’Alighieri, l’esilio non fu altro che la conferma sul piano personale del generale sconvolgimento del mondo: Imperium e Sacerdotium erano usciti
dalla retta via; la Chiesa degenerata; l’Italia disonorata (Pg. VI, 76 sgg.): «Ahi serva Italia,
di dolore ostello, / Nave sanza nocchiere in gran tempesta, / Non donna di provincie,
ma bordello». Il mondo era dissestato; a Dante toccava l’immane compito di rimetterlo
in carreggiata. Nella Monarchia egli si era proposto di determinare i giusti rapporti fra
Impero e Papato. Nella Commedia egli smembra l’intero universo storico, per poterlo
quindi ricomporre nel cosmo astrale dell’universo e nel cosmo metafisico della trascendenza; i valori dell’uno e dell’altro sono in stretta e reciproca corrispondenza.
Canzoniere
di Francesco Petrarca
Petrarca è probabilmente il poeta lirico più letto e imitato al mondo. Ha
portato a perfezione e sintetizzato in un unico libro, il Canzoniere, tutta
l’elaborazione poetica sull’amore a lui precedente, classica e volgare (particolarmente: provenzale e italiana). In particolare, ha offerto un modello
di analisi psicologica del soggetto alle prese con le diverse emozioni e
riflessioni della relazione amorosa, valendosi di una lingua poetica esemplarmente limpida ed armonica.
La perfezione formale e retorica con cui è costruito il Canzoniere è una
delle ragioni basilari della sua enorme fortuna ma anche, talvolta, dell’accusa rivolta a Petrarca di essere un poeta ormai lontano dalla sensibilità
moderna. A partire dall’Ottocento si è pensato infatti che a tanta cura per
la costruzione del discorso non corrispondessero altrettanta “sincerità” e
“passione” e che Petrarca fosse un autore “freddo” e “insincero”. Tra
Ottocento e Novecento si è perciò tentato con successo di abbandonare il
sistema di forme e di sentimenti codificato da Petrarca e dai cosiddetti
“petrarchisti”, cercando nuove strade. La lirica del Canzoniere era stata
infatti oggetto di troppe e continue imitazioni per secoli, fino a divenire un
codice ripetitivo e lezioso. La poesia italiana post-petrarchesca era rimasta
bloccata e incapace di rinnovarsi, perfino di fronte all’esplosione di rivoluzioni storico-sociali e di movimenti culturali del tutto nuovi. Malgrado ciò
Petrarca è, con Dante e Boccaccio, uno dei tre capisaldi del primo canone “classico” della letteratura italiana ed europea.
Oggi è anche e soprattutto un autore di cui si sta sempre più comprendendo la serietà delle passioni, dei sentimenti e delle contraddizioni e
soprattutto la sua funzione capitale nella scoperta dell’interiorità dell’Io e
delle sue contraddizioni: il primo autore autenticamente “moderno” della
letteratura europea. Tutti questi elementi lo avvicinano alla sensibilità e alle
problematiche anche della contemporaneità. Bisogna però capire che le
emozioni di Petrarca sono espresse in un discorso non solo complesso e
denso ma lucidissimo e controllatissimo. Nel Canzoniere l’analisi delle
contraddizioni e delle angosce del Soggetto è affidata a un sistema di
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R. Antonelli
forme, riprese verbali e allusioni talmente perfetto da ricoprire la presenza e l’irruenza dei sentimenti sotto lo splendore e il rigore della scrittura:
una dimensione “classica”, sottratta all’immediata quotidianità. Petrarca
voleva cioè creare una poesia capace sia di resistere al tempo sia di rappresentare il caos di problemi e passioni che agitavano l’uomo cristiano tra
Medioevo e Rinascimento.
Canzoniere
Il titolo originario del Canzoniere, così come fissato da Petrarca nell’autografo, è Rerum vulgarium fragmenta («Frammenti di cose volgari»). I
frammenti a cui si riferisce il titolo sono i componimenti della raccolta ma
sono al tempo stesso, come risulta da altri luoghi, i frammenti in cui
Petrarca riconosce «sparsa» la propria anima alle prese, giorno per giorno,
con le proprie passioni e ambizioni e soprattutto con le contraddizioni
determinate dal conflitto fra desiderio delle cose terrene, a cominciare dall’amore per Laura, e ricerca della perfezione spirituale. Quando Petrarca
decide di raccogliere le proprie liriche in un canzoniere unitario, in un
libro, compie dunque un atto non puramente “tecnico”: intende con quel
gesto riunire anche gli sparsi frammenti della sua anima divisa e angosciata
(sparsa animae fragmenta recolligam, ‘riunirò gli sparsi frammenti dell’anima’).
Con il libro-canzoniere Petrarca tenta di restituire unità alla sua anima
in crisi, attraverso la forma che identifica con la sua vita stessa: la scrittura. Il momento in cui matura la decisione di raccogliere i frammenti volgari in un libro unitario è significativo: intorno ai quarant’anni, e richiama
non per nulla la dichiarazione di apertura della Commedia dantesca («Nel
mezzo del cammin di nostra vita», cioè a trentacinque anni). Fra i trentacinque e i quarant’anni la cultura medievale collocava infatti per l’uomo il
passaggio dalla giovinezza alla maturità: conseguentemente, per i poeti era
previsto un passaggio di fase, o l’abbandono totale della poesia (considerata tipica dell’età giovanile) o almeno il passaggio dalla poesia d’amore
alla poesia morale. Nell’epistola Alla posterità Petrarca collega esplicitamente i suoi quarant’anni, la fine del suo fortissimo e peraltro “puro”
amore giovanile (con la morte di Laura) e il ripudio definitivo di ogni atto
di amore carnale, di “libidine” («presso ai quarant’anni, quando ancora
avevo parecchia sensibilità e parecchie energie, […] ripudiai non soltanto
quell’atto osceno, ma il suo totale ricordo, come se mai avessi visto una
donna»)
La morte della donna amata (una morte definita nell’epistola Alla posterità addirittura «crudele ma provvidenziale») assume un’importanza centra-
Francesco Petrarca, Canzoniere

le: divide la vita e il Canzoniere di Petrarca in due parti, un prima e un
dopo. L’elemento unificante non è però il fatto amoroso in sé o la figura
di Laura, ma il personaggio che sin dal primo sonetto dice «Io» e che è
distinto dall’autore perché agisce su un piano letterario, autonomo rispetto a quello biografico. Il Canzoniere è dunque la storia dell’Io-Petrarca,
della sua contraddittoria vicenda interiore (cfr. Pace non trovo, et non ò da
far guerra, Canzoniere, CXXXIV), delle sue paure, gioie e incertezze e
soprattutto dei suoi dubbi: un modernissimo «Io» angosciato e «diviso» tra
due possibili strade che lo stesso Petrarca non esita a riconoscere come «un
doppio uomo che è in lui». Soggetto dell’opera è dunque l’Io alla ricerca,
nella scrittura, della propria unità spirituale perduta.
XXXV Solo et pensoso i più deserti campi
È uno dei più celebri sonetti del Canzoniere per intensità emotiva ed equilibrio formale: al centro è posto, per la prima volta in sede lirica, il tema della solitudine. Petrarca pone per di più in correlazione bisogno di solitudine, dialogo con la natura e tormento amoroso. La natura partecipa dello stato d’animo dell’Io; anzi, la natura diviene
pura funzione dell’Io, viene addirittura «misurata» (cfr. v. 2). Fra solitudine e natura si
crea così una relazione necessaria quale condizione della poesia, che diviene compiutamente lirica nel senso moderno del genere: l’Io riduce infatti a se stesso, ai propri movimenti interiori, ogni altro elemento, natura compresa. L’attenzione a non rivelare agli
altri i propri sentimenti era invece uno dei motivi topici della fenomenologia amorosa,
da Ovidio fino ai trovatori: il sonetto, grazie all’inserimento dell’elemento naturale, rielabora completamente il tema rendendolo funzionale al turbamento e alla tensione interiore dell’amante, vanamente proteso alla ricerca di un equilibrio interiore.
metro: sonetto con schema ABBA, ABBA; CDE, CDE. La rima A è in assonanza tonica
con C, la rima B con D, gioco fonico anche fra -mp- di A e -mp(r)- di D; rima derivativa «campi»: «scampi» (vv. 1 e 5).
Solo et pensoso1 i più deserti campi2
vo mesurando a passi tardi et lenti3,
et gli occhi porto per fuggire intenti4
ove vestigio human l’arena stampi5.
Altro schermo6 non trovo che mi scampi7
dal manifesto accorger8 de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti9
di fuor si legge10 com’io dentro avampi:
sì ch’io11 mi credo omai che monti et piagge12
et fiumi et selve sappian di che tempre13
sia la mia vita, ch’è celata altrui14.
Ma pur sì aspre vie né sì selvagge15

R. Antonelli
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando16 con meco, et io co˙llui17.
Note
1. solo et pensoso: ‘solitario e pensieroso’.
2. più deserti campi: ‘luoghi più solitari’.
3. vo … lenti: ‘percorro misurando lentamente’.
4. gli occhi … intenti: ‘ho gli occhi intenti a schivare’.
5. ove … stampi: ‘i luoghi in cui l’impronta dell’uomo («vestigio human») segni il terreno
(«arena»)’. L’isolamento e il rapporto esclusivo con la natura sono espressi con le parole del passo
omerico (Iliade, VI, 201-202) relativo a Bellerofonte, l’eroe che per sfuggire agli dèi vaga solitario
attraverso terre desolate.
6. schermo: ‘riparo’, ‘difesa’.
7. mi scampi: ‘mi salvi’, in paronomasia rispetto al rimante precedente «stampi» (v. 4).
8. dal manifesto accorger: ‘dal chiaro riconoscimento’ dei suoi sentimenti da parte degli estranei, che il poeta evita cercando rifugio nella solitudine e nella natura.
9. atti … spenti: ‘gesti e atteggiamenti privi di allegria’, con «spenti» in iperbato e in antitesi con
il rimante seguente, «avampi».
10. di fuor si legge: ‘esteriormente appare’; «legge» è vicinissimo foneticamente alla rima C
(«piagge» : «selvagge»), e costituisce un legame tra le due quartine e le due terzine; «dentro»: in
antitesi con «di fuor», così come «avampi» con «spenti».
11. sì ch’io: è in diretta consecuzione con i vv. 5-6, la ricerca di solitudine è così frequente che
ormai crede che…; «omai»: ‘ormai’.
12. piagge: ‘lande’, ‘pianure’, in coppia con «monti», in legame enumerativo con «fiumi et selve»
al verso seguente.
13. sappia … tempre: ‘conoscano di quale genere’.
14. ch’è celata altrui: ‘che è nascosta agli altri’, in epifrasi, ovvero in aggiunta al pensiero della
frase precedente, apparentemente finita (come al v. 14, in clausola); qui aggiunge una notazione
fondamentale: solo la natura sa che tipo di vita (disgraziata) conduca l’«Io»; «altrui»: ‘agli altri’, cioè
al «manifesto accorger de le genti» del v. 6.
15. Ma pur … selvagge: ‘Ma tuttavia non so cercare cammini così duri e selvaggi’.
16. venga … ragionando: ‘parli’; il «ragionamento» con Amore, svolto in modalità dialogica, si
contrappone al pensare in solitudine cui il poeta accenna nel verso iniziale («Solo et pensoso i
più deserti campi»).
17. et io co˙llui: epifrasi, ancora una volta decisiva, poiché con apparente levità s’introduce il
riconoscimento di un continuo dialogo fra «Io» e Amore.
XC Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
È un altro dei grandi sonetti del Canzoniere: Laura viene descritta in alcuni connotati fisici essenziali, rivissuti nell’impressione che hanno fatto sull’amante al momento
dell’innamoramento e poi proiettati sul presente, per affermare la costanza di un amore
concepito come eterno. La donna diviene natura (del resto il nome Laura rimanda
anche a un albero, il lauro) e fra natura e donna si crea una relazione integralmente
scambievole. E poiché la donna è vissuta e descritta come proiezione dei sentimenti
dell’Io, anche la natura diviene proiezione dell’Io e dei suoi sentimenti. Nella lirica
petrarchesca l’Io occupa in ogni circostanza il centro emotivo della narrazione, anche
quando apparentemente si descrive altro.
Francesco Petrarca, Canzoniere
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metro: sonetto con schema ABBA, ABBA; CDE, DCE. La rima B è sempre desinenziale (-ea, terza pers. dell’imperfetto); è ricca la rima «mortale»: «tale» (vv. 9 e 13) e grammaticale «ardea» con «arsi» (vv. 3 e 8). Assonanza tonica tra le rime A, C ed E, assonanza atona e consonanza fra C e D.
Erano i capei d’oro a l’aura sparsi1
che2’n mille dolci nodi3 gli4 avolgea,
e ’l vago lume oltra misura ardea5
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi6;
e ’l viso di pietosi color’ farsi7,
non so se vero o falso8, mi parea:
i’ che l’ésca amorosa9 al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito10 arsi?
Non era l’andar11 suo cosa mortale12,
ma d’angelica forma13; et le parole
sonavan altro, che pur voce humana14.
Uno spirto celeste, un vivo sole15
fu quel ch’i’ vidi: et se non fosse or tale16,
piagha per allentar d’arco non sana17.
Note
1. i capei … sparsi: ‘i biondi capelli sciolti al vento’. Nel manoscritto «l’aura» è sempre scritto
«laura» ed è quindi sempre interpretabile, come in questo caso, Laura o l’aura, o altro, mentre la
scrittura analitica moderna impedisce il gioco previsto dall’autore. Lo splendore dei capelli è
immagine ricorrente in Petrarca: associata al vento è già in Virgilio per Venere e in Ovidio per
Diana, ma all’invenzione petrarchesca non sono estranei neppure il trovatore Arnaut Daniel e
Dante.
2. che: l’aura.
3. dolci nodi: quelli delle «trecce bionde», ma con possibile allusione metaforica ai nodi d’amore.
4. gli: ‘li’, i capelli.
5. e … ardea: ‘e la vivace luminosità di quei begli occhi risplendeva fortemente’; «vago lume»
è da collegare per enjambement a «di quei begli occhi» (v. 4).
6. ch’or … scarsi: ‘che (cioè «gli occhi») ora ne (del «vago lume») sono così poveri’.
7. di … farsi: ‘e mi sembrava («mi parea», v. 6) che il viso si tingesse di colorito pietoso, amoroso’.
8. se vero o falso: ‘se sinceramente o no’.
9. ésca amorosa: l’«esca» è l’elemento d’avvio della combustione; la metafora dell’«ardere per
amore», indica dunque la naturale predisposizione al sentimento amoroso da parte del poeta.
10. di sùbito: ‘immediatamente’.
11. l’andar: ‘il modo di manifestarsi’.
12. cosa mortale: ‘(proprio di) creatura mortale’, come già in Dante: nelle terzine il poeta sviluppa il motivo della trasfigurazione della donna amata, nel consueto parallelo fra “terrestre” e
“celeste”, attraverso le coppie antitetiche «cosa mortale» e «voce umana» (v. 11) rispetto a «angelica
forma» (v. 10) e «spirito celeste» (v. 12).
13. angelica forma: ‘sembianza angelica’.
14. sonavan … humana: ‘parevano all’ascolto differenti dalla semplice («che pur», ‘che soltanto’) voce umana’.

R. Antonelli
15. un vivo sole: la metafora sottolinea e riassume lo splendore della visione, già anticipato dai
capelli («d’oro», v. 1), gli occhi («vago lume», v. 3) e il viso («pietosi color», v. 5).
16. se … tale: ‘se anche non fosse più così, con tale intensità’, sembra alludere alla possibilità di
regressione legata al trascorrere degli anni, come già al v. 4 («c’or ne sono sì scarsi»); «fu… fosse»:
poliptoto, a sottolineare l’opposizione passato/presente («or»).
17. piagha … sana: ‘la ferita (d’amore) non guarisce perché l’arco (d’Amore) si allenta, si scarica’. Il verso intero è posto in chiusura a modo di sentenza con valore proverbiale.
CCXXVI Passer mai solitario in alcun tetto
La solitudine del passero e della fiera nel bosco richiamano al poeta la propria solitudine dovuta alla lontananza dell’amata. Alla terzina finale, come spesso nel
Canzoniere, è affidata la rivelazione della chiave emotiva dei versi precedenti: c’è un
paese che è «solo» al mondo, ma stavolta nel senso di ‘unico’, quello che ospita Laura. Il
paese di Laura è caratterizzato da paesaggi ridenti, tipici della primavera, in contrapposizione alla tristezza dell’Io: è quindi descritto non con antitesi ma con iterazioni
sinonimiche («almo»/«felice», «verdi»/«fiorite»), cui si oppone (come in Zephiro torna, e ’l
bel tempo rimena, CCCX) la condizione dell’Io (v. 14), che riafferma le ragioni del conflitto interiore. Al rovesciamento della situazione dell’Io (infelice perché «solo» vs il
«paese», felice perché con Laura) corrisponde il rovesciamento strutturale nella distribuzione dei temi: l’«esordio» primaverile è alla fine, perché non riguarda l’Io ma la natura, umanizzata nella felicità (vv. 12-13) quanto prima (vv. 1-2) era stata proiezione
dell’infelicità.
L’immagine del passero associata alla condizione dell’Io colpirà a distanza di secoli
un grandissimo lirico della modernità, Giacomo Leopardi, che dalla stessa immagine
elaborerà un suo famoso canto, Il passero solitario.
metro: sonetto con schema ABBA, ABBA; CDE, CDE. La rima A è in assonanza atona
con B, così come lo sono tra loro C, D ed E.
Passer mai solitario in alcun tetto1
non fu quant’io, né fera in alcun bosco2,
ch’i’ non veggio ’l bel viso, et non conosco
altro sol, né quest’occhi ànn’altro obiecto3.
Lagrimar sempre è ’l mio sommo diletto4,
il rider doglia5, il cibo assentio et tòsco6,
la notte affanno, e ’l ciel seren m’è fosco7,
et duro campo di battaglia il letto8.
Il sonno è veramente qual uom dice9,
parente de la morte, e ’l cor sottragge
a quel dolce penser che’n vita il tene10.
Solo11 al mondo paese12 almo13, felice,
verdi rive fiorite, ombrose piagge14,
voi possedete, et15 io piango, il mio bene.
Francesco Petrarca, Canzoniere

Note
1. passer … tetto: l’incipit ricalca il Salmo 108, 8 («et factus sum sicut passer solitarius in tecto»
ad esprimere con immagine viva e autorevole la piena solitudine in cui versa il poeta.
2. né … bosco: ‘né animale selvaggio in alcun bosco’, sottintende il precedente ‘fu solo quanto
me’, come ulteriore similitudine della condizione personale.
3. ch’i’ … obiecto: ‘poiché io non vedo il bel «viso» (= Laura), e non riconosco altro «sole» (=
Laura), né i miei «occhi» hanno obiettivo differente (sottinteso: da Laura)’, con i tre termini è indicata la causa della malinconica solitudine del poeta: la forzata separazione dalla donna amata.
4. lagrimar … diletto: ‘pianto continuo è la mia massima gioia’, nella seconda quartina si sviluppano le contraddizioni proprie delle pene d’amore attraverso una sequenza di opposti.
5. il rider doglia: ‘il riso dolore’.
6. assentio et tòsco: ‘amaro (come l’assenzio) e tossico’.
7. fosco: ‘scuro’, ‘nuvoloso’.
8. duro … letto: ‘il letto è duro come un campo di battaglia, dal momento che la notte è
insonne e piena di dolore’ («la notte affanno», v. 7).
9. qual … dice: ‘come si dice’, impersonale.
10. e ’l cor … tene: ‘e (il sonno) sottrae il cuore a quel dolce affanno che lo tiene in vita’; il
sonno, come l’oblio, è capace di cancellare il pensiero d’amore e di conseguenza le gioie e i
dolori a esso connessi.
11. solo: ‘unico’.
12. paese: Valchiusa, in Provenza.
13. almo: ‘che dà vita’, ‘sacro’.
14. piagge: ‘pianure’.
15. et: in senso avversativo ‘mentre’, ‘al contrario’.
CCLXXII La vita fugge, et non s’arresta una hora
Nella storia narrata nel Canzoniere, Laura è morta da poco. Il trascorrere del tempo
incombe ormai come un problema fondamentale per l’Io. Ricordare e aspettare, ovvero passato e futuro, sono ugualmente opprimenti, e il presente è ormai statico nella tristezza. L’Io è stanco, impotente: l’idea della morte percorre tutto il componimento. La
fugacità della vita e l’incombere della morte, fra i temi centrali del Canzoniere, diventano qui il nucleo fondamentale del componimento poiché coinvolgono e riassumono
le contraddittorie dinamiche dell’Io (vv. 5-8). La conflittualità, sottolineata con l’opposizione spaziale («or quinci or quindi», v. 6), è talmente forte da indurre il poeta al
desiderio di darsi quella morte temuta, eppure auspicata, che lo sottrarrebbe al tumulto del mondo e delle passioni. Solo il pensiero di ciò che avverrebbe dopo lo trattiene in
vita (v. 8).
Di fronte all’impossibilità di vivere e di morire rimane soltanto il passato e il pensiero di non essere mai stato felice (vv. 9-10), che si ripercuote ancora sul pensiero di un
futuro nel quale vede soltanto l’ormai inesauribile stanchezza.
metro: sonetto con schema ABBA, ABBA; CDE, CDE. Rime ricche «anchora»: «accora»
(vv. 4 e 5), che includono «hora» (v. 1), «pietate»: «veritate» (vv. 6-7); derivativa «mai»:
«omai» (vv. 9 e 12). Assonanza tra B e D, solo tonica fra B, C, D; consonanza imperfetta tra B, D, E.

R. Antonelli
La vita fugge, et non s’arresta una hora,
et la morte vien dietro a gran giornate1,
et le cose presenti et le passate
mi dànno guerra2, et le future anchora3;
e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora4,
or quinci or quindi5, sí che ’n veritate,
se non ch’i’ ò di me stesso pietate6,
i’ sarei già di questi penser’ fòra7.
Tornami avanti, s’alcun dolce mai
ebbe ’l cor tristo8; et poi da l’altra parte9
veggio al mio navigar turbati i vènti10;
veggio fortuna in porto11, et stanco omai
il mio nocchier12, et rotte arbore et sarte13,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti14.
Note
1. a gran giornate: ‘a tappe forzate, velocemente’; «giornata» indicava il percorso che si poteva
fare in un giorno di viaggio.
2. mi dànno guerra: ‘mi sono avverse’.
3. le future anchora: ‘e anche le future’.
4. e ’l rimembrare … m’accora: ‘e da un lato («or quinci») mi stringe il cuore il ricordare e dall’altro («or quindi») l’attendere’.
5. or quinci or quindi: in forma avverbiale (‘qui e là’), ribadisce su un piano spaziale le due
dimensioni in cui si trova il poeta («’l rimembrare et l’aspettare»).
6. se … pietate: ‘se non avessi compassione di me stesso’, evitando cioè le pene infernali previste per i suicidi.
7. fòra: ‘fuori’, ‘lontano’, tramite la morte.
8. tornami … tristo: ‘se mai il mio cuore afflitto ebbe eventualmente qualche piacere, esso mi
torna in mente’.
9. et … parte: in chiave avversativa («et»: ‘ma’) si ripropone l’alternanza fra i due differenti
momenti («or quinci or quindi») di ricordo e attesa.
10. veggio … vènti: ‘vedo che i venti che sostengono il mio navigare si guastano’; è concentrata la
nota metafora della vita come navigazione.
11. veggio … porto: ‘vedo tempesta («fortuna») in prossimità della meta’.
12. nocchier: ‘pilota della nave’, qui, metaforicamente, indica la ragione.
13. rotte … sarte: ‘spezzate le sartie (i cordami) e l’albero maestro’, ovvero, in continuazione
della metafora, la fortezza e le altre virtù.
14. e i lumi … spenti: ‘(vedo) spenti i begli occhi che ero solito guardare’.
CCCX Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena
La «resurrezione ciclica del mondo» con la primavera è tema antico, sviluppato già
nella poesia classica e poi in quella romanza, legato anche a una cultura essenzialmente
agricola. In Petrarca i richiami ai modelli dell’antichità (sicuramente almeno Ovidio e
Virgilio) si fondono con i precedenti trobadorici e stilnovistici, creando una lirica di
impronta e reminiscenze classiche ma originalmente moderna: la natura è più che mai
proiezione dei sentimenti e dei conflitti interiori del poeta, ora vissuta all’insegna della
Francesco Petrarca, Canzoniere

memoria e del ricordo. La morte di Laura proietta perciò l’esordio primaverile sul piano
del ricordo («e ’l bel tempo rimena», v. 1), che apre la strada al dolore dell’Io ormai solo.
metro: sonetto con schema ABAB, ABAB; CDC, DCD. Assonanza atona in A e B, assonanza tonica in C e D. Rima ricca «famiglia»: «vermiglia» (vv. 2-4).
Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena1,
e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia2,
et garrir Progne et pianger Philomena3,
et primavera candida et vermiglia4.
Ridono i prati5, e ’l ciel si rasserena;
Giove s’allegra di mirar sua figlia6;
l’aria et l’acqua et la terra è d’amor7 piena;
ogni animal d’amar si riconsiglia8.
Ma per me, lasso, tornano i piú gravi
sospiri9, che del cor profondo tragge
quella ch’al ciel se ne portò le chiavi10;
et cantar augelletti, et fiorir piagge11,
e ’n belle donne honeste atti soavi12
sono un deserto, et fere aspre et selvagge13.
Note
1. Zephiro … rimena: ‘torna Zefiro e riconduce con sé la bella stagione’. Zefiro è il vento
(occidentale) della primavera, sin dall’antichità classica.
2. sua dolce famiglia: sono gli elementi stagionali generati da Zefiro («bel tempo», «fiori»,
«erbe»).
3. et … philomena: personaggi mitologici che, mutati secondo la tradizione in rondine e usignolo, indicano gli uccelli primaverili.
4. candida et vermiglia: dittologia metonimica, data dai colori dei fiori.
5. ridono i prati: immagine tradizionale che esalta la gioia per il ritorno della bella stagione,
amplificata anche dalle espressioni «si rasserena» e «s’allegra» (v. 6).
6. Giove … figlia: allude alla posizione dei pianeti di Giove e Venere (sua figlia, per la mitologia), massimamente ravvicinati nel periodo primaverile, per cui l’uno ‘si rallegra di guardare’
(«mirar») da vicino l’altro.
7. amor: è l’energia vitale che risveglia gli elementi fondamentali della natura.
8. ogni … riconsiglia: ‘ogni essere vivente («animal») torna a volere amare’, con ripresa di
«amor» del verso precedente.
9. ma … sospiri: avversativa tradizionale negli esordi «naturali», ove spesso si contrappone lo
stato della natura a quello interiore del poeta; si noti l’enjambement, che sottolinea i sospiri.
10. del cor … chiavi: ‘dal profondo del cuore trae colei (Laura) che ne (del cuore) portò con sé
le chiavi in cielo’, cioè: con la morte dell’amata, il cuore del poeta si è chiuso per sempre.
11. piagge: ‘pianure’, ‘campi’.
12. e … soavi: ‘e in belle e nobili («honeste») donne atti pieni di grazia’, con reminescenze dantesche.
13. sono … selvagge: ‘sono (per me) un territorio desertico (senza «augelletti» e «piagge», in
opposizione cioè al v. 12), e bestie feroci (in opposizione alle donne «belle e nobili» del v. 13).
ROBERTO ANTONELLI

R. Antonelli
NATALINO SAPEGNO, Petrarca
da N. Sapegno, Francesco Petrarca, in Il Trecento, Garzanti, Milano 1965
Allora riuscirà più chiaro perché il poeta si accosti ai punti dolenti della condizione
reale che vuole esprimere sempre così da lontano, per via di perifrasi e di parole-simboli: e la sua pena d’uomo e il peso carnale diventa il «terreno incarco» (il «fascio antico», la «terrena soma»); e l’amore, la suprema inquietudine, la tormentata dialettica della
sua sofferenza si traduce in parole scolorite e scorporate, e perciò tanto più dense e
pregnanti: un lungo «vaneggiare» («e del mio vaneggiar vergogna è ’1 frutto»), e poi «riso»
e «pianto», «paura» e «ira» («or ride or piange, or teme or s’assecura»). Il fatto è che proprio quelle parole così nude e astratte, quelle spoglie di un lessico ridotto all’estrema
essenzialità, riassumono veramente per il poeta il significato di tutta la sua esperienza
e, agli occhi di chi ne abbia ricostruito la storia culturale e biografica, acquistano un
peso, una materia sostanziale di poesia. Solo per esse il Petrarca si confessa, senza avvilirsi nello sfogo; solo così la contemplazione della propria miseria e disperazione si fa
lirica, senza cadere nel lirismo. Ed ecco come, fra le altre voci più lievi e meno impegnative, quasi guidata e sorretta e introdotta da esse, si affaccia anche la parola più
forte, che per un istante par rompere la nitida superficie del discorso e rivela quasi in
un lampo il fondo tenebroso di questa poesia, la sua nota più dolente e vergognosa e
segreta: la «paura» («tal cordoglio e paura ho di me stesso», «tal paura ho di ritrovarmi
solo»). Perché questo è il dono del Petrarca: l’intelligenza superstite nel naufragio delle
passioni e delle speranze, la volontà pertinace e strenua di conoscersi e scrutare dentro di sé fino in fondo: «Sì vedrem chiaro poi …». In questa attenzione ferma, e nuda
di ogni compiacimento, senza illusioni, ma anche senza cinismo, anzi tutta venata di
rimorsi e accettata col rigore di una disciplina, è, agli inizi dell’Umanesimo, quella che
abbiamo chiamato la scoperta moderna, profondamente umana, della liricità.
La coerenza assoluta del mondo poetico, esclusivo sino a sfiorare la monotonia, e
la conseguente rigorosissima scelta degli strumenti lessicali e stilistici secondo un
modulo classicista (tutto l’opposto della straordinaria libertà e varietà e spregiudicatezza formale della Commedia), predestinavano quasi naturalmente la lirica del Petrarca
ad assumere una funzione normativa, di modello per eccellenza nell’ambito del genere lirico e anche, al di là di esso, di tutta la letteratura poetica colta. Il petrarchismo
nasce, vivo ancora il poeta, come omaggio ad un’opera nella quale si assommavano e
trovavano compimento i conati e le tendenze di tutta una tradizione poetica; […] l’imitazione del Canzoniere tocca il suo vertice, come è noto, nel sedicesimo secolo, configurandosi come instancabile esplorazione e sperimentazione raffinata di un patrimonio prezioso di situazioni e di stilemi e costituendo la fortuna, non pure italiana ma
europea, dello scrittore. Soprattutto il petrarchismo impronta profondamente le letterature di Spagna, di Francia e d’Inghilterra; talora è imitazione arida e artificiosa; più spesso disciplina, ancor più che utile, necessaria; qualche volta, quando si tratti di poeti veri
e grandi, è ritorno dettato da una simpatia profonda.
Decameron
di Giovanni Boccaccio
Giovanni Boccaccio (1313-1375), insieme a Dante e Petrarca, è uno dei
tre autori che costituiscono il primo “canone” della tradizione letteraria italiana, cioè il grande modello che ha dominato a lungo l’attività letteraria in
Italia e in Europa.
Più giovane degli altri due, Boccaccio cresce a Firenze nel culto di
Dante e venera Petrarca, che incontra nel pieno della sua maturità, stringendo con lui una profonda amicizia; a entrambi questi modelli rimane
fedele per tutta la vita, pienamente consapevole dello straordinario legame
che lo unisce a loro e che nei secoli successivi viene rappresentato dalla
fortunata immagine delle «tre corone» di cui egli stesso è l’artefice geniale.
Come Dante e Petrarca, Boccaccio non è solo un grande scrittore ma
anche un grande intellettuale: ha cioè una visione generale della cultura
del suo tempo, un’idea precisa del ruolo che in essa dovrebbe giocare la
letteratura e la profonda convinzione del suo valore sociale, del contributo specifico di civiltà portato a una società nella quale donne e uomini
siano protagonisti. Nelle sue opere Boccaccio si pone come erede di diverse tradizioni culturali e sa fonderle insieme in un quadro variegato ma unitario. Il suo capolavoro, il Decameron, è il primo grande libro in prosa
della nuova cultura volgare e in esso la prosa narrativa trova una nuova
lingua ricca ed espressiva, capace anche di porsi all’altezza del latino per
eleganza e complessità. Per questi motivi la lingua di Boccaccio è stata
modello di tutta la letteratura italiana in prosa dei secoli successivi ed è
quindi componente profonda del patrimonio linguistico italiano e non solo
italiano.
Boccaccio riesce a fare della propria opera il modello della narrativa
europea per oltre due secoli proprio perché, dall’interno di quella cultura,
si appropria di una ricca eredità narrativa e la rielabora nella sua complessa
e articolata struttura. Egli dichiara esplicitamente questa sua operazione,
consapevole del valore della varietà: «intendo di raccontare cento novelle,
o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo […] e alcune canzonette». Non si tratta qui di un casuale accostamento di sinonimi, ma della pun-

M. S. Sapegno
tigliosa elencazione delle diverse tipologie narrative. Novella è il termine
più ampio e generico (comprende l’aneddotica comunale ma anche la narrativa orientale filtrata attraverso le varie raccolte latine medievali), favola
rinvia ai fabliaux francesi, parabola descrive narrazioni di tipo allegorico e
didascalico (come quella medievale degli exempla), istoria indica racconti, a sfondo storico, di personaggi noti (l’aneddotica tardo-classica dei fatti
e detti memorabili); infine la canzonetta è una ballata cantata dalle giovani a fine giornata.
Boccaccio sa parlare anche a un lettore contemporaneo sia con il piacere della narrazione, collocato come valore al centro della sua opera, sia
con l’ironia che la pervade. Ci parla di una civiltà fatta di uomini e donne
in carne e ossa, del grande potere dell’amore ma anche di quello della
parola e dell’intelligenza, della grande letteratura come sfida alla morte e
consolazione del dolore.
Decameron
Boccaccio compone il Decameron tra il 1349 e il 1351. Nell’incipit presenta la propria opera con nome e cognome, come se si trattasse di una
persona: «Comincia il libro chiamato Decameron, cognominato Prencipe
Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in dieci dì dette da sette
donne e da tre giovani uomini».
Il “nome” è un probabile richiamo all’Hexameron di sant’Ambrogio, il
racconto dei sei giorni della creazione divina, e indica appunto quei dieci
giorni nei quali l’autore ritiene sia accaduto qualcosa di straordinario (con
un’etimologia grecizzante: deka ‘dieci’ ed emeron ‘giorni’). Il “cognome”
rinvia invece al canto V dell’Inferno, al famoso episodio di Paolo e
Francesca, nel quale Dante cita il libro che avrebbe rivelato il loro amore
reciproco, il romanzo francese Lancelot, attraverso il nome di uno dei personaggi («Galeotto fu il libro e chi lo scrisse»).
Considerando questa apertura, densa di riferimenti letterari, possiamo
desumere l’intento dell’autore: favorire l’amore, proprio come fece
Galehaut per il suo amico Lancelot. In modo altrettanto esplicito viene
descritta la struttura del libro, composto di cento novelle raccontate da
sette donne e tre giovani uomini, nello spazio appunto di dieci giornate;
una storia, quindi, che contiene altre storie.
La storia portante è raccontata in prima persona da chi, nel testo, si definisce come l’autore del libro e narra la vicenda di dieci giovani che lasciano Firenze devastata dalla peste per spostarsi in villa, dove ogni giorno, per dieci giorni, si raccontano, a turno, una novella ciascuno. Questa
storia è la “cornice” delle dieci giornate e delle cento novelle: viene ripre-
Giovanni Boccaccio, Decameron

sa nelle introduzioni e nelle conclusioni di ogni giornata e di ciascuna novella.
Il racconto-cornice non è soltanto un tessuto connettivo, cioè il pretesto per organizzare il materiale narrativo secondo un ordine logico e tematico; è invece a tutti gli effetti una storia che amplifica il senso delle novelle le quali, inquadrate in un progetto letterario più ampio, si sottraggono
alla definizione di raccolta per elevarsi, a buon titolo, a quella di libro.
La cornice narra la vicenda esemplare dei giovani attraverso la descrizione iniziale degli orrori della peste e, in particolare, delle sue catastrofiche conseguenze sul tessuto sociale. È proprio il venir meno dei rapporti
di convivenza civile, insieme al pericolo di contagio, a rendere necessaria
la scelta che porta i giovani a lasciare Firenze. Alla città, al disordine e alla
morte si contrappone la «vita in contado», la serenità incontaminata del
locus amoenus in cui i giovani costituiscono un nuovo ordine, attraverso
la designazione giornaliera di una regina o di un re, che governi la piccola «brigata». L’esemplarità di questa «onesta» convivenza non può che esaurirsi con il ritorno in città, perché non si tratta di una fuga dal contagio o
dall’orrore, ma di un’esperienza formativa, morale, appunto «esemplare»
(didascalica), in seguito alla quale i giovani possono tornare e affrontare
nuovamente e con maggiore consapevolezza le difficoltà della vita.
Il cosiddetto “realismo” di Boccaccio è dovuto soprattutto alla scelta di
una chiave stilistica particolare che risponde a un’esigenza profonda di
verosimiglianza, a una spinta morale. L’autore vuole convincere il suo pubblico che non sta trattando di favole o di sogni, non di una realtà come la
si vorrebbe, ma della realtà per quello che è. Per raggiungere questo scopo
intreccia magistralmente un’enorme varietà di testi letterari, inventa personaggi mai esistiti, attingendo a una straordinaria capacità di osservazione
del reale.
Nel Decameron la parola assume una forza straordinaria: attraversa i
ceti sociali e i generi sessuali, è la grande risorsa di una società che risponde alla crisi (in questo caso incarnata dalla peste) con lo scatto d’orgoglio
rappresentato dal coraggio di sfidare la morte non solo con la paura o la
preghiera, ma attraverso la riaffermazione dei valori della vita, individuale
e associata, all’interno di una visione intellettuale che non cancella il corpo
ma lo celebra, che ride di se stessa ma sa anche prendersi sul serio.
Il più grande poeta inglese dell’epoca, Geoffrey Chaucer, fu molto
influenzato dal Boccaccio e, in effetti, sarebbe difficile spiegare i suoi
Canterbury Tales senza una conoscenza diretta del Decameron.
Sicuramente l’opera di Boccaccio fu tradotta in catalano, tedesco e castigliano e alcune novelle, particolarmente amate, furono tradotte perfino in
latino e in greco. Il Decameron diviene un modello per il narrare in ogni

M. S. Sapegno
paese europeo. Questo grande successo di pubblico e la grandezza stessa
– innegabile – dell’opera costrinsero tutti i novellieri successivi a tener
conto in qualche modo di quel modello, ma non furono molti in grado di
comprendere, o di accettare, la grande novità d’impianto e le altissime
ambizioni letterarie, oltre che l’audacia dei contenuti.
Per la prima volta una grande opera volgare comincia subito a viaggiare al di fuori della cultura d’origine e trova presto anche la via delle trasposizioni pittoriche, che furono numerosissime e che impegnarono anche
artisti importanti; si pensi per tutte alle tavole su Nastagio degli Onesti
dipinte da Botticelli (ora al Museo del Prado di Madrid.)
Melchisedech giudeo
La figura del saggio ebreo è molto diffusa nella tradizione narrativa medievale e
moderna e si trova anche nel Novellino. Qui, come in altre novelle del Decameron in
cui l’azione narrativa è quasi inesistente, ciò che interessa Boccaccio è l’ingegno umano
che si esprime attraverso il potere della parola. La rubrica indica che l’ebreo
Melchisedech usa una «novella», ovvero la brillantezza del discorso, per sfuggire alla
trappola tesagli da un grande personaggio, il Saladino. La narratrice Filomena aggiunge però che il suo racconto tratterà del potere, e quindi della pericolosità dell’arte verbale per dimostrare che l’uso dissennato di questa spesso determina circostanze spiacevoli, e che al contrario, esprimersi in modo accorto può essere fonte di sicurezza e consolazione.
Il senso forte del testo è il rapporto speciale che c’è tra intelligenza e parola, ma anche
il legame che si stabilisce tra due personaggi diversissimi, accomunati però dal rispetto
per l’intelligenza. Da notare infine che i due protagonisti sono entrambi non-cristiani:
in questo modo Boccaccio stesso si esime dal compromettersi affidando a un punto di
vista “altro” il delicato dibattito sul primato religioso.
Melchisedech giudeo con una novella di tre anella1 cessa2 un gran pericolo dal saladino apparecchiatogli3.
Poi che, commendata4 da tutti la novella di Neifile5, ella si tacque, come
alla reina6 piacque Filomena così cominciò a parlare:
– La novella da Neifile detta mi ritorna a memoria7 il dubbioso caso già
avvenuto a un giudeo8. Per ciò che già e di Dio e della verità della nostra
fede è assai bene stato detto, il discendere oggimai agli avvenimenti e agli
atti degli uomini non si dovrà disdire9: a narrarvi quella10 verrò, la quale
udita, forse più caute diverrete nelle risposte alle quistioni che fatte vi fossero11. Voi dovete, amorose compagne12, sapere che, sì come la sciocchezza spesse volte trae altrui di felice stato e mette in grandissima miseria13, così il senno di grandissimi pericoli trae il savio e ponlo in grande e
Giovanni Boccaccio, Decameron

in sicuro riposo14. E che vero sia che la sciocchezza di buono stato in miseria alcun conduca, per molti essempli si vede15, li quali non fia16 al presente nostra cura17 di raccontare, avendo riguardo che tutto il dì mille
essempli n’appaiano manifesti18: ma che il senno di consolazion sia cagione19, come premisi, per20 una novelletta mostrerò brievemente.
Il Saladino21, il valore del quale fu tanto, che non solamente di piccolo
uomo22 il fé23 di Babillonia soldano24 ma ancora molte vittorie sopra li re
saracini e cristiani gli fece avere, avendo in diverse guerre e in grandissime sue magnificenze speso tutto il suo tesoro e per alcuno accidente
sopravenutogli bisognandogli una buona quantità di denari25, né veggendo donde così prestamente come gli bisognavano avergli potesse26, gli
venne a memoria un ricco giudeo, il cui nome era Melchisedech, il quale
prestava a usura in Alessandria. E pensossi costui avere da poterlo servire,
quando volesse27, ma sì era avaro che di sua volontà non l’avrebbe mai
fatto, e forza non gli voleva fare28; per che, strignendolo il bisogno29, rivoltosi tutto a dover trovar modo come il giudeo il servisse30, s’avisò di fargli
una forza da alcuna ragion colorata31.
E fattolsi32 chiamare e familiarmente ricevutolo, seco33 il fece sedere e
appresso34 gli disse: «Valente uomo, io ho da più persone inteso che tu se’
savissimo e nelle cose di Dio senti molto avanti35; e per ciò io saprei volentieri da te quale delle tre leggi36 tu reputi la verace37, o la giudaica o la saracina38 o la cristiana».
Il giudeo, il quale veramente era savio uomo, s’avisò troppo bene che
il Saladino guardava di pigliarlo nelle parole per dovergli muovere alcuna
quistione39, e pensò non potere alcuna di queste tre più l’una che l’altre
lodare40, che il Saladino non avesse la sua intenzione41; per che42, come
colui il qual pareva d’aver bisogno di risposta per la quale preso non
potesse essere43, aguzzato lo ’ngegno, gli venne prestamente avanti44 quello che dir dovesse; e disse: «Signor mio, la quistione la qual voi mi fate45 è
bella, e a volervene dire ciò che io ne sento46 mi vi convien dire una novelletta, qual voi udirete. Se io non erro, io mi ricordo aver molte volte udito
dire che un grande uomo e ricco fu già47, il quale, intra l’altre gioie48 più
care che nel suo tesoro avesse, era uno anello bellissimo e prezioso; al
quale per lo suo valore e per la sua bellezza volendo fare onore49 e in perpetuo lasciarlo ne’ suoi discendenti50, ordinò che colui de’ suoi figliuoli
appo il quale, sì come lasciatogli da lui, fosse questo anello trovato, che
colui s’intendesse essere il suo erede e dovesse da tutti gli altri esser come
maggiore onorato e reverito51. E colui al quale da costui fu lasciato tenne
simigliante ordine ne’ suoi discendenti52 e così fece come fatto avea il suo
predecessore; e in brieve53 andò questo anello di mano in mano a molti
successori, e ultimamente pervenne alle mani a uno54 il quale avea tre

M. S. Sapegno
figliuoli belli e virtuosi e molto al padre loro obedienti, per la qual cosa
tutti e tre parimente55 gli amava. E i giovani, li quali la consuetudine56 dello
anello sapevano, sì come vaghi ciascuno d’essere il più onorato tra’ suoi57,
ciascun per sé, come meglio sapeva, pregava il padre, il quale era già vecchio, che, quando a morte venisse58 a lui quello anello lasciasse.
Il valente uomo, che parimente tutti gli amava né sapeva esso medesimo
eleggere59 a quale più tosto lasciar lo volesse, pensò, avendolo a ciascun
promesso, di volergli tutti e tre sodisfare: e segretamente a un buon maestro60 ne fece fare due altri, li quali sì furono simiglianti al primiero61, che esso medesimo che fatti gli avea fare appena conosceva qual si fosse il vero62;
e venendo a morte, segretamente diede il suo a ciascun de’ figliuoli. Li quali, dopo la morte del padre, volendo ciascuno la eredità e l’onore occupare63 e l’uno negandola all’altro, in testimonianza di dover ciò ragionevolmente64 fare ciascuno produsse fuori65 il suo anello; e trovatisi gli anelli sì
simili l’uno all’altro, che qual fosse il vero non si sapeva cognoscere, si rimase la quistione, qual fosse il vero erede del padre, in pendente: e ancor
pende66. E così vi dico, signor mio, delle tre leggi alli tre popoli date da Dio
padre, delle quali la quistion proponeste67: ciascuno la sua eredità, la sua vera legge e i suoi comandamenti dirittamente si crede avere e fare68, ma chi
se l’abbia69, come degli anelli, ancora ne pende la quistione70».
Il Saladino conobbe costui ottimamente esser saputo uscire del laccio il
quale davanti a’ piedi teso gli aveva71, e per ciò dispose d’aprirgli il suo
bisogno e vedere se servire il volesse72; e così fece, aprendogli ciò che in
animo avesse avuto di fare73, se così discretamente74, come fatto avea, non
gli avesse risposto. Il giudeo liberamente75 d’ogni quantità76 che il Saladino
richiese il servì, e il Saladino poi interamente il sodisfece77; e oltre a ciò gli
donò grandissimi doni e sempre per suo amico l’ebbe e in grande e onorevole stato appresso di sé il mantenne78.
Note
1. di … anella: ‘a proposito di tre anelli’.
2. cessa: ‘scampa’.
3. apparecchiatogli: ‘preparatogli’.
4. commendata: ‘lodata’.
5. novella di Neifile: ‘la novella narrata da Neifile e appena conclusasi’.
6. reina: regina della prima giornata è Pampinea.
7. mi … memoria: ‘mi fa ricordare’.
8. dubbioso … giudeo: ‘pericoloso accidente capitato a un ebreo’.
9. per ciò che … disdire: ‘dal momento che le novelle precedenti hanno trattato bene di Dio e
della verità della nostra fede, non sarà fuori luogo («non si dovrà disdire») scendere a trattare dei
fatti che riguardano gli uomini e le loro azioni’.
10. quella: ‘quella novella’.
Giovanni Boccaccio, Decameron

11. più … fossero: ‘diverrete più prudenti nel rispondere ai quesiti che vi fossero rivolti’.
12. amorose compagne: ‘compagne innamorate’.
13. la sciocchezza … miseria: ‘la stupidità allontana spesso uno («altrui») da una situazione
favorevole e lo fa cadere in una grandissima infelicità’; «altrui» ha qui il valore di un pronome
indefinito.
14. così il senno … riposo: ‘così l’intelligenza salva chi è saggio e lo pone in una situazione sicura e tranquilla’.
15. per molti … vede: ‘è evidente attraverso numerosi esempi’.
16. fia: ‘sarà’.
17. nostra cura: ‘nostra preoccupazione’.
18. avendo … manifesti: ‘considerando il fatto che ogni giorno se ne possono trovare esempi
evidenti’.
19. ma … cagione: ‘ma che la saggezza produca consolazione’, cioè la soluzione dei problemi
e la serenità.
20. per: ‘attraverso’.
21. il Saladino: si tratta di un personaggio storico realmente esistito, Salahaddin (1138-1193)
sultano del Cairo («Babillonia»). Nel 1187 riconquistò Gerusalemme, togliendola ai cristiani. Fu
celebrato in Occidente per le sue qualità umane e politiche e godette di grande popolarità:
Dante lo ricorda nel Convivio (IV, 11) e nell’Inferno, dove è posto nel castello degli «spiriti
magni» (IV, 129); Petrarca ne tesse le lodi nel Trionfo della fama (II, 148), mentre Boccaccio ne fa
il protagonista anche di una seconda novella (X, 9).
22. di piccolo uomo: la leggenda narra che il Saladino fosse di umili origini. In realtà era figlio
di un dignitario di corte.
23. il fé: ‘lo fece diventare’.
24. soldano: ‘signore’, ‘sultano’.
25. per … denari: ‘avendo bisogno di una buona quantità di denaro, a causa di un caso imprevisto che gli era capitato’.
26. né veggendo … potesse: ‘non vedendo da dove avrebbe potuto prenderli così in fretta come
gli servivano’.
27. e pensossi … volesse: ‘e pensò che questi (Melchisedech) dovesse potergliene prestare in
ogni momento («quando volesse»)’.
28. e forza … fare: ‘e il sultano non voleva indurre Melchisedech a prestargli il denaro con la
forza’.
29. strignendolo il bisogno: ‘sotto la pressione della necessità’.
30. rivoltosi … servisse: ‘dedicatosi interamente a trovare il modo per farsi prestare i soldi dal
giudeo’.
31. s’avisò … colorata: ‘pensò di forzarlo con un sistema che avesse una parvenza di legalità
(«da alcuna ragion colorata»)’.
32. fattolsi: ‘fattoselo’.
33. seco: ‘vicino a sé’.
34. appresso: ‘poi’.
35. senti molto avanti: ‘sei molto competente’.
36. leggi: ‘religioni’.
37. verace: ‘veritiera’.
38. saracina: ‘maomettana’.
39. s’avisò … quistione: ‘si accorse fin troppo bene che il Saladino mirava a coglierlo in fallo
nelle parole (che avrebbe usato nella risposta) per poi muovergli qualche accusa («quistione»)’.
40. pensò … lodare: ‘pensò di non poter lodare nessuna di queste tre religioni più delle altre’.
41. che … intenzione: ‘senza che il Saladino non raggiungesse il suo scopo’, di coglierlo, cioè,
in errore.
42. per che: ‘per la qual cosa’.

M. S. Sapegno
43. come colui … essere: ‘come uno che credeva di avere bisogno di una risposta irreprensibile
(«per la quale preso non potesse essere»)’, che non fornisse, cioè, appigli per essere accusato di
alcunché.
44. gli venne … avanti: ‘gli venne subito in mente’.
45. la qual … fate: ‘che mi ponete’.
46. ciò … sento: ‘quello che me ne pare’.
47. che … già: ‘che un tempo ci fu un grande e ricco uomo’.
48. gioie: ‘gioielli’.
49. al quale … onore: ‘volendo fare onore all’anello in virtù della sua bellezza e del suo valore’.
50. in perpetuo … discendenti: ‘volendo lasciarlo per sempre in eredità ai suoi discendenti’.
51. colui … reverito: ‘quello tra i suoi figlioli presso («appo») il quale l’anello, lasciatogli da lui,
fosse stato trovato, sarebbe stato considerato suo erede e quindi onorato e riverito come più
importante’.
52. simigliante … discendenti: ‘ordinò che la stessa regola valesse per i suoi discendenti’.
53. in brieve: ‘per farla breve’.
54. ultimamente … uno: ‘alla fine arrivò nelle mani di uno’.
55. parimente: ‘in uguale misura’.
56. consuetudine: ‘la tradizione familiare’.
57. sì come … suoi: ‘poiché ciascuno era desideroso di essere il più onorato tra i suoi (figli)’.
58. quando … venisse: ‘dopo la sua morte’.
59. eleggere: ‘scegliere’.
60. buon maestro: ‘bravo artigiano’, in questo caso un orafo.
61. simiglianti al primiero: ‘simili al primo’.
62. che esso … vero: ‘la stessa persona che li aveva fatti sapeva appena riconoscere quale fosse
quello vero’.
63. la eredità … occupare: ‘ottenere l’eredità ed essere considerato più importante rispetto ai
fratelli («onore»)’.
64. ragionevolmente: ‘in conformità alla regola’, ‘di diritto’.
65. produsse fuori: ‘tirò fuori’, come prova.
66. si rimase … pende: ‘rimase aperta («in pendente») la questione di chi fosse il vero erede del
padre, e ancora non è stata risolta’.
67. e così … proponeste: ‘e la stessa cosa si può dire a proposito delle tre religioni date da Dio
padre, su cui mi proponeste il quesito’.
68. ciascuno … fare: ‘ciascuno crede a buon diritto di avere la sua eredità e di seguire la sua
vera religione e i suoi comandamenti’.
69. ma … abbia: ‘ma chi l’abbia davvero’, ‘chi sia il vero erede’.
70. ancora … quistione: ‘ancora la questione non è stata risolta’.
71. laccio … aveva: ‘dalla trappola che gli aveva teso davanti ai piedi’.
72. e per ciò … volesse: ‘e per questo motivo decise di rivelargli il suo bisogno e vedere se
avrebbe voluto concedergli il prestito’.
73. aprendogli … fare: ‘svelandogli cosa aveva intenzione di fare’.
74. discretamente: ‘con discernimento’, cioè ‘saggiamente’.
75. liberamente: ‘generosamente’.
76. quantità: ‘somma’.
77. interamente il sodisfece: ‘gli restituì per intero il prestito’.
78. in grande…mantenne: ‘lo tenne vicino a sé in una posizione importante e degna d’onore’.
MARIA SERENA SAPEGNO
Giovanni Boccaccio, Decameron
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ERICH AUERBACH, Boccaccio
da E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956, 2 voll.
Il primo contatto co n la concezione dello stile illustre degli autori antichi, un contatto che inoltre non era ancora libero dall’influenza di concezioni medievali, conduceva molto facilmente a un innalzamento per così dire cronico del livello stilistico, e a
un impiego eccessivo di ornamenti dotti; e ciò faceva sì che quasi di continuo la lingua salisse sui trampoli, e appunto per questo restasse lontana dal suo argomento e si
rendesse, in tale forma, adatta quasi solamente a scopi oratori e decorativi: un linguaggio così elevato era assolutamente incapace d’abbracciare la realtà sensibile della
vita in atto. Senza dubbio col Boccaccio le cose andarono diversamente fin dal principio. Egli è disposto e sensibile a modi più spontanei, propenso a un’elaborazione amabilmente scorrevole, intrisa di sensualità ed elegante. Fin dal principio egli non è fatto
per lo stile illustre, ma per quello medio; e la società della Corte angioina a Napoli,
dove aveva trascorso la sua gioventù e dove era apprezzata più che nel resto d’Italia
l’eleganza virtuosa delle forme tarde della cultura cavalleresca della Francia settentrionale, dette ricco alimento a quella sua disposizione. Le sue prime opere sono rifacimenti di romanzi d’amore, d’avventure cavalleresche del tardo stile cortese, e nella loro
maniera, così a me sembra, si può avvertire qualcosa di francese: la maggiore ampiezza delle sue descrizioni, le ingenue raffinatezze e le delicate sfumature del giuoco amoroso, la mondanità di quella società feudale già un po’ in decadenza che rappresenta
la maliziosità del suo spirito. Ma quanto più maturo egli diviene, tanto maggior forza
acquista accanto a tutto questo il mondo borghese, umanistico e soprattutto la gagliarda vita popolana. In ogni modo la tendenza a un innalzamento retorico dello stile, che
anche per lui costituiva un pericolo, gli serve nelle sue opere giovanili esclusivamente
per la rappresentazione dell’amore sensuale, come pure per essa servono quell’eccesso di erudizione mitologica e quell’allegorismo convenzionale che si palesano in alcune delle opere giovanili. Con tutto ciò egli rimane, anche se talvolta tenta d’uscirne
(come nella Teseida), entro i limiti dello stile medio, che fondendo l’idilliaco e il realistico, è destinato alla rappresentazione dell’amore sensuale. Di stile medio, idilliaco, è
anche l’ultima e di gran lunga la più bella delle sue opere giovanili, il Ninfale fiesolano; e di stile medio è anche il grande volume delle cento novelle. Per la determinazione del livello stilistico non ha importanza quale delle opere giovanili sia scritta tutta
o in parte in versi, e quale in prosa; dovunque l’atmosfera è la stessa.
Non v’è dubbio che svariate sono, nell’ambito dello stile medio, le sfumature del
Decamerone, e che i confini sono molto ampi; però perfino là dove i racconti si avvicinano al tragico, il tono e l’atmosfera rimangono nel campo del sentimentale e del sensuale ed evitano il sublime e il grave; e anche là dove, ben più che nel nostro esempio, si mettono a profitto motivi di grossa farsa, il linguaggio e la rappresentazione
rimangono nobili, in quanto che innegabilmente narratore e ascoltatore rimangono
sempre assai al di sopra dell’argomento, e guardandolo criticamente dall’alto si dilettano in maniera leggera ed elegante. La particolarità dello stile medio elegante può riconoscersi meglio proprio negli argomenti più popolari e realistici e perfino grossolanamente farseschi; poiché dalla forma di tali racconti è possibile dedurre l’esistenza d’un
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ceto sociale che, stando al di sopra degli strati inferiori della vita quotidiana, trae godimento dalla sua vivace rappresentazione, godimento che va in cerca di individui umani
fatti di sensi, e non di tipi sociali. Tutti i Calandrini, i fra’ Cipolla e i Pietri, le Peronelle,
Caterine e Belcolore sono, alla pari di frate Alberto e di Lisetta, personaggi ben altrimenti delineati che il villano o la pastorella ammessi nella poesia cortese; essi sono perfino molto più vivi e nella loro forma particolare più precisi che le figure delle farse
popolari, come abbiamo visto più sopra, quantunque il pubblico a cui debbono piacere sia d’una condizione del tutto diversa. Evidentemente al tempo del Boccaccio esisteva una classe sociale di alta condizione, però non feudale, bensì appartenente all’aristocrazia cittadina, che provava un raffinato piacere nella realtà variopinta della vita,
dovunque le si rivelasse.
Amleto
di William Shakespeare
William Shakespeare (1564-1616) rappresenta con la sua opera uno dei
più alti risultati del movimento culturale del Rinascimento: anche grazie a
lui il teatro ritrova la centralità e l’importanza che ha avuto in età classica.
Attore e poeta, il suo genio si dispiega soprattutto nella rappresentazione
teatrale, dove sa magistralmente mettere in scena alcuni dei conflitti che
stanno maturando nella coscienza europea, come il rapporto tra individuo
e società e le dinamiche della lotta per il potere, vista come uno scontro
senza esclusioni di colpi, che nulla concede ad alcun sentimento, inclusi i
rapporti familiari più stretti.
La rappresentazione di tali conflitti dà vita a interrogativi e riflessioni
universali, che portano l’autore al successo internazionale, e che diviene
sempre maggiore col passare dei secoli, in tutto il mondo e in particolare
in Inghilterra, ove le sue opere e la sua figura contribuiscono alla formazione di una coscienza nazionale.
Pur essendo un autodidatta Shakespeare fa riferimento a grandi autori
classici come Plauto e Plutarco, usa le fonti storiche medievali inglesi e
conosce in traduzione molti testi contemporanei. I suoi orizzonti si allargano grazie alle conoscenze, alle amicizie e alla frequentazione a corte di
vari rifugiati francesi e italiani, tra i quali Giovanni Florio, che pare gli abbia
favorito l’accesso a molte fonti letterarie italiane come Boccaccio, Ariosto,
Bandello, Giraldi Cinzio, Castiglione, oltre che al teatro contemporaneo.
Eppure della vita di Shakespeare, uno dei più grandi scrittori di tutti i
tempi, non si sa molto. Inoltre, non è rimasto alcun manoscritto autografo,
anche se conosciamo la sua firma, apposta sotto alcuni documenti legali.
A parte alcune edizioni pirata di sue opere, una prima edizione completa,
postuma, dovuta a due suoi collaboratori, è stampata nel 1623. Le informazioni sulla datazione delle opere ci giungono prevalentemente dalla
loro messa in scena.
Se guardiamo all’insieme delle opere di Shakespeare, alla loro qualità e
quantità, e pensiamo che sono state scritte in circa vent’anni di attività,
occorre ammettere che ciò ha del prodigioso. La stretta relazione che l’au-
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M. S. Sapegno
tore intrattiene tra scrittura e messa in scena gli consente di calibrare sempre la misura del testo alla sua effettiva rappresentabilità; allo stesso tempo
ciò non gli impedisce di conservare un senso alto della letterarietà di quanto compone. La felicità straordinaria della sua scrittura è nella capacità di
adattare la poeticità della lingua alle esigenze drammatiche. Come tutte le
grandi opere d’arte, anche le sue possono essere lette a diversi livelli di
profondità; ciò gli permette di venire incontro da un lato alle esigenze di
raffinatezza e complessità proprie dell’ambiente della corte, dall’altro alla
richiesta di una godibilità diretta, fatta di emozioni più semplici.
Nonostante la complessiva unità dell’opera drammatica shakespeariana, è
possibile individuare al suo interno delle linee evolutive e dei gruppi di testi ordinabili per sottogeneri. A tale proposito già la prima edizione in folio
contiene una macrosuddivisione in commedie, tragedie e drammi storici.
Proprio i drammi storici aprono la produzione teatrale (Enrico VI), come
un filo rosso che non viene mai abbandonato, la attraversano tutta fino
all’ultima opera (Enrico VIII) rappresentando una sorta di lungo poema
epico nazionale che va alle radici della formazione dello Stato inglese
moderno. Nel ripercorrere le vicende tormentate e sanguinose della costruzione della monarchia, a partire da uno studio delle cronache e dei documenti storici, Shakespeare ne segue dapprima la forma un po’ episodica,
a cui aggiunge una caratterizzazione dei personaggi, per poi evolvere nella
direzione della tragedia contemporanea e trovare infine una strada tutta
originale in capolavori come Enrico IV. In questo dramma storico, accanto alla ricostruzione delle vicende trova posto l’analisi intima e profonda
dei rapporti padre-figlio, ma anche la messa in discussione di valori fondanti dell’epoca (come per esempio l’onore). In queste opere il drammaturgo pone in primo piano tutti i problemi del potere, della sua controversa legittimazione, ma anche della sua implicita violenza, interpretandone i conflitti senza indugiare su alcuna idealizzazione, ma proponendo un
sistema di valori che possa dare ordine e rendere il potere moralmente
accettabile.
Nella prima fase di apprendistato, tra il 1590 e il 1595, caratterizzata da
una certa sperimentazione, Shakespeare compone testi già perfetti e di
notevole maturità come la commedia romantico-fantastica Il sogno di una
notte di mezza estate, e la tragedia Romeo e Giulietta. Alla seconda fase,
che va dal 1596 al 1600, appartengono opere della serie storica ormai perfezionata ma anche diverse commedie romantiche come Tanto rumore per
nulla e Come ti piace e Giulio Cesare, l’importante tragedia di ambiente
classico. Nella terza fase, che invece va dal 1601 al 1608, prosegue la produzione di commedie di un’atmosfera meno sorridente e più tesa rispetto
alle precedenti, mentre troviamo la maggiore concentrazione di grandi tra-
William Shakespeare, Amleto
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gedie, dominate da uno sguardo cupo e pessimista sull’individuo e sulla
sua relazione con il potere.
Il dramma di una figura nobile in profonda crisi, costretta a misurarsi
con le proprie contraddizioni, oberata dal peso di responsabilità generali,
è presente in tragedie come Amleto, Otello, Macbeth, Re Lear, Antonio e
Cleopatra e Coriolano, in cui si assiste allo scatenamento delle passioni e
delle parti più oscure dell’individuo, la follia, la gelosia, l’ambizione, la passione amorosa, la disperazione, la violenza.
Talora accanto ai toni tragici si avvertono l’umorismo e l’ironia, senza
una netta contrapposizione tra il bene e il male. La contraddizione sembra
invece caratterizzare profondamente tutti i personaggi shakespeariani,
complessi, pieni di sfumature e dotati di credibilità e impatto straordinari,
immersi in un universo di valori in movimento e in continua crisi ma altamente morale.
A giudicare dal tono delle ultime opere, in cui non c’è traccia di pessimismo, sembra quasi che Shakespeare sia uscito rasserenato e più leggero dal viaggio nell’abisso dell’errore umano compiuto attraverso i suoi testi.
È il caso di commedie fantastiche come Il racconto d’inverno o La tempesta, la commedia più moderna, dotata di una qualità magica, considerata
da molti il suo capolavoro assoluto. In questa fase il perdono e la riconciliazione, spesso presenti come possibilità anche nelle tragedie più oscure,
si sono trasformati in un’eventualità facile da percorrere, una strada di serenità e di saggezza che contiene una dimensione fantastica, ma poggia
anche esplicitamente sul senso più profondo dell’esistenza, legato alla consapevolezza e all’accettazione della morte.
Amleto
Il re di Danimarca e padre di Amleto è morto tragicamente; suo fratello Claudio ne sposa la vedova e diventa re. Il fantasma del sovrano rivela
però al figlio di essere stato ucciso da Claudio con la complicità della regina e gli chiede di vendicarlo. Da quel momento Amleto finge di uscire di
senno e si pensa che ciò sia dovuto al rifiuto di Ofelia, la fanciulla amata.
Intanto arriva a corte una compagnia teatrale alla quale Amleto chiede di
rappresentare un’opera nella quale una regina sposa l’assassino del marito. La rappresentazione e le reazioni del pubblico confermano ad Amleto
la colpa dei sovrani, ma l’implicita accusa che il personaggio muove lo
mette in pericolo. Dopo la famosa scena del monologo («To be or not to
be…», ‘Essere o non essere’), Amleto, a colloquio con la madre, credendo
di uccidere il re, colpisce a morte il padre di Ofelia ed è cacciato dalla
corte. Ofelia impazzisce e muore, mentre suo fratello Laerte al ritorno del
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M. S. Sapegno
protagonista lo sfida a duello. Amleto uccide il re e Laerte e ne viene a sua
volta ucciso, mentre la regina muore bevendo il veleno preparato per lui.
Tutto il testo è attraversato da rapidissimi e drammatici colpi di scena:
le apparizioni del fantasma, il teatro nel teatro, i duelli, la follia e la morte
violenta. In questa tragedia, però, come nel Giulio Cesare, è molto presente anche la tematica politica: il desiderio di potere e la violenza che ne
deriva.
La fama dell’Amleto, la tragedia di Shakespeare più rappresentata ancora ai nostri giorni, è legata alla figura del protagonista, visto come un individuo del tutto moderno, quasi un precursore della soggettività tormentata contemporanea, da cui l’aggettivo ‘amletico’, ancora di largo uso, per
indicare la persona tormentata dai dubbi.
Essere o non essere
Questo monologo di Amleto è probabilmente il più famoso soliloquio della storia del teatro,
per la modernità con cui viene affrontato il dramma esistenziale e le domande che riguardano il senso della vita, la follia o la sua rappresentazione, la sofferenza e l’alienazione,
la solitudine profonda. Segue il colloquio con Ofelia, nel quale si palesa la follia.
Atto III, scena I
AMLETO. Essere o non essere; questo è il problema: se sia più nobile all’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare
di sciagure e combattendo disperderle. Morire: dormire; nulla più: – e con un
sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio
della carne, è soluzione da accogliere a mani giunte. Morire – dormire – sognare,
forse: ma qui è l’ostacolo: perché, quali sogni possano assalirci in quel sonno di
morte – ci trattiene: è la remora, questa, che di tanto in tanto prolunga la vita ai
nostri tormenti. Chi vorrebbe, se no, sopportar le frustate e gl’insulti del tempo, le
angherie del tiranno, il disprezzo dell’uomo borioso, le angosce del respinto amore,
gli indugi della legge, l’oltracotanza dei grandi, i calci in faccia che il merito paziente riceve dai mediocri, quando di mano propria potrebbe saldare il suo conto con
due dita di pugnale? Chi vorrebbe caricarsi di grossi fardelli imprecando e sudando sotto il peso di tutta una vita, se non fosse il timore di qualche cosa, dopo la
morte – la terra inesplorata donde mai non tornò alcun viaggiatore – a sgomentare la nostra volontà e a persuaderci di sopportare i nostri mali piuttosto che correre in cerca d’altri che non conosciamo? Così ci fa vigliacchi la coscienza; così l’incarnato naturale della determinazione si scolora al cospetto del pallido pensiero. E
così imprese di grande importanza e rilievo sono distratte dal loro corso: e dell’azione perdono anche il nome.
Ma, silenzio ora: ecco la bella Ofelia. Ninfa, ricordati di tutti i miei peccati, nelle tue
orazioni.
William Shakespeare, Amleto
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OFELIA Mio buon signore, come è stata vostra altezza in tutti questi giorni?
AMLETO Vi ringrazio umilmente: bene, bene, bene.
OFELIA Monsignore, ho qui certi vostri ricordi che da tempo volevo restituirvi.
Prendeteli.
AMLETO No. Io no. Non vi ho dato mai nulla, io.
OFELIA Ma sì, mio degno signore: sapete bene di avermeli dati; e con le parole di così
dolce alito che ne accrescevano il pregio. Svanito il loro profumo, vi prego, riprendeteveli: diventano poveri per un animo sensibile i ricchi doni quando il donatore
si rivela crudele. Ecco, a voi, altezza.
AMLETO Ahà! Siete onesta, voi?
OFELIA Che cosa, signore?
AMLETO E bella?
OFELIA Che intende dire vostra altezza?
AMLETO Che se siete onesta e bella, la vostra onestà dovrebbe guardarsi bene dall’attaccar discorso con la vostra bellezza.
OFELIA Potrebbe la bellezza, monsignore, meglio accoppiarsi che coll’onestà?
AMLETO Sì; mille volte meglio. Perché arriverà prima la bellezza, con i suoi sortilegi, a
fare della vostra onestà una prostituta, che non la forza dell’onestà a ridur la bellezza a sua immagine e somiglianza. Questo, un tempo, era un paradosso; ma il
tempo nostro lo ha provato vero. Io vi ho amato, una volta.
OFELIA Così, difatti, mi faceste credere, monsignore.
AMLETO Non bisognava prestarmi fede. Non si potrà innestare la virtù, nel nostro vecchio ceppo, mai tanto a fondo, che la sua vecchia fibra non rigermogli. Io non vi
amavo.
OFELIA Tanto più fui ingannata.
AMLETO Va’ in convento. Perché vuoi farti matrice di peccatori tu? Sono anch’io onesto,
sufficientemente onesto. Eppure potrei accusarmi di tali colpe, che meglio sarebbe
stato se mia madre non mi avesse mai partorito. Sono orgoglioso, molto; ambizioso, vendicativo. E con più colpe ai miei cenni che non abbia pensieri a contenerle, né fantasia a plasmarle, né tempo per attuarle. Che ci va bulicando, la gente del
mio stampo, tra cielo e terra? Qui siamo un branco di canaglie. Tutti. E tu non farti
incantare da nessuno di noi; va’, prosegui per la tua strada: in convento! In convento! Dov’è tuo padre?
OFELIA A casa, monsignore.
AMLETO Ci stia. Mettilo sotto chiave: che lo stupido sia costretto a farlo a domicilio.
Addio. Va’.
OFELIA Dio di misericordia proteggilo!
AMLETO Se mai dovessi prendere marito, ti lascio in dote questo pronostico: fossi tu
casta come ghiaccio e come neve pura, dalla calunnia non ti salverai. Va’.
Va’ in convento. Addio. Ma se tu d’un marito non potrai proprio fare a meno, sposati un gonzo: un uomo intelligente sa fin troppo a che razza di mostro siete capaci di ridurlo. Va’ in convento. E presto. Va’. Addio.
OFELIA O potenze del cielo, fatelo guarire!
AMLETO So che usate i belletti; ne ho sentito spesso parlare. Dio vi ha dato una faccia
e ve ne pasticciate un’altra, voi altre. Ballonzolate, sculettate, pargoleggiate.
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M. S. Sapegno
Spettegolate; chiamate con nomignoli le creature di Dio e usate maliziosamente il
vostro candore. Va’. A questo gioco non gioco più: mi ha portato alla pazzia.
Ascolta quel che ti dico: non ci saranno più matrimoni. Gli sposati a tutt’oggi,
vivranno; tutti meno uno. E gli altri resteranno come sono. Va’ in convento, va’!
[Esce].
(da W. Shakespeare, Teatro, trad. e note di C. Vico Lodovici, Einaudi, Torino 1960)
L’incontro fra Amleto e la madre
Si tratta di un dialogo straordinario e giustamente famoso per la densità del testo e i
molti livelli di detto e di non detto. Si incrociano il sospetto non dichiarato da parte di
Amleto, che accusa implicitamente la madre di complicità nell’assassinio del padre, e
desideri proibiti. La madre si sente in colpa ma non comprende e respinge le accuse del
figlio, è sconvolta, ne vede il terribile turbamento. Al centro della scena, l’omicidio di
Polonio ma anche il passaggio dello spettro che appare alla madre come il frutto della
mente di Amleto ormai travolta dalla follia. Al pubblico è assegnato il compito di interpretare tutti i livelli e di farsi un’opinione. Ma la scena resta impressa anche per la complessità del rapporto tra i due personaggi.
Atto III scena IV
Entra AMLETO
AMLETO Che c’e, dunque, madre?
REGINA Hai molto offeso tuo padre, Amleto!
AMLETO Anche voi avete molto offeso il mio.
REGINA Andiamo, queste sono risposte oziose.
AMLETO E le vostre sono domande maligne.
REGINA Suvvia, Amleto.
AMLETO Ebbene?
REGINA Hai dimenticato chi sono?
AMLETO Per la croce, no davvero. Siete
la regina, la moglie del fratello
di vostro marito, e anche
– così non fosse! – mia madre!
REGINA Vedremo se troverò qualcuno che sappia parlarti.
AMLETO Oh, state seduta, non muovetevi.
Non dovete muovervi d’un palmo prima che v’abbia messo
davanti uno specchio in cui possiate
vedervi fino in fondo!
REGINA Che intendi fare? Vuoi assassinarmi? Aiuto, aiuto!
POLONIO Olà, aiuto! Aiuto!
AMLETO Come? C’è dunque un topo! Per un ducato! Eccolo bell’e morto!
Uccide POLONIO
William Shakespeare, Amleto
POLONIO Sono finito.
REGINA Povera me! Che hai fatto?
AMLETO Non lo so proprio. È il re?
REGINA Oh furia sanguinosa e inconsulta!
AMLETO Un gesto sanguinoso davvero, madre mia.
Quasi perverso come uccidere un re e sposarne il fratello.
REGINA Come uccidere un re?
AMLETO Così ho detto, signora. Addio, povero sciocco, temerario e indiscreto!
T’avevo creduto uno migliore di te.]
Prendi quel che ti capita. Ecco ciò che succede ai troppo zelanti.
Non torcetevi le mani, vi prego,
sedetevi e lasciate ch’io vi sprema il cuore.
È quello che farò, se è fatto di materia penetrabile
e se la maledetta abitudine
non 1’ha indurito e corazzato contro ogni sentimento.
REGINA Che ho fatto io dunque perché tu osi menar la lingua
contro di me con tanta villania?
AMLETO Un atto
che offusca la grazia e il rossore della modestia,
che fa ipocrita la virtù e strappa la rosa
dalla fronte di un innocente amore, per lasciarvi
una vescica di sangue; un atto che rende false
come i giuramenti dei giuocatori le promesse
del matrimonio. Una tale azione districa
1’anima stessa dal corpo d’un impegno fermato in accordo
e avvilisce a centone di parole
la profondità della religione; la faccia del cielo
s’infiamma, questa salda terra, quest’aggregata
massa, come a cospetto del Giudizio finale,
impazzisce di fronte a quest’atto.
REGINA Ahimè, quale orrore
dunque, che tuona così forte fin dall’antifona?
AMLETO Guardate quest’immagine, e poi quest’altra:
sono i ritratti di due fratelli.
Tempie colme di grazia, ricci da Iperione,
fronte degna di Giove, occhi di Marte,
pronti alla minaccia e al comando, una figura
simile a quella dell’araldo Mercurio appena sceso
su un colle che bacia la volta celeste; una forma
in cui ogni dio pareva aver posto la sua impronta
per dare al mondo la certezza di un uomo.
Era vostro marito. Ed ora osservate 1’altro!
Questo è vostro marito; come una spiga
divorata dalla ruggine, egli corrompe
la salubre pienezza del fratello.
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M. S. Sapegno
Avete occhi? Come poteste lasciare il pascolo
di questa cima per impinguarvi in una palude?
Avete occhi? Non dite che fu per amore.
Alla vostra età la furia del sangue si smorza,
si calma, e s’accorda al giudizio;
e qui quale giudizio farebbe questo passo?
Sentimento avete poiché avete volontà; ma certo
cotesto sentimento è paralizzato;
perché la follia non peccherebbe; ne mai
si vide il sentimento tanto asservito al delirio
da perseguire un simile proposito.
Quale demonio v’ha preso a mosca cieca?
Gli occhi senza il tatto, il tatto senza la vista,
gli orecchi senza mani ed occhi,
1’odorato senza gli altri sensi, o una parte sola malata
di uno dei cinque sensi non avrebbero
potuto cadere in simile malinconia.
Oh vergogna, dov’è il tuo rossore?
Riottoso inferno, se tu puoi destare
la ribellione nella midolla d’una matrona,
alla giovinezza ardente sia la virtù come cera
che nella sua fiamma si fonda; e di’ che quando
1’impellente ardore muove alla carica,
ciò non è vergogna, poiché il gelo stesso arde
così vivamente, se la ragione si fa mezzana
della volontà.
REGINA Non parlar più, Amleto.
Mi fai volgere gli occhi nel fondo della mia
anima stessa, e vedo la macchie nere e profonde
che non potranno cancellarsi.
AMLETO No, certo, ma vivranno
nel fetore di un letto lardoso, crogiolandosi
nella corruzione, con parole di miele e sospiri d’amore,
tra le immondizie.
REGINA Non più, Amleto!
Le tue parole m’entrano negli orecchi come pugnali.
Basta, dolce Amleto!
AMLETO Un assassino e un cialtrone;
un tirapiedi che non vale un millesimo
del vostro primo consorte; un re di coppe;
un tagliaborse dell’impero, che ha tolto da un cassetto
il prezioso diadema e se l’e scivolato in tasca!
REGINA Basta, basta!
Entra lo SPETTRO, in veste da notte
William Shakespeare, Amleto
AMLETO Un re di rattoppi e di sbrendoli.
Salvatemi voi e statemi sopra con le vostre ali,
angeli celesti! Che vuole la tua nobile figura?
REGINA Ohimè, è pazzo!
AMLETO Vieni forse a rimproverare tuo figlio
per la trascuratezza e il ritardo con cui,
trascorso il primo impulso, obbedisce all’ordine?
Dimmi.
SPETTRO Non dimenticare. Questa mia visita
vuol solo aguzzare i tuoi propositi ormai quasi smussati.
Ma guarda tua madre, 1’attonimento le sconvolge il viso.
Oh, mettiti fra lei e 1’anima sua combattuta.
Nei corpi indeboliti 1’immaginazione lavora meglio.
Parlale, Amleto.
AMLETO Che avete, dunque, signora?
REGINA Ahimè, è ciò che domando a te,
che fissi il vuoto e discorri con 1’aria incorporea.
I tuoi spiriti anelano selvaggi sulla soglia dei tuoi occhi;
i tuoi capelli, come soldati desti dall’allarme,
si rizzano e si irrigidiscono.
Versa la tepida pazienza, mio figlio,
sulla tua furia affocata. Dove guardi?
AMLETO Lui, lui! Guardate come splende il suo pallore!
Con quell’aspetto e per la causa che lo spinge,
se parlasse alle pietre smuoverebbe anche queste!
– Non mi guardare,
non impietosire i miei duri affetti,
non mi occorrono lacrime, mi occorre sangue.
REGINA A chi parli?
AMLETO Non vedete nulla laggiù?
REGINA Nulla; e pur vedo tutto ciò che è.
AMLETO E non avete sentito nulla?
REGINA Nulla, all’infuori di noi.
AMLETO Ma guardalo, guardalo che fugge!
Mio padre, vestito com’era in vita.
Eccolo! È là! Presso la porta!
Esce lo SPETTRO
REGINA È un frutto della tua fantasia, Amleto,
del delirio che crea queste immagini
senza corpo.
AMLETO Delirio?
II mio polso va a tempo come il vostro,
e dà una musica perfettamente sana. Non sono pazzie
quelle che ho detto. Mettetemi alla prova,
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
M. S. Sapegno
vi dirò ancora tutto parola per parola,
mentre la pazzia salterebbe chissà dove.
Madre, per amor della grazia,
non ungetevi 1’anima con questa illusione,
che parli la mia pazzia e non la vostra colpa.
Sarebbe una pelle troppo sottile sull’ulcera,
e la cancrena, sotto, infetterebbe
tutto, invisibile. Confessatevi al Cielo:
pentitevi del passato, cercate di scansare
1’avvenire, non gettate il letame sulle ortiche
per farle più folte. E perdonatemi questa mia virtù,
perché in tempi di grascia anche la virtù
deve inchinarsi al vizio e chiedergli,
lisciandolo, il permesso di beneficarlo.
REGINA Oh Amleto, m’hai spaccato il cuore in due.
AMLETO Buttatene via la parte peggiore
e vivete più pura con 1’altra metà.
Buonanotte; ma non tornate nel letto di mio zio.
Fingete la virtù, se non 1’avete. La consuetudine,
quel mostro che ogni sensibilità consuma,
il demonio delle abitudini, e però anche angelo,
quando con lo stesso viso veste di livrea
le azioni buone e le malvage, vestito
che s’indossa con facilità estrema. Contenetevi,
stanotte, e la prossima astinenza
vi sarà più facile; e più ancora la successiva.
L’abitudine può cambiare lo stampo della natura
e domare il diavolo o cacciarlo del tutto,
con forza meravigliosa. Buonanotte ancora;
e quando vorrete essere benedetta,
sarò io a chiedere la vostra benedizione.
– Quanto a questo messere, io mi pento. Ma è piaciuto al Cielo
ch’io punissi me stesso con lui e lui con me,
come suo flagello e ministro. Lo porterò via
e risponderò della morte che gli ho data.
E un’altra volta, buonanotte.
Debbo essere crudele solo per essere buono;
così il male comincia e il peggio ha da venire.
Ancora una parola, buona signora.
REGINA Che debbo fare?
AMLETO Oh, in nessun modo quel che v’ho chiesto io!
Lasciate che il gonfio re vi chiami ancora nel suo letto;
vi pizzicherà il mento, vi dirà «topo mio»;
e tra un sudicio bacio e 1’altro, tastandovi il collo
con le sue dita maledette, vi farà metter fuori
William Shakespeare, Amleto
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tutta la faccenda, vi farà dire ch’io non sono pazzo
davvero ma per astuzia. Sarà molto bene
farglielo sapere, perché chi mai, non essendo
che una bella, prudente e ragionevole regina,
potrebbe nascondere simili faccende a un rospo,
a un pipistrello, a un gattone come lui?
Chi lo farebbe mai? No, a dispetto
del buon senso e della segretezza, vi vedo già staccare
il cesto attaccato al soffitto, farne scappare
gli uccelli, poi saltare nel paniere
come la scimmia della favola,
per imitarli, e giù, pànfete, rompervi il collo.
REGINA Se le parole son fatte di fiato e il fiato di vita,
stai pur certo ch’io non ho tanta vita
da fiatare una parola di ciò che m’hai detto.
AMLETO Debbo andare in Inghilterra; lo sapete?
REGINA Me 1’ero dimenticata, ahimè. Così è deciso.
AMLETO Le lettere sono gia sigillate; e i miei due compagni di scuola,
dei quali mi fido come di due serpi velenosi,
portano il mandato. Tocca a loro due
di farmi strada e guidarmi alle bricconate.
Facciano pure; è divertente
che 1’ingegnere salti in aria col suo stesso petardo.
Voglio vedere se non mi riuscirà a scavare
qualche palmo sotto alle loro mine
e a scaraventarli nella luna. Sarà bellissimo
1’incontro di due diverse astuzie sulla stessa linea retta.
Ecco 1’uomo che mi costringerà a far bagagli.
Rimorchierò questa trippaglia nella stanza vicina.
Buonanotte, madre. Ecco un consigliere
che ciarlava troppo in vita sua,
e ora sembra molto tranquillo, molto grave e discreto.
Vieni, messere, fatti trarre a una conclusione.
Buonanotte, madre.
Esce AMLETO trascinando il cadavere di POLONIO
(da Teatro completo di W. Skaespeare, a c. di G. Melchiori; I Drammi Dialettici, a c. di
G. Melchiori, Milano 1997, trad. di E. Montale).
MARIA SERENA SAPEGNO

M. S. Sapegno
AGOSTINO LOMBARDO, La domanda di Amleto
in A. Lombardo, L’eroe tragico moderno. Faust, Amleto, Otello, Donzelli, Roma 2005
Un discorso su quest’opera così problematica e così complessa, così grande e così
misteriosa e fin sfuggente, così shakespeariana e insieme così moderna, non può che
essere una mera introduzione. Di altri drammi si può, forse, ridurre in qualche modo
l’esperienza ad alcuni segni e tratti fondamentali, certo incompleti ma che pur possono restituire un’immagine del dramma e delle sue intenzioni, e suggerirne, almeno, il
significato. Ma con Hamlet questa riduzione è impossibile: ci si ferma su un aspetto dell’opera e del suo protagonista ed ecco che un altro, magari opposto, reclama imperiosamente d’essere espresso; si punta su un elemento ma un altro sta lì ad avvertirci che
un’operazione del genere equivale, qui più ancora che in altri casi, a una frammentazione della forma totale. Sembrerebbe insomma che la ricchezza, la vitalità e polivalenza dell’opera sia tale da non sopportare, non dico la schematizzazione, ma una pura
e semplice definizione. E tanto più poi in quanto il dramma, e anzi il personaggio (ché
il pericolo della identificazione è sempre incombente), giunge a noi carico delle luci e
delle ombre, delle sfumature e ambiguità e suggestioni che gli ha attribuito
Shakespeare, ma anche di quelle, e degli innumeri significati, che gli hanno attribuito
i poeti e i critici successivi. Nessuna opera e nessun personaggio, io credo, hanno esercitato tanta influenza sulla vita della letteratura – non c’è scrittore o poeta, di qualsiasi
lingua, che non abbia usato Amleto come simbolo, come metafora. Amleto non è più
un personaggio drammatico ma è un mito – e per di più polimorfico, proteico. Amleto
è sempre diverso, e se per Goethe era un uomo costretto ad affrontare una realtà eroica senza avere la stoffa dell’eroe, Coleridge e Schlegel vedevano nel suo dramma una
tragedia della volontà; per altri romantici, il pallido principe di Danimarca era un simbolo del loro Weltschmerz e della loro aspirazione all’infinito; per i decadenti e i simbolisti, l’immagine del loro spleen e noia e male di vivere; per gli artisti del Novecento,
1’emblema della moderna nevrosi e alienazione. Interpretazioni, queste e altre (e per
esempio quelle di tipo psicanalitico) di cui è necessario tener conto, perché hanno tutte
una loro ragion d’essere e una loro verità (basti pensare alla lettura freudiana), ma che
d’altra parte non esauriscono il problema, ci offrono solo un aspetto, una faccia del
personaggio (e dell’opera). Ciò che è ancora più vero delle rappresentazioni teatrali,
per cui ogni attore, ogni regista, ogni interprete ci porge una nuova chiave di lettura –
che ci viene anche da quei drammaturgi che nell’Amleto trovano molte delle proprie
radici (e penso, in Italia, a Pirandello e ad Eduardo).
In questa situazione quasi senza scampo, conviene allora aggrapparsi a qualche
punto fermo, a qualche dato oggettivo. E il più solido è costituito dalla collocazione
dell’Amleto nella situazione storica e culturale in cui nasce. Quest’opera universale,
questa grande e autonoma immagine teatrale, questo cosmo poetico, questo «mito», è
pur sempre il frutto di un artista che vive in un tempo, una società precisi, i cui temi e
problemi Shakespeare immette nella sua opera, li rende parte, sostanza di essa. E invero Amleto è grande tragedia proprio per questo rapporto da cui la sua “universalità” è
sostanziata. Scritta tra il 1600 e il 1601 essa si colloca, anzitutto, in un momento cruciale della storia politica inglese, quando si è vicini alla morte di Elisabetta (che avverrà
William Shakespeare, Amleto

nel 1603), la regina senza eredi che aveva fin qui tenuto in equilibrio le varie forze politiche, sociali, economiche, religiose che formavano il tessuto della società inglese del
tempo. L’avvicinarsi della fine del regno comporta dunque non solo l’inquietudine che
sempre accompagna questi avvenimenti (a cui s’aggiunge quella prodotta dal mutar di
secolo), ma una lotta per il potere, e gli intrighi, le congiure, le manovre di una classe
politica in agitazione. E comporta poi la perdita di quell’equilibrio che la grande regina aveva ottenuto: nei decenni che seguiranno, le forze fin qui controllate verranno
con prepotenza alla ribalta e si avranno la rivoluzione puritana e l’affermazione della
borghesia.
[…]
Ora però preme dire che l’importanza attribuita ad Amleto dal drammaturgo è il
risultato e insieme la causa della straordinaria espansione che il problema di Bruto
assume nell’Amleto. Affidata ad Amleto, la domanda che si poneva Bruto, se fosse giusto uccidere, agire, e quale fosse quindi il comportamento morale da assumere, si
amplia in misura estrema: non solo quale è il bene e quale il male, ma che cosa è la
vita e quali sono le sue ragioni, che cosa è l’uomo e quali sono le sue ragioni e il suo
destino. Tutto l’Amleto è in verità una grande domanda, e forse la sola definizione che
possa abbracciarne o almeno suggerirne il significato è quella che veda l’opera come
immagine dell’uomo moderno, l’uomo (e l’intellettuale) di Montaigne, di Giordano
Bruno, di Bacone che si pone di fronte al mistero della realtà e cerca di penetrarlo e,
senza potersi appoggiare alle certezze del Medioevo, continuamente si chiede il significato delle cose e di tutto ciò che lo circonda e delle parole che lo dicono. Del resto
tutti, non solo Amleto, qui, si fanno delle domande; il dramma brulica di domande,
nessuno ha delle certezze, e a tutti la realtà offre mistero e ambiguità. Così gli uomini
sugli spalti si chiedono le ragioni del loro stesso far la guardia; il Re e la Regina e
Polonio si chiedono che cosa mai nasconda Amleto (che dunque è soggetto e insieme
oggetto della domanda); la stessa Ofelia se ne pone, e non resiste all’urto.
In effetti, il principio strutturale dell’opera è proprio questo: l’interrogazione, l’interrogarsi su di sé e sugli altri e sul mondo e sulla condizione umana che è di Amleto,
e di ogni personaggio, e del pubblico, costretto a interrogarsi dalla dinamica del
dramma.
Don Chisciotte
di Miguel de Cervantes
Con molti dei generi narrativi in voga nel XVI secolo si cimenta Miguel
de Cervantes y Saavedra (1547-1616), autore di un romanzo pastorale (La
Galatea, 1585), di novelle in stile italiano (Novelle esemplari, 1613), di un
romanzo bizantino (Le avventure di Persiles e Sigismonda, apparso postumo nel 1617) e di un libro straordinario, il Don Chisciotte (1605-1615), che
non è ascrivibile a nessuno di questi generi, ma tutti li ingloba e rielabora
in un’invenzione geniale che è all’origine del romanzo moderno. Soldato
(combatte a Lepanto), prigioniero dei turchi ad Algeri per cinque anni, tornato in patria Cervantes lavora come esattore d’imposte, ha problemi con
la giustizia, è processato e per tre volte imprigionato. Solo negli ultimi anni
della sua vita, grazie al successo del Don Chisciotte, può dedicarsi completamente alla scrittura e vedere pubblicate le sue opere, tra cui le mai
rappresentate Otto commedie e otto intermezzi (1615).
Nel 1605 viene pubblicata la Prima parte del Don Chisciotte, a cui fa
seguito nel 1615 la Seconda parte, con cui l’autore pone fine alle avventure del suo eroe. Il Don Chisciotte si presenta innanzi tutto come un’invettiva contro i libri di cavalleria, seppure condotta sul filo dell’ironia. La
critica a questo fortunato genere non era un’invenzione di Cervantes, ma
rispecchiava l’opinione, diffusa tra i moralisti, che tali libri fossero menzogneri e nocivi per l’anima, ed echeggiava un severo giudizio estetico
che li reputava mal scritti, prolissi, pieni di esagerazioni inverosimili. Eppure nel Don Chisciotte non c’è personaggio che non sia lettore, appassionato o critico, di quelle opere e, tra lodi e censure, tutti esprimono il
proprio parere, cosicché il romanzo ci appare da subito come una grande riflessione sulla letteratura, i suoi pericoli e i suoi piaceri. La condanna esplicitata nel prologo si stempera a poco a poco e queste molteplici
voci avvolgono i libri di cavalleria in un velo di ambiguità che permea
l’intero romanzo.
D’altronde, don Chisciotte è un eroe cavalleresco alla rovescia, che nulla
ha a che fare con i modelli letterari a cui si ispira: non è giovane (ha circa
cinquant’anni); non si muove negli spazi esotici e nei tempi remoti in cui
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I. Ravasini
si muovevano i protagonisti dei testi di cavalleria, bensì in luoghi prossimi
e familiari («un paese della Mancia») e nei tempi presenti («or non è molto»);
la sua genealogia è insignificante, di lui non sappiamo nulla tranne che è
un povero hidalgo, un membro della piccola nobiltà, oltretutto decaduto,
che fa fatica a mantenere la dignità del suo stato; l’unica sua occupazione
è la lettura. Quando decide di diventare cavaliere errante, tutto in lui appare anacronistico e bizzarro: le armi sono quelle desuete dei suoi antenati,
corrose dalla ruggine, e il suo destriero non è che un vecchio ronzino.
Tuttavia don Chisciotte si muove, parla, agisce come gli eroi dei libri di
cavalleria, da cui però si distingue per una totale libertà. I tempi in cui gli
è toccato vivere, quelli della Spagna imperiale già sull’orlo della decadenza, gli appaiono in tutta la loro vile miseria. In «questi… detestabili secoli»
il personaggio sogna di soccorrere i deboli, raddrizzare i torti, imporre la
giustizia e difendere la virtù, nobili ideali che non sono più attuali nella
società del Seicento. La sua grandezza non sta nel voler riportare in vita
valori ormai superati, bensì nel credere di poter trasformare in realtà un’utopia che esiste solo nella finzione letteraria.
Il mondo della realtà e quello ideale della cavalleria errante si sovrappongono e si scontrano in ogni avventura. Così l’eroismo di don Chisciotte
si frantuma contro la banalità della vita quotidiana, con esiti spesso esilaranti. Il divertimento che suscita la sua pazzia e il sorriso amaro che i suoi
fallimenti provocano nel lettore scaturiscono proprio dalla sfasatura tra vita
e letteratura. Questa discordanza si manifesta nel contrasto tra il cavaliere
e il suo scudiero: nel loro fitto dialogare il linguaggio altisonante di don
Chisciotte, intriso di letteratura, si oppone a quello colloquiale di Sancio,
infarcito di proverbi e strafalcioni. I loro opposti punti di vista svelano la
complessa ambiguità della letteratura e del mondo reale, osservati da due
diverse prospettive, quella della pazzia trasfigurante di don Chisciotte e
quella della saggezza contadina di Sancio (a cui si sommano anche gli
sguardi degli altri personaggi). Se all’inizio la distanza tra i due sembra irriducibile, con il passare del tempo va diminuendo, specialmente nella
Seconda parte, quando il potere immaginifico della follia di don Chisciotte
sembra affievolirsi: mentre il cavaliere comincia a dubitare dei suoi ideali,
Sancio inventa soluzioni cavalleresche che possano mantenere salda la
fede sempre più vacillante dell’hidalgo.
Lungo le strade della Mancia, don Chisciotte e Sancio incontrano personaggi di ogni ceto sociale, coinvolti per caso nelle avventure del cavaliere, travolti dalla sua follia, di cui talora fanno le spese. Ognuno di loro
è portatore di una storia e il romanzo diventa così lo spazio dove si intrecciano molteplici narrazioni, di stili e linguaggi diversi. Spesso gli incontri
avvengono alla locanda, il luogo dove le strade si incrociano e anche le
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia

storie si annodano. Nell’ora del riposo, i personaggi mettono a nudo le
loro vite (che non di rado hanno un sapore letterario, ricalcate come sono
su avventure di pastori, novelle moresche, peripezie da romanzo bizantino), frammenti di esperienza che spesso si aggiungono e intrecciano ad
altri racconti già ascoltati andando a formare un mosaico, in cui ogni voce
apporta la sua parte di vero.
Alle vicende dei personaggi si aggiungono poi stralci di letteratura –
novelle lette a voce alta, poesie, racconti folclorici, spettacoli teatrali –, in
una fitta trama di racconti e di voci. Tutte queste storie confluiscono in
quella del protagonista, affidata alla parola di un narratore che, a sua volta,
l’ha letta in un manoscritto arabo, rinvenuto per caso. Sfruttando un altro
topos del romanzo di cavalleria, Cervantes inventa un meccanismo narrativo complesso, a scatole cinesi: la storia di don Chisciotte, tramandata
dallo scartafaccio, è infatti opera di uno storico arabo, Cide Hamete
Benengeli, cioè di un infedele miscredente, la cui attendibilità per uno spagnolo del Seicento è quanto meno sospetta; tale storia viene poi tradotta
in castigliano da un interprete, arabo anch’egli, affinché sia comprensibile
a un «secondo autore» (ovvero l’anonimo narratore di cui avvertiamo la
voce) che a noi la racconta. Tre voci, dunque, che si sovrappongono moltiplicando i punti di vista, talora discordando tra loro, e che non sempre si
rivelano «affidabili».
Don Chisciotte della Mancia
La penitenza
Prima parte, cap. XXV
È questo il capitolo della Prima parte «che tratta delle strane cose che
accaddero nella Sierra Morena al valoroso cavaliere della Mancia, e della
imitazione che egli fece della penitenza di Beltenebroso». Con questo
nome, Amadigi di Gaula, modello insuperabile di virtù cavalleresche
secondo don Chisciotte, si era ritirato a fare penitenza dopo essere stato
respinto dall’amata Oriana. Ispirandosi alla letteratura e ai suoi eroi prediletti, don Chisciotte decide di affrontare anche lui, come Amadigi e come
Orlando rifiutato da Angelica, la sua penitenza per meritare l’amore di
Dulcinea del Toboso, sua signora. Si ritira così in un luogo ideale dove
poter esprimere i propri lamenti, memore anche dei pastori arcadici e dei
luoghi ameni in cui essi erano soliti dare sfogo alle pene d’amore. Sarà
compito di Sancio, testimone di quest’avventura, dar conto a Dulcinea
della dura prova, dovendo presentarsi al suo cospetto, latore di una lettera del cavaliere alla sua amata.

I. Ravasini
Il motivo della penitenza dei cavalieri erranti ritorna ripetutamente nella
letteratura cavalleresca europea. Se don Chisciotte compie i suoi riti con
estrema serietà e non è disposto né ad abbreviarli, né a fingere, per non
contravvenire agli ordini della cavalleria che impediscono atti menzogneri, Sancio osserva gli spropositi del padrone giudicandoli atti compiuti per
scherzo, «cosa finta», e poi «stupidaggini o follie», «insensatezze» degne di
chi ha perso il senno.
La donna idealmente amata da don Chisciotte incarna tutti gli stereotipi
della dama dei libri di cavalleria: è crudele, costringe l’amante alla lontananza, ferisce il suo cuore, trasforma la sua vita in un allegorico inferno d’amore. A lei il cavaliere chiede un atto di pietà, pronto però ad accogliere anche il suo rifiuto, disposto a sopportare qualunque pena per colei che invoca come «giorno della mia notte, gloria del mio tormento…». La scoperta della vera identità di Dulcinea da parte di Sancio (il lettore ne era già stato informato nel primo capitolo) ci consente di vederla ritratta non più attraverso il
filtro dell’idealizzazione letteraria, ma tramite lo sguardo compiaciuto del
contadino che ne rileva la forza, la corporatura muscolosa e la voce potente, la giovialità che nulla ha a che fare con gli sdegnosi atteggiamenti di una
dama. All’eterea Dulcinea si contrappone la fisicità di Aldonza, al linguaggio
nobile che le riserva don Chisciotte si sostituiscono i modi di dire grossolani, le esclamazioni e gli aneddoti prosaici ricordati da Sancio.
Quando don Chisciotte parla di letteratura, si rivela un critico lucido e
rigoroso. A eccezione dell’universo cavalleresco, che scatena in lui le reazioni più stravaganti, il resto della produzione letteraria è commentata dal
cavaliere con sapienza ed equilibrio. È in questi momenti che percepiamo
come in lui la saggezza conviva con la follia. Dinanzi all’irrimediabile
distanza tra Dulcinea e Aldonza, don Chisciotte offre a Sancio una spiegazione razionale: la realtà non coincide con la letteratura, per i poeti essa
non è che uno stimolo, compito della poesia è proprio quello di trasfigurare il dato reale. Tuttavia, tale principio è smentito dal cavaliere a ogni
avventura e dallo stesso Sancio, che con estrema facilità riesce a sovrapporre le due donne (si veda con quale naturalezza immagina Aldonza che
carda il lino e vede inginocchiarsi davanti a lei i cavalieri vinti, inviati da
don Chisciotte).
Con altrettanta facilità, don Chisciotte è disposto a pagare a Sancio l’asino che egli ha perduto: l’hidalgo non dimentica mai l’esistenza di un
mondo dove i debiti vanno pagati e i torti risarciti in nome della giustizia.
L’ideale universo della finzione letteraria cede il passo alla realtà con la giustapposizione delle due missive: la prima, in stile elevato e poetico, ridondante di formule e topoi cavallereschi, ispirata all’amore cortese, è il rovescio della seconda, ancorata alla necessità di saldare un debito, scritta in
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia

un linguaggio burocratico, in cui l’assegno «asinino» ricorda a don
Chisciotte l’imprescindibile presenza del vile denaro. La realtà, concreta e
volgare, irrompe nell’universo cavalleresco, sta lì anche a ricordare al
nostro eroe la miseria del suo tempo, la banalità del vivere quotidiano contro cui si infrange l’utopia cavalleresca.
Il dialogo tra i due protagonisti, oltre a svelare opposte visioni del
mondo, consente l’indottrinamento di Sancio. Spesso don Chisciotte si
rivolge a lui con un tono didattico («Te l’ho già detto molte volte prima di
ora…»; «Devi sapere…»), il suo linguaggio colto e forbito, appreso sui libri,
si “abbassa” al livello di Sancio accogliendo aneddoti illustrativi ed esempi (dedotti anche dal patrimonio classico, come Elena e Lucrezia). Dal
canto suo, lo scudiero è portatore di uno stile popolare, basato su una cultura orale; il suo parlato è intriso di modi di dire («cavar dai pasticci»; «portarselo via il diavolo»; «taglio la corda»), proverbi («non si deve parlar di
corda in casa dell’impiccato»), espressioni volgari («figlia d’una grandissima»), paragoni ispirati al quotidiano («più morbida d’un guanto… più ruvida d’un sughero»). Il suo rapporto con il sapere di don Chisciotte è ambivalente: se il più delle volte fraintende e storpia le parole che apprende
dal padrone (o quelle della cultura alta), a poco a poco si va impossessando del suo linguaggio (per esempio pretende di strappare a Dulcinea
una risposta «dolce e melliflua»).
L’ingenua credulità di Sancio ha tuttavia un ruolo importante: se è vero
che egli guarda il mondo con gli occhi furbi e sagaci del contadino, è
altrettanto vero che non esita ad accettare che Dulcinea e Aldonza siano
la stessa persona, scambia per cronaca storica molte delle invenzioni cavalleresche o delle storie degli antichi che gli racconta don Chisciotte, si lascia
conquistare dallo stile della lettera d’amore a Dulcinea e, alla fine, torna
indietro per assistere a qualche capriola del suo padrone perché, forse,
anche lui come i cavalieri erranti non vuole mentire. Mosso dalla pietà e
dall’affetto per don Chisciotte, Sancio entra a poco a poco nel suo mondo
ideale, impara a servirsene e alla fine, quando l’anziano cavaliere sul letto
di morte rinnegherà la cavalleria errante, sarà lui a incitarlo a riprendere il
cammino verso nuove avventure.
[…] – È questo il luogo, o cieli, che scelgo ed eleggo per piangere la
sventura in cui proprio voi mi avete cacciato. È qui dove l’umore dei miei
occhi dovrà accrescere l’acque di questo piccolo rivo, e i miei continui e
profondi sospiri agiteranno senza posa le foglie di questi montani alberi, a
testimonio e segno della pena che il mio oberato cuore patisce. O chiunque voi siate, rustici dèi1 che in questo inabitabile luogo avete dimora,
udite i lamenti di quest’infelice amante, che una lunga assenza e delle

I. Ravasini
immaginarie gelosie hanno portato a lamentarsi fra queste balze, e a
lagnarsi del duro cuore di quella bella ingrata, termine e frontiera di tutta
l’umana bellezza. E voi, napee e driadi2, che avete per uso di abitare nei
recessi dei monti, che i lievi e lascivi satiri da cui siete amate (ma invano)
non turbino mai la vostra dolce quiete, aiutatemi a piangere la mia sventura o se non altro, non stancatevi di udirla. O Dulcinea del Toboso, giorno della mia notte, gloria del mio tormento, bussola dei miei itinerari, stella della mia sorte, che il cielo a te la dia propizia in tutto ciò che gli chiederai, considera il luogo e lo stato in cui la lontananza da te mi ha condotto, e corrispondi benignamente come la fedeltà mia lo merita. O solitari alberi, che da oggi in poi dovrete far compagnia alla mia solitudine,
date indizi col blando muover dei rami, che la presenza mia non vi dispiace! E tu, scudiero mio, mio gradito compagno nei prosperi e negli avversi
successi, tieni bene a mente ciò che qui mi vedrai fare, per poi raccontarlo e riferirlo all’unica causa di tutto ciò. […]
– E che devo vedere di più – disse Sancio –, dopo quello che ho visto?
– Stai fresco, ancora! – rispose don Chisciotte –.
Ora devo strapparmi i vestiti, disseminar l’armi e dar zuccate contro
quelle rocce, e altre cose del genere, che devono farti meravigliare.
– Per l’amor di Dio – disse Sancio –, stia bene attenta la signoria vostra a
come si dà codeste zuccate, perché potrebbe capitare una roccia, e uno spigolo tale, che bastasse la prima per porre fine a tutto il piano della penitenza; e io sarei del parere che se proprio alla signoria vostra queste zuccate qui
paiono indispensabili, e che in questa impresa non se ne può fare a meno,
visto che tutto questo è cosa finta, contraffatta e per scherzo, si accontentasse, dico, di darle nell’acqua, o in altra cosa morbida, nella bambagia, per
esempio; e lasci fare a me, che dirò io alla mia signoria che la signoria vostra le dava contro la punta d’una roccia più dura di quella d’un diamante.
– Io ti ringrazio della buona volontà, amico Sancio – rispose don
Chisciotte –, ma voglio che tu sia conscio che tutte queste cose che io faccio non son per scherzo, ma verissime; perché altrimenti sarebbe un contravvenire agli ordini della cavalleria, che ci impongono di non dire mai
una menzogna, sotto pena di recidiva; e fare una cosa invece di un’altra è
lo stesso che mentire. Quindi le mie zuccate dovranno essere vere, concrete e valide, senza avere in sé nulla di sofistico o di fantastico. E sarà
necessario che mi lasci alcune filacce3 per curarmi, poiché la sorte volle
che ci venisse a mancare il balsamo che abbiamo perso.
– […] Prego la signoria vostra di non pensare più a quel beveraggio
maledetto4; che solo a sentirlo nominare mi si rivolta l’anima, nonché lo
stomaco. E la prego inoltre di far conto che siano già trascorsi i tre giorni
che mi ha dato di tempo per vedere le pazzie che fa, perché io faccio
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia

conto d’averle già viste e passate in giudicato5, e ne dirò meraviglie alla
mia signora: perciò scriva la lettera e mi spedisca subito, perché ho un
desiderio grandissimo di tornar presto a togliere la signoria vostra da questo purgatorio in cui la lascio.
– Purgatorio lo chiami, Sancio? – disse don Chisciotte –. Faresti meglio
a chiamarlo inferno, e anche peggio, se c’è nulla che lo sia.
– A quanto ho sentito dire – disse Sancio –, per chi ha inferno, nulla es
retenzio6.
– Non capisco che vuol dire retenzio – disse don Chisciotte.
– Retenzio è – rispose Sancio – che quando uno sta all’inferno non ne
esce e non ne può uscire più. Invece per la signoria vostra è il contrario,
se ho gli sproni per sollecitare Ronzinante. O dovrebbero cadermi le
gambe! E lasci che arrivi io al Toboso, e in presenza della mia signora
Dulcinea, e le dirò tali cose sulle stupidaggini o follie (che è tutt’uno) che
la signoria vostra ha fatto e continua a fare, che la farò diventare più morbida d’un guanto, quand’anche la trovassi più ruvida d’un sughero; e con
la sua dolce e melliflua risposta, io tornerò per l’aria come un mago, e
strapperò la signoria vostra da questo purgatorio, che sembra inferno ma
non lo è, poiché vi è la speranza di uscirne, mentre, come ho detto, non
ce l’hanno di uscire coloro i quali si trovano nell’inferno, né credo che la
signoria vostra può dire il contrario.
– È verissimo – disse il Cavaliere dalla Trista Figura –; ma come fare per
scrivere la lettera?
– E anche l’ordine di versamento asinino7, no? – aggiunse Sancio.
– Ci sarà anche quello – disse don Chisciotte –; e poiché non c’è carta,
sarebbe il caso che scrivessimo, come facevano gli antichi, su foglie d’alberi o su tavolette di cera, ma trovare di queste cose ora non sarà meno
difficile che trovar la carta. Ma, ecco, m’è venuto in mente dov’è che sarà
bene, anzi ottimo, scriverla: sul taccuino d’appunti di Cardenio8; tu avrai
poi cura di farla tradurre su un foglio, in bella calligrafia, nella prima borgata che troverai, in cui vi sia un maestro di scuola di ragazzi; altrimenti
qualsiasi sacrestano te la potrà ricopiare; ma non darla a copiare a nessuno scrivano, perché scrivono tutto attaccato9, in modo che non ci capirebbe nulla neanche Satanasso.
– E con la firma come si fa? – disse Sancio.
– Le lettere di Amadigi10 non erano mai firmate – rispose don Chisciotte.
– Sta bene – rispose Sancio –; ma l’ordine di versamento asinino dev’essere firmato per forza, perché se lo ricopia, diranno che la firma è falsa, e
resto senza ciuchi.
– L’ordine di consegna avrà la firma sullo stesso taccuino, e mia nipote, vedendola, non troverà difficoltà a effettuarla. Per quanto riguarda inve-

I. Ravasini
ce la lettera d’amore, ci metterai per firma: «il vostro fino alla morte,
Cavaliere dalla Trista Figura». E non fa nulla che sia di altra mano, perché,
per quel che posso ricordarmi, Dulcinea non sa né leggere né scrivere, e
in tutta la sua vita non ha mai visto la mia scrittura, né alcuna lettera mia,
perché il mio ed il suo amore son sempre stati platonici, senza mai andar
oltre degli onesti sguardi. E anche questi, così di tanto in tanto, che potrei
veracemente giurare che in dodici anni che son trascorsi dacché l’amo più
della luce di questi occhi, che la terra consumerà, non l’avrò vista in tutto
quattro volte, e di queste quattro può darsi che lei non se ne sia accorta
nemmeno una che la guardavo; tanta è la modestia e la vita ritirata in cui
l’hanno educata suo padre Lorenzo Tappo e sua madre Aldonza Noci.
Oh, oh! – disse Sancio –. La figlia di Lorenzo Tappo è dunque la signora Dulcinea del Toboso, conosciuta sotto altro nome come Aldonza
Lorenzo?
– È proprio lei – disse don Chisciotte –, ed è colei che merita d’esser
signora di tutto l’universo.
– La conosco bene – disse Sancio – e posso dire che scaglia una sbarra
di ferro meglio del più forzuto giovanotto di tutto il paese. Ah, per il
Creatore, se non è una ragazza in gamba, un pezzo di donna ben piantata
che saprebbe cavar dai pasticci qualsiasi cavaliere errante, o in procinto di
errare, che volesse averla per dama. Figlia d’una grandissima, che muscoli
che ci ha, e che voce! Quello che le posso dire è che una volta salì sulla
torre campanaria del paese a chiamare certi suoi garzoni che lavoravano su
un fondo di suo padre, e benché stessero lontani più di mezza lega, la sentirono come se fossero stati ai piedi della torre. Ma quello che ha di buono
è che non è affatto smorfiosa, e ha modi da cittadina: scherza con tutti e di
tutto ride e si beffa. E però dico, signor Cavaliere dalla Trista Figura, che la
signoria vostra non solamen te può e deve far pazzie per lei, ma è più che
giustificato se si dispera e se s’impicca: che non ci sarà nessuno che, sapendolo, non l’approvi, dovesse anche portarselo via il diavolo. Vorrei essere
già in cammino, per rivederla; che è parecchio che non la vedo, forse è
cambiata, perché a star sempre in campagna, al sole e all’aria la faccia delle
donne si rovina. E devo confessarle una cosa, signor don Chisciotte: che
finora sono stato in un grande errore, perché in verità, e in buona fede, ero
convinto che questa signora Dulcinea fosse qualche principessa di cui lei
fosse innamorato, o una persona così elevata da meritare i ricchi doni che
la signoria vostra le ha inviato, come il biscaglino e i galeotti11, e ve ne
saranno stati certamente molti altri, quante saranno state le vittorie che la
signoria vostra ha riportato in tutto il tempo che io non ero ancora suo scudiero. Però, pensandoci bene, che gliene importerà alla signora Aldonza
Lorenzo, volevo dire: alla signora Dulcinea del Toboso, che dinanzi a lei
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia
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vadano a inginocchiarsi i vinti che la signoria vostra le manda e seguiterà a
mandarle? Perché, magari, potrebbe darsi che arrivassero proprio mentre lei
sta cardando il lino o trebbiando sull’aia, ed essi vedendola si vergognassero, o lei si burlasse o si risentisse del dono.
– Te l’ho gia detto molte volte prima di ora, Sancio – disse don
Chisciotte –, che sei un gran chiacchierone e pur essendo vuoto di cervello, spesse volte pretendi di fare il furbo; ma affinché tu veda quanto sei
sciocco, e quanto io invece sia savio, voglio farti sentire un breve aneddoto. Devi sapere che una bella vedova, giovane, libera e ricca, e soprattutto sfrontata, s’innamorò d’un giovane converso12 muscoloso e tarchiato;
lo venne a sapere il priore e un giorno disse alla vedova con tono di fraterna riprensione: «Mi meraviglia molto, signora, e a ragion veduta, che una
donna della sua posizione sociale, bella e ricca come lei, si sia innamorata di un uomo così spregevole, volgare e idiota com’è Tizio, quando in
questo stesso convento c’erano tanti dottori, tanti laureandi e tanti teologi
fra cui lei avrebbe potuto scegliere come se fossero state pere, e dire: “questo lo prendo, quest’altro no”». Ma essa gli rispose con spiritosa sfacciataggine: «la signoria vostra è in errore, ed è molto antiquato se pensa che io
abbia scelto male Tizio, perché a lei pare un idiota; perché per quello che
serve a me, sa tanta e più filosofia che Aristotele». Cosicché, Sancio, per
come l’amo io, Dulcinea del Toboso vale quanto la più alta principessa
della terra. Del resto non tutti i poeti che celebrano dame sotto un nome
che scelgono di testa loro, le hanno effettivamente. Credi tu che le Amarilli,
le Filli, le Silvie, le Diane, le Galatee, le Fillidi e altrettali, di cui i libri, le
romanze, le botteghe dei barbieri, i teatri comici risuonano, siano state
realmente delle dame in carne ed ossa, e di quelli che le celebrarono e le
celebrano? No, di certo; che per lo più se le inventano, per dare un soggetto ai loro versi, o perché li considerino innamorati e quindi per uomini capaci di esserlo. Perciò a me basta pensare e credere che la buona
Aldonza Lorenzo sia bella e sia onesta; e in quanto al lignaggio, poco
importa; perché tanto, non devono assumere informazioni per darle qualche titolo onorifico13, e io per me ritengo che è la più alta principessa del
mondo. Perché devi sapere, Sancio, se non lo sai, che due sole cose, sopra
tutte le altre, spingono ad amare: e son la grande bellezza e la buona reputazione; ed entrambe queste cose si ritrovano in sommo grado in Dulcinea,
perché per bellezza non la raggiunge nessuna; e quanto a buona reputazione, assai poche le possono star vicino. Insomma, io immagino che sia
come dico, senza nulla da aggiungere né da levare, e me la dipingo nella
mente come la desidero, sia per bellezza che per grado, e non le può star
vicina Elena14, né la raggiunge Lucrezia15, né alcun’altra delle donne famose delle preterite16 età, greca, barbara o latina. E dica ciascuno quel che gli
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I. Ravasini
pare; che se per questo gli ignoranti potranno trovar da ridire su di me, il
più severo degli intelletti non saprebbe condannarmi.
– Io dico che ci ha ragione la signoria vostra – rispose Sancio –, e che
io sono un asino. Non so proprio perché vien fatto alla mia lingua di
nominare l’asino, visto che non si deve parlare di corda in casa dell’impiccato. Ma mi dia la lettera e addio: taglio la corda. […]
– Dice così, ascolta – disse don Chisciotte.
LETTERA DI DON CHISCIOTTE A DULCINEA DEL TOBOSO
Sovrana ed alta signora:
Il ferito dalle punte di lancia della lontananza, e il piagato nelle fibre del
cuore, dolcissima Dulcinea del Toboso, ti augura la salute che non ha17. Se
la bellezza tua mi tiene in spregio, se non è a mio favore la tua virtù, se non
è riservato altro che il tuo disdegno alla mia sollecitudine, per paziente che
io sia, mal mi potrò sostenere in quest’ambascia18, che oltre a essere forte, è
così tenace. Dal mio buon scudiero Sancio avrai relazione fedele, o bella
ingrata, o amata nemica mia!, delle condizioni in cui resto per causa tua:
se ti piacesse soccorrermi son tuo; e se no, fa’ quel che meglio ti aggrada,
che ponendo fine alla mia vita io non farò che soddisfare la tua crudeltà e
la mia aspirazione.
Il tuo fino alla morte
CAVALIERE DALLA TRISTA FIGURA.
– Sull’anima di mio padre – disse Sancio ascoltando la lettera –, è la cosa
più egregia che io abbia mai udito. Accidenti come la signoria vostra le
dice lì tutto quello che vuole, e come ci azzecca bene la firma: Cavaliere
dalla Trista Figura. Non c’è che dire, la signoria vostra è proprio il diavolo
in persona, e non c’è cosa di cui non s’intenda.
– Ci vuole di tutto – rispose don Chisciotte –, per la professione che
faccio.
– Allora – disse Sancio –, la signoria vostra aggiunga sull’altra facciata la
cessione dei tre ciuchi e ci metta una firma ben chiara, in modo che vedendola la riconoscano.
– Concesso – disse don Chisciotte. E dopo averla scritta, gliela lesse; e
diceva così:
Per quest’assegno asinino disponete, egregia nipote, che ne siano versati
all’ordine di Sancio Panza, mio scudiero, tre dei cinque che ho lasciati in
casa e che vi sono affidati. Detti tre asini, ordino che siano rilasciati e pagati per altrettanti che ho qui ricevuto in contanti; e che con la presente e con
la quietanza di pagamento saranno scaricati in perfetta regola. Datata nel
cuore della Sierra Morena, addì ventidue di agosto del presente anno.
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia
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– Sta benissimo – disse Sancio –: lo firmi.
– Non c’è bisogno di firmarlo – disse don Chisciotte –: la mia rubrica,
che equivale alla firma, basta non per tre, ma per trecento asini.
– Mi fido della signoria vostra – rispose Sancio –. Ora mi lasci andare a
sellare Ronzinante e si prepari a darmi la sua benedizione; perché voglio
partir subito, senza vedere le insensatezze che la signoria vostra farà; tanto,
io dirò che gliene ho viste far tante, che più non se ne può vedere.
– Per lo meno, io voglio, Sancio, poiché ciò è necessario, voglio, dico,
che tu mi veda nudo, far una o due dozzine di pazzie, che non ci vorrà
neanche mezz’ora a farle, di modo che avendole viste coi tuoi occhi, possa
giurare senza pregiudizio su quelle che tu vorrai aggiungere; e puoi stare
tranquillo che non potrai dirne tante quante io ho intenzione di farne.
– Per l’amor di Dio, signor mio, non voglio vedere nuda la signoria […];
se proprio ci tiene che io le veda fare alcune pazzie, le faccia vestito, e
siano spicciative e limitate allo stretto necessario. Tanto più che per me
non ce n’era proprio bisogno e, come già ho detto, sarebbe stato un
abbreviare il tempo del mio ritorno, che dovrà essere con le notizie che la
signoria vostra desidera e merita. E se no, stia in guardia la signora
Dulcinea; che se non risponde a dovere, faccio voto solenne, so io a chi,
che le caverò una buona risposta dalla pancia a furia di calci e di schiaffi.
Perché, come si può sopportare che un cavaliere errante così famoso come
lei diventi pazzo, di punto in bianco, per una…? Ah, non me lo faccia dire,
la signora!, che se perdo io il ritegno non mi fa niente che ci rimetto, ma
va tutto all’aria! E m’hanno trovato giusto! Non mi conosce! Come una cresima santa mi tratterebbe, se sapesse chi sono!
– Si direbbe, parola mia – disse don Chisciotte –, che tu non sia affatto
più saggio di me.
– Non sono tanto pazzo – rispose Sancio –; ma sto più arrabbiato. […]
E salito su Ronzinante, […] se ne andò, sebbene don Chisciotte gli facesse insistenze perché gli vedesse fare almeno un altro paio di pazzie. Ma
non aveva fatto cento passi, che tornò indietro e disse:
– Trovo, signore, che la signoria vostra diceva bene: che perché io
possa giurare senza carico di coscienza che le ho visto far pazzie, sarà
bene che ne veda almeno una, benché sia già abbastanza grossa quella
che le vedo fare, di restar qui.
– Non te l’avevo detto io? – disse don Chisciotte –. Aspetta, Sancio, che
le farò in un baleno.
E levatisi in fretta i calzoni, restò in camicia e carne nuda e sull’istante
diede due calci all’aria e due capitomboli a testa in giù e i piedi in alto,
scoprendo cose che, per non doverle vedere di nuovo, Sancio voltò le briglie a Ronzinante e si ritenne pago e contento di poter giurare che il suo
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I. Ravasini
padrone era uscito pazzo. E così lo lasceremo andare per la sua strada, fino
al suo ritorno, che sarà fra poco.
(da M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, trad. a cura di V. Bodini, Einaudi,
Torino 1957).
Note
1. rustici dèi: ‘divinità dei campi’.
2. napee e driadi: ninfe, creature femminili del mito greco abitatrici dei boschi.
3. filacce: insieme di fili derivati dalla sfilacciatura di un tessuto logoro.
4. beveraggio maledetto: si riferisce a un balsamo di cui don Chisciotte era entrato in possesso e che aveva poi perduto. L’hidalgo ripone la più assoluta fiducia nelle sue virtù terapeutiche:
non così Sancio che, dopo aver provato la disgustosa pozione, ne ha riportato disastrose conseguenze.
5. passate in giudicato: ‘giudicate in modo definitivo’.
6. nulla es retenzio: Sancio storpia le parole dell’Ufficio dei defunti «Quia in inferno nulla est
redemptio» (‘poiché nell’inferno non vi è alcun riscatto’) che ha sentito senza capire e che ha
memorizzato a modo suo. È uno dei tipici strafalcioni del parlato popolare proprio dello scudiero che provoca la richiesta di spiegazioni da parte di don Chisciotte.
7. ordine di versamento asinino: si riferisce alla cedola di donazione di tre asini che don
Chisciotte ha promesso a Sancio, il quale ha perduto il suo animale.
8. cardenio: è un giovane innamorato, impazzito per un amore infelice, che si aggira disperato fra i monti della Sierra Morena, con gli abiti laceri, vittima di improvvisi attacchi di follia. Don
Chisciotte lo ha conosciuto nei capitoli precedenti, entrando in possesso dei suoi pochi averi; ai
suoi gesti inconsulti e alla sua vita tra le aspre rupi montane si ispira, in parte, la penitenza del
vecchio cavaliere.
9. tutto attaccato: don Chisciotte fa riferimento alla scrittura cancelleresca usata dagli scrivani
nei processi o negli atti notarili, particolarmente difficile da decifrare.
10. Amadigi: Amadigi di Gaula, eroe del più famoso libro di cavalleria spagnolo, oggetto di
ripetute rielaborazioni nel corso del XIV e XV secolo e poi pubblicato nella versione definitiva di
García Rodríguez de Montalvo agli inizi del Cinquecento.
11. ricchi doni … galeotti: allusioni a precedenti avventure: dopo aver battuto a duello uno
scudiero biscaglino, cioè originario della Biscaglia (oggi nei Paesi Baschi), e dopo aver liberato
dei pericolosi galeotti dai ceppi della giustizia, don Chisciotte aveva ingiunto all’uno e agli altri di
recarsi al cospetto di Dulcinea e rendere omaggio alla sua bellezza, a imitazione di quanto avveniva nei libri di cavalleria.
12. converso: frate laico, quindi non sacerdote, addetto ai lavori manuali.
13. e in quanto al lignaggio … onorifico: per entrare negli ordini militari e religiosi, o per avere
un titolo onorifico, era necessario documentare la propria limpieza de sangre con opportune
indagini genealogiche.
14. Elena: Elena di Troia, emblema della bellezza.
15. Lucrezia: matrona romana che, violentata da Tarquinio il Superbo, si diede la morte per
salvare il proprio onore; è simbolo di castità e di virtù.
16. preterite: ‘passate’.
17. il ferito … che non ha: saluto topico nell’esordio delle lettere di amanti infelici, che si trova
già in Ovidio, ripetuto infinite volte nella lirica cortese e nel romanzo sentimentale.
18. ambascia: ‘grave difficoltà’.
INES RAVASINI
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia
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FRANCISCO RICO, Don Chisciotte della Mancia, ovvero la storia del romanzo
in Il romanzo, vol. IV Lezioni, a c. di F. Moretti, P. V. Mengaldo, E. Franco, Einaudi, Torino 2003
[…] Il contrasto tra il mondo del romance di cavalleria e quello della finzione realista si manifesta in Cervantes sin dall’appellativo dell’eroe. Il nome «Quijote» è formato sul modello del celebre «Lanzarote» della materia di Bretagna («Lancillotto, Tristano
e gli altri erranti… »), ma in spagnolo il suffisso -ote si applica di solito a termini ridicoli o giocosi, e combinandosi con «Quijada» o «Quijano», cognomi piuttosto frequenti,
produce un ibrido che equivale a una dichiarazione di principi: «Don Quijote» pone
terra terra le chimere cavalleresche (il termine quijote indica anche un pezzo minore
dell’armatura), con una comica distorsione dell’ideale del romance – l’immagine grottesca di un paladino en pantoufles. D’altra parte, Alonso Quijano, modesto hidalgo di
paese, appartiene alla piccolissima nobiltà che non ha diritto all’uso del don: appropriandosene, si assimila ai cavalieri della finzione e allo stesso tempo si promuove alla
classe dei caballeros ricchi, un grado sopra il suo nella scala sociale. Quanto poi all’arida e solitaria Mancia, dimenticata tra la nobile Castiglia e la vivacissima Andalusia,
essa promette di essere la più inadeguata delle cornici per «l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese».
La tensione tra i due poli del romance e della realtà quotidiana costituisce così la
sostanza stessa del Chisciotte; e se si ritiene che «la storia del romanzo […] poggia […]
sul dialogo secolare fra la rappresentazione idealizzata dell’esistenza umana e la difficoltà di misurarsi con questo ideale» – allora si capisce come il romanzo di Cervantes
anticipi e compendi tutta la sua traiettoria storica. Il protagonista, la trama, lo stile, la
«tesi», il tono, sono tutte cristallizzazioni, a diversi livelli, della proposizione di base. È
ovvio, ad esempio, che sotto la maschera di «don Chisciotte» vi è sempre «Alonso
Quijano», e che il lettore gode in sol tempo della pazzia dell’uno, delle buone ragioni
dell’altro e del paradosso che essi convivono nello stesso individuo. Allo stesso modo,
la trama è fatta di episodi dove le visioni cavalleresche nate dalla fantasia dell’eroe (o
promosse da terzi) si scontrano con gli ostacoli frapposti dalla vita reale; e dove l’altisonanza libresca convive con la naturalezza del linguaggio comune, tanto da parte del
narratore (o dei presunti narratori) quanto dei personaggi, in una molteplice distanza
ironica.
Non è necessario insistere su cose tanto note, ma val la pena di ricordare che il fine
dichiarato del Chisciotte, espresso nel prologo, è denunciare le «assurde favole» dei «libri
di cavalleria» mediante una scrittura che, pur non sottoposta all’«esattezza della verità»,
mira tuttavia al «gusto di rappresentare le cose [imitación]». Non ci troviamo dunque di
fronte alla “storia” aristotelicamente intesa, né alla “poesia” del classicismo, ma piuttosto di fronte a un compromesso tra l’una e l’altra: nel mantenere l’aspirazione «a lo
general» che è tipica della poesia, la «escritura» promessa nel prologo si compiace a «lo
particular» proprio della storia.
Si tratta qui della versione cervantina di un concetto – la verosimiglianza – che la
teoria letteraria del Cinquecento aveva via via precisato, nell’intento di sposare l’ortodossia di Aristotele con l’Orlando furioso e la sua discendenza. La questione era stata
dibattuta soprattutto in rapporto all’epica (antica e moderna), e alla possibilità di con-
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I. Ravasini
ciliare la «piccola» e la «grande» storia, i fatti pubblici, risaputi, e quelli privati, inaccessibili. Per Cervantes la verosimiglianza consiste da un lato in una certa congruenza
interna della favola, che detta passo dopo passo le condizioni che la rendono ammissibile per il lettore, e dall’altro nell’attenzione alla trama normale dell’esistenza, agli elementi minuscoli che accompagnano anche gli eventi più straordinari.
[…]
L’esigenza di rispettare la verità «minore» della finzione, le «parole scritte in piccolo»
del vivere, risponde in Cervantes ad alcune premesse generali della teoria letteraria, ma
nel Chisciotte si appoggia ancora più decisamente sull’intenzione parodistica e sulla
giocosa pretesa di storicità. Basta ricordare la «celata a incastro» (l’elmo che doveva
incastrarsi nell’armatura) che il protagonista costruisce faticosamente … e si disfa al
primo colpo di spada […] È così che i sogni cavallereschi di don Chisciotte s’infrangono di continuo contro le resistenze materiali della vita reale, che i lettori ben conoscono. L’effetto comico che ne consegue ha, per così dire, un «rovescio» negativo (la critica dell’inverosimiglianza del romance), e un «dritto» positivo nell’interesse alle circostanze quotidiane, che assumono rilievo e centralità sfuggendo all’oblio cui le aveva
consegnate la dottrina tradizionale. L’inserimento dei personaggi nell’ambito quotidiano dell’esistenza funziona a sua volta come garanzia della veridicità del racconto: i dettagli di spazio, tempo, comportamento, l’esattezza circa le umili cose concrete contribuiscono tutte a dimostrare che anche la trama principale è fededegna. Questa minuziosità è in buona misura burlesca e spesso diventa a sua volta oggetto di parodia; ma
l’esagerazione serve a rafforzare la credibilità dei particolari.
Faust
di Johann Wolfgang Goethe
Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) ebbe un’enorme influenza sulla
cultura europea a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, ma la sua figura
non può essere circoscritta a nessun momento o corrente culturale in particolare, sia perché lo scrittore visse molto a lungo, sperimentando profondi cambiamenti politico-sociali e culturali, sia perché le sue straordinarie
caratteristiche di vitalità e di creatività ne fecero l’interprete e il propagatore di diverse tendenze letterarie e di gusto.
Nel 1770 a Strasburgo, dove studia giurisprudenza, Goethe conosce il
geniale critico letterario e filosofo della storia Johann Gottfried Herder
(1744-1803), di cui diventa maestro e amico. Da questo incontro, dalla scoperta dell’architettura gotica e della poesia di Shakespeare (argomenti a cui
Goethe dedica dei saggi) e di una nuova sensibilità rispetto alla natura,
nasce il movimento dello Sturm und Drang, di cui Herder è uno dei massimi teorici e Goethe uno dei principali esponenti. Tra il 1770 e il 1775 scrive liriche (Inni), drammi nei quali si rappresenta in modo nuovo l’energia
dell’individuo nel rapporto con la natura (Prometeo), un romanzo che
narra le passioni amorose (I dolori del giovane Werther, 1774) e la prima
redazione della tragedia Faust (1808).
Negli anni in cui è precettore del giovane duca di Weimar, dal 1776 al
1786, lo scrittore sperimenta la responsabilità politica e s’interessa di scienza naturale, uscendo dalla posizione del giovane ribelle per misurarsi con
la dimensione adulta e la delusione amorosa. Parte poi per un lungo viaggio in Italia da cui torna profondamente mutato. Al ritorno a Weimar nel
1788, infatti, si trova a disagio a corte, viaggia molto, scrive satira politica
contro la Rivoluzione francese e si lega in un profondo rapporto con
Friedrich Schiller.
Il rapporto intellettuale tra i due scrittori è fecondo per entrambi e pone
le basi di una nuova concezione della cultura tedesca, fondata su un’idea
altissima dell’arte come guida a un’armonia umana superiore. Sostanziata
dalla passione storica e dalla filosofia di Kant, Fichte e Schelling, l’arte
diviene così educazione a una politica basata sulla ragione. In tale stimo-
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M. S. Sapegno
lante sodalizio intellettuale Goethe scrive su riviste, riprende e completa
l’opera giovanile Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (1795-1796)
e torna alla poesia.
Negli ultimi decenni della sua vita l’autorità di Goethe è ormai indiscussa, ma la sua posizione nella cultura tedesca risulta isolata. Continua a
lavorare tutta la vita al Faust e alla propria autobiografia (Poesia e verità,
1809-1814), pubblica Le affinità elettive (1809) e gli Anni di vagabondaggio di Wilhelm Meister (1819), oltre a molte composizioni liriche. I due ultimi romanzi, tuttavia, non riscuotono successo di pubblico; in particolare,
a sentirli estranei sono i giovani romantici che avevano tanto apprezzato il
Werther e che ora, nelle nuove vicende dell’eroe borghese che finisce per
integrarsi nella società, vedono tradito l’ideale del «forte sentire».
Faust
L’opera, considerata il più importante dei drammi non solo di Goethe
ma anche della letteratura moderna dopo Shakespeare, ha occupato, a più
riprese, tutta la vita dello scrittore: cominciata infatti nel 1773, e conclusa
soltanto l’anno prima della morte (1831), è stata pubblicata in due parti,
una nel 1808 e l’altra postuma. La centralità del Faust nella vita e nella fama
di Goethe è dovuta all’importanza emblematica del tema centrale: l’insofferenza dell’uomo e dell’intellettuale per i limiti della conoscenza, la sua
sete inestinguibile del nuovo, il suo rifiuto ad accontentarsi del già noto.
Rielaborando un’antica leggenda popolare, ma anche testi “colti” a lui
più vicini, come il dramma La tragica storia del Dottor Faustus (1590) di
Marlowe e soprattutto quello di Lessing (Il dottor Faust, 1759 ca.), Goethe
rappresenta il patto stretto fra l’intellettuale Faust e il demonio, Mefistofele:
se questi sarà in grado di offrirgli qualcosa che possa affascinarlo tanto da
spingerlo a voler fermare il tempo (dicendo all’attimo: «Fermati, sei bello!»),
la sua anima gli apparterrà. Simbolicamente Faust rappresenta la spinta
titanica che vuole spostare i limiti sempre oltre e che alcuni critici letterari
hanno letto come sete illimitata di potere, ma anche come spinta della borghesia nella sua fase imperialistica: “faustismo” sta perciò a significare
anche indifferenza al piacere, incapacità alla relazione umana, sete di
danaro o potere fine a se stesso.
L’amore per Margherita implica inoltre il contrasto tra la semplicità del
mondo della giovane e dei suoi sentimenti da un lato, e dall’altro la superiorità intellettuale e sociale di Faust, che esprime nostalgia e un misto di
attrazione/repulsione per i valori che la fanciulla rappresenta. Nonostante
la genuinità del suo sentimento, Faust non può accettarlo: il suo atteggiamento di sfida assoluta non può che distruggere e il figlio nato da quell’a-
Johann Wolfgang Goethe, Faust

more viene infatti ucciso. Si crea così una contraddizione radicale tra il
mondo degli affetti e quello della vita intellettuale.
La tragedia, nella sua difficoltà e complessità, rende bene la contraddittoria ricchezza dell’universo del suo autore: l’uomo nella sua grandezza è
al centro di tutto, con la sua apertura a ogni tipo di esperienza possibile,
intellettuale ed emotiva. L’arte, massimo risultato dello spirito borghese,
può e deve rappresentare ogni aspetto della vita umana e renderlo perciò
conoscibile, con tutti i suoi limiti.
Tale carattere “enciclopedico”, porta a una struttura del testo non del
tutto risolta. In particolare nella seconda parte del dramma i grandi temi
stanno uno accanto all’altro. Alcuni vengono solo sfiorati e saranno ripresi più avanti da altri autori: la ricchezza che porta alla disumanità, la scienza che vuole creare la vita, la conquista di nuovi territori e il superuomo.
Anche la scena finale chiude il dramma lasciando irrisolta l’ambiguità
profonda delle ragioni della salvezza di Faust, dopo la morte: è l’amore di
Margherita che lo ha salvato o è Faust stesso che alla fine ha vinto la sua
scommessa senza mai cedere all’appagamento?
L’insoddisfazione di Faust
Parte I, vv. 482-585
È l’inizio della prima parte del dramma. Faust è nel suo studio, insoddisfatto di ciò
che sa: tutto gli sembra inutile e nulla gli dà più piacere. La ricerca di qualcosa di più
profondo lo porta a consultare i suoi libri e resta così affascinato dai simboli del
Macrocosmo e poi dello Spirito della Terra, che finisce per invocare.
Nel dialogo tra Faust e lo Spirito è sottolineata soprattutto la contraddittorietà di
Faust, che desidera misurarsi con l’essere soprannaturale che gli sta dinnanzi e si sente
all’altezza di farlo, ma allo stesso tempo è frenato da timori e paure; lo Spirito avverte
questo contrasto, e lo rimarca con espressioni ironiche.
L’intervento di Wagner, il servo di Faust, fa da contrappunto alla scena precedente,
introducendo il punto di vista borghese, con il suo pragmatismo. Wagner, infatti, rispetto a Faust e alla sua ansia di elevatezza, rappresenta l’altra faccia dell’umano, che non
ha nulla in comune con lo Spirito: l’occhio pratico e borghese sul mondo, di cui Goethe
riconosce la legittimità, ma a cui si sente superiore. Il servo utilizza dunque argomenti
dotati di una loro logica e di una loro coerenza, criticando, in primo luogo, la tipica
separatezza dell’intellettuale rispetto al mondo, che gli impedisce di intervenire attivamente nella realtà e di modificarla. A Faust, che sostiene la necessità di scavare nella
propria interiorità per trovare le parole giuste che hanno il potere di far presa sugli
uomini, Wagner ribatte con due topoi intellettuali importanti. Cita il detto oraziano
«l’arte è lunga, la vita breve», ribadendo, in opposizione alla prospettiva spirituale di
Faust, l’importanza degli aspetti pratici dell’arte; poi si riferisce allo «spirito dei tempi»,
tipica formula dello storicismo tedesco, esprimendo l’ottimistica fiducia verso la moder-

M. S. Sapegno
nità e il progresso, che poggiano le loro basi sulla saggezza degli antichi. Faust gli oppone invece l’impossibilità di conoscere davvero il passato, mettendo così in discussione
anche le acquisizioni del presente, che su quel passato si fondano.
Faust prende il libro e con accento di mistero pronuncia il segno dello Spirito. Guizza
una fiamma (rossastra), nella fiamma appare lo Spirito
LO SPIRITO Chi mi chiama?
FAUST (Volgendosi) Viso tremendo!
LO SPIRITO Era potente il tuo scongiuro.
A lungo la mia sfera
tu hai aspirata.
E ora…
FAUST Ah, e non reggo a guardarti!
LO SPIRITO Tu invochi, ansante, di vedermi,
di udire la mia voce, di guardare il mio volto.
Mi inclina a te la preghiera potente
della tua anima: eccomi! Che spavento pietoso,
superuomo, ti stringe? Dov’è il grido dell’anima?
Dov’è quel cuore che evocava un mondo in sé
e lo portava e lo reggeva? Che in un tremito di gioia
cresceva ad eguagliare noi, gli Spiriti?
Dove sei, Faust? E mi aveva chiamato, la tua voce,
e con tutte le tue forze t’eri avventato a me.
Sei tu che al tocco del mio alito
tremi nel fondo del tuo essere,
verme spaurito che si torce?
FAUST Devo cederti, spettro di fiamma?
Sono io, sono Faust, pari a te!
LO SPIRITO Nelle ondate della vita, nel tumulto dell’azione,
salgo, discendo,
vado, ritorno.
Nascita e tomba.
Un mare eterno.
Una mobile trama.
Una vita rovente.
Così al telaio sibilante del tempo
lavoro al Divino la veste vivente.
FAUST Tu che scorri il mondo grande,
operoso Spirito, quanto a te mi sento simile!
LO SPIRITO Allo spirito somigli che tu stesso concepisci:
non a me!
Spare
FAUST (disfatto) Non a te?
Johann Wolfgang Goethe, Faust
A chi, allora?
Io, immagine alla Divinità!
E neanche a te?
Si sente bussare
Ah, strazio! So che è. È il mio famulus1.
Finita, la mia occasione suprema!
Che tanta folla di visioni abbia a guastarla
quell’arido noioso!
Wagner2 in veste da camera e berretta da notte, con una lucerna in mano. Faust si
volta, seccato.
WAGNER Chiedo scusa! La sentivo declamare.
Una tragedia greca, no?
È un’arte che un poco vorrei praticare,
perché, ai giorni nostri, è utilissima.
Ho sentito spessissimo dire
che un attore potrebbe insegnare anche a un prete.
FAUST Già. Se il prete è un attore;
cosa che a volte può succedere.
WAGNER Ah, se uno si confina nel suo studio
e vede il mondo solamente il dì di festa,
solo col cannocchiale, appena da lontano,
come farà a guidare e a persuaderlo, il mondo?
FAUST Chi non lo sente non ci arriva,
se non gli viene su dall’intimo
e con una forza di istinto sicuro
non doma le menti in ascolto.
O allora, restate seduti! Colla e forbici,
fate un pastone3 dei resti degli altri;
e soffiate sul vostro mucchietto di cenere
che se ne levi qualche fiamma miserevole.
Gran meraviglia per scimmie e bambini,
se questo può tentarvi. Mai un’anima
l’avvincerete4 a un’altra se dall’anima
non vi verranno le parole.
WAGNER Però è nella dizione, il successo di chi parla.
So bene anch’io di stare ancora molto indietro.
FAUST Cerchi vossignoria un guadagno onesto,
non mi faccia il buffone che scuote i suoi sonagli!
Intelligenza e retto sentire
con poca arte si fanno valere da sé.
E quando avete qualcosa di serio da dire
c’è bisogno di star dietro alle parole?


M. S. Sapegno
Già, quei vostri discorsi così luccicanti
dove all’umano genere volete darla a intendere
sono una noia come il vento d’autunno che seguita
a parlare piano tra le foglie secche.
WAGNER Mio Dio, è lunga l’arte
ed è breve la vita.
Sento sovente, nelle mie ricerche,
che testa e cuore mi si turbano.
Com’è arduo acquisire
i mezzi con cui si risale alle fonti!
E prima che sia a metà del cammino
un pover’uomo può anche morire.
FAUST La pergamena! È questa la sacra fonte dove
un sorso basta per sempre alla sete?
Non ti disseterai se non di quello
che ti scorre dall’anima.
WAGNER Chiedo scusa! Ma è un piacere grande
situarsi nello spirito dei tempi, vedere
quello che un qualche savio pensò prima di noi
e a quanta altezza si sia giunti in seguito.
FAUST Certo! All’altezza delle stelle!
Amico mio, le epoche trascorse
per noi sono un libro serrato con sette suggelli5.
Quel che chiamate spirito dei tempi
è in sostanza lo spirito di quei certi signori
in cui si rispecchiano i tempi.
E poi è spesso, in verità, una scena trista,
da scappar via da voi alla prima occhiata:
un bidone per rifiuti e una stanza di sbratto6
o al più un di quei drammi politico-sociali
zeppi di massime morali, molto adatti
all’eloquenza delle marionette.
(da J. W. Goethe, Faust, trad. di Franco Fortini, Mondadori, Milano 1970).
Note
1. famulus: ‘servitore’ (in latino).
2. Wagner: è il servo di Faust.
3. pastone: ‘miscuglio’.
4. avvincerete: ‘attrarrete’.
5. serrato … suggelli: ‘chiuso con sette sigilli’; il passato è cioè impenetrabile, inconoscibile.
6. stanza di sbratto: stanza nella quale si ammassano gli oggetti ingombranti o di cui ci si
serve di rado.
Johann Wolfgang Goethe, Faust

Il patto col diavolo
Nell’incontro con Mefistofele, Faust si rivela in tutte le sue speranze deluse e nelle sue
frustrazioni fino ad una disperazione assoluta, che è insieme quella di un vecchio scienziato di fronte all’«impossibilità di creare» ma rappresenta anche quella possibile di ogni
essere umano. Il dottor Faust, l’intellettuale rispettato da tutti, arriva a maledire i sentimenti e le virtù più riconosciute e più sacre come la grazia, la speranza, la fede e la
pazienza. Mefistofele, che rappresenta di fatto l’alter ego di Faust, chi in parte Faust
avrebbe voluto essere, si insinua nella crisi con abilità. Fa piazza pulita delle esitazioni, espone ed esalta l’altra faccia di Faust, la rivela come possibile. Attraverso il coro
degli spiriti arriva a rivelare a Faust la sua volontà di potenza, stimolando il delirio di
onnipotenza celato in ogni uomo (e nello stesso autore). Alle spalle di Mefistofele c’è il
movimento romantico tedesco, la forza della nuova borghesia, la volontà di abbattere
tabù e steccati della società prerivoluzionaria. Il nuovo Io europeo si pone come svincolato da ogni precedente legame. Faust è ormai convinto: è il mondo terreno che vuole
possedere, è solo in questo mondo che l’essere umano può misurare se stesso. Il resto non
conta: è nato un Io pienamente laico, pur se, non a caso, Goethe lo colloca in un
ambiente medievaleggiante, popolato di spiriti e riti magici. Ma Faust è uno scienziato
ed è prudente, non è un uomo come tutti gli altri: in quanto intellettuale rappresenta
tutti i desideri di tutta l’umanità, ma anche la sua scaltrezza mondana. Sa che il diavolo non fa nulla per nulla. Pone allora la condizione che lo salverà. Dopo aver dichiarato tutti i desideri e i piaceri che vuole provare, dopo aver accettato di sottoscrivere un
patto col diavolo, si riserva una condizione che Mefistofele accetta e Faust sottoscrive.
Faust passerà attraverso tutti i tempi e gli spazi, attraverso nefandezze e dolori, ma
quando sarà perduto e Mefistofele verrà a raccogliere il frutto del patto, forse proprio la
volontà d’infinito dichiarata nella riserva accettata da Mefistofele impedirà la dannazione: Goethe nella sua maturità riconoscerà a quello che sarà poi definito lo «spirito
faustiano», la sua qualità organicamente salvifica e redentrice, umana. È definitivamente nato un nuovo mito dell’Occidente.
Studio
FAUST, MEFISTOFELE
FAUST Bussano? Avanti! Chi mi affligge di nuovo?
MEFISTOFELE Sono io.
FAUST Avanti!
MEFISTOFELE Devi dirlo tre volte.
FAUST Avanti, dunque!
MEFISTOFELE Così mi piaci.
Noi due, mi auguro, ci accorderemo!
Perché, a scacciarti le malinconie,
eccomi qua nei panni di nobile cadetto:
abito rosso, ricami d’oro,
corta mantella di seta dura,
penna di gallo sul cappello,
lungo fioretto acuminato.

M. S. Sapegno
E ti consiglio, senza indugio:
indossa subito lo stesso abito,
così potrai sperimentare
leggero e libero cos’è la vita.
FAUST In ogni abito sentirò il tormento
di questa angusta vita terrestre.
Io sono troppo vecchio per giocare,
troppo giovane per non desiderare.
Il mondo che cosa mi può offrire?
Rinunciare tu devi! rinunciare!
Questo è l’eterno ritornello
che risuona all’orecchio di ciascuno,
che ogni ora per tutta la vita
ci ricanta con voce roca.
Al mattino mi sveglio con orrore,
vorrei piangere lacrime amare
vedendo il giorno che nel suo cammino
non un mio voto appagherà, non uno,
che svuoterà con critiche ostinate
anche il presentimento del piacere
e con le mille inezie della vita
vieterà di creare al mio animo inquieto.
Quando cala la notte io debbo
coricarmi angosciato sul giaciglio;
neppure su di esso trovo pace,
spaventato da incubi crudeli.
Il dio che mi abita nel petto
può scuotere il fondo del mio animo;
egli regna su tutte le mie forze,
e non può muover nulla al di fuori di me.
Io sento l’esistenza come un peso,
desidero la morte, odio la vita.
MEFISTOFELE E tuttavia la morte non è mai benvenuta.
FAUST Felice l’uomo al quale, fulgido di vittoria,
la morte cinge il capo di allori insanguinati,
felice chi la incontra dopo danze sfrenate,
allacciato da braccia di fanciulla!
Davanti alla potenza di quel sublime spirito
fossi caduto in estasi e spirato!
MEFISTOFELE E tuttavia qualcuno, quella notte,
non ha bevuto una bevanda scura1.
FAUST Spiare, a quanto sembra, ti diverte.
MEFISTOFELE Onnisciente non sono; però so molte cose.
FAUST Se mi strappò a quel groviglio orrendo
allora un suono dolce e familiare
Johann Wolfgang Goethe, Faust
e illuse con l’eco di giorni felici
un resto di infantili sentimenti,
io maledico ogni lusinga,
ogni miraggio che avviluppa l’anima
e con forze che accecano e seducono
la esilia in questa valle di tristezza!
Maledetto sia l’alto intendimento
con cui lo spirito s’intrappola da sé!
Maledetto l’abbaglio dei fenomeni
che si rovescia contro i nostri sensi!
Maledetta l’ipocrisia dei sogni,
l’inganno della gloria e di un nome che duri!
Maledetto il possesso che ci adula
come donna o figlio, come servo o aratro!
Maledetto Mammone, sia quando ci sprona
con i tesori a osare imprese audaci,
sia quando ci accomoda i cuscini
per invitarci a godimenti oziosi!
Maledetto sia il succo balsamico dell’uva!
Maledetta la grazia suprema dell’amore!
Maledetta speranza! Maledetta la fede!
E maledetta soprattutto la pazienza!
CORO DI SPIRITI invisibili Guai! Guai!
Tu l’hai distrutto
il mondo bello
con pugno poderoso;
precipita, si sfalda!
Un semidio l’ha frantumato!
Noi portiamo
le sue macerie al Nulla,
e piangiamo
la bellezza perduta.
Poderoso
tra i figli della terra,
ricostruiscilo
più splendido,
ricostruiscilo dentro il tuo petto!
Il corso di una vita nuova
comincia
con animo sereno,
e nuovi canti
risuoneranno!
MEFISTOFELE Sono i più piccoli
del mio corteggio.
Ascolta: come vecchi saggi


M. S. Sapegno
consigliano il piacere dell’agire!
Nel vasto mondo,
via della solitudine
dove ristagnano sensi ed umori,
ti vogliono attirare.
Smettila di giocare col tuo cruccio,
che come un avvoltoio ti divora la vita;
persino la peggiore compagnia
ti fa sentire uomo fra gli uomini.
E questo non vuol dire
spingerti tra la feccia.
Non sono uno dei grandi;
tuttavia, se vuoi unirti a me
per muovere i tuoi passi nella vita,
acconsento volentieri
a essere tuo, qui all’istante.
Sarò il tuo compagno
e, se ti vado a genio,
sarò il tuo servo, il tuo schiavo!
FAUST E cosa dovrò fare per te in cambio?
MEFISTOFELE Per questo hai davanti un lungo tempo.
FAUST No, no, il diavolo è un egoista,
è raro che si renda utile agli altri
per amore di Dio.
La tua condizione dilla chiara;
un servo simile è un pericolo per la casa.
MEFISTOFELE Io m’impegno a servirti qui,
pronto al tuo cenno, senza soste e indugi;
di là poi, quando ci ritroveremo,
dovrai fare per me la stessa cosa.
FAUST Dell’aldilà poco mi può importare;
manda prima in frantumi questo mondo,
e poi che l’altro mondo venga pure.
Da questa terra sgorgano le mie gioie,
questo sole rischiara le mie pene;
che io me ne separi prima, e poi
avvenga quel che vuole e quel che può.
Non voglio più sentirne parola né sapere
se nel mondo a venire si odia e si ama ancora,
né se anche in quelle sfere
ci saranno un alto e un basso.
MEFISTOFELE Se la pensi così puoi arrischiarti.
Impegnati, e nei giorni del presente
assisterai con gioia alle mie arti;
quel che io ti darò nessuno l’ha mai visto.
Johann Wolfgang Goethe, Faust

FAUST E che vuoi dare tu, povero diavolo?
Lo spirito dell’uomo nel suo tendere all’alto
i pari tuoi lo hanno mai compreso?
Possiedi forse un cibo che non sazi,
un oro rosso che non stia mai fermo,
ma come argento vivo ti scorra via di mano,
un gioco al quale non si vinca mai,
una ragazza che stretta al mio petto
con gli occhi già si vincoli ad un altro,
e il bel trastullo degli dèi, l’onore,
che si dilegua come una meteora?
Mostrami il frutto sfatto prima di essere colto,
e alberi che ogni giorno rinverdiscano!
MEFISTOFELE È un compito che non mi fa paura;
posso servirteli tesori come questi.
Ma poi, mio buon amico, arriva anche il momento
di assaporare in pace dei buoni bocconcini.
FAUST Se mai mi adagerò placato su un pigro letto,
venga immediatamente la mia ora!
Se con lusinghe potrai tanto ingannarmi
che io mi compiaccia di me stesso,
se con il godimento ti riuscirà d’illudermi,
quello sia per me l’ultimo giorno!
Questa scommessa t’offro!
MEFISTOFELE Accetto!
FAUST Qua la mano!
Se dirò all’attimo:
Sei così bello, fermati!
allora tu potrai mettermi in ceppi,
allora sarò contento di morire!
Allora suoni la campana a morto,
allora non dovrai servire più;
l’orologio si fermi, la lancetta cada,
e sia passato il tempo che mi è dato!
MEFISTOFELE Pensaci bene, non lo scorderemo.
(J. W. Goethe, Faust-Urfaust. Testo originale a fronte, a cura di A. Casalegno,
Garzanti, Milano 1990).
Note
1. non ha … bevanda scura: allude al mancato suicidio di Faust.
MARIA SERENA SAPEGNO

M. S. Sapegno
GEORGES THINÈS, Lo spirito faustiano
in Faust ou la mélancolie du savoir, textes réunis par J.-Y. Masson, Editions Desjonquères, Paris 2003
Se è piuttosto scontato parlare di patto faustiano, di dramma faustiano o di mito faustiano, lo spirito faustiano è, invece, un concetto dal significato più vasto, o almeno più
ambizioso, per il suo legame con la realtà storica e con diverse ideologie. Inoltre, se la
storia del dottor Faust ha avuto una fortuna letteraria considerevole, e lo attestano i
lavori di Charles Dédéyan, di Geneviève Bianquis e di André Dabezies -per non citarne che alcuni-, ci si può domandare in che misura l’avventura del dottor Faust e il mito
che egli ha creato possono essere considerati l’avvio di una autentica riflessione filosofica. Ora, se si può parlare, in una qualche forma, di spirito faustiano, si deve necessariamente far riferimento a un’interrogazione filosofica, più precisamente a un’inquietudine di ordine metafisico e, al limite, a un movimento filosofico particolare. Ma
forse lo spirito faustiano è destinato a confondersi con un’interrogazione metafisica più
ampia, pertinente alla nascita e allo sviluppo della modernità. E se di questo si tratta,
una tale domanda non può non subire molteplici influenze, non può che essere segnata dalle contingenze e dalle incertezze della Storia, dalle credenze e dalle ideologie,
cioè dalle variabili vicende delle politiche e delle crisi che esse stesse generano nel
momento in cui pretendono di risolverle. Tante ragioni ci spingono a chiederci se, parlando dello spirito faustiano, non cadiamo in una semplificazione concettuale incompatibile con la complessità del dramma umano che esso ci fa vedere, e se noi non finiamo per assegnare a tale concetto un’invaribilità, una sorta di eternità sovra-storica, la
quale, sottomessa all’esame critico, si rivela illusoria e non giustifica per nulla il fatto
che ne facciamo un tema filosofico e che noi vediamo in essa il punto di partenza di
una certa filosofia della Storia. […] Lo spirito faustiano è animato da un movimento di
creazione nel quale si fondono diverse forme di libertà. Esso si realizza a un tempo nel
barocco e ispira il fantastico meditativo e imprevedibile dei Romantici tedeschi. […]
Per tornare al personaggio di Faust, la sua storia offre oscillazioni tra aspirazione
filosofica e desideri mutevoli e brutali che rasentano il grottesco […] se il mito faustiano è ciò che mette in mostra un destino, e precisamente la celebrazione delle forze
della coscienza autonoma, esso è ugualmente il mito del rischio e della conoscenza.
Madame Bovary
di Gustave Flaubert
Con i grandi romanzi di Gustave Flaubert (1821-1880) si giunge, nella
narrativa europea, al vertice del realismo; e mentre da un lato si apre la
strada al naturalismo, dall’altro si lancia un ponte verso il romanzo novecentesco del negativo, della malattia, del disagio esistenziale. Per Flaubert
i principi di un’arte che deve inchinarsi alla rappresentazione del «vero»,
secondo i dettami del Romanticismo, vanno portati alle estreme conseguenze: l’arte deve essere autonoma dalla morale, e quindi deve anche
liberarsi dall’eccessiva presenza delle opinioni dell’artista, per far spazio
alla vita per quella che è. Siamo molto distanti dai «buoni sentimenti» attraverso i quali si era voluto educare il lettore: il principio morale che deve
guidare l’autore è la fedeltà più scrupolosa al vero.
Dopo un’adolescenza e una giovinezza dedicate all’appassionato tentativo di trovare una propria scrittura, Flaubert intraprende, a trent’anni, il
lungo e impegnativo lavoro di scrittura del suo grande romanzo, Madame
Bovary (pubblicato in volume nel 1859), e lo fa a partire da un fatto di cronaca. Sceglie come protagonista non un eroe positivo in cui ci si possa
identificare, ma al contrario un personaggio talmente trasgressivo da provocare uno scandalo e perfino un’incriminazione e un processo per immoralità: un’adultera. C’erano già stati protagonisti di romanzi dalla dubbia
integrità morale, ma la presentazione dell’eroina flaubertiana fa davvero
scandalo: Flaubert è infatti convinto che la presenza del punto di vista dell’autore nell’opera, il suo ruolo di guida del lettore verso un’interpretazione, attraverso giudizi più o meno espliciti, vada ridotta drasticamente; l’io
dell’autore, il suo bisogno di riscattare le vicende narrate attraverso un’indicazione di giudizio morale, deve essere sacrificato alla rappresentazione
quanto più possibile oggettiva del vero.
Per conseguire il suo scopo, lo scrittore deve trovare una forma letteraria che consenta il massimo di rigore e di coerenza di tutte le parti. Lo fa
riducendo l’uso della voce del narratore e mettendo in primo piano le sensazioni e le esperienze dei personaggi fino a culminare, nei punti più significativi del romanzo, nell’uso del «discorso indiretto libero», una tecnica nar-

M. S. Sapegno
rativa che consente di riferire in maniera indiretta (senza l’uso cioè delle
virgolette e della prima persona) i pensieri del personaggio. Si tratta di un
incontro tra narrazione e rappresentazione, tra autore e personaggio, tra
discorso diretto e indiretto, nel quale è difficile stabilire se a parlare sia il
narratore, il personaggio che agisce nel romanzo, o la voce del senso
comune.
La teoria dell’«impersonalità» dell’opera d’arte, la mortificazione a cui
l’autore si sottopone davanti alla propria opera, discendono naturalmente
anche dal venir meno di un’ideologia forte da comunicare, dalla crisi della
visione del mondo ottimista e costruttiva che era stata della borghesia, o
di quella nostalgica del passato che era stata propria dei legittimisti (i
sostenitori, cioè, della monarchia). Flaubert è al contrario fortemente critico della società borghese, nella quale gli sembra che gli ideali dell’individuo libero stiano lasciando spazio al conformismo del danaro e delle
apparenze. Disgustato dai nuovi modelli che si diffondono, narra storie di
personaggi frustrati e insoddisfatti, che rappresentano bene, nella loro stessa mediocrità, il mondo in cui vivono, ma non ha un modello alternativo
da proporre.
Madame Bovary narra di una donna insoddisfatta perché attraversata da
un ideale di amore/passione del quale è alla perenne ricerca attraverso un
illusorio culto delle sensazioni e della bellezza. Il lettore è trascinato dalla
narrazione di Flaubert all’interno dei discorsi disperati di Emma Bovary,
nelle sue riflessioni, nei dialoghi che rivelano la banalità tragica delle sue
aspirazioni. Il «bovarismo», termine nato dal romanzo, sta precisamente a
significare quell’inquietudine rispetto alle proprie condizioni reali motivata non da un legittimo desiderio di cambiamento, ma da sogni astratti e
megalomani, dall’incapacità di agire nel reale. Si tratta di un’evoluzione del
«romanzo d’adulterio»: Emma non tradisce il marito perché innamorata di
un altro uomo, ma perché innamorata di un amore astratto e di un’immagine di sé inesistente. Un’immagine che le viene da fuori e la determina.
La stessa convinzione che il soggetto sia profondamente determinato
dalla realtà in cui si trova ispira anche L’educazione sentimentale, un
romanzo a cui Flaubert lavora già in una prima stesura nel 1843-1845 e che
pubblica rivisto soltanto nel 1869. Ma se Madame Bovary è il romanzo
della provincia, l’altro capolavoro di Flaubert è il romanzo della metropoli, di Parigi: è nelle strade della grande città che avvengono gli incontri del
tutto casuali che determinano la storia del protagonista. Come il titolo suggerisce, si tratta di un «romanzo di formazione», o meglio, si tratta della
radicale critica di quella forma: il protagonista si trova a Parigi travolto dagli
eventi della rivoluzione del 1848, e rappresenta un’intera generazione che
fallisce perché ha in mente ideali irraggiungibili. Un’opera ambientata con
Gustave Flaubert, Madame Bovary

scrupolosità di storico, con studio maniacale delle parti e delle parole, nel
timore che tale precisione possa uccidere l’arte, ma nella convinzione che
solo attraverso tale amore di verità si possa dare una base alla creazione
artistica.
Madame Bovary
La seduzione dello scandalo
Parte II, cap. IX
Il capitolo in cui l’irrequieta protagonista, Emma Bovary, riesce finalmente a realizzare il desiderio che ha faticosamente messo a fuoco, quello di vivere un’esaltante passione adulterina, è quello che provocò lo scandalo suscitato dal romanzo alla sua prima
apparizione. Fu pertanto citato e letto in tribunale perché, meglio di altri, rivelava la
mancanza di un giudizio morale esplicitamente negativo da parte dell’autore: si correva così il rischio che il romanzo divenisse un modello di corruzione.
Nella scena della seduzione di Emma da parte di Rodolphe assistiamo a un piccolo
studio psicologico: è tutto un alternarsi di sentimenti contraddittori, la ricerca di una
strategia di approccio che non provochi il rifiuto. Il discorso di lui per rassicurarla, grossolanamente ipocrita, utilizza insistentemente un’immagine di derivazione sacra e
soprattutto letteraria: che Emma possa credere a tali affermazioni è importante nella
costruzione del personaggio.
Nelle sequenze successive l’accento è soprattutto sulla percezione di Emma che
quanto è accaduto corrisponda a una cesura profonda, a una sorta di rinascita.
Emma è entrata in uno stato di trance e di godimento, «una nuova pubertà», nel quale
interpreta ciò che le sta accadendo come la rivincita da una vita che le pareva grigia,
una certezza molto legata in effetti alle sue letture di romanzi, di eroine che vivevano di passioni proibite e fortissime. Va notato l’uso esteso del «discorso indiretto libero»: siamo nei pensieri di Emma, ma chi parla? Sono pensieri peraltro molto audaci:
non c’è alcuna esplicita condanna dell’adulterio, ed è proprio questo che provocò il
processo.
Erano i primi giorni d’ottobre. C’era nebbia sulla campagna. Vapori s’allungavano all’orizzonte, contro il contorno delle colline; e altri, lacerandosi, salivano, si disperdevano. Qualche volta, in uno squarcio della bruma,
sotto un raggio di sole, si scorgevano di lontano i tetti di Yonville, con i
giardini in riva all’acqua, i cortili, i muri e il campanile della chiesa. Emma
socchiudeva le palpebre per riconoscere la sua casa, e mai quel povero
villaggio dove viveva le era parso così piccolo. Dalle alture dov’erano, l’intiera1 valle sembrava un immenso lago pallido, svaporante nell’aria. Le
macchie degli alberi qua e là spicca vano come rocce nere; e le alte linee
dei pioppi, che oltrepassavano la nebbia, sembravano spiagge agitate dal
vento.

M. S. Sapegno
Accanto, sul prato, fra i pini, una scura luce fluiva nell’atmosfera tiepida. La terra, rossastra come tabacco trinciato, smorzava il rumore dei passi;
e con i loro ferri i cavalli, camminando, spingevano davanti a sé le pigne
cadute.
Rodolphe e Emma seguirono così il ciglio del bosco. Lei di quando in
quando si voltava, per evitare lo sguardo di lui, e allora non vedeva che i
tronchi dei pini allineati, provando a quella sfilata uniforme un lieve senso
di stordimento. I cavalli ansavano. Il cuoio delle selle scricchiolava.
Mentre stavano per entrare nel bosco, apparve il sole. – Dio ci protegge! – disse Rodolphe. – Credete? – disse lei.
– Andiamo, andiamo! – lui riprese. Schioccò la lingua. Le due bestie correvano. Lunghe felci, sul ciglio del sentiero, s’impigliavano nella staffa di
Emma. Rodolphe, sempre avanzando, si chinava e via via le districava.
Altre volte, per scostare i rami, le passava accanto, e Emma sentiva il ginocchio di lui sfiorarle la gamba. Il cielo era diventato azzurro. Le foglie non
si muovevano. C’erano grandi spiazzi pieni di eriche in fiore; e strati viola
s’alternavano al viluppo degli alberi, di color grigio, o fulvo, o dorato, a
seconda della varietà dei fogliami. Spesso si udiva, sotto ai cespugli, frusciare un lieve battito d’ali, o il grido rauco e soave dei corvi, che volavano nel folto delle querce.
Smontarono. Rodolphe attaccò i cavalli. Essa andava avanti, sul
muschio, tra i solchi.
Ma la veste troppo lunga le impacciava il passo, benché ne tenesse rialzato lo strascico, e Rodolphe, camminando dietro a lei, contemplava tra
quel panno nero e lo stivaletto nero, la delicatezza della calza bianca, che
gli sembrava qualcosa della nudità di lei.
Essa si fermò. – Sono stanca, – disse. – Su, ancora un poco! – lui ribatté.
– Coraggio! Cento passi più oltre, si fermò di nuovo; e attraverso il velo,
che dal cappello da uomo le scendeva obliquo sui fianchi, si scorgeva il
suo viso in una trasparenza bluastra, come se nuotasse nell’azzurro delle
onde.
– Ma dove andiamo?
Lui non rispose nulla. Lei respirava d’un respiro irregolare. Rodolphe
gettava gli occhi intorno a sé e si mordeva i baffi.
Arrivarono in un punto più spazioso, dov’erano stati abbattuti dei quercioli. Sedettero su un tronco riverso, e Rodolphe prese a parlarle del suo
amore. Sul principio, non la impaurì con parole galanti. Fu calmo, serio,
malinconico.
Emma lo ascoltava a testa bassa, smuovendo dei trucioli con la punta
del piede. Ma, a questa frase: – Non sono forse uniti ora i nostri destini? –
Eh, no! – rispose. – Lo sapete bene. È impossibile. S’alzò per andar via.
Gustave Flaubert, Madame Bovary

Egli le afferrò il polso. Lei si fermò. Poi, avendolo osservato per qualche
istante con occhio amoroso e umido, rapidamente disse: – Ah, sentite, non
ne parliamo più… Dove sono i cavalli? ritorniamo.
Egli ebbe un gesto di collera e di noia. Lei ripeté:
– Dove sono i cavalli? dove sono i cavalli?
Allora, sorridendo di un sorriso strano, con la pupilla fissa, i denti stretti, lui si fece avanti a braccia tese. Lei, tremante, indietreggiò. Balbettava:
– Oh! mi fate paura! mi fate male! andiamo via.
– Visto che è necessario, – lui riprese mutando volto. E subito ridivenne rispettoso, carezzevole, timido. Lei gli diede il braccio.
S’avviarono per tornare. Lui diceva: – Ma che avete? Perché? io non ho
capito. Certo avete frainteso? Siete nella mia anima come una madonna su
un piedestallo, in una sfera alta, salda e immacolata. Ma ho bisogno di voi
per vivere! ho bisogno dei vostri occhi, della vostra voce, del vostro pensiero. Siatemi amica, siatemi sorella, siate il mio angelo!
E allungava il braccio e le cingeva la vita. Lei, mollemente, cercava di
liberarsi. Lui la sorreggeva così, camminando.
Ma udirono i due cavalli che brucavano il fogliame.
– Oh! ancora, – disse Rodolphe. – Non andiamo via! Rimanete! La trascinò più lontano, presso un piccolo stagno, dove lenticchie d’acqua velavano di verde le onde. Ninfee appassite galleggiavano immobili fra i giunchi. Al rumore dei loro passi nell’erba, le ranocchie saltarono a nascondersi.
– Sbaglio, sbaglio, – diceva lei. – Sono pazza a starvi a sentire.
– Perché?… Emma! Emma!
– Oh! Rodolphe! – fece lentamente la giovane donna chinandosi sulla
spalla di lui. Il panno della sua veste s’incollava al velluto della giacca di
lui; essa rovesciò indietro il candido collo che si gonfiava d’un sospiro; e
languente, tutta in lagrime, con un lungo fremito e nascondendo il viso,
s’abbandonò. Scendevano le ombre della sera; il sole orizzontale, filtrando
fra i rami, le abbagliava gli occhi. Qua e là, tutt’intorno a lei, nelle foglie e
a terra, palpitavano chiazze luminose, come se dei colibrì, nel volo, avessero sparso le piume. Il silenzio era ovunque; dagli alberi pareva sprigionarsi una sorta di dolcezza; essa sentiva il proprio cuore, che aveva ripreso i battiti, e il sangue fluirle nella carne come un fiume di latte. Allora, udí
molto lontano, al di là del bosco, sulle altre colline, un grido confuso e
prolungato, una voce vagabonda, e la ascoltava in silenzio mischiarsi come
musica alle ultime vibrazioni dei suoi nervi in tumulto. Rodolphe, col sigaro fra i denti, raggiustava col temperino una briglia rotta.
Tornarono a Yonville, per la stessa strada. Rividero sul fango le orme
dei loro cavalli, affiancate, e le medesime siepi, i medesimi ciottoli nell’er-

M. S. Sapegno
ba. Nulla intorno a loro era cambiato; e tuttavia per lei, qualcosa era avvenuto di più grande che se si fossero spostate le montagne. Rodolphe, di
quando in quando, si chinava e le prendeva la mano per baciarla. Essa era
incantevole, a cavallo! Diritta, con la sua persona sottile, il ginocchio ripiegato sulla criniera della bestia e il viso leggermente colorito dall’aria libera, nella luce rossa della sera.
Entrando a Yonville, caracollò sul selciato. La guardavano dalle finestre.
Suo marito, a cena, le trovò una buona cera; ma lei sembrò non sentire quando s’informò della passeggiata; e stava con il gomito accanto al
piatto, fra le due candele accese.
– Emma! – disse lui. – Cosa? – Bene, sono passato questo pomeriggio
dal signor Alexandre; ha una vecchia cavallina ancora bella, soltanto un
po’ spelacchiata ai ginocchi, e che si potrebbe avere, ne son sicuro, per un
centinaio di scudi…
Aggiunse:
– Pensando di farti piacere, ho dato la caparra… l’ho comprata… Ho
fatto bene? Dimmelo.
Lei mosse il capo in segno d’assenso; poi, un quarto d’ora dopo: – Esci
stasera? – domandò. – Sì. Perché? – Oh, niente, niente, caro. E non appena si fu liberata di Charles, salì a chiudersi nella sua stanza. Provò dapprima un senso di stordimento; vedeva gli alberi, i sentieri, i fossati,
Rodolphe, e sentiva ancora la stretta delle braccia di lui, nel fremito delle
foglie e nel sibilo dei giunchi.
Ma, guardandosi allo specchio, si meravigliò del proprio viso. Mai aveva
avuto gli occhi tanto grandi, tanto neri, né così profondi. Un’essenza sottile diffusa sulla sua persona la trasfigurava.
Si ripeteva: «Ho un amante! un amante!» godendo a quest’idea, quasi a
quella d’una nuova pubertà a cui fosse giunta. Avrebbe dunque avuto finalmente quelle gioie dell’amore, quella febbre della felicità che disperava
di provare. Penetrava in una zona meravigliosa dove tutto sarebbe stato
passione, estasi, delirio; una immensità azzurrina la circondava, le vette dei
sentimenti scintillavano sotto il suo pensiero, l’esistenza consueta non appariva che in lontananza, giù in basso, nell’ombra, tra gli intervalli di quelle altitudini.
Allora ricordò le eroine dei libri che aveva letto, e le legioni2 liriche di
quelle adultere presero a cantare nella sua memoria con voci di sorelle,
colmandola d’incanto. Diveniva lei stessa come una parte vera di quelle
immaginazioni, e attuava il lungo sogno della sua giovinezza, contemplandosi in quel tipo di donna appassionata che aveva tanto invidiato.
D’altronde, Emma sentiva un piacere di vendetta. Non aveva forse abbastanza sofferto? Ma adesso trionfava, e l’amore, così a lungo trattenuto,
Gustave Flaubert, Madame Bovary

sgorgava tutto, spumeggiando gioiosamente. Lei lo assaporava senza
rimorsi, senza inquietudine, senza turbamento.
La giornata seguente trascorse in una dolcezza nuova. Si scambiarono
giuramenti. Lei gli raccontò le sue tristezze. Rodolphe la interrompeva con
i baci; e lei gli chiedeva, contemplandolo con le palpebre semichiuse, di
chiamarla ancora per nome e di ripetere che la amava. Erano, come il
giorno avanti, nel bosco, in una capanna di zoccolai. Le pareti erano di
paglia e il tetto discendeva così basso, che bisognava star curvi. Sedevano
l’uno accanto all’altra, su un letto di foglie secche.
Da quel giorno, si scrissero regolarmente ogni sera. Emma portava la
lettera in fondo al giardino, presso il fiume, in una fenditura della terrazza. Rodolphe veniva a prenderla e vi infilava una lettera sua, che lei sempre accusava d’esser troppo breve. Una mattina che Charles era uscito
prima dell’alba, essa fu colta dalla voglia di vedere Rodolphe immediatamente. Era cosa rapida arrivare alla Huchette, restarci un’ora, e tornare a
Yonville quando tutti ancora dormivano. Questa idea la fece ansimare di
desiderio; ben presto fu nella prateria, camminandovi a passi veloci, senza
guardarsi indietro. Cominciava a spuntare il giorno. Emma, di lontano,
riconobbe la casa del suo amante, dove le due banderuole a coda di rondine spiccavano nere nel pallore dell’alba.
Dopo il cortile della fattoria, c’era un gruppo di costruzioni che doveva
essere il castello. Lei vi entrò, come se i muri, al suo arrivo, si fossero scansati. Una larga scala diritta saliva al corridoio. Emma girò il saliscendi d’una
porta, e a un tratto, in fondo alla stanza, scorse un uomo che dormiva. Era
Rodolphe. Lei gettò un grido.
– Sei qui, sei qui! – ripeteva lui. – Come hai fatto a venire?… Ah! il tuo
vestito è bagnato!
– Ti amo! – rispose lei mettendogli le braccia al collo. Essendole riuscita felicemente quella prima audacia, ora ogni volta che Charles usciva presto, Emma si vestiva in fretta e scendeva a passi muti la gradinata che portava in riva all’acqua.
Ma, quando la passerella per le vacche era alzata, bisognava seguire i
muri che costeggiavano il fiume; la sponda era scivolosa; lei, per non cadere, s’aggrappava con la mano ai ciuffi di ravanelli appassiti. Poi attraversava di sbieco dei campi arati, dove affondava, incespicava e s’impastava di
terra gli stivaletti sottili. Il fazzoletto che portava annodato sul capo, s’agitava al vento fra le erbe; aveva paura dei buoi, si metteva a correre; arrivava senza fiato, con le guance rosee, e tutta la sua persona esalava un fresco profumo di linfa, di verzura3 e d’aria. Rodolphe, a quell’ora, ancora
dormiva. Era come se gli entrasse nella stanza una mattinata di primavera.
Le tende gialle, lungo le finestre, lasciavano filtrare dolcemente una

M. S. Sapegno
pesante luce bionda. Emma veniva avanti a tentoni, socchiudendo gli
occhi; e le gocce di rugiada, so spese sulle bande dei capelli, formavano
come un’aureola di topazio intorno al suo viso. Rodolphe, ridendo, l’attirava a sé e la stringeva al cuore.
Poi lei esaminava la stanza, apriva i cassetti dei mobili, si pettinava con
il pettine di lui e si guardava nel suo specchio da barba. Spesso anche, si
metteva tra i denti il cannello d’una grossa pipa, che stava sul comodino
da notte, fra limoni e pezzetti di zucchero, accanto a una caraffa d’acqua.
Ci mettevano un buon quarto d’ora a dirsi addio. Allora Emma piangeva; avrebbe voluto non abbandonare mai Rodolphe. Qualcosa di più forte
di lei la spingeva verso di lui, così che egli un giorno, vedendola sopraggiungere all’improvviso, corrugò la faccia, come fosse contrariato.
– Cos’hai dunque? – disse lei. – Stai male? Parlami!
Infine egli dichiarò, con aria seria, che le sue visite diventavano imprudenti e che lei si comprometteva.
A poco a poco, quei timori di Rodolphe la contagiarono. L’amore, sul
principio, l’aveva inebriata, al di là di esso non aveva pensato più a niente. Ma essendo esso ora divenuto indispensabile alla sua vita, temeva di
poterne perdere qualcosa, o che qualcosa l’avesse a turbare. Quando veniva via da lui, gettava all’intorno sguardi inquieti, spiando ogni forma che
passava all’orizzonte e ogni abbaino del villaggio da cui poteva esser vista.
Porgeva orecchio ai passi, ai gridi, al rumore degli aratri; e si fermava più
livida e più tremante delle foglie dei pioppi che ondeggiavano sul suo
capo.
(da G. Flaubert, La signora Bovary, trad. di N. Ginzburg, Einaudi, Torino 2005).
Note
1. intiera: ‘intera’.
2. legioni: ‘moltitudini’.
3. verzura: ‘vegetazione’.
MARIA SERENA SAPEGNO
Gustave Flaubert, Madame Bovary

GÉRARD GENETTE, Silenzi di Flaubert
in G. Genette, Figure. Retorica e strutturalismo, Einaudi, Torino 1969
In lui dunque l’abbondanza delle descrizioni non risponde, come ad esempio in
Balzac, soltanto a necessità d’ordine drammatico, ma innanzi tutto a qualcosa che egli
stesso chiama l’amore della contemplazione. Naturalmente nella sua opera si trovano
anche delle descrizioni, come quella di Yonville all’inizio della seconda parte di
Madame Bovary, la cui presenza è giustificata dal bisogno di dare all’azione e ai sentimenti una specie di cornice esplicativa: è necessario conoscere lo sfondo di Yonville
per capire quale sarà la vita di Emma. Ma il più delle volte la descrizione si sviluppa
autonomamente, a spese dell’azione che essa non chiarisce ma cerca, si direbbe, di
sospendere e di rimandare. Tutta Salammbô è l’esempio di un racconto che rimane
come schiacciato dalla proliferazione sontuosa della sua stessa cornice. Ma, pur essendo meno massiccio, questo effetto di immobilizzazione è forse più avvertibile in un’opera come Madame Bovary, in cui una tensione drammatica indubbiamente molto alta
è contrastata di continuo da dilatazioni descrittive di un’ammirevole gratuità […]
Sarebbe lungo enumerare tutti i momenti d’estasi (nel doppio significato di rapimento contemplativo e di sospensione del movimento narrativo) soppressi nella redazione definitiva e che la pubblicazione delle prime stesure ci ha restituito, ma bisogna
almeno sottolineare una pagina di cui Flaubert stesso, fatto piuttosto raro, si era all’inizio mostrato abbastanza soddisfatto. E a ragione. Questa pagina va inserita nel corso
della visita al castello della Vaubyessard, il mattino che segue il ballo. Emma passeggia
nel parco ed entra in un padiglione che ha tra l’altro una finestra a vetri di vari colori;
guarda la campagna attraverso questi vetri: l’azzurro, poi il giallo, il verde, il rosso e il
bianco. Questi paesaggi versicolori le dànno successivamente emozioni diverse, e infine la immergono in una fantasticheria profonda di dove sarà tratta di soprassalto dal
passaggio di uno stormo di cornacchie. Charles nel frattempo visitava le culture e si
informava della rendita. Quest’ultima notazione reintegra l’episodio all’insieme del
romanzo facendogli manifestare la divergenza dei due caratteri; ma anche qui il discorso supera la sua funzione diegetica per svilupparsi autonomamente, in un fascino
immobile cui Flaubert partecipa più ancora forse della sua eroina. «Sai in che modo ho
passato tutto il pomeriggio di ieri? A guardare la campagna attraverso dei vetri colorati; ne avevo bisogno per una pagina della mia Bovary che, credo, non sarà delle peggiori».
Uno dei segni che contraddistinguono questi momenti in cui il racconto sembra
tacere e paralizzarsi sotto quello che Sartre chiamerà il grande sguardo pietrificante
delle cose, è appunto l’arrestarsi di ogni conversazione, la sospensione di ogni parola
umana […] Anche esseri leggeri o grossolani come Léon, Rodolphe, Charles stesso, si
prestano a questi silenzi stupefatti. Ecco una scena tra Emma e Charles prima del matrimonio: «Si erano già salutati, non parlavano più … L’ombrellino di seta cangiante, attraversato dal sole, illuminava di mobili riflessi la pelle bianca del suo volto. Là sotto essa
sorrideva al tepore dell’aria e si sentivano le gocce d’acqua a una a una cadere sulla
seta ben tesa». Un’altra, con Rodolphe, durante una delle loro notti d’amore, al chiaro
di luna: «Non si parlavano, smarriti com’erano nella loro fantasticheria… si udiva ogni

M. S. Sapegno
tanto il tonfo di una pesca matura che cadeva da sola dalla spalliera». Una terza, a
Rouen con Léon: «Udirono suonare le otto ai vari orologi del quartiere Beauvoisine, che
è pieno di collegi, di chiese, di grandi palazzi abbandonati. Non si parlavano più, ma
sentivano, guardandosi, un ronzio nella testa come se dalle loro pupille fisse uscisse
un suono e un altro suono rispondesse. Si erano presi per le mani e il passato, il futuro, i ricordi, i sogni, tutto si confondeva nella dolcezza di quell’estasi».
[…] Momenti, come si vede, doppiamente silenziosi: perché i personaggi hanno
smesso di parlare per mettersi in ascolto del mondo e del loro sogno, e perché questa
interruzione del dialogo sospende la parola stessa del romanzo e per un attimo la riassorbe in una specie di interrogazione senza voce. […]
Valéry trovava Flaubert (nella Tentation de Saint’Antoine) «come ubriacato dall’accidentale a scapito del principale». Se il «principale», in un romanzo, consiste nell’azione, nei personaggi, nella psicologia, nella morale, nella storia, si capisce come questo
giudizio possa applicarsi ai suoi romanzi e come il suo gusto per il particolare, e non
soltanto per il particolare utile, significativo, come in Balzac, ma per il particolare gratuito e insignificante, possa compromettere in lui l’efficacia della narrazione […]
Ripensiamo alla frase finale di Hérodiade («Siccome era molto pesante, la portavano alternativamente») in cui tutta la storia dell’esecuzione di san Giovanni Battista viene
a sfociare e a infrangersi su quest’avverbio impenetrabile, chiusa così possentemente
insignificante da pietrificare da sola tutto il senso del racconto. Proust ha saputo cogliere quel ritmo così particolare della dizione flaubertiana, appesantita, piuttosto che snellita dai suoi tagli simmetrici, quella scansione monotona che ad ogni passo lascia cadere e ricadere la frase, con tutto il suo peso, sull’opaca consistenza di qualche particolare inutile, arbitrario, imprevedibile […]
Questa trascendenza frustrata, questa evasione del senso nel tremore infinito delle
cose, costituisce la scrittura di Flaubert in ciò che ha di più specifico e forse rappresenta la sua più difficile conquista sulla facilità verbosa delle prime opere. La
Correspondance e le opere giovanili lo mostrano chiaramente: Flaubert rigurgitava di
cose da dire: entusiasmi, rancori, amori, odi, disprezzi, sogni, ricordi … Ma un giorno,
per giunta, maturò il proposito di non dire niente, quel rifiuto dell’espressione che
inaugura l’esperienza letteraria moderna.
I fiori del male
di Charles Baudelaire
Il grande poeta novecentesco Thomas Stearn Eliot scrisse una volta in un
suo saggio che «Baudelaire è il più grande esempio di poesia moderna in
qualsiasi lingua». E in effetti i critici sono oggi pressoché concordi nel ritenere Charles Baudelaire (1821-1867) il fondatore della lirica moderna. Protagonista di una vita irrequieta, trascorsa tra fumerie d’oppio, dissesti economici, relazioni erotiche irregolari sfociate nella sifilide che lo conduce alla morte a soli quarantasei anni, Baudelaire non è capito e non è apprezzato dai suoi contemporanei, è anzi apertamente osteggiato dai benpensanti
per la sua condotta e per la sua opera considerata immorale. Durante la sua
vita riesce a pubblicare così solo una parte della sua vasta produzione letteraria: due volumi di critica d’arte, testimonianza delle sue profonde conoscenze in tema di pittura contemporanea; cinque volumi di traduzioni del
grande scrittore americano Edgar Allan Poe, della cui conoscenza in Europa è il principale tramite; poche delle sue moltissime prose, tra cui I paradisi artificiali e quattro poemi in prosa inclusi sotto il titolo Lo Spleen di Parigi; il suo libro più importante, la raccolta poetica I fiori del male.
Questo libro ha una storia assai travagliata. Viene pubblicato una prima
volta nel 1857, l’«anno mirabile» della letteratura francese e mondiale, in cui
esce un altro capolavoro assoluto, Madame Bovary di Gustave Flaubert.
Dopo un violento attacco sul quotidiano «Le Figaro», I fiori del male vengono sequestrati per oscenità: Baudelaire è costretto a pagare una multa e
a sopprimere sei poesie, ritenute scandalose. Nel 1861 il poeta stampa
dunque la seconda edizione dei Fiori: eliminate le sei poesie censurate,
Baudelaire ne aggiunge altre trentacinque e riorganizza il libro secondo un
nuovo assetto, definitivo. Una terza edizione, del 1868, ovvero successiva
alla sua morte, comprende altre liriche apparse su rivista.
Il libro, così come si configura nell’edizione del 1861, che rispecchia
l’ultima volontà dell’autore, non è una semplice raccolta di liriche, ma presenta una struttura tanto serrata e meditata da farlo apparire come un
poema unico.
Al centro del libro si pone la condizione del poeta e dell’uomo con-

L. Severi
temporaneo: la sua degradazione e la sua sterile ansia di riscatto. La poesia nasce in Baudelaire da una viscerale conoscenza del proprio tempo e
da una lucidità critica che ha pochi eguali. Baudelaire infatti è perfettamente cosciente che la riduzione della vita a una questione economica
toglie l’anima anzitempo, condannandola all’immiserimento morale.
Questo stato di profondo malessere si riassume nello spleen (o ennui),
ovvero nella noia, il vero demone dell’età moderna. Essa non è altro che
il vuoto disincanto dell’individuo spogliato di idealità, stanco e insieme
disgustato dalla propria realtà quotidiana alla quale non può più sottrarsi
se non attraverso le droghe, capaci di trascinare nei paradisi artificiali di
sensazioni non convenzionali, ma transitorie e illusorie.
Alla condizione miserabile dell’uomo moderno non si sottrae il poeta,
che anzi più di tutti vi è invischiato, poiché più di tutti ne soffre. Quanto
più infatti vuole sollevarsi verso sogni elevati e spirituali, tanto più viene
ricacciato verso il fondo della volgare realtà. Il poeta vive come in esilio
da una società che è composta per lo più da uomini che aderiscono al
meccanismo della produzione e del lavoro materiale, e ai cui occhi gli
ideali dell’artista sono indegni di considerazione. Da una condizione del
genere non può che derivare una bruciante frustrazione, essendo ormai la
poesia priva di ruolo pubblico.
Davanti a questo nuovo e immutabile destino di esclusione, il poeta
reagisce abbassando il suo sguardo all’altezza delle miserie morali e materiali del mondo in cui vive. Baudelaire nella seconda sezione di Fiori canta
la città, contemplata senza pudore in tutti i suoi aspetti più sudici e ripugnanti: cloache, miasmi, rifiuti, ma anche accattonaggio, prostituzione. Lo
sguardo del poeta non esita a scendere negli inferi metropolitani, traendone scene e paesaggi nuovi, mai visti prima in poesia. Nasce così una
vera e propria estetica della bruttezza. Il deforme e l’anormale sono il
nuovo mistero da esplorare, capace di risvegliare quell’inquietudine spirituale che la banalità della vita borghese ha addormentato.
Ma proprio questo potere esplorativo dimostra che il poeta conserva,
più di chiunque altro, delle risorse conoscitive. La superiorità dell’arte ritorna così a essere, come per i parnassiani, indiscutibile: se c’è una via di liberazione dall’oppressione della vita contemporanea, questa passa senza
dubbio attraverso l’arte. La poesia, in particolare, deve liberarsi di qualsiasi scopo pratico o didascalico e farsi puro strumento di conoscenza, riconosciuto o no che sia dalla società.
Si rafforza, più che mai prima, l’aspirazione a una poesia pura.
Baudelaire riprende il concetto, più ancora che dai parnassiani, dal grande scrittore americano Poe, il quale in una sua opera intitolata Principio
poetico (1850) aveva proclamato l’assoluto primato della forma sul conte-
Charles Baudelaire, I fiori del male

nuto, a vantaggio della «creazione della Bellezza Suprema». Per Baudelaire
il primato della forma significa che attraverso la perfezione delle risorse
retoriche e compositive il poeta può arrivare a scoprire le «corrispondenze» segrete tra le cose, ovvero quella trama di nascoste inquietudini che l’opacità della noia non permette più di percepire. Le analogie, ma anche le
sinestesie e soprattutto gli ossimori, che con la loro natura di contrasto
mettono in luce le profonde contraddizioni che avvelenano l’anima degli
uomini, sono strumenti fondamentali di una poesia decisa a penetrare l’involucro opprimente della realtà.
I fiori del male
L’albatro
I testi iniziali di Spleen e Ideale, prima sezione dei Fiori del male, vogliono mettere
a fuoco non solo la poetica di Baudelaire, ma anche la stessa fisionomia del poeta nei
tempi nuovi. L’albatro, seconda poesia della sezione, è in questo senso un testo chiave.
Nella lirica, infatti, Baudelaire paragona il poeta a un albatro: come l’uccello è maestoso quando vola ma goffo e ridicolo quando cammina a terra, così il poeta, che un
tempo poteva spaziare nei cieli del pensiero, nella società attuale, fondata su criteri commerciali e su un pubblico di massa, non è altro che un emarginato, oggetto di scherno
per la sua impotenza.
Il testo è diviso in due sezioni. Nella prima, corrispondente alle prime tre strofe,
Baudelaire descrive la derisione di cui è vittima l’albatro quando viene catturato dai
marinai, che lo costringono a camminare per vedere come «pietosamente accanto a sé
trascina / come fossero remi le grandi ali bianche» (vv. 7-8). La seconda parte del componimento è invece costituita dall’ultima strofa, in cui si introduce il paragone albatropoeta: «Il Poeta è come lui», infatti, poiché, sebbene possa ancora essere il «principe delle
nubi», sebbene cioè sia ancora capace di elevarsi ad altezze vertiginose, è ormai costretto a essere «esule in terra fra gli scherni», impacciato da quell’aspirazione al sublime che
nella società borghese è tanto improduttiva da apparire ridicola.
È chiara dunque la struttura di similitudine del componimento, e così anche il suo
significato. Vi è alla base la traumatica percezione di una caduta e di una degradazione. Baudelaire ha meditato a fondo la modernità, che è vista come epoca di un progresso che risulta paradossale, poiché inteso come progressivo predominio della materia
ai danni dello spirito. In un’epoca del genere è inevitabile che il poeta, da guida spirituale di una civiltà, ne diventi il miserabile scarto, irriso dal pubblico di massa. Non
manca neanche un’annotazione psicologica, utile a comprendere la violenta inquietudine dei poeti del tempo: l’artista, perduto il proprio ruolo sociale, è effettivamente spaesato, ovvero incapace di sintonizzarsi su un quotidiano di cui non intende più le coordinate. Da qui la sua condizione di «esule in terra», condizione psicologica, morale e
materiale insieme.
Il senso di contraddizione tra la superiorità spirituale del poeta e la sua oggettiva
condizione di esilio si riflette sul componimento, tutto fondato su contrasti. Il primo è

L. Severi
implicito, ma evidentissimo per un lettore del tempo. L’uccello dalle grandi ali era infatti presso i romantici il simbolo della solitudine e della nobiltà della poesia. Anche il parnassiano Leconte de Lisle aveva stabilito una suggestiva equazione tra il condor e il
poeta, entrambi solitari e maestosi nel volo. Ma il precedente poetico più evidente della
lirica è un testo capitale del Romanticismo inglese ed europeo, La ballata del vecchio
marinaio di Coleridge, incentrato sulla folle uccisione dell’albatro, uccello sacro e simbolo dell’alleanza tra Dio e gli uomini, uccisione per la quale si scatenerà una terribile
maledizione su tutto l’equipaggio e sul marinaio stesso. Chiara la situazione di degradazione segnalata dunque dalla lirica: l’albatro, ancora intoccabile in Coleridge, in
Baudelaire è vilipeso senza ritegno, e addirittura per consuetudine («Spesso», v. 1).
Allo stesso modo il testo al suo interno è intessuto di opposizioni. Al v. 6, per esempio,
«il re dell’azzurro» appare «maldestro e vergognoso», e subito dopo colpisce quel «trascinare» «come fossero remi le grandi ali bianche». Anche la strofa successiva è tutta fondata su antitesi: «Com’è fiacco e sinistro il viaggiatore alato!», dove il sublime «viaggiatore alato» appare debole e addirittura torvo, colmo di odio per quella inaspettata disavventura («sinistro»).
E la poesia si chiude proprio su un contrasto, relativo al poeta-albatro: «impediscono
/ che cammini le sue ali di gigante», dove l’immagine finale delle «ali di gigante», commossa dichiarazione di superiorità della poesia, non basta a riscattare quella tremenda
incapacità di camminare.
metro: nella traduzione italiana quattro quartine di endecasillabi (alessandrini nell’originale).
Spesso, per divertirsi, i marinai
catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari,
indolenti1 compagni di viaggio delle navi
in lieve corsa sugli abissi amari2.
L’hanno appena posato sulla tolda3
e già il re dell’azzurro, maldestro e vergognoso,
pietosamente accanto a sé trascina
come fossero remi le grandi ali bianche.
Com’è fiacco e sinistro il viaggiatore alato!
E comico e brutto, lui prima così bello!
Chi gli mette una pipa sotto il becco,
chi imita, zoppicando, lo storpio che volava!
Il Poeta è come lui, principe delle nubi
che sta con l’uragano e ride degli arcieri;
esule in terra fra gli scherni, impediscono
che cammini le sue ali di gigante.
L’albatros: Souvent, pour s’amuser, les hommes d’équipage / Prennent des albatros,
vastes oiseaux des mers, / Qui suivent, indolents compagnons de voyage, / Le navire
glissant sur les gouffres amers. // À peine les ont-ils déposés sur les planches, / Que
Charles Baudelaire, I fiori del male

ces rois de l’azur, maladroits et honteux, / Laissent piteusement leurs grandes ailes blanches / Comme des avirons traîner à côté d’eux. // Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule! / Lui, naguère si beau, qu’il est comique et laid! / L’un agace son bec avec
un brûle-gueule, / L’autre mime, en boitant, l’infirme qui volait! // Le Poète est semblable au prince des nuées / Qui hante la tempête et se rit de l’archer; / Exilé sur le
sol au milieu des huées, / Ses ailes de géant l’empêchent de marcher.
Note
1. indolenti: ‘pigri’, ma qui in un’accezione non negativa: gli albatri, che affidano il loro volo
alle correnti, muovono con lentezza le ali, comunicando a chi li guardi un senso di quiete, di
riposo persino nel volo. Non manca però un’altra sfumatura: le stesse caratteristiche del poeta,
che ha bisogno di ozio e di calma per innalzarsi all’atto della creazione, sono viste come indolenza, cioè improduttività, nella società borghese.
2. amari: ‘salati’. Gli «abissi amari» non sono altro che il mare profondo.
3. tolda: ‘coperta’ della nave.
Corrispondenze
Questa lirica, quarta della sezione Spleen e Ideale, è di fatto il più importante testo
di poetica che Baudelaire abbia steso. Le cose sono immobili e mute solo in apparenza:
in realtà, tra di esse esistono segrete e infinite relazioni percettive, che solo il poeta riesce a cogliere.
Siamo davanti a un testo chiave, vero e proprio manifesto della poesia di
Baudelaire ma anche della poesia simbolista, ancora di là da venire ma qui pienamente anticipata.
La prima quartina si fonda sull’equiparazione tra la natura e un tempio («È un tempio la Natura», v. 1): il poeta, attraversandolo, può cogliere i segnali (tradotti in «parole») che, quasi vi fosse celebrato un rito perenne, scorrono tra i suoi «viventi pilastri» (v.
1), ovvero gli alberi (ma anche, più in generale, tutti gli elementi naturali). Insomma,
la natura è il luogo in cui il poeta, vero e proprio sacerdote della parola, può entrare in
contatto con l’aspetto divino delle cose, purché sappia decifrarne le «foreste di simboli»
(v. 3), che non gli sono estranei («gli lanciano occhiate familiari», v. 4). Nella seconda
quartina Baudelaire passa a spiegare in che cosa consista questa decifrazione dei simboli. Si tratta, per il poeta e per l’artista in genere, di individuare i segreti legami tra le
cose, gli «echi» che costituiscono un sistema di rimandi, cioè «un’unità profonda e oscura» (v. 6) fra tutti gli elementi dell’universo. In tale unità, in tale sistema profondo di
connessioni e di simboli, non esistono più barriere tra le diverse sensazioni, che si intrecciano l’una con l’altra: «i profumi, i colori e i suoni si rispondono».
Le due terzine servono da esemplificazione di quanto enunciato. Vengono cioè spiegate le «corrispondenze» del titolo: le sensazioni olfattive («Profumi», v. 9) possono sconfinare in sensazioni tattili («freschi come la carne d’un bambino», v. 9), acustiche e visive («dolci come l’oboe», «verdi come i prati», v. 10). Ma le sensazioni che derivano dagli
elementi naturali, avendo sostanza di simboli, conducono anche a significati più

L. Severi
profondi e impensabili: è a partire da esse che il poeta può unire «mente» e «sensi» in un
viaggio verso le «cose infinite» (v. 12).
Il fatto che il poeta sia stato esiliato dalla società, come è affermato nell’Albatro, non
toglie nulla al suo potere visionario. Al fondo di Corrispondenze c’è dunque la concezione mistica che Baudelaire ha della poesia. L’apparenza delle cose non è che una
parte di ciò che significano: la natura (o meglio il mondo in generale) è un insieme di
figure da decifrare, una «foresta di simboli», di cui solo il poeta è in grado di scoprire il
senso nascosto. Egli possiede la capacità divinatoria di intuire e interpretare quel sistema di analogie e di «corrispondenze» che un uso sapiente ed evocativo della parola può
almeno in parte penetrare.
In questo senso, le risorse analogiche (come la metafora, la sineddoche ecc.) e la
sinestesia cessano di essere delle semplici figure retoriche, ma diventano delle forme
di conoscenza profonda. La sinestesia, in particolare, rispecchia l’equivalenza fra i
dati esperiti dai vari sensi, in virtù di una consonanza di tonalità affettiva di cui solo
il poeta ha la chiave. Si tratta di una vera ossessione, per Baudelaire, che fin dal 1846,
in un suo scritto di critica d’arte, aveva insistito sulle relazioni «fra i colori, i suoni e
i profumi». La metafora, dal canto suo, permette di associare un’immagine a un’altra
immagine, a un concetto, a un’intuizione, squarciando il velo dell’apparenza e
ponendo il soggetto che percepisce e sa leggere il reale in comunicazione con i significati dell’universo soprasensibile. È dunque attraverso questa vista analogica che il
poeta indovina la profonda unità di tutte le cose, il loro fondamentale accordo, la loro
misteriosa verità. Siamo già nel pieno del misticismo simbolista: di questa poetica
Mallarmé farà la propria legge.
metro: nell’originale sonetto di alessandrini.
È un tempio la Natura, dove a volte parole
escono confuse da viventi pilastri
e che l’uomo attraversa tra foreste di simboli
che gli lanciano occhiate familiari.
Come echi che a lungo e da lontano
tendono a un’unità profonda e oscura,
vasta come le tenebre o la luce,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono.
Profumi freschi come la carne d’un bambino,
dolci come l’oboe, verdi come i prati
– e altri d’una corrotta, trionfante ricchezza,
con tutta l’espansione delle cose infinite:
l’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino1,
che cantano i trasporti della mente e dei sensi.
Correspondaces La Nature est un temple où de vivants piliers / Laissent parfois sortir de confuses paroles; / L’homme y passe à travers des forêts de symbols / Qui l’observent avec des regardes familiers. // Comme de longs échos qui de loin se confon-
Charles Baudelaire, I fiori del male

dent / Dans une ténébreuse et profonde unité, / Vaste comme la nuit et comme la
clarté, / Les parfums, les couleurs et les sons se répondent. // Il est des parfums frais
comme des chairs d’enfants, / Doux comme les hautbois, verts comme les prairies, / –
Et d’autres, corrompus, riches et triomphants, // Ayant l’expansion des choses infinies,
/ Comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens, / Qui chantent les transports de l’esprit et des sens.
(da Ch. Baudelaire, I fiori del male e altre poesie, trad. di G. Raboni, Einaudi, Torino 1999).
Note
1. benzoino: resina ricavata da piante tropicali, usata in medicina e in profumeria.
Lo Spleen di Parigi
Perdita d’aureola
Il testo è il quarantaseiesimo della raccolta di poemetti in prosa intitolata Lo spleen
di Parigi, pubblicata, nella sua versione definitiva, solo postuma. In Perdita d’aureola
Baudelaire mette a nudo la condizione del poeta nella società industriale con un’immediatezza senza precedenti, affidata in gran parte all’ironia. La forma scelta non è
quella del saggio, ma quella, ben più efficace, della parabola brillante, tanto breve
quanto incisiva. L’efficacia del poema in prosa è dovuta alla sua struttura dialogica,
rapida e ritmata.
Due sono gli interlocutori: il poeta medesimo e un suo amico, il quale apre il dialogo meravigliandosi di incontrare il primo in un «posto malfamato» (r. 1). Il poeta infatti è, nella tradizione occidentale, l’uomo di più nobile ispirazione, capace di parlare con
gli dèi (e su di lui vegliano le Muse e Apollo in persona). Per questo è chiamato «il degustatore di quintessenze», «il divoratore di ambrosia» (rr.1-2): non il vino, non comuni
cibi materiali, ma sostanze spirituali, divine, sfanavano il poeta, assetato di conoscenze superiori. E si noti l’ironia caustica dell’accostamento di parole sublimi come «quintessenze» e «ambrosia» a verbi carnali come «degustare» e «divorare». Ironia che ritorna
peraltro nella risposta del poeta. Il quale racconta di aver perso, nell’atto di attraversare la strada, la sua tradizionale aureola, il simbolo di nobiltà e di superiorità sacerdotale che aveva sempre ostentato.
«Ehi! Ma come? voi qui, carissimo? Voi in un posto malfamato? Voi, il
degustatore di quintessenze!1 Voi, il divoratore di ambrosia! Sul serio, c’è
di che stupirmi!»
«Mio caro, voi conoscete il terrore che ho dei cavalli e delle carrozze.
Poco fa, mentre attraversavo di gran premura il boulevard2, e saltellavo
nella melma, in mezzo a questo caos frenetico dove la morte accorre al
galoppo da tutte le parti in un sol tempo, la mia aureola, a un movimento brusco, mi è scivolata di testa nella fanghiglia del macadam3. Non ho
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L. Severi
avuto il coraggio di raccoglierla. Ho giudicato meno orribile perdere le mie
insegne per farmi spezzare le ossa. E poi, mi sono detto, non tutto il male
viene per nuocere. Ora posso andarmene in giro in incognito, compiere
azioni più vili, asservirmi alla crapula come i semplici mortali. E come
vedete, eccomi qua, in tutto eguale a voi.»
«Dovreste almeno mettere un annuncio, per questa aureola, farla cercare dal commissario…»
«Parola mia, no! Qui sto bene. Voi, voi solo mi avete riconosciuto. E poi
la dignità mi annoia! E immagino con gioia che qualche poeta spregevole
la raccatterà, e impudente se ne acconcerà la testa. Farlo felice, che gioia!
E soprattutto un felice che mi farà ridere! Pensate a X…, o a Z…! Ah! Come
sarà comico!»
Perte d’aureole Eh! quoi! vous ici, mon cher? vous dans un mauvais lieu! vous, le
buveur de quintessences! vous le buveur d’ambroise! en vérité, il y a là de quoi me surprendre. – Mon cher, vous connaissez ma terreur des chevaux et des voitures. Tout à
l’heure, comme je traversais le boulevard, en grand hâte, et que je sautillais dans la
boue, à travers ce chaos mouvant où la mort arrive au galop de tous les côtés à la fois,
mon auréole dans un mouvement brusque à glissé de ma tête dans la fange du macadam. Je n’ai pas eu le courage de la ramasser. J’ai jugé moins désagréable de perdre
mes insignes que de me faire rompre les os. Et puis, me suis-je dit, à quelque chose
malheur est bon. Je puis maintenant me promener incognito, faire des actions basses
et me livrer à la crapule comme les simples mortels. Et me voici tout semblable à vous,
comme vous voyez! – Vous devriez au moins faire afficher cetté auréole, ou la faire
réclamer par le commissaire. – Ma foi! non. Je me trouve bien ici. Vous seul, vous m’avez reconnu. D’ailleurs la dignité m’ennuie. Ensuite je pense avec joie que quelque
mauvais poète la ramassera et s’en coiffera impudemment. Faire un heureux, quelle
juissance! et surtout un heureux qui me fera rire! Pensez à X ou à Z! hein! Comme ce
serà drôle!
(da Ch. Baudelaire, Lo Spleen di Parigi, trad. di G. Montesano, in Opere, Mondadori,
Milano 1996).
Note
1. quintessenze: nel linguaggio degli alchimisti, la quintessenza è la parte più pura di qualsiasi
sostanza. Qui ci si riferisce all’uso della parola fatto dal filosofo greco Aristotele, per il quale la
quintessenza è l’elemento costitutivo dei corpi celesti.
2. boulevard: viale cittadino.
3. macadam: massicciata stradale costituita da pietrisco compresso; si tratta di un sostantivo
francese, dal nome del suo inventore scozzese McAdam.
LUIGI SEVERI
Charles Baudelaire, I fiori del male

WALTER BENJAMIN, Baudelaire
da W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo. I «passages» di Parigi,
a cura di R. Tiedermann, Einaudi, Torino 1986
Le facoltà dell’anima, che tanto posto hanno in Baudelaire, sono «ricordi»
(Andenken) dell’uomo allo stesso modo in cui le allegorie medievali sono ricordi degli
dèi. «Baudelaire – ha scritto una volta Claudel – ha per oggetto l’unica esperienza interiore che sia ancora concessa all’uomo del XIX secolo: il rimorso». Questa è di fatto
ancora una visione troppo rosea; tra le esperienze interiori il rimorso non era meno
estinto delle altre canonizzate in precedenza. Il Remord è in Baudelaire solo un ricordo, come il Repentir o la Vertu, l’Espoir e persino l’Angoisse, colte nell’istante in cui
cedono il posto alla morne Incuriosité.
[J 53, I]
Ciò in cui in definitiva la modernità si dimostra più intimamente affine all’antichità
classica è la sua fugacità. L’ininterrotta risonanza di cui le Fleurs du mal hanno goduto
fino ad oggi è connessa ad un determinato aspetto in cui si presentava la grande città
nell’atto in cui essa giungeva per la prima volta alla poesia, che è quello più inatteso e
imprevedibile. Ciò che traspare in Baudelaire nei versi che evocano Parigi è il carattere decrepito e caduco di una grande città. Esso trova forse la trascrizione più perfetta
nel Crépuscule du matin che è la riproduzione, nel materiale costituito da una città, del
rantolo del dormiente che si risveglia. Quest’aspetto è però più o meno condiviso dall’intero ciclo dei tableaux parisiens e giunge ad espressione nella trasparenza della città
qual è magicamente messa in scena da Le soleil non meno che nell’evocazione del
Louvre in Le cygne.
[J 57a, 3]
Baudelaire non possedeva l’idealismo umanitario di un Victor Hugo o di un
Lamartine, né disponeva della serenità emotiva di un Musset. Non ha goduto del proprio tempo come Gautier, né ha potuto ingannarsi sul suo conto come Leconte de Lisle.
Non gli fu concesso di rifugiarsi nella devozione come Verlaine, né di potenziare come
Rimbaud lo slancio lirico della giovinezza col suo tradimento nell’età adulta. Baudelaire
fu tanto ricco di cognizioni nella sua opera di artigiano quanto povero di scappatoie di
fronte al proprio tempo. E persino quel grande copione tragico che egli compose per
le platee della propria epoca – il ruolo del “moderno” – poteva essere recitato in definitiva solo da lui stesso. Tutto questo Baudelaire lo seppe senza ombra di dubbio. Le
eccentricità di cui si compiacque sono quelle di un mimo che deve recitare dinanzi a
un pubblico incapace di seguire la trama degli eventi sulla scena, che ne è consapevole e che nella sua recita rende giustizia a questa consapevolezza.
[J 62, 6]
L’individualità come tale assume dei contorni eroici, quanto più prepotentemente la
massa occupa il campo visivo. È questa l’origine della concezione dell’eroe in
Baudelaire. In Hugo non è in questione l’individuo isolato come tale, ma il citoyen
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L. Severi
democratico. Ciò determina un’opposizione fondamentale tra i due poeti. Lo scioglimento di questa opposizione avrebbe come sua condizione preliminare l’eliminazione
dell’apparenza che essa stessa riflette. Quest’apparenza risale al concetto di massa. La
massa come tale, a prescindere dalle diverse classi che la compongono, non ha un
significato sociale primario, e quello secondario dipende dall’insieme di relazioni a partire dalle quali essa si costituisce volta per volta in ogni singolo caso. Il pubblico di un
teatro, un esercito, l’insieme degli abitanti di una città, formano delle masse che non
appartengono come tali ad una classe determinata. Il mercato libero moltiplica rapidamente a perdita d’occhio queste masse, giacché ogni merce attira intorno a sé la massa
dei suoi acquirenti. Gli stati totalitari hanno fatto di queste masse il loro modello. La
comunità del popolo tende ad estirpare in ogni singolo individuo tutto ciò che è d’ostacolo al suo dissolvimento pieno e senza residuo in una massa di utenti.
[J 81a, 1]
Delitto e castigo
di Fëdor Dostoevskij
Nel corso di una vita densa di esperienze estreme e drammatiche, Fëdor
Michàjloví∫ Dostoevskij (1821-1881) misura la propria vocazione di scrittore affrontando senza esitazione e con sorprendente modernità i problemi
più difficili che si pongono alla coscienza soggettiva: la relazione tra il
bene e il male, la responsabilità individuale e il contesto sociale, i rapporti di potere, il problema di Dio. Scrittore assai prolifico e di straordinaria
complessità, nei suoi romanzi cerca sempre di tendere al limite i confini
tra i generi letterari, forzandone le strutture: autobiografia, diario, racconto, romanzo, poesia confluiscono in narrazioni sempre attente al dato psicologico, morale e religioso.
Nella sua difficile giovinezza Dostoevskij rivela una passione precoce
per la letteratura europea, legge avidamente e comincia presto a scrivere
storie di personaggi sofferenti. Già nel primo romanzo, Il sosia (1846), si
evidenzia una grande attenzione ai problemi del disagio psichico e dello
sdoppiamento della personalità.
L’adesione a un circolo di intellettuali socialisti gli costa la pena capitale, che viene poi commutata in condanna all’ergastolo e ai lavori forzati in
Siberia. Dopo circa dieci anni, grazie alle riforme avviate da Alessando II,
lo scrittore riesce però a riprendere una vita normale.
Dostoevskij lavora allora come giornalista e scrive opere narrative. Le
più importanti sono Umiliati e offesi (1862), romanzo sociale che esce a
puntate su una rivista; Memorie dal sottosuolo (1865), storia di una prostituta e di un uomo dolorosamente incapace di vivere; Delitto e castigo
(1866), il suo primo capolavoro. Costruito su diversi nuclei narrativi e considerando il punto di vista di diversi personaggi, il romanzo, come gran
parte delle opere dello scrittore, ha fatto parlare, da parte del grande critico russo Michail Bachtin, di tecnica «polifonica».
Nel 1867 esce Il giocatore, romanzo breve parzialmente autobiografico
che narra le vicende di un uomo soggiogato dal vizio per il gioco d’azzardo. In questo periodo Dostoevskij trascorre parecchi anni all’estero e progetta una sorta di saga epica che attraverso la Vita di un grande peccato-
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M. S. Sapegno
re illustri trent’anni di storia russa dal punto di vista sociale e filosofico.
L’opera non viene mai scritta ma costituisce il filo da cui nascono i grandi
romanzi della maturità; tra questi L’idiota, pubblicato nel 1868-1869, storia
di un uomo profondamente buono, aristocratico decaduto, povero e malato di epilessia, dal comportamento nobile ma sconfitto dalla vita e infine
destinato alla follia. Su un altro piano si colloca invece il romanzo I demoni, del 1873. Storia di un gruppo di anarchici, profondamente critico verso
l’ideologia nichilista, presentata dall’autore come una scelta intellettualistica che travolge ogni rapporto con la realtà, fu considerato il frutto di un’involuzione reazionaria dello scrittore.
L’ultimo grande romanzo, scritto negli anni di un crescente avvicinamento alla riflessione mistica e pubblicato nel 1880, è I fratelli Karamazov,
costruzione ricca e complessa che pone al centro il conflitto tra il bene e
il male, ma anche tra una «ragione» denunciata come arrogante e un «cuore»
capace di un’intuizione spirituale e religiosa. Elemento portante della trama
è un episodio di parricidio, che viene a rappresentare simbolicamente il
crollo di un vecchio mondo patriarcale, della religione dei padri, provocato da giovani innamorati di una ragione illusoria.
Nonostante sia possibile cogliere un’evoluzione nel pensiero dello scrittore, bisogna evitare di leggere i suoi romanzi con esclusiva attenzione alla
sua parabola ideologica, quasi fosse un filosofo; Dostoevskij è infatti innanzitutto uno straordinario narratore, capace di ricostruire un mondo di relazioni e di passioni, di riprodurre la complessità di personaggi andando ben
al di là della rappresentazione di uno scontro tra idee, per toccare invece
i misteri più profondi dell’animo e della vita umana.
Delitto e castigo
Delitto e castigo si caratterizza per quella complessità della trama e per
quella ricchezza dei personaggi che saranno poi costanti e anzi accentuate in tutti i romanzi dostoevskiani della maturità. La narrazione non è mai
del tutto lineare, né segue il punto di vista di un solo personaggio. Si svolgono anzi in parallelo ben tre storie, con diversi narratori e con una loro
autonomia relativa: la linea portante, condotta da un narratore onnisciente, che vede al centro lo studente Raskol’nikov, quella narrata in prima persona dall’ubriacone Marmeladov (che proviene dal nucleo progettuale per
un altro romanzo) e infine quella, raccontata in una lettera della madre
dello studente, sulle vicende della sorella Dunja.
Nel romanzo si illustrano soprattutto due opposte concezioni del
mondo: quella elitaria di Raskol’nikov, avvicinabile alle teorie del superuomo, che riconosce a una strettissima minoranza di individui il diritto di
Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo

porsi al di sopra della legge e della morale, e quella di ispirazione cristiana, basata sulla morale del sacrificio e dell’amore, di Sonja – una giovane che convince Raskol’nikov a confessare alle autorità la propria colpa.
Se il racconto porta il lettore a contatto con i vicoli e le casupole di
Pietroburgo, con le sofferenze e i problemi del suo popolo, la città diventa però anche metafora dell’interiorità nella quale il protagonista si muove
alla ricerca di una verità. Tale profondo e tormentato scavo nella interiorità costituisce la caratteristica che fa del romanzo uno dei testi base della
tradizione europea.
Lo studente Raskol’nikov uccide a Pietroburgo una vecchia usuraia e
sua sorella per denaro, ma anche per un malsano senso di superiorità.
Riesce a evitare di essere scoperto, ma la sua colpa e il timore di essere
identificato lo perseguitano. Mentre vaga sconvolto, senza meta, incontra
la più varia umanità di malfattori e diseredati, in particolare la famiglia dell’ubriacone Marmeladov, tra cui la dolce Sonja, che è stata spinta alla prostituzione. La giovane lo induce a costituirsi, quindi lo segue in Siberia
dove è inviato ai lavori forzati. Là, con Sonja, Raskol’nikov troverà consolazione.
Una storia a sé è costituita dalle vicende della sorella di Raskol’nikov,
Dunja, che cerca di aiutarlo in tutti i modi, anche accettando di sposare per
denaro un losco personaggio.
Un delitto senza ragione?
Raskol’nikov ha compiuto il suo delitto ed è in preda a una profonda agitazione;
convocato dalla polizia per altri motivi, è stato sul punto di tradirsi. Torna poi a casa,
dove ha lasciato gli oggetti sottratti all’usuraia che ha ucciso. Il brano è incentrato sull’ansia del protagonista, una frenesia invincibile che si esprime soprattutto in un’esigenza di fare in fretta. La riflessione ininterrotta e febbrile sul modo di disfarsi delle
prove porta Raskol’nikov a interrogarsi sullo sguardo altrui, sulla possibile visibilità della
colpa. Poi credendo, o illudendosi, di essersi liberato finalmente di un peso così schiacciante, è invaso da un sentimento anch’esso estremo, una gioia che lo fa ridere istericamente, nella speranza di aver cancellato il ricordo dell’evento, e così la sua colpa. Le
emozioni si succedono vorticose nella psiche scossa di Raskol’nikov, egli indaga sulle
motivazioni stesse della propria azione delittuosa, che si fanno sempre più oscure.
«E se la perquisizione l’avessero già fatta? E se me li trovassi già in casa?»
Ma ecco la sua stanza. Niente e nessuno: non c’è stato nessuno. Anche
Nastasja non ha toccato nulla. Ma santo Iddio! Come aveva potuto lasciare tutta la roba in quel buco?
Si slanciò verso l’angolo, ficcò la mano sotto la tappezzeria e cominciò
a tirar fuori gli oggetti e a riempirsene le tasche. Erano otto in tutto: due

M. S. Sapegno
scatolette, con dentro orecchini o qualcos’altro del genere: non stette ad
esaminarli; poi quattro astuccetti di marocchino. Una catenina era avvolta
semplicemente in un pezzo di giornale. Qualcos’altro, forse una decorazione, pure in un pezzo di giornale…
Ficcò tutto in varie tasche, quelle del soprabito e la tasca destra dei calzoni, l’unica rimasta, badando che si notasse il meno possibile. Insieme a
quegli oggetti prese anche il borsellino. Poi uscì dalla stanza, questa volta
lasciando addirittura la porta spalancata.
Camminava con passo rapido e fermo, e sebbene si sentisse a pezzi, era
cosciente di quel che faceva. Temeva d’essere inseguito, e che di lì a
mezz’ora o a un quarto d’ora potessero già dare ordine di pedinarlo; quindi occorreva far scomparire al più presto ogni indizio. Doveva riuscirci finché gli restavano ancora un po’ di forze e una residua capacità di ragionamento… Ma dove andare?
Aveva già deciso da un pezzo: buttare tutto nel canale, così sparisce
ogni traccia e la faccenda è chiusa. Lo aveva deciso già durante la notte,
nel delirio, negli istanti in cui, lo ricordava bene, a più riprese era stato lì
lì per cedere all’impulso di alzarsi e di uscire: «Sbrigarsi, sbrigarsi e buttar
via tutto». Ma la faccenda si rivelò molto difficile.
Da mezz’ora, o forse più, si aggirava lungo il canale Ekaterininskij, e più
volte, passandoci accanto, aveva lanciato sguardi furtivi alle rampe che
portavano al canale. Ma quanto ad agire, era il caso di pensarci due volte:
c’erano, proprio di fianco ai passaggi, certi pontoni su cui le lavandaie stavano inginocchiate; oppure c’erano barche all’ormeggio, e dovunque era
un brulicare di gente, tanto che avrebbero potuto vederlo da qualsiasi
parte, lungo le strade che costeggiavano il canale: desta sospetto uno che
scende, si ferma e getta qualcosa in acqua. E poi, se gli astucci non fossero andati a fondo, se avessero cominciato a galleggiare? Senza dubbio
sarebbe andata così, e tutti li avrebbero notati. Già adesso, incrociandolo,
tutti lo guardavano, lo squadravano, come se non avessero altro da fare.
«Perché, poi? Forse è soltanto una mia impressione», pensò.
Infine gli venne in mente che sarebbe stato meglio, forse, arrivare sino
alla Neva. Ci sarebbe stata meno gente, minor rischio d’esser notato;
comunque sarebbe stato più agevole e, ciò che più conta, era lontano da
lì. A un tratto si meravigliò: come mai aveva sprecato una buona mezz’ora a girovagare, tutto triste e inquieto, in quei posti pericolosi? Come mai
non ci aveva pensato prima? Aveva perso mezz’ora buona per una cosa
assurda, solo perché aveva deciso così nel sonno, nel delirio! Stava diventando terribilmente distratto e smemorato, e se ne rendeva conto. Doveva
spicciarsi ad ogni costo!
Si avviò verso la Neva seguendo il V-j Prospekt; ma per via, all’im-
Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo

provviso, lo colse una nuova idea: «Perché nella Neva? Perché proprio
nell’acqua? Non sarebbe meglio andare in qualche posto molto lontano,
sia pure di nuovo sulle Isole, e là, in un angolino solitario, in un
boschetto, sotto un cespuglio, seppellire tutta questa roba, e magari
tenere a mente il posto?» Benché sentisse che non poteva, in quel
momento, prendere decisioni chiare e sensate, l’idea gli sembrò azzeccatissima.
Ma era destino che non arrivasse nemmeno sulle Isole, perché le
cose presero un’altra piega: sbucando dal V-j Prospekt sulla piazza, d’un
tratto scorse, a sinistra, l’ingresso a un cortile fiancheggiato da muri
senza finestra. Sulla destra, appena oltre il portone, cominciava, e si
spingeva lontano nel cortile, il muro senza intonaco e senza finestre del
vicino fabbricato a quattro piani. Sulla sinistra, sempre subito dopo il
portone e parallelamente a questo muro, correvauna stecconata, che
proseguiva per una ventina di passi nel cortile e poi piegava a sinistra.
Era un posto riparato e solitario che serviva da deposito di materiali. Più
in là, in fondo al cortile, s’intravvedeva dietro la stecconata il profilo di
una bassa rimessa in muratura, tutta affumicata, che faceva corpo, evidentemente, con qualche fabbrica. Dentro c’era, di sicuro, l’officina di
un carradore1 o di un fabbro, o qualcosa di analogo; tutto, a partire
quasi dal portone, era nero di polvere di carbone. «Ecco il posto per
buttar via la roba e andarmene!» pensò. Non vedendo nessuno nel cortile, varcò il portone, e proprio lì accanto vide, a ridosso dello steccato, uno scolo per l’acqua sudicia (com’è frequente nelle case abitate in
prevalenza da operai, artigiani, vetturini, ecc.): al di sopra, sulla stecconata, era scritta col gesso la solita spiritosaggine: «Vietato fermarsi». Era
già un bene, dunque, il fatto che nessuno potesse sospettarlo d’essere
entrato lì e di esservisi fermato. «Gettare tutto quanto alla rinfusa, e
andarsene!»
Dopo essersi guardato attorno ancora una volta, aveva già ficcato
una mano in tasca, quando a un tratto, proprio vicino al muro esterno,
tra il portone e lo scolo d’acqua, in uno spazio di un metro circa al massimo, notò una grossa pietra non sgrossata, del peso approssimativo di
una ventina di chili, appoggiata direttamente al muro esterno. Oltre il
muro c’erano la strada, il marciapiede, si sentiva l’andirivieni dei passanti, sempre abbastanza numerosi in quel punto; ma dietro il portone
nessuno poteva vederlo, a meno che non avesse deviato dalla strada,
cosa che d’altronde era possibilissima: bisognava quindi sbrigarsi.
Egli si chinò sulla pietra, ne afferrò saldamente, con tutt’e due le
mani, la sommità, chiamò a raccolta tutte le sue forze e la rovesciò.
Sotto s’era formata una piccola cavità: subito egli cominciò a gettarvi il

M. S. Sapegno
contenuto delle sue tasche. Il borsellino finì proprio in cima, ma nella
cavità c’era ancora spazio. Quindi afferrò di nuovo il sasso, con una sola
mossa lo rivoltò com’era prima ed esso ritrovò esattamente lo stesso
posto; soltanto appariva, forse, un tantino più alto.
Ma egli raccolse un po’ di terra e con il piede la schiacciò contro gli
orli del sasso. Così non rimanevano tracce.
Allora uscì, e si diresse verso la piazza. Di nuovo, come prima all’ufficio di polizia, l’invase per un istante una gioia intensa, quasi insopportabile. «L’incidente è chiuso! A chi mai verrà in mente di cercare sotto
quella pietra? È probabile che essa si trovi lì da quando è stata costruita la casa, e che vi rimanga per altrettanto tempo. Ma anche se trovano
la roba, chi può pensare a me? È tutto finito! Non esistono prove!» e
scoppiò a ridere. In seguito si ricordò di quel suo ridere nervoso, minuto, sommesso, prolungato, e di aver continuato a ridere mentre attraversava la piazza. Ma quando arrivò al corso K., dove due giorni prima
aveva incontrato quella ragazza, smise subito di ridere. Altri pensieri gli
occuparono la mente. Di colpo gli sembrò di provare un tremendo
disgusto nel passare davanti a quella panchina, sulla quale quel giorno,
dopo che la fanciulla se n’era andata, era rimasto seduto a meditare, e
pensò come sarebbe stato penoso incontrare di nuovo quell’agente al
quale aveva dato venti copeche2: «Che il diavolo se lo porti!»
Camminava guardandosi in giro distratto e iracondo. Tutti i suoi pensieri vorticavano ora intorno a un punto fondamentale, ed egli stesso
sentiva che era davvero fondamentale e che adesso, proprio adesso,
egli rimaneva a tu per tu con esso, per la prima volta, dopo due mesi.
«Che vada tutto al diavolo!» pensò d’un tratto in un accesso di rabbia
smisurata. «Be’, se la faccenda ha preso questa piega, è segno che doveva prenderla: al diavolo lei e la nuova vita! Dio mio, com’è tutto stupido! e quante bugie ho detto oggi, quante porcheriole ho fatto! Come
sono stato schifosamente servile e strisciante, poco fa, con quel ributtante Iljà Petròvic3! Del resto, anche queste sono sciocchezze! Me ne
infischio di tutti loro, e anche di esser stato servile e strisciante! Non è
questo che conta! Non è questo! Non è questo!…»
D’un tratto si fermò: all’improvviso una nuova domanda, completamente imprevista e straordinariamente semplice, lo disorientò, colmandolo di amaro stupore:
«Se davvero tutto questo l’ho fatto coscientemente e non da pazzo,
se mi proponevo davvero uno scopo ben preciso, come mai non ho
neanche guardato nel borsellino e non so neanche che cosa mi è toccato, per che cosa mi sono cacciato in tutti questi guai, decidendomi
consapevolmente ad un’azione così vile, disgustosa e bassa? Poco fa
Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo

volevo addirittura buttarlo nell’acqua, il borsellino, insieme a tutti gli
oggetti che nemmeno ho guardato… Come si spiega?».
(da F. Dostoevskij, Delitto e castigo, trad. di G. Kraiski, Garzanti, Milano 1969).
Note
1. carradore: artigiano che costruisce o ripara carri.
2. copeche: le copeche sono monete russe, originariamente d’argento. Oggi equivalgono a un
centesimo del rublo.
3. Iljà Petròvic: tenente di polizia rozzo e insolente.
MARIA SERENA SAPEGNO

M. S. Sapegno
MICHAIL BACHTIN, Il romanzo polifonico di Dostoevskij
e la sua interpretazione nella letteratura critica
in M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 2002
[…] La pluralità delle voci e delle coscienze indipendenti e disgiunte, l’autentica
polifonia delle voci pienamente autonome costituisce effettivamente la caratteristica fondamentale dei romanzi di Dostoevskij. Nelle sue opere non si svolge una quantità di
caratteri e destini per entro un unitario mondo oggettivo e alla luce di un’unitaria
coscienza poetica, ma qui appunto una pluralità di coscienze equivalenti con i loro propri mondi si unisce, conservando la propria incompatibilità, nell’unità di un certo evento. Gli eroi principali di Dostoevskij sono veramente, nello stesso disegno creativo dell’artista, non soltanto oggetti della parola dell’autore, ma anche soggetti della propria
parola immediatamente significante. La parola dell’eroe, quindi, non è qui esaurita
affatto dalle consuete funzioni descrittive e pragmatico-narrative, ma non serve neppure da espressione della posizione ideologica propria dell’autore (come in Byron, ad
esempio). La coscienza dell’eroe è data come una coscienza altra, estranea, ma nello
stesso tempo essa non si reifica, non si chiude, non diventa semplice oggetto della
coscienza dell’autore.
Dostoevskij è il creatore del romanzo polifonico. Egli ha dato vita a un genere
romanzesco sostanzialmente nuovo. Ed è per questo che la sua opera non rientra in
alcuna trama, non si sottomette ad alcuno degli schemi storico-letterari che siamo soliti applicare ai fenomeni del romanzo europeo. Nelle sue opere compare un eroe la cui
voce è costruita così come si costruisce la voce dell’autore nel romanzo di tipo ordinario. La parola dell’eroe su se stesso e sul mondo è pienamente autonoma come l’ordinaria parola dell’autore; essa non è assoggettata all’immagine oggettuale dell’eroe
come una delle sue caratteristiche, ma neppure serve da altoparlante della voce dell’autore. Possiede un’autonomia assoluta all’interno della struttura dell’opera e quasi
risuona accanto a quella dell’autore e si unisce in un modo particolare con essa e con
le voci altrettanto autonome degli altri eroi.
Ne consegue che i consueti legami pragmatico-narrativi d’ordine materiale o psicologico nel mondo di Dostoevskij sono insufficienti poiché essi presuppongono
l’oggettualità, la reificazione degli eroi nel progetto dell’autore e connettono e uniscono le immagini umane nell’unità di un mondo monologicamente percepito e
capito, anziché una molteplicità di coscienze equipollenti con i loro propri mondi.
La consueta pragmatica narrativa nei romanzi di Dostoevskij svolge un ruolo secondario ed ha funzioni non consuete, ma particolari. I punti connettivi fondamentali
invece, che creano l’unità del suo mondo romanzesco, sono di altro genere; l’evento principale, appalesato dal suo romanzo, non si concede a un’interpretazione
pragmatico-narrativa.
Inoltre lo stesso impianto del racconto – sia esso condotto dall’autore in prima persona o da un narratore o da uno degli eroi – deve essere affatto diverso rispetto ai
romanzi di tipo monologico. La posizione dalla quale è condotto il racconto, è costruita la raffigurazione o è data l’informazione, deve essere orientata in modo nuovo in
rapporto a quel nuovo mondo: un mondo di soggetti con pieni diritti, e non di ogget-
Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo

ti. La parola narrativa, raffigurativa o informativa deve elaborare un nuovo rapporto
verso il proprio oggetto.
Per tal modo tutti gli elementi della struttura del romanzo sono in Dostoevskij
profondamente originali; essi sono tutti determinati dal nuovo compito artistico che soltanto egli ha saputo porre e risolvere in tutta la sua ampiezza e profondità: il compito
di costruire un mondo polifonico e di distruggere le forme costituite del romanzo europeo fondamentalmente monologico (ovvero omofonico).
Dal punto di vista di una conseguente visione e comprensione monologica del
mondo raffigurato e del canone monologico di costruzione del romanzo, il mondo di
Dostoevskij può sembrare un caos, e la struttura dei suoi romanzi un conglomerato di
materiali eterogenei e di principi incompatibili di organizzazione formale. Soltanto alla
luce del fondamentale compito artistico dostoevskiano da noi formulato può diventare comprensibile la organicità, coerenza e integrità profonda della sua poetica.
Guerra e pace
di Lev Tolstoj
Appena scomunicato dal Santo Sinodo (1901), Lev Tolstoj (1828-1910)
replicò con una dichiarazione che, capovolgendo un aforisma di Samuel
Coleridge, si concludeva dicendo: «Ho cominciato ad amare la mia religione ortodossa più della mia tranquillità, poi ho amato il cristianesimo più
della mia chiesa, adesso amo la verità più di qualsiasi cosa al mondo. E
per me la verità coincide ancora col cristianesimo come io lo confesso,
vivo tranquillo e pacifico e mi approssimo felicemente alla morte».
L’anelito alla «verità» (che investe i temi fondamentali della vita: il sesso,
la famiglia, l’amore, la società, la morte, Dio) lo ha guidato nella ricerca
non solo sul versante etico-politico (e religioso), anche su quello estetico:
perciò, a differenza di altri autori – si pensi ad es. a N. Gògol’ – per i quali la riflessione etico-religiosa ha ostacolato la creazione letteraria, Tolstoj
ha coniugato insieme l’uno e l’altro, fino al termine dei suoi giorni. Ciò implica che, nella sua modernità, il suo «realismo» risulti d’una pasta particolare, teso più alla «verità» che alla «verisimiglianza», rivelando un legame sotterraneo con la cultura russo-antica, pre-petrina: di qui, anche, la sua avversione per una poetica, come quella del simbolismo, che ai suoi occhi
disgiungeva l’estetico dall’etico.
L’ideologia e l’arte di Tolstoj si trovano a fare i conti con il complesso
intreccio tra la sua origine aristocratica e l’aspirazione a identificare l’«uomo
di natura» roussoviano nel mu≈ík russo. Lo ha evidenziato Lev Trockij in
un intervento per gli ottant’anni dello scrittore, in cui dice: «Nella casa avita,
Tolstoj occupa una camera semplice alle cui pareti è appesa una sega,
appoggiata una falce, con una scure che sta lí accanto. Però al piano superiore dalle pareti guardano gli antenati illustri. Nell’anima del padrone di
casa troviamo entrambi i piani, ma in ordine inverso: se negli strati superiori della coscienza s’è fatta il nido la filosofia della vita semplice e della
fusione col popolo, in quelli inferiori, dove si radicano sentimenti, passioni e volontà, ci guarda la galleria degli antenati».
Tutta la vasta produzione tolstojana, iniziata con testi autobiografici
(Infanzia, Adolescenza, Giovinezza), culminata in tre grandi romanzi

C. G. De Michelis
(Guerra e pace, Anna Karenina e Resurrezione) e coronata da alcuni racconti (La morte di Ivan Il’i∫, La sonata a Kreutzer, Chad≈i-Murat, Padre
Sergij), è sotto il segno della più radicale ‘sincerità’, resa percettibile col
procedimento dello straniamento (V. ◊klovskij): con grande consapevolezza della non-coincidenza tra i realia impiegati e la loro funzione letteraria. Quando una conoscente gli chiese chi fosse in realtà il principe
Andrej, rispose: «Andrej Bolkonskij non è nessuno, come ogni personaggio d’un romanziere, e non ha niente a che vedere con le conoscenze e i
ricordi dello scrittore. Mi sarei vergognato di venir pubblicato, se tutto il
mio lavoro fosse consistito nel fare ritratti» (tuttavia, alla base del romanzo
c’è la tradizione di famiglia, e quella materna si chiamava ‘Volkonskij’);
anzi, era infastidito quando si cercava di entrare nella sua ‘cucina’, e ad
Alessandro d’Ancona, che gli aveva scritto per aver conferma che l’abate
Morio avesse come prototipo Scipione Piattoli, non rispose nemmeno.
Guerra e pace
Sullo sfondo della storia russa ed europea d’età napoleonica, da Austerlitz fino alla ritirata di Russia, si dipanano le vicende di tre famiglie, i Kuràgin, i Rostòv e i Bolkónskij, e d’un loro comune amico, l’intellettuale Pierre Bezúchov. Andréj Bolkonskij, precocemente vedovo e ferito in battaglia,
s’innamora, riamato, della giovanissima Nata√a Rostova, il cui fratello
Nikolàj nutre un tenero sentimento per Sònja, una parente povera accolta
in casa. Le vicende della storia allontanano Andrej e Nata√a sta per cedere
alla corte di Anatòlij Kuragin, un bellimbusto la cui sorella, Elèna, aveva
sposato Pierre. Durante l’avanzata delle truppe napoleoniche, fino alla conquista di Mosca, e al successivo incendio, tutto viene stravolto: Pierre è catturato dai francesi e nella tragica marcia al loro seguito conosce la saggia
semplicità del popolo russo nella persona d’un mu≈ik, Platòn Karatàev. Andrej, ferito gravemente, è accolto per caso nel convoglio dei Rostov in fuga da Mosca, morendo tra le braccia di Nata√a e della sorella Màr’ja. Nella
Russia finalmente liberata, la vita riprende: Nikolaj sposa la principessa
Màr’ja, pur col triste rimpianto dell’amore per Sonja, e Pierre, ormai libero,
sposa Nata√a, maturatasi tra le vicende pubbliche e private: «C’è un tempo
per la guerra e un tempo per la pace», dice l’Ecclesiaste (3, 8).
La morte del principe Andrej
Libro quarto, parte I, cap. XVI
Il principe Andrej mortalmente ferito in battaglia, giace presso i Rostov, a Jaroslavl’,
assistito da Nata√a e da Sonja. Vi giunge da Vorone≈ anche la principessa Mar’ja, col nipo-
Lev Tolstoj, Guerra e pace

tino. Mentre Pierre (le cui vicende vengono alternate a queste) era rimasto a Mosca, dov’era stato catturato dai francesi, gli altri protagonisti s’incontrano presso il letto di Andrej,
che a un tratto accetta la prossima fine intendendola quasi come un risveglio, e nel contempo si stacca dagli affetti terreni, per inglobarli in un Amore superiore e diverso.
Il principe Andrej ritrova l’amore di Nata√a ormai sul letto di morte. Viene assistito
anche da Sonja, la parente povera innamorata di Nikolaj, che la madre, preoccupata
della situazione economica della famiglia, spinge a sposare Mar’ja, la futura erede della
fortuna dei Bolkonskij; e Mar’ja compare anche lei accanto ad Andrej morente, portandogli il figlio presto orfano. Le due famiglie stanno per intrecciare le loro sorti, e la
trama di preoccupazioni materiali e di passioni complica il mondo dei sentimenti, che
l’A. descrive con penetrazione psicologica non disgiunta dalla lucida consapevolezza
della complessità della vita.
Nata√a ha vent’anni (ne aveva 13 quando la s’incontra per la prima volta nelle pagine del romanzo, nel 1805), ma le tumultuose vicende pubbliche – la guerra, la fuga da
Mosca, la rovina economica della famiglia – e private – l’amore non più infantile per il
principe Andrej, il tradimento quasi consumato ai suoi danni con Anatolij –, l’hanno
rapidamente maturata: imparare a far la calza, sia pure in una situazione eccezionale ed estrema, è per lei il primo passo verso la sua maturazione in madre di famiglia,
quale la vedremo nelle ultime pagine come moglie di Pierre Bezuchov.
Il lento e progressivo disegno dell’uomo che s’avvicina al passo estremo rispecchia la
particolare intensità con cui Tolstoj ha sempre affrontato il tema della morte (c’è un suo
racconto, il Diario di un pazzo, imperniato sulla sua personale, tremenda, ‘notte di
Arzamàs’, 1864). Il percorso va dal distacco emotivo dalla vita che gli sta sfuggendo, alla
improvvisa scoperta – tutta interiore – del paradossale accesso alla Vita vera, con la percezione della morte come ‘risveglio’. Un procedimento analogo a quello de La morte di
Ivan Il’i∫, quando il protagonista sente che la fine s’avvicina, ed è per lui un entrare a
forza in una buca buia, fin quando «là in fondo, in fondo alla buca, qualcosa si accese e brillò» e «invece della morte c’era la luce».
Prima, aveva paura della fine. Due volte aveva provato questo senso
terribilmente tormentoso di paura della morte, e ora non lo capiva più.
La prima volta aveva provato questo sentimento mentre la granata girava come una trottola davanti a lui, ed egli guardava le stoppie, i cespugli,
il cielo, e sapeva che davanti a lui c’era la morte. Quando era rientrato in
sé dopo la ferita, e nell’anima sua, come liberato dal peso della vita che lo
tratteneva, era sbocciato in un istante quel fiore dell’amore eterno, libero,
non legato a questa vita, egli già non temeva più la morte e non vi pensava più.
In quelle ore di dolorosa solitudine e di semidelirio che aveva trascorse
dopo la ferita, quanto più meditava su quel nuovo principio di amore eterno che gli si era rivelato, tanto più, senza nemmeno accorgersene, ripudiava la vita terrena. Amare tutto e tutti, sacrificarsi sempre per amare significava non amar nessuno, significava non vivere di questa vita terrena. E quan-
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C. G. De Michelis
to più si penetrava di questo principio d’amore, tanto più si staccava dalla
vita e tanto più pienamente distruggeva quella tremenda barriera che, quando manca l’amore, sta fra la vita e la morte. Quando, in quel primo tempo,
si ricordava che doveva morire, diceva fra sé: «Che importa? Tanto meglio».
Ma dopo quella notte a Myti√∫i1, quando nel suo semidelirio gli era comparsa innanzi colei che egli desiderava e quando, premendo la mano di lei
sulle labbra, aveva pianto sommesse lacrime di gioia, l’amore per una donna
s’era infiltrato inavvertito nel suo cuore e di nuovo l’aveva riattaccato alla vita. E pensieri lieti e tormentosi avevano cominciato a riprenderlo. Ricordandosi di quel momento, al posto di medicazione, quando aveva veduto Kuràgin2, ora non poteva più tornare al sentimento d’allora: il dubbio se egli vivesse ancora o no lo tormentava. E non osava domandarne a nessuno.
La sua malattia faceva il suo corso fisico, ma ciò che Nata√a chiamava
gli è accaduto accadde due giorni prima dell’arrivo della principessina
Mar’ja. Questa era l’ultima lotta morale fra la vita e la morte, nella quale la
morte riportò la vittoria. Fu l’inattesa consapevolezza di avere ancora cara
la vita, che gli si presentava nell’amore per Nata√a, e l’ultimo rassegnato
accesso di terrore davanti all’ignoto.
Era sera. Egli, come di solito dopo pranzo, era in uno stato leggermente febbrile e i suoi pensieri erano straordinariamente lucidi. Sonja sedeva
presso la tavola. Egli si mise a sonnecchiare. A un tratto fu preso da un
senso di gioia.
«Ah! è lei che è entrata», pensò.
Difatti al posto di Sonja s’era seduta allora allora Nata√a, entrata a passi
silenziosi.
Da che ella lo assisteva, egli provava sempre questa sensazione fisica
della sua presenza. Ella sedeva sulla poltrona, di fianco a lui, nascondendogli con la persona la luce della candela e faceva la calza. (Ella aveva imparato a far la calza da quella volta che il principe Andrej le aveva detto
che nessuno sa curar meglio i malati delle vecchie bambinaie che fanno la
calza, e che nel far la calza c’è qualcosa di calmante). Le sue dita sottili movevano rapidamente i ferri che a tratti si urtavano fra loro ed egli poteva
veder chiaramente il profilo pensieroso del viso chinato di lei. Ella fece un
movimento, il gomitolo le cadde dalle ginocchia. Ella si scosse, lo guardò
e, riparando con la mano la candela, con un gesto cauto, svelto e preciso
si chinò, raccolse il gomitolo e si rimise a sedere nella stessa posizione.
Egli la guardava senza muoversi e si accorse che dopo quel movimento ella avrebbe dovuto respirar forte, ma non si decideva a farlo e tratteneva con precauzione il respiro.
Al convento della Tròica3 avevano discorso del passato ed egli le
aveva detto che, se fosse vissuto, avrebbe in eterno ringraziato Dio per
Lev Tolstoj, Guerra e pace

la sua ferita che lo aveva riunito a lei; ma da quel momento non avevano parlato più dell’avvenire.
«Può essere o no? – egli pensava ora, guardandola e ascoltando il leggero rumore dei ferri. – Possibile che la sorte ci abbia così stranamente
riuniti soltanto perché io debba morire?… Possibile che la verità della
vita mi si sia rivelata soltanto perché io viva nella menzogna? Io l’amo
più di tutto al mondo. Ma che posso fare se l’amo?» disse egli, e a un
tratto si mise involontariamente a gemere per l’abitudine che ne aveva
presa nel tempo delle sue sofferenze.
Udendo questo suono, Nata√a posò la calza, si curvò dalla sua parte
e, scorgendo i suoi occhi luccicanti, gli si avvicinò con passo leggero e
si chinò su di lui.
– Non dormite?
– No, da un pezzo vi sto guardando: ho sentito quando siete entrata.
Nessuno come voi mi dà questa pace così dolce… questa luce. Avrei
voglia di piangere dalla gioia.
Nata√a si fece ancor più vicina a lui. Il suo viso era illuminato da una
gioia piena di fervore.
– Nata√a, io vi amo troppo! Più di tutto al mondo.
– Ed io? – Ella si volse un momento in là. – Perché troppo? –
domandò.
– Perché troppo?… Ditemi quel che pensate, quel che sentite nell’anima vostra: potrò vivere? Che ve ne pare?
– Ne sono sicura! ne sono sicura! – gridò quasi Nata√a, prendendogli
le due mani con gesto appassionato.
Egli tacque un poco.
– Come sarebbe bello! – E presa la mano di lei, la baciò.
Nata√a era felice, ma sconvolta; e subito si ricordò che questo era
proibito, che egli aveva bisogno di calma.
– Intanto, non avete dormito, – disse, reprimendo la sua gioia.–
Sforzatevi di prender sonno… ve ne prego.
Egli lasciò andar la sua mano, dopo averla stretta, ed ella tornò verso
la candela e sedette di nuovo nell’atteggiamento di prima. Due volte si
volse a guardarlo e gli occhi di lui le sfavillarono incontro. Ella si assegnò il compito di fare tanti giri di calza, e si disse che non si sarebbe
voltata finché non li avesse finiti.
Difatti, poco dopo, egli chiuse gli occhi e si addormentò. Non dormí
a lungo e si svegliò, di soprassalto, tutto in un sudore freddo.
Addormentandosi, continuava a pensare a ciò che l’aveva occupato
in tutto quel tempo: alla vita e alla morte. E più alla morte. Si sentiva
più vicino a questa.

C. G. De Michelis
«L’amore? che cos’è l’amore?» pensava.
«L’amore si oppone alla morte. L’amore è vita. Tutto, tutto ciò che io
comprendo, lo comprendo perché amo. Tutto è, tutto esiste solamente
perché amo. Tutto è legato soltanto dall’amore. L’amore è Dio4, e morire
significa che io, una particella d’amore, ritorno alla sorgente comune ed
eterna». Questi pensieri gli parvero consolanti. Ma erano soltanto pensieri.
Mancava qualcosa in essi, c’era un che di unilaterale, di personale, di
astratto: non c’era evidenza. E continuava la stessa inquietudine, la stessa
oscurità. Si addormentò.
In sogno si vide disteso nella medesima camera dove realmente giaceva, ma non ferito, bensì sano. Molte persone insignificanti, indifferenti
apparivano davanti al principe Andrej. Egli parlava con loro, discuteva di
cose inutili. Esse si preparavano ad andare in qualche posto. Il principe
Andrej si ricordava confusamente che tutto ciò non aveva importanza e
che egli aveva altre cure ben più gravi, ma seguitava a dir loro parole frivole e argute, facendole meravigliare. Dopo poco, inavvertitamente, tutte
queste persone cominciavano a sparire e tutto cedeva il posto a una sola
questione: come chiudere la porta. Si alzava e andava verso la porta per
spingere il chiavistello e chiuderla. Dal riuscire o non riuscire a chiuder la
porta dipendeva tutto. Egli andava, si affrettava, ma le sue gambe non si
muovevano, ed egli sapeva che non sarebbe riuscito a chiudere la porta,
ma pure tendeva disperatamente tutte le sue forze. E una tormentosa
paura lo assaliva. E questa paura era la paura della morte: dietro alla porta
stava quella cosa. Mentre egli si trascinava impotente, malsicuro verso la
porta, questa cosa tremenda stava già dall’altra parte e premeva e spingeva. Qualcosa di non umano – la morte – spingeva la porta, e bisognava trattenerla. Egli si aggrappava alla porta, tendeva le ultime forze: chiuderla ormai era impossibile – almeno avesse potuto trattenerla! Ma le sue
forze erano deboli, impacciate, e, spinta da quella cosa orribile, la porta
si apriva e di nuovo si richiudeva. Ancora una volta quella cosa spingeva
da fuori. Gli ultimi sovrumani sforzi erano vani, e i due battenti si aprivano senza rumore. Quella cosa entra, ed è la morte. E il principe Andrej
morí.
Ma nel momento in cui moriva, il principe Andrej si ricordava di dormire e in quello stesso momento fece uno sforzo su di sé e si svegliò.
«Si, era la morte. Sono morto: mi sono svegliato. Sí, la morte è un risveglio». A un tratto l’anima sua s’illuminò, e il velo che fino a quel momento nascondeva l’ignoto si sollevò davanti al suo sguardo spirituale. Egli
sentì come la liberazione della forza che prima era prigioniera in lui e quella strana facilità che da quel momento non lo lasciò più.
Quando egli, svegliandosi in quel sudore freddo, si mosse sul divano,
Lev Tolstoj, Guerra e pace

Nata√a gli si avvicinò e domandò che cosa avesse. Egli non le rispose e,
senza capire, la guardò con uno sguardo strano.
Era questo quel che gli era accaduto due giorni prima che giungesse la
principessina Mar’ja. Da quel momento, come diceva il dottore, la febbre
che l’estenuava prese un cattivo carattere, ma Nata√a non si preoccupava
di quel che diceva il dottore: ella vedeva quei terribili segni morali che per
lei erano più sicuri.
Da quel giorno cominciò per il principe Andrej, insieme col risveglio dal
sonno, il risveglio dalla vita. E relativamente alla durata della vita questo
risveglio non gli parve più lento che il risveglio dal sonno relativamente
alla durata del sogno.
Non v’era nulla di pauroso né di brusco in questo risveglio, relativamente lento.
Gli ultimi giorni e le ultime ore di lui scorsero come di consueto, semplicemente. La principessina Mar’ja e Nata√a, che non si scostavano da lui,
lo sentivano. Non piangevano, non rabbrividivano e negli ultimi tempi,
sentendo questo, non vegliavano più lui (egli non era più lui, se n’era
andato lontano da loro), ma il più vicino ricordo di lui: il suo corpo. Il sentimento di entrambe era così forte che su loro non agiva il tremendo lato
esteriore della morte, ed esse non credevano necessario inacerbire il proprio dolore. Non piangevano né davanti a lui, né quando erano sole, e fra
loro non parlavano mai di lui. Sentivano di non poter esprimere con parole ciò che avevano compreso.
Tutt’e due vedevano come egli sempre più profondamente, in modo
lento e tranquillo, si staccasse da loro e sparisse lontano lontano, e tutt’e
due sapevano che cosí doveva essere e che cosí era bene.
Egli si confessò e si comunicò: tutti vennero a dirgli addio. Quando gli
condussero il figlio5, gli posò in fronte le labbra e si volse in là, non perché sentisse pena e pietà (la principessina Mar’ja e Nata√a lo capivano), ma
solo perché pensava che non si voleva altro da lui; e quando gli dissero
di dargli la sua benedizione, fece quanto gli era chiesto e si guardò intorno come per domandare se non occorresse fare qualche altra cosa..
Quando sopravvennero gli ultimi sussulti del corpo abbandonato dallo
spirito, la principessina Mar’ja e Nata√a erano presenti.
– È finito?! – disse la principessina Mar’ja, quando il corpo era già steso
innanzi a loro, immobile, da alcuni minuti e cominciava a raffreddarsi.
Nata√a si avvicinò, guardò gli occhi del morto e si affrettò a chiuderli. Li
chiuse e non li baciò, ma pose le labbra su quello che era il più vicino
ricordo di lui.
«Dov’è andato? Dov’è ora?…»
(da L. Tolstoj, Guerra e pace, trad. E. Carafa d’Andria, Einaudi, Torino 1990).

C. G. De Michelis
Note
1. Myti√∫i: località nei pressi di Mosca, oggi appena fuori del raccordo anulare, sulla strada per
Jaroslavl’.
2. Kuragin: Anatolij Kuragin, il fratello di Elena (la prima moglie di Pierre Bezuchov) che
aveva ammaliato Nata√a tanto da farle scordare l’amore per Andrej, era stato ferito e gli era stata
amputata una gamba proprio nell’ospedale da campo dov’era ricoverato anche Andrej.
3. Troica: leggi «Tròitza» (Trinità), a Sergievskij Posad, sulla strada tra Mosca e Jaroslavl’.
4. L’amore è Dio: I Giov., 8, 16.
5. il figlio: Nikolàj, che aveva avuto dalla moglie Liza, morta di parto nel 1805, ha dunque 7
anni, e ne avrà 20 all’epoca della rivolta del 1825: dunque, appartiene alla generazione del
romanzo mai scritto sui Decabristi, di cui Guerra e pace avrebbe dovuto essere l’antefatto.
CESARE G. DE MICHELIS
Lev Tolstoj, Guerra e pace

HAYDEN WHITE, Guerra e pace
in Il romanzo, vol. IV Lezioni, a c. di F. Moretti, P. V. Mengaldo, E. Franco, Einaudi, Torino 2003
Il romanzo storico del primo Ottocento fu il prodotto di due linee di sviluppo che
sarebbero state inimmaginabili anche solo un secolo prima: la trasformazione della storia in scienza e del romance in un genere letterario serio. Dal Rinascimento fino
all’Illuminismo, la letteratura storica era stata considerata una branca della retorica e
della pedagogia (un modo per insegnare la moralità attraverso gli esempi). Alla fine del
Settecento la storia fu però scorporata dalle belle lettere e messa in relazione con la
filologia, la paleografia e la diplomatica; ai primi dell’Ottocento divenne una scienza
insegnata nelle Università, e incaricata di fornire una genealogia agli stati-nazione che
andavano formandosi a seguito delle guerre napoleoniche. Questa nuova scienza storica era ufficialmente impegnata nello studio obiettivo degli avvenimenti e in una narrazione veritiera (e non più d’invenzione). Doveva essere separata dalla filosofia e dalla
teologia e limitarsi a descrivere come le cose stavano realmente anziché come avrebbero potuto o dovuto essere. Quest’ultimo compito venne demandato alla «letteratura»
e, in particolare, al romance, un genere originariamente scritto perlopiù da donne e
per donne, in cui attraverso la fantasia si poteva evadere dalla quotidianità e rifugiarsi
in un passato idealizzato fatto di avventura, amore e magia. Se Aristotele aveva distinto la storia dalla «poesia» definendo l’una la conoscenza del singolo avvenimento e l’altra dell’universale, nell’Ottocento la storia divenne la conoscenza del mondo reale, e la
letteratura il luogo dei mondi possibili. Il fatto storico divenne insomma l’esatto contrario dell’invenzione letteraria. La commistione delle due modalità era altrettanto
impensabile della mescolanza tra i sessi.
Quando dunque Walter Scott, nel 1814, pubblicò (in forma anonima) Waverley, chiese scusa per aver messo insieme ciò che Dio, l’uomo e la cultura avevano voluto tenere
separato. Malgrado l’immediata e universale popolarità del romanzo storico, Scott si scusò poiché lui stesso credeva nel nuovo tipo di storiografia, e riteneva che la conoscenza
del passato dovesse basarsi su un’accurata ricerca delle fonti originali. (Egli stesso basò
la parte storica del romanzo sull’opera di studiosi di storia, letteratura e folklore scozzesi). Egli giustificò il ricorso all’invenzione come un artificio pedagogico per facilitare l’assimilazione della materia storica da parte del gentil sesso attraverso il racconto delle avventure di Edward Waverley durante la ribellione scozzese del 1745. Scott sperava che i
suoi lettori non confondessero i fatti con la finzione e la storia con il romanzo, e cercò
di tracciare fra i due una linea di demarcazione precisa. Ma sebbene il successo internazionale avesse consacrato la legittimità del romanzo storico, gli storici di professione vi
videro un pericolo. Per mantenere la propria dignità, la storia doveva rimanere incontaminata da qualsiasi tipo di fiction, letteraria, scientifica o filosofica che fosse.
Ora, Tolstoj non condivide affatto la deferenza di Scott verso gli storici di professione. Non solo riteneva di capire la storia russa meglio degli storici; era anche convinto di comprendere la natura della realtà storica meglio degli storici e dei filosofi
della storia del suo tempo. Voleva riportare in vita il passato, far sentire che cosa si
prova in battaglia, a essere feriti, a marciare fino allo sfinimento, a soffrire la prigionia
e ad affrontare la morte per l’incompetenza dei propri superiori. E pensava che l’arte
potesse riuscirci meglio della storia. Non c’è romance nel modo in cui Tolstoj rende le

C. G. De Michelis
scene, i suoni, gli odori e il sapore della guerra. Certo, egli trasmette il senso di cameratismo tra gli uomini in battaglia, e riconosce il fascino di certe situazioni estreme – le
grandi battaglie, le cariche di cavalleria, il corpo a corpo. Ma mostra anche come l’euforia della battaglia possa venire spezzata dalle raffiche dell’artiglieria. Insomma, Tolstoj
ci trasmette la «sensazione» della guerra anziché descrivere la logistica delle campagne;
ci dà il territorio della battaglia e non la mappa che la rende trasparente e la fa sembrare più ordinata di quanto non sia.
Anche quando descrive la società Tolstoj ci dà il territorio, non la mappa. Egli voleva
rendere l’idea di che cosa significasse essere un aristocratico, appartenere alla «società»,
essere russo, avere a che fare con i servi, cacciare con i cani, stando magari tutto il giorno appostato in un nascondiglio, battersi a duello, innamorarsi, fare un buon matrimonio oppure no, allevare dei figli, veder morire un amico, essere tradito dalla persona
amata. Descrive la vita dell’aristocrazia dall’interno e in maniera benevola, anche se non
acritica, e mostra al lettore il vecchio regime nel suo ultimo grande momento, quando lo
zar era riuscito a ispirare il popolo a difendere il suolo sacro della madrepatria e la nobiltà
aveva guidato l’esercito contro l’invasore. Ma dal punto di vista del suo tempo, sessant’anni dopo il 1805 (la distanza di Scott dai fatti di Waverley), Tolstoj si rende conto
che l’aristocrazia ha i giorni contati. Nel descrivere le vicende dei Rostov, ci mostra una
tipica famiglia nobile già assillata dalle difficoltà, e con un fondamento economico – lo
sfruttamento del lavoro dei servi – in progressiva erosione. Lo stesso avviene per tutte le
altre famiglie: guidate da anziani tiranni di varia natura, la loro principale speranza è che
le figlie femmine sposino dei ricchi proprietari terrieri. No, la descrizione tolstojana della
società è altrettanto poco romantica della descrizione della guerra.
In Guerra e pace, è all’imperatore Napoleone che la storia fa dono di una sorta di follia romantica, prima concedendogli un successo militare che in realtà non merita, poi elevandolo ai fasti imperiali e infine facendogli concepire una campagna irrealizzabile. È
stata la storia a fare tutto questo, ma senza alcuno scopo morale o metafisico – perché
«storia» è semplicemente il nome che gli uomini danno ai fatti concreti, alle cose che sono
accadute in passato, accadono nel presente e accadranno in futuro. Poiché questi avvenimenti non hanno alcun fine, la loro conoscenza è sempre locale, contingente, limitata.
Di conseguenza, la discrezione è la parte migliore della conoscenza. I personaggi
«positivi» di Guerra e pace – Kutuzov, Pierre, Nikolaj Rostov, Nata√a, la principessina
Marja, Platon Karatajev – sono ricchi in virtù di tutte le conoscenze mondane che hanno
saputo abbandonare. Al termine del romanzo, dopo che Napoleone è stato respinto,
deposto ed esiliato, dopo la morte del vincitore Kutuzov, dopo che lo zar Alessandro
è caduto sotto l’influenza di mistici e ciarlatani, dopo la ricostruzione di Mosca, e il
matrimonio di Nikolaj e Marja e la nascita di quattro figli dall’unione di Pierre e Nata√a,
tutti questi personaggi hanno acquisito pochissimo in termini di saggezza umana e
ancor meno dal punto di vista del buonsenso sociale. Pierre – forse il personaggio centrale del romanzo – sembra più sconcertato che mai dalla realtà che lo circonda; Nata√a
è cresciuta, ma non maturata; Nikolaj ha risolto i propri problemi finanziari sposando
una donna che gli piace ma che non ama; lo zar è sprofondato in un’incomprensione
reazionaria della società russa che fomenterà una rivolta dopo l’altra, e così via. La storia non si può capire, ma solo sopportare – se si è fortunati.
Alla ricerca del tempo perduto
di Marcel Proust
Parigi, con la sua società aristocratica e mondana, costituisce l’ambiente vitale di Marcel Proust (1871-1922) e la sua primaria fonte d’ispirazione,
in un momento in cui la capitale francese è riconosciuta come il cuore
della letteratura e dell’arte europea. Nato da una famiglia benestante e
attratto sin da giovane dalla vita mondana, Proust si dimostra per tutta la
vita uno studioso di grande sensibilità e ampiezza d’interessi.
Esordisce precocemente, a venticinque anni, con la raccolta di prose I
piaceri e i giorni (1896), nel cui titolo va probabilmente riconosciuta un’allusione parodica alle Opere e i giorni del poeta greco Esiodo: nonostante
il libro appaia segnato dagli interessi mondani del giovane Proust, vi si manifestano già qualità che saranno poi esaltate dall’opera maggiore, come
l’attenzione quasi maniacale dedicata a un’analisi puntuale di oggetti e personaggi.
Sempre nel 1896, lo scrittore inizia a comporre Jean Santeuil: interrotto
nel 1904 e pubblicato soltanto postumo, è un corposo romanzo autobiografico, o di «formazione», che anticipa per molti aspetti Alla ricerca del
tempo perduto. L’obiettivo dell’opera è infatti fornire al lettore – secondo le
parole di Proust – «un libro che dovrebbe rappresentare me stesso». Vi
risulta inoltre già consapevolmente applicato uno dei tratti distintivi della
tecnica compositiva attuata nella Ricerca, lo sguardo che si china, come in
un’analisi al microscopio, verso i più insignificanti elementi costitutivi del
reale, verso gli oggetti e gli eventi più banali e quotidiani, dai quali è possibile ricavare la traccia di una dimensione dell’esistenza in cui è possibile
individuare un senso.
Nel 1906 Proust inizia a comporre la Ricerca. Il testo si apre con la rappresentazione di un fatto del tutto banale: la descrizione del dormiveglia,
delle riflessioni e delle impressioni di un uomo insonne nel proprio letto. Lo
scrittore rinuncia alla rappresentazione dei sentimenti eroici, delle problematiche epocali, degli ideali elevati caratteristici del romanzo ottocentesco,
per dedicarsi a tratteggiare difficoltà psicologiche e fantasie fondamentalmente ordinarie. I lettori delle case editrici dell’epoca rimangono spaesati da
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R. Antonelli
un simile approccio e rifiutano la pubblicazione del primo volume dell’opera: «sarò un po’ ottuso, – scrive uno di questi a un amico di Proust – ma non
riesco proprio a capire che un tipo possa impiegare trenta pagine per descrivere come si gira e rigira nel letto prima di prender sonno».
Ma proprio attraverso tale rappresentazione Proust può provocatoriamente porre al centro dell’opera non l’eroe del romanzo tradizionale, ma
la nudità dell’Io moderno, attraversato da angosce e dubbi, profondamente segnato da lontane esperienze infantili, insignificanti per la cultura prenovecentesca, ma traumatiche per l’ipersensibile interiorità del protagonista e basilari per la comprensione dell’individuo nella modernità post-freudiana. Nell’epoca delle macchine, della fotografia, dei giornali, di fronte a
una Storia in cui agiscono ormai masse di milioni di persone, Proust porta
al centro della narrazione e della riflessione umana la formazione e lo sviluppo dell’Io, la sua reale identità, recuperata attraverso una capillare ricostruzione della sua memoria.
La Ricerca conferisce così a dati apparentemente minimi dell’esistenza
una rilevanza fondamentale, in quanto proprio tramite tali elementi quotidiani è possibile entrare in contatto con una dimensione profonda, sepolta nei recessi della coscienza e della memoria, riattivata dal soggetto soltanto involontariamente, attraverso scatti associativi casuali, legati a sensazioni o impressioni. Tale fenomeno, che può richiamare in parte la poetica leopardiana della «ricordanza», assume in Proust un ruolo centrale, quasi
esclusivo e ossessivo, poiché proprio dal recupero di frammenti del «tempo
perduto» diviene possibile ristabilire e dotare di senso, sottraendola al
nulla, l’esistenza dell’Io e di un’intera generazione, contemplata e analizzata attraverso una nuova concezione del tempo e della memoria, forse
influenzata dal pensiero del filosofo Henri Bergson.
Nel Contro Sainte-Beuve Proust si scaglia violentemente contro quanti
confondono la biografia di un autore e la sua opera, dati che per lo scrittore devono rimanere completamente indipendenti. Lo stesso avviene nel
rapporto, pure strettissimo, che all’interno della Ricerca si pone tra il narratore omodiegetico (in cui cioè si assommano le funzioni di Io narrante e
protagonista) e l’autore Marcel Proust, sebbene il romanzo accolga numerose esperienze biografiche di Proust, riproducendo per esempio molti
degli ambienti che lo scrittore ha realmente frequentato.
Alla ricerca del tempo perduto
Il «tempo perduto» del titolo allude al tempo passato e, insieme, al
tempo «sprecato», non dedicato all’indagine interiore e alla ricerca della
verità. L’opera si conclude significativamente con il Tempo ritrovato, con il
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto

recupero del tempo «perduto» attraverso il viaggio di una coscienza laica
che muove alla conquista di una dimensione vera nel vuoto del mondo
contemporaneo, in un itinerario che è lo stesso Proust a definire l’«apprendistato di un uomo di lettere».
Romanzo «mostruoso», di oltre tremila pagine in diversi volumi, la
Ricerca segue lo sviluppo di numerosi temi, evocati di volta in volta, frammentariamente, dalle associazioni casuali e involontarie della memoria
dell’Io narrante. Al centro dell’opera si pone dunque, oltre al tempo e al
suo trascorrere/permanere nella memoria, la vicenda di un Io ormai frammentato che scava ossessivamente nella propria e nell’altrui interiorità, non
più sorretto da certezze metafisiche o religiose, ma aperto alla novità di
ogni esperienza.
La Ricerca si presenta dunque come un insieme di associazioni involontarie che seguono un percorso ordinato dalla memoria dell’autore in un
disegno complessivo circolare. Il libro conclusivo, infatti, il già citato
Tempo ritrovato, fornisce la chiave per l’interpretazione del complesso dell’opera e, in particolare, del percorso dell’Io, che al termine del proprio
viaggio riconosce la sua vocazione di scrittore, la propria dimensione
autentica. Il romanzo costituisce così a un tempo l’itinerario della ricerca e
il risultato della ricerca stessa, intesa come una sorta di quête («ricerca»,
appunto) nella fenomenologia dell’Io contemporaneo, in cui non mancano però ricordi letterari tardo-medievali, come il Roman de la rose e la
Divina Commedia.
È lo stesso Proust a paragonare la propria opera a una cattedrale gotica (medievale, quindi), con una navata centrale e molteplici corpi laterali,
quasi a significarne la ricchezza di apporti e di sfumature che la caratterizzano, al di là dell’idea portante dalla quale essa muove e intorno a cui
ruota.
Un primo, significativo esempio di tale poliedrica natura del romanzo è
rinvenibile nel fatto che l’Io presenta se stesso come un essere segnato dal
desiderio, sin dal racconto dell’infanzia, età in cui appare quasi morbosamente legato alla madre e alla nonna: questo fa sì che la Ricerca sia anche
il romanzo dell’amore, affrontato in tutte le sue possibili manifestazioni,
eterosessuali come omosessuali. Proprio l’amore infatti consente all’Io di
pervenire alla rivelazione del sé e dell’altro nel mondo: è lo strumento che
conduce fin nelle profondità dell’essere umano, inteso come complesso di
anima e corpo. Il romanzo testimonia così di una visione totalmente laica
dell’esistenza, per la quale soltanto la scrittura e la letteratura si presentano ormai come un approdo sicuro nella molteplicità di frammenti da cui
appare formata la realtà moderna.
Lo stile proustiano è vario e ricchissimo, caratterizzato da una sintassi
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R. Antonelli
ampia ed elaborata, eppure aperto a improvvise folgorazioni, in un ritmo
che aspira non solo a restituire il flusso continuo dei ricordi, ma anche, a
livello più profondo, a identificarsi con la memoria stessa.
Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann, I
Combray
Dalla parte di Swann costituisce la prima parte della Ricerca. Nelle pagine iniziali
l’autore introduce i temi principali del romanzo: le stanze e i luoghi in cui l’Io narrante ha vissuto, il sogno, il tempo, la memoria (involontaria) e la sua funzione, il desiderio. Il brano seguente è l’incipit dell’opera. Il narratore rievoca la stanza in cui ha dormito nella casa di campagna della propria famiglia, a Combray, ripercorrendo le sensazioni provate al momento di addormentarsi e i sogni la cui memoria sopravvive ai
frequenti risvegli dovuti all’insonnia.
A lungo, mi sono coricato di buonora. Qualche volta, appena spenta la
candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo
di dire a me stesso: «Mi addormento». E, mezz’ora più tardi, il pensiero che
era tempo di cercar sonno mi svegliava; volevo posare il libro che credevo di avere ancora fra le mani, e soffiare sul lume; mentre dormivo non
avevo smesso di riflettere sulle cose che poco prima stavo leggendo, ma
le riflessioni avevano preso una piega un po’ particolare; mi sembrava
d’essere io stesso quello di cui il libro si occupava: una chiesa, un quartetto, la rivalità di Francesco I e Carlo V1.
Questa convinzione sopravviveva per qualche secondo al mio risveglio;
non scombussolava la mia ragione, ma premeva come un guscio sopra i
miei occhi impedendogli di rendersi conto che la candela non era più
accesa. Poi cominciava a diventarmi incomprensibile, come i pensieri di
un’esistenza anteriore dopo la metempsicosi2; l’argomento del libro si staccava da me, ero libero di pensarci o non pensarci; immediatamente recuperavo la vista e mi sbalordiva trovarmi circondato da un’oscurità che era
dolce e riposante per i miei occhi ma più ancora, forse, per la mia mente,
alla quale essa appariva come una cosa immotivata, inspiegabile, come
qualcosa di veramente oscuro. Mi chiedevo che ora potesse essere; sentivo il fischio dei treni che, più o meno da lontano, come il canto d’un uccello in una foresta, dava risalto alle distanze, descrivendomi la distesa della
campagna deserta dove il viaggiatore si affretta verso la stazione più vicina, e il sentiero che percorre è destinato ad essere impresso nel suo ricordo dall’eccitazione che gli viene da luoghi nuovi e gesti non abituali, dai
discorsi e dagli addii scambiati poco fa sotto una lampada straniera e che
ancora lo seguono nel silenzio della notte, dalla dolcezza che si approssi-
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto

ma del ritorno. Appoggiavo con tenerezza le mie gote a quelle incantevoli del guanciale che sembrano, così piene e fresche, le gote della nostra
fanciullezza. Accendevo un fiammifero per guardare l’orologio. Quasi mezzanotte. È il momento in cui il malato che è stato costretto a mettersi in
viaggio e ha dovuto fermarsi a dormire in un albergo sconosciuto, svegliandosi per una crisi, vede con gioia scivolare sotto la porta una striscia
di luce. Che felicità, è già mattino! Fra un momento i domestici si alzeranno e lui potrà suonare, verranno a portargli aiuto. La speranza del soccorso gli dà nuovo coraggio per soffrire. Ecco, gli sembra d’aver sentito dei
passi; i passi si avvicinano, poi si allontanano. E la striscia di luce che era
sotto la porta è scomparsa. È mezzanotte; hanno spento il gas; l’ultimo
domestico se n’è andato, e bisognerà restare tutta la notte a soffrire senza
rimedio.
Mi riaddormentavo e a volte non mi svegliavo più che per brevi istanti, il tempo di sentire gli scricchiolii organici dei legni, d’aprire gli occhi per
fissare il caleidoscopio del buio, di assaporare grazie a un momentaneo
barlume di coscienza il sonno nel quale erano immersi i mobili, la stanza,
quel tutto di cui io non ero che una piccola parte e alla cui insensibilità
tornavo subito ad unirmi. Oppure, dormendo, avevo raggiunto senza sforzo un’età compiuta per sempre della mia vita primitiva, ritrovato l’uno o
l’altro dei miei terrori infantili, per esempio quello che il mio prozio mi
tirasse per i boccoli, terrore svanito il giorno – inizio per me di una nuova
era – in cui me li avevano tagliati. Il ricordo di questo avvenimento m’era
sfuggito durante il sonno, lo ritrovavo non appena riuscivo a svegliarmi
per scappare dalle mani del mio prozio, ma per precauzione mi circondavo completamente la testa con il guanciale prima di sprofondare di nuovo
nel mondo dei sogni.
Note
1. la rivalità … Carlo V: Francesco I, re di Francia (1494-1547), e Carlo V imperatore (15001558), protagonisti di un lungo conflitto per la supremazia in Europa.
2. metempsicosi: la reincarnazione delle anime, secondo una credenza diffusa in alcune religioni.
La madeleine
È questo uno dei brani fondativi della poetica proustiana. L’«Io» protagonista e narrante descrive come, un giorno qualsiasi, grazie a un dolcetto chiamato madeleine, si
fossero attivati i meccanismi memoriali in grado di richiamargli involontariamente l’infanzia a Combray. Il passato, prima «perduto», viene involontariamente rievocato e rivissuto nel presente grazie a un avvenimento casuale: l’odore di un piccolo dolce da tè
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R. Antonelli
determina una specie di «cortocircuito» fra passato e presente. Ne deriva una nuova
nozione del tempo, che viene percepito come «durata reale» (secondo la concezione del
filosofo Henri Bergson), grazie al riemergere di strati dispersi della coscienza.
E così, ogni volta che svegliandomi di notte mi ricordavo di Combray, per
molto tempo non ne rividi che quella sorta di lembo luminoso ritagliato nel
mezzo di tenebre indistinte, simile a quelli che l’accensione di un bengala1
o un fascio di luce elettrica rischiarano e isolano in un edificio che resta per
le altre parti sprofondato nel buio: abbastanza largo alla base, il salottino, la
sala da pranzo, l’imbocco del viale non illuminato dal quale sarebbe comparso il signor Swann, l’ignaro responsabile delle mie tristezze2, il vestibolo
nel quale mi sarei avviato verso il primo gradino della scala, che era così crudele salire e che costituiva da sola il tronco fortemente assottigliato di questa piramide irregolare; e, al vertice, la mia camera da letto con annesso il
piccolo corridoio dalla porta a vetri per l’ingresso della mamma; in breve,
visto sempre alla stessa ora, isolato da tutto ciò che poteva esistere intorno,
si stagliava, unica presenza nell’oscurità, lo scenario strettamente indispensabile (come quelli che figurano in testa ai vecchi copioni teatrali per le rappresentazioni in provincia) al dramma della mia svestizione; come se
Combray non fosse consistita che di due piani collegati fra loro da un’esile
scala e come se non fossero mai state, là, altro che le sette di sera. Per dire
la verità, a chi m’avesse interrogato avrei potuto rispondere che Combray
comprendeva altre cose ancora ed esisteva anche in altre ore. Ma poiché
quello che avrei ricordato sarebbe affiorato soltanto dalla memoria volontaria, dalla memoria dell’intelligenza, e poiché le informzioni che questa fornisce sul passato non ne trattengono nulla di reale, io non avrei mai avuto
voglia di pensare a quel resto di Combray. Per me, in effetti, era morto.
Morto per sempre? Poteva darsi.
Il caso ha gran parte in tutto ciò, e spesso un secondo caso, quello della
nostra morte, non ci permette di aspettare troppo a lungo i favori del
primo3.
Trovo del tutto ragionevole la credenza celtica4 secondo la quale le
anime di coloro che abbiamo perduti sono imprigionate in qualche essere inferiore, un animale, un vegetale, un oggetto inanimato, perdute davvero per noi fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci troviamo a passare accanto all’albero o a entrare in possesso dell’oggetto che
ne costituisce la prigione. Allora esse sussultano, ci chiamano, e non appena le abbiamo riconosciute, l’incantesimo si spezza. Liberate da noi, hanno
vinto la morte, e tornano a vivere con noi.
Così per il nostro passato. È uno sforzo vano cercare di evocarlo, inutili
tutti i tentativi della nostra intelligenza. Se ne sta nascosto al di là del suo
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto

dominio e della sua portata, in qualche insospettato oggetto materiale (nella
sensazione che questo ci darebbe). Questo oggetto, dipende dal caso che
noi lo incontriamo prima di morire, oppure che non lo incontriamo mai.
Erano già parecchi anni che tutto quanto di Combray non costituiva il
teatro e il dramma del mio andare a letto aveva smesso di esistere per me,
quando, un giorno d’inverno, al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una
tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, cambiai idea. Mandò a
prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano Petites madeleines
e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una «cappasanta»5. E
subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè
nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma
nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del
dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me.
Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua causa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini
della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello
stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio,
quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza. Avevo smesso di
sentirmi mediocre, contingente, mortale. Da dove era potuta giungermi una
gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma
lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura. Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo nulla di più che nella prima, una terza che mi dà un po’ meno della seconda. È tempo che mi fermi, la virtù del filtro sembra diminuire. È chiaro che la verità che cerco non è lì dentro, ma in me. La bevanda
l’ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, ma con sempre minor forza, la stessa testimonianza che io non riesco a
interpretare e che vorrei almeno poterle chiedere di nuovo ritrovandola subito intatta, a mia disposizione, per un chiarimento decisivo. Poso la tazza
e mi volgo verso il mio spirito. Trovare la verità è compito suo. Ma in che
modo? Grave incertezza, ogni volta che lo spirito si sente inferiore a se stesso; quando il cercatore fa tutt’uno con il paese ignoto dove la ricerca deve
aver luogo e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. Cercare? Di
più: creare. Eccolo faccia a faccia con qualcosa che non esiste ancora e che
lui solo può realizzare e far entrare, poi, nel raggio della sua luce. Ricomincio a domandarmi che cosa poteva essere questa condizione ignota,
che non adduceva alcuna prova logica, bensì l’evidenza della sua felicità,
della sua realtà davanti alla quale le altre svanivano. Cercherò di farla riap-

R. Antonelli
parire. Retrocedo col pensiero al momento in cui ho sorbito il primo cucchiaino di tè. Ritrovo lo stesso stato senza una chiarezza nuova. Chiedo al
mio spirito di fare un ulteriore sforzo, di richiamare ancora una volta la sensazione che sfugge. E perché niente possa spezzare lo slancio con il quale cercherà di riafferrarla, tolgo di mezzo ogni ostacolo, ogni idea estranea,
metto al riparo le mie orecchie e la mia attenzione dai rumori della stanza
accanto. Ma quando m’accorgo che il mio spirito s’affatica senza successo,
lo induco invece a prendersi quella distrazione che gli negavo, a pensare
a qualcos’altro, a ritemprarsi prima di un tentativo supremo. Per la seconda volta gli faccio il vuoto davanti, lo rimetto di fronte al sapore ancora recente di quella prima sorsata e dentro di me sento tremare qualcosa che si
sposta, che vorrebbe venir su, come se fosse stato disancorato a una grande profondità; non so cosa sia, ma sale lentamente; avverto la resistenza,
percepisco il rumore delle distanze attraversate. A palpitare così in fondo
al mio essere sarà, certo, l’immagine, il ricordo visivo che, legato a quel sapore, si sforza di seguirlo fino a me. Ma troppo lontano, troppo confusamente si dibatte; colgo a stento il riflesso neutro in cui si confonde l’inafferrabile vortice dei colori rimescolati; ma non arrivo a distinguere la forma, unico interprete al quale potrei chiedere di tradurmi la testimonianza
del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, di spiegarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratta.
Giungerà mai alla superficie della mia coscienza lucida quel ricordo,
quell’istante remoto che l’attrazione di un identico istante è venuta così da
lontano a sollecitare, a scuotere, a sollevare nel mio io più profondo? Non
lo so. Adesso non sento più niente, si è fermato, forse è ridisceso; chi può
dire se risalirà mai dalla sua notte? Dieci volte devo ricominciare, sporgermi verso di lui. E ogni volta la viltà che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante, mi ha indotto a lasciar perdere, a bere il
mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di
domani che si lasciano rimasticare senza troppa fatica. E tutt’a un tratto il
ricordo è apparso davanti a me. Il sapore, era quello del pezzetto di madeleine che la domenica mattina a Combray (perché nei giorni di festa non
uscivo di casa prima dell’ora della messa), quando andavo a dirle buongiorno nella sua camera da letto, zia Léonie mi offriva dopo averlo intinto
nel suo infuso di tè o di tiglio. La vista della piccola madeleine non m’aveva ricordato nulla prima che ne sentissi il sapore; forse perché spesso dopo
di allora ne avevo viste altre, senza mai mangiarle, sui ripiani dei pasticceri, e la loro immagine s’era staccata da quei giorni di Combray per legarsi
ad altri più recenti; forse perché, di ricordi abbandonati per così lungo
tempo al di fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s’era disgregato; le forme – compresa quella della piccola conchiglia di pasticceria, così
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto

grassamente sensuale sotto la sua pieghettatura severa e devota – erano
scomparse, oppure, addormentate, avevano perduto la forza d’espansione
che avrebbe permesso loro di raggiungere la coscienza. Ma quando di un
lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo
la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più
persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come
anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo. E quando ebbi riconosciuto il gusto del pezzetto di madeleine che la zia inzuppava per me nel tiglio, subito (benché non sapessi
ancora – e dovessi rimandare a ben più tardi il momento della scoperta –
perché quel ricordo mi rendesse tanto felice) la vecchia casa grigia verso
strada, di cui faceva parte la sua camera, venne come uno scenario di teatro a saldarsi al piccolo padiglione prospiciente il giardino e costruito sul
retro per i miei genitori (cioè all’unico isolato lembo da me rivisto fino a
quel momento); e, insieme alla casa, la città, da mattina a sera e con ogni
sorta di tempo, la piazza dove mi mandavano prima di pranzo, le vie dove
facevo qualche commissione, le strade percorse quando il tempo era bello.
E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciotola di
porcellana piena d’acqua dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili
che, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora,
tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee
della Vivonne6, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e
la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta
prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè.
(da M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, trad. di F. Calamandrei, N. Neri, Einaudi,
Torino 1991).
Note
1. bengala: ‘razzo luminoso’.
2. il signor Swann … tristezze: il vicino di casa, il cui arrivo determinava l’ora del ritiro in
camera da letto e il distacco dalla madre, che doveva ricevere l’ospite.
3. e spesso … primo: il caso potrebbe cioè non verificarsi mai.
4. celtica: dei Celti, popolazione che abitava l’Europa occidentale, e che aveva credenze religiose di tipo animista, secondo le quali era portata ad attribuire cioè un’anima a ogni fenomeno
dell’universo.
5. cappasanta: mollusco bivalve con una caratteristica conchiglia a forma di ventaglio.
6. Vivonne: corso d’acqua lungo le cui rive il narratore si recava a passeggio; l’immagine delle
ninfee proviene da una visita a una mostra del pittore impressionista Monet che proprio alle ninfee dedicò numerosissimi quadri.
ROBERTO ANTONELLI

R. Antonelli
LUCIANO DE MARIA, Alla ricerca del tempo perduto
da M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Dalla parte di Swann,
a c. di L. De Maria, trad. di G. Raboni, Mondadori, Milano 1987
Nella copia dattiloscritta, la prima parte di Du côté de chez Swann, Combray, era
stata ripartita da Proust in quattro chemises (cartelle), corrispondenti ad altrettanti capitoli del testo. Questa ripartizione, che si è persa nell’edizione stampata, individuava i
seguenti nuclei narrativi: 1) la scena del bacio materno; 2) la rivelazione della madeleine, l’evocazione di Combray e di zia Léonie; 3) la domenica a Combray; 4) i due
côtés di Meséglise e di Guermantes.
Questi nuclei corrispondono a una scansione reale del testo, ma tutto sommato
esterna. È preferibile avviare il lettore a una comprensione adeguata dell’opera mediante una segnaletica interna, poco appariscente a un primo sguardo, ma certamente più
profonda e proficua.
Nelle prime pagine […], vera e propria ouverture dell’opera, il Narratore insonne
rievoca le stanze in cui, nella sua vita, ha dormito. Longtemps, je me suis couché de
bonne heure: sono pagine memorabili, affascinanti, dolcissime, intrise dell’elegia del
passato, ma al tempo stesso programmatiche e, all’inizio, enigmatiche. L’effetto di spaesamento è fortissimo, ma, come ha scritto Adorno, Proust «senza il ronzio della ‘camera oscura’, senza la veduta panoramica del narratore onnisciente, introduce all’interno
del libro, rinuncia all’incanto e solo così lo realizza».
Alcuni tra i primi lettori, ancorati a un’estetica tradizionalistica, denunciarono in termini estremamente significativi e in fondo maldestramente efficaci, il senso di vertigine, lo sbigottimento, provato nel leggere le prime pagine della Ricerca. Ad esempio,
un letterato, Jacques Madeleine, «lettore» della casa editrice di Eugène Fasquelle, al
quale Proust aveva fatto pervenire il dattiloscritto di Du côté de chez Swann, nel 1912,
riscontrava nell’insieme, «un caso patologico, nettamente caratterizzato», e quanto alle
primissime pagine annotava: «Un tizio ha delle insonnie. Si rigira nel letto e rimugina
nel dormiveglia alcune impressioni e allucinazioni di cui certune lo riportano alle sue
difficoltà di addormentarsi, quand’era bambino, nella casa di campagna della sua famiglia a Combray. Diciassette pagine! con una frase […] di quarantaquattro righe, in cui
ci si perde». E poco dopo, in seguito al rifiuto di Fasquelle, Alfred Humblot, direttore
della casa editrice Ollendorf, così scriveva a un amico di Proust, Louis de Robert, che
gli aveva inviato e raccomandato il libro: «Caro amico, sarò un po’ ottuso, ma non riesco proprio a capire che un tipo possa impiegare trenta pagine per descrivere come si
gira e rigira nel letto prima di prender sonno».
In realtà, in queste primissime pagine della Ricerca, Proust introduce, per così dire
musicalmente, come in un’ouverture, i temi principali della sua opera, con quelle figure narrativo-esistenziali che sostanziano il libro: il tempo legato ai luoghi, la memoria
(e la memoria del corpo), il sogno, l’abitudine, il desiderio. Anche se a una prima lettura, non si possono afferrare i riferimenti ai risvegli nelle camere via via abitate dal
Narratore (a Combray, a Tansonville, a Balbec ecc.), non si può fare a meno però di
lasciarsi trasportare dall’onda dolce e impetuosa della narrazione.
Segue […] la presentazione iniziale di Combray, quello che J.-Y. Tadié ha chiamato
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto

«Combray I», cioè quanto il Narratore rievoca della cittadina prima dell’intervento miracoloso della «memoria involontaria» propiziata dalla madeleine. Assistiamo a una delle
scene capitali del «romanzo famigliare», quella in cui il Narratore bambino, angosciato
per non aver ricevuto il materno bacio della buonanotte, ottiene dal padre che la madre
passi la notte nella sua stanza. Il protagonista tornerà più volte, nel seguito del romanzo, sul significato di questo episodio: una vittoria di Pirro, che dà una soddisfazione
immediata al bambino, ma gli intacca la volontà, già fragile, e gli crea un primo senso
di colpa. Il clima intensamente, dolorosamente edipico di queste pagine è più che palese […] Da segnalare, inoltre, in questa sezione, l’irrompere della tematica erotica, con
«la stanzetta che odorava di giaggiolo», dove il fanciullo conosce i primi piaceri solitari, e con il torrione di Roussainville-le-Pin, vero e proprio emblema e epicentro della
sessualità infantile e adolescenziale nel mondo di Combray.
L’episodio famosissimo e commentatissimo della madeleine […] va interpretato correttamente come una trouvaille psicologico-esistenziale e come espediente narrativo.
Sulla base delle teorie di Bergson, ma oltrepassandole, Proust contrappone alla «memoria volontaria» (o «memoria dell’intelligenza») la «memoria involontaria», che agisce spontaneamente, per caso, in episodi come quello della madeleine. In quanto trouvaille psicologico-narrativa, ognuno di noi ha provato (specie dopo aver letto la Ricerca, s’intende!) che un odore, un sapore, una sensazione insomma, possono rievocare, con
tutto il suo contorno, una sensazione analoga del passato. Proust ha approfondito, teorizzato, codificato, divulgato questo fenomeno ma non l’ha inventato; tant’è vero che
Alfieri nel secondo capitolo della Vita ne aveva già fornito una suggestiva esemplificazione: «Ripigliando dunque a parlare della mia primissima età, dico che di quella stupida vegetazione infantile non mi è rimasta altra memoria se non quella di uno zio
paterno, il quale […] mi dava degli ottimi confetti. Io non mi ricordava più quasi punto
di lui, né altro me n’era rimasto fuorch’egli portava certi scarponi riquadrati in punta.
Molti anni dopo, la prima volta che mi vennero agli occhi certi stivali a tromba, che
portano pure la scarpa quadrata a quel modo stesso dello zio morto già da gran tempo
[…] la subitanea vista di quella forma di scarpe del tutto oramai disusata, mi richiamava ad un tratto tutte quelle sensazioni primitive ch’io avea provate già nel ricevere le
carezze e i confetti dello zio, di cui i moti ed i modi, ed il sapore perfino dei confetti mi
si riaffacciavano vivissimamente ed in un subito nella fantasia. Mi sono lasciata uscir
di penna questa puerilità, come non inutile affatto a chi specula sul meccanismo delle
nostre idee, e sull’affinità dei pensieri colle sensazioni» (il corsivo è mio).
[…]
L’episodio della madeleine è scandito teatralmente nella narrazione (non per niente la parola teatro ricorre due volte in queste pagine), quasi che Proust volesse sottolineare con enfasi, con enfasi teatrale, appunto, l’importanza di questa scena. E di fatto,
anche nel Tempo ritrovato, rivelazioni analoghe a quella della madeleine (quattro per
la precisione), mettono in moto miracolosamente, teatralmente, il processo psicologico
che porterà il Narratore alla decisione di scrivere.
Ulisse
di James Joyce
Come Alla ricerca del tempo perduto di Proust, I Buddenbrook di Mann
e L’uomo senza qualità di Musil, Ulisse di James Joyce (1882-1941) segna
un punto di arrivo e insieme di svolta nell’evoluzione della letteratura occidentale: dopo il capolavoro dello scrittore irlandese il romanzo non sarà
più lo stesso, neppure quando riprenderà a procedere lungo sentieri apparentemente più tradizionali rispetto alle intense sperimentazioni di inizio
secolo, che toccano il loro esito più alto proprio con l’opera joyciana.
L’Ulisse è infatti un libro che ha mutato la storia del romanzo e con cui è
dunque necessario fare i conti, malgrado la sua difficoltà, per comprendere la letteratura novecentesca.
James Joyce nasce nel 1882 a Dublino da una famiglia della buona
società. Tra l’ambiente culturale delle capitale irlandese, cattolico e nazionalista, e lo scrittore, aperto alle esperienze culturali europee più avanzate, si manifesta però un’immediata incompatibilità che presto trova espressione nei primi scritti e nei primi abbozzi di opere più impegnative.
Lasciata l’Irlanda, Joyce giunge, dopo lunghe peregrinazioni attraverso l’Europa, a Trieste, dove, per circa dodici anni (1904-1915 e 19191920), vive insegnando inglese, in difficili condizioni economiche. Qui
scrive undici dei quattordici racconti che vanno a comporre la raccolta,
iniziata in Irlanda, Gente di Dublino, tesa a «smascherare l’anima di quella emiplegia o paralisi che molti considerano una città». Osserva Joyce a
tale proposito: «ho scelto Dublino come scena perché quella città mi
pareva essere il centro della paralisi», a causa delle «sovrastrutture che
rendono impossibile, a Dublino, il manifestarsi della vita autentica della
persona umana; la religione (la Chiesa cattolica), le convenzioni sociali,
il dominio straniero e il gretto e inetto nazionalismo che gli si contrappone».
Sembra che la prima idea dell’Ulisse sia stata elaborata da Joyce durante il soggiorno a Roma nel 1906-1907; nell’universo creativo dello scrittore
la capitale italiana è accomunata a Dublino in quanto centro del cattolicesimo europeo. Negli anni successivi il progetto si precisa ulteriormente nel
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R. Antonelli
recupero del mito di Ulisse, dal quale l’autore era rimasto affascinato sin da
ragazzo.
Il motivo ulissiaco del viaggio e del ritorno a casa si pone all’origine sia
della letteratura greca e occidentale in genere, sia, con la Divina
Commedia, della tradizione europea moderna e cristiana. Proprio il poema
dantesco, nella sua natura di capolavoro epico della cristianità, con il viaggio di redenzione spirituale teso alla salvezza del genere umano, agisce
nell’Ulisse a livelli più profondi, pur se meno espliciti, rispetto alla stessa
Odissea. Le peregrinazioni del protagonista Leopold Bloom attraverso
Dublino rimandano così, come in Dante, a un itinerario che porta il pellegrino ad affrontare le problematiche culturali e letterarie della contemporaneità. Inoltre, come Ulisse e Dante risolvono il loro viaggio nell’incontro
con una donna (Penelope nell’Odissea, Beatrice nella Commedia), così
anche Bloom nell’Ulisse conclude la propria giornata con la moglie Molly,
una donna carnale che lo tradisce, pur restandogli sostanzialmente fedele
nello spirito, e che costituisce dunque una «parodia» della pagana
Penelope, ma anche di Beatrice, sua controfigura spirituale cristiana.
Tutto il viaggio di Bloom, come chiarisce esplicitamente Joyce, rappresenta però anche un’epopea del corpo umano, il cui ciclo è infatti fedelmente seguito dalla giornata del protagonista: a ogni fase dell’itinerario è
associato un elemento fisico, fino al riconoscimento finale della carne e del
grembo di Molly come unico possibile senso unitario della vita. Alla finalizzazione spiritualistica a cui danno voce sia la Commedia (la candida rosa
e l’incontro con la Madonna e Dio) sia Tommaso d’Aquino, chiamato esplicitamente in causa da Joyce come controparte filosofica, si contrappone un
viaggio, di una sola giornata, che si presenta come compendio di tutta l’esperienza fisica dell’uomo e negazione di quella metafisica.
Sul modello della Commedia, l’Ulisse si pone punto d’arrivo e di svolta di un’intera cultura e si fonda su una pluralità linguistica e stilistica portata fino alle estreme conseguenze, anche sul piano strutturale. Lo sforzo
immane tentato da Joyce aspira infatti a ripercorrere, parodiandolo in uno
straordinario percorso storico-culturale, l’intero immaginario letterario
europeo, dalle sue lontane origini epiche e classiche fino al romanzo ottonovecentesco, rappresentandolo nella vita e nei personaggi di una città,
cattolica e novecentesca, come Dublino. Ne emerge una sorta di grande
poema eroicomico, ma soprattutto un romanzo condotto in forma di antiromanzo, privo di trama, costruito su piani temporali sfalsati o sovrapposti nei modi più diversi, in un’inesauribile confondersi di stili diversi, in
continue riprese e parodie del linguaggio comune e letterario.
L’autore supera così le regole narrative tradizionali, spesso recuperando
intuizioni di Laurence Sterne (1713-1768), per esempio nell’esposizione
James Joyce, Ulisse

esplicita degli artifici narrativi e nell’uso dei meccanismi associativi e linguistici. Joyce cura perciò in modo particolare struttura e riferimenti esterni (ad altre opere, a cominciare dall’Odissea) e interni (tra un episodio e
un altro, tra temi e personaggi), come dimostrano anche gli schemi dell’opera presentati agli amici: il tutto tende però a un fine opposto rispetto
all’ordine rigido su cui si fonda la scrittura dell’autore. Secondo il poeta T.S.
Eliot, Joyce «ha completamente distrutto il diciannovesimo secolo. […] Ha
smascherato la futilità di tutti gli stili esistenti in inglese».
Dopo Ulisse Joyce pone mano immediatamente a un altro romanzo, La
veglia di Finnegan (Finnegan’s Wake), una sorta di continuazione, dal
punto di vista formale, del libro precedente. La realtà di riferimento appare qui mascherata attraverso un complesso gioco di simboli e miti di decifrazione sempre più ardua, in un procedimento narrativo che recupera
persino le teorie vichiane sui ricorsi storici. Il romanzo fa largo uso della
tecnica del flusso di coscienza, con un’ulteriore forte manipolazione del
linguaggio. L’opera è pubblicata nel 1939; Joyce morirà due anni dopo,
ancora in esilio volontario da quella Dublino così centrale, per quanto trasfigurata, nella sua opera.
Ulisse
Il romanzo si articola in tre sezioni, come l’Odissea omerica; tutte hanno
luogo il 16 giugno, data del primo appuntamento di Joyce con la futura
moglie. Ogni parte è a sua volta suddivisa in episodi, per un totale di
diciotto capitoli:
1. Telemachia, ovvero le avventure di Stephen-Telemaco, incentrate
sulla figura del figlio, divisa in tre episodi;
2. Odissea, ovvero le avventure di Bloom-Ulisse, incentrate sulla figura
del padre, in dodici episodi;
3. Nostos («ritorno»), ovvero il ricongiungimento di Bloom e Stephen
(Ulisse e Telemaco), a cui presiede Molly Bloom (Penelope), moglie e
madre, simbolo della donna, in tre episodi. Ogni episodio del romanzo ne
richiama esplicitamente uno dell’Odissea o accenna in qualche modo all’epos ulissiaco, ma rappresenta nel contempo una parte del corpo; ogni
momento del libro è inoltre popolato da vari personaggi, caratterizzati da
stili espressivi specifici e collocati in un preciso luogo di Dublino. Quella
dell’Ulisse è dunque una struttura complessa, tanto da risultare avvicinabile, per certi aspetti, a quella dell’oltretomba dantesco.
Per dichiarazione dello stesso Joyce, il romanzo è del resto «una specie
di enciclopedia» nella quale il mito di Ulisse è reso «nella forma del nostro
tempo»: un’epopea che ha come protagonista un irlandese ebreo medio,
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R. Antonelli
Leopold Bloom(-Ulisse), le peregrinazioni sue e del «figlio» spirituale,
Stephen(-Telemaco) durante una normale giornata vissuta nella capitale
irlandese. L’ebreo Bloom rappresenta per Joyce il tipo dell’emarginato, dell’esule, nell’ostile ambiente cattolico irlandese: era quanto aveva sperimentato l’autore stesso, costretto a peregrinare per mezza Europa a causa
della grettezza della «gente di Dublino». La capitale irlandese, con la sua
geografia materiale e simbolica (il potere della Chiesa cattolica e dello
Stato), è dunque l’altra grande protagonista del romanzo. Joyce struttura la
giornata di Bloom tenendo sott’occhio la carta topografica della città e istituendo sottili legami fra personaggi, temi e luoghi. Un altro degli obiettivi
principali dell’opera risiede infatti per Joyce, come era già avvenuto in
Gente di Dublino, nel rivelare il senso profondo di una città dalla quale,
sentendosi soffocare, l’autore aveva precocemente deciso di fuggire.
Il monologo di Molly Bloom
Siamo alla conclusione del libro e della «giornata di Leopold Bloom», che è tornato a
casa dove la moglie, Molly-Penelope, l’attende a letto. La donna pensa alla richiesta del
marito di portargli la colazione a letto, come era accaduto solo un’altra volta, molti
anni prima. Si innesca così, nel dormiveglia, una lunga fantasticheria sensuale e liberatoria.
Molly, nella struttura del romanzo, rappresenta infatti la carne in quanto donna,
moglie e madre: nell’«epica del corpo umano» che costituisce uno dei motivi strutturali profondi dell’opera, sostituisce lo Spirito della Trinità cristiana (il Padre è lo stesso
Bloom-Ulisse, il Figlio è Stephen- Telemaco, che Bloom protegge). Il monologo di Molly
Bloom (qui riprodotto in minima parte) è uno dei più famosi esempi della tecnica del
flusso di coscienza nel romanzo e nella letteratura del Novecento, il primo momento
in cui si assiste allo straordinario fenomeno di un personaggio che si costruisce narrandosi.
Il primo incontro con Bloom, rievocato nella parte finale del brano, è scandito quasi
romanticamente dalla parola «sì», ripetuta più volte in poche righe, e dall’ambiente leggiadramente campestre che fa da sfondo al dialogo tra i due, ma anche dalla capacità
di Molly di saper ragionare con disincantato realismo persino nei momenti di maggiore sentimentalità («io sapevo che me lo sarei rigirato come volevo», rr. 42-43). Joyce evoca
così una scena da romanzo ottocentesco inserendola in un contesto linguistico rovesciato che non nega il sentimento ma sa guardarlo con ironia, dall’esterno.
Molly ripensa così ai suoi tanti amori, in una sequenza rapidissima composta per il
lettore soltanto da puri nomi e da luoghi e contesti. Joyce non tenta neppure di chiarirli: è l’interiorità di Molly che è in scena e non avrebbe senso fornire, qui, spiegazioni. I
pensieri della donna scorrono rapidamente senza un apparente filo logico: i contenuti
mentali sono riprodotti così come si presentano alla coscienza della donna. La scrittura ne registra il flusso ininterrotto ricorrendo a uno stile che non prevede pause sintattiche né punteggiatura. Proprio grazie a questa tecnica il lettore coglie però l’essenziale.
James Joyce, Ulisse

Molly sta rievocando velocemente anni di vita, di sensazioni e di piaceri, localizzati in
una terra gioiosa e vivace, la Spagna, il Mediterraneo, luoghi di grande allusività per i
lettori nordici. Ma il sentimento è tutto per Bloom e per il loro primo incontro. Molly si
costruisce come una figura complessa, come una Penelope davvero moderna, attenta al
proprio uomo ma mai dimentica della propria vita e dei propri amori. Una donna completa, formata da un corpo a da un’interiorità, elementi, questi, dai quali non è possibile prescindere se si mira ad avere una compiuta conoscenza della persona.
Sì perché prima non ha mai fatto una cosa del genere chiedere la colazione a letto con due uova da quando eravamo all’albergo City Arms quando faceva finta di star male con la voce da sofferente e faceva il pascià per
rendersi interessante con Mrs Riordan1 vecchia befana e lui credeva d’essere nelle sue grazie e lei non ci lasciò un baiocco tutte messe per sé e per l’anima sua spilorcia maledetta aveva paura di tirar fuori quattro soldi per lo
spirito da ardere mi raccontava di tutti i suoi mali aveva la mania di far sempre i soliti discorsi di politica e i terremoti e la fine del mondo divertiamoci
prima Dio ci scampi e liberi tutti se tutte le donne fossero come lei a sputar
fuoco contro i costumi da bagno e le scollature che nessuno avrebbe voluto vedere addosso a lei si capisce dico che era pia perché nessun uomo si
è mai voltato a guardarla spero di non diventar come lei miracolo che non
voleva ci si scoprisse la faccia ma certo era una donna colta e quelle buggerate su Mr Riordan qua e Mr Riordan là io dico è stato felice di levarsela
di torno e il suo cane che mi odorava la pelliccia e cercava d’infilarmisi tra
le sottane specialmente quando eppure questo mi piace in lui2 così gentile
con le vecchie e i camerieri e anche i poveri non è orgoglioso di nulla proprio ma non sempre se mai gli capita qualcosa di grave è meglio che vadano all’ospedale dove tutto è pulito ma io dico mi ci vorrebbe un mese per
cacciarglielo in testa sì e poi ci sarebbe subito un’infermiera tra i piedi e lui
ci metterebbe le radici finché non lo buttan fuori o una monaca forse come
quella di quella fotografia schifosa che ha che è una monaca come lo sono
io sì perché sono così deboli piagnucolosi quando son malati ci vuole una
donna per farli guarire se gli sanguina il naso c’è da credere che sia un dramma in piena regola e quell’aria da moribondo scendendo dalla circolare sud
quando s’era slogata una caviglia alla festa della corale di Monte pan di zucchero il giorno che avevo quel vestito Miss Stack gli portò i fiori i peggio3
che aveva trovato appassiti in fondo al paniere cosa non avrebbe fatto per
entrare in camera di un uomo con quella voce da zitella cercava di immaginarsi che stesse morendo per amor suo non più mai rivederti benché avesse l’aria più da uomo con la barba un po’ lunga a letto papà era lo stesso e
poi non mi andava di fasciarlo e dargli pozioni quando si tagliò il dito del
piede col rasoio a spuntarsi i calli paura d’un avvelenamento del sangue ma
se fossi io per esempio ad ammalarmi allora vorrei vedere un po’ solo che

R. Antonelli
la donna lo nasconde si capisce per non dare tante seccature come loro sì
ha fatto qualcosa in qualche posto me ne accorgo dall’appetito comunque
non è amore sennò non mangerebbe per pensare a lei […] eravamo stesi tra
i rododendri sul promontorio di Howth con quel suo vestito di tweed grigio
e la paglietta il giorno che gli feci fare la dichiarazione sì prima gli passai in
bocca quel pezzetto di biscotti all’anice e era un anno bisestile come ora sì
16 anni fa Dio mio dopo quel bacio così lungo non avevo più fiato sì disse
che ero un fior di montagna sì siamo tutti fiori allora un corpo di donna sì
è stata una delle poche cose giuste che ha dettoin vita sua e il sole splende
per te oggi sì perciò mi piacque sì perché vidi che capiva o almeno sentiva
cos’è una donna e io sapevo che me lo sarei rigirato come volevo e gli detti
quanto più piacere potevo per portarlo a quel punto finché non mi chiese
di dir di sì e io dapprincipio non volevo rispondere guardavo solo in giro il
cielo e il mare pensavo a tante cose che lui non sapeva di Mulvey4 e Mr
Stanhope e Hester e papà e il vecchio capitano Groves e i marinai che giocavano al piattello e alla cavallina come dicevan loro sul molo e la sentinella davanti alla casa del governatore con quella cosa attorno all’elmetto bianco povero diavolo mezzo arrostito e le ragazze spagnole che ridevano nei
loro scialli e quei pettini alti e le aste la mattina i Greci e gli ebrei e gli Arabi
e il diavolo chi sa altro da tutte le parti d’Europa e Duke street e il mercato
del pollame un gran pigolio davanti a Larby Sharon5 e i poveri ciuchini che
inciampavano mezzi addormentati e gli uomini avvolti nei loro mantelli
addormentati all’ombra sugli scalini e le grandi ruote dei carri dei tori e il
vecchio castello vecchio di mill’anni sì e quei bei Mori tutti in bianco e turbanti come re che ti chiedevano di metterti a sedere in quei loro buchi di
botteghe e Ronda con le vecchie finestre delle posadas6 fulgidi occhi celava
l’inferriata perché il suo amante baciasse le sbarre e le gargotte7 mezzo aperte la notte e le nacchere e la notte che perdemmo il battello ad Algesiras8 il
sereno che faceva il suo giro con la sua lampada e Oh quel pauroso torrente
laggiù in fondo Oh e il mare il mare qualche volta cremisi come il fuoco e
gli splendidi tramonti e i fichi nei giardini dell’Alameda9 sì e tutte quelle stradine curiose e le case rosa e azzurre e gialle e i roseti e i gelsomini e i geranii e i cactus e Gibilterra da ragazza dov’ero un Fior di montagna sì quando
mi misi la rosa nei capelli come facevano le ragazze andaluse o ne porterò
una rossa sì e come mi baciò sotto il muro moresco e io pensavo be’ lui ne
vale un altro e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora sì allora mi
chiese se io volevo sì dire di sì mio fior di montagna e per prima cosa gli
misi le braccia intorno sì e me lo tirai addosso in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato sì e il suo cuore batteva come impazzito e sì dissi
sì voglio sì10.
(da J. Joyce, Ulisse, trad. di G. De Angelis [con lievi modifiche], Mondadori, Milano 1989).
James Joyce, Ulisse
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Note
1. mrs Riordan: un’anziana donna che Leopold ha cercato di ingraziarsi per ottenerne l’eredità.
2. lui: Leopold Bloom, marito di Molly.
3. i peggio: ‘i peggiori’; forma dialettale.
4. Mulvey: altro amante di Molly.
5. Larby Sharon: negozio di Dublino.
6. posadas: spagnolo, ‘locande’.
7. gargotte: ‘taverne’, ‘bettole’.
8 Algesiras: porto della Spagna meridionale.
9. alameda: nelle città spagnole, viale alberato.
10. sì: il «Sì» con cui si chiudono il monologo e l’intero romanzo costituisce il sì detto a tutta la
vita da una Penelope, che, corrispondentemente al senso parodico dell’opera, non è più fedele
come quella omerica ma che ritorna sempre a Bloom, «l’unico a cui essa sia sentimentalmente
legata».
ROBERTO ANTONELLI

R. Antonelli
GUIDO DE ANGELIS, Commento a «Ulisse»
da Ulisse. Guida alla lettura, a c. di G. Melchiori e G. De Angelis, Mondadori, Milano 2000
In questo monologo troviamo il primo esempio nella letteratura mondiale di personaggio che si costruisce narrandosi e i cui tratti si precisano organizzandosi lentamente e progressivamente. All’inizio non c’è una persona poeticamente definita ma
come un grumo di sensualità torpida che prende a muoversi seguendo il filo di un fantasticare distratto. È l’ultimo definitivo bilancio della giornata, la chiave di volta dell’edificio. I temi, poco differenziati e non scolpiti come nel resto dell’opera, sono qui tutti
riconducibili all’eterna preoccupazione della carne calda e matura di Molly: gli uomini,
l’Uomo, il marito, l’amante. È significativo che pur passando in rivista tutti i suoi uomini Molly sempre ritorni a Bloom che è, in fondo, l’unico a cui essa sia sentimentalmente
legata. In questo senso, possiamo proporre un’interpretazione del parallelo PenelopeMolly. Non l’infedele dublinese opposta alla fedelissima tessitrice dell’eterna tela, non
l’ovvia parodia, ma l’interpretazione profonda di una Molly fedele nonostante l’infedeltà. E nel viluppo dei riferimenti a «lui» spesso sarà difficile leggere un riferimento
preciso a Bloom o ad un altro amante. Lui è l’uomo, tutti gli uomini.
Molly nel suo monologo tira veramente le somme. È l’unica a veder chiaro e a ristabilire in un certo senso quell’equilibrio che l’incontro tra Bloom, uomo medio e sensuale e Stephen, gelido e astratto intellettuale, non ha realizzato, se non in parte. È
questo il senso definitivo del suo «sì». Sì alla vita, sì a tutta la vita. Molly non ha problemi, non è umiliata come Bloom, non ha nemici da combattere, né un credo estetico da proclamare, né un libro da scrivere come Dedalus. È la donna, la terra madre,
che nel suo grembo tutto accoglie con suprema indifferenza e ad ogni cosa sa dare,
per forza d’istinto, il suo vero valore. Giace sovranamente serena sul suo letto (come
l’abbiamo vista all’inizio) ed è rimasta estranea alla convulsa e inutile agitazione di
quella giornata di mezza estate. Il convegno amoroso con Boylan è stata la sola attività a cui si è dedicata, per quanto ne sappiamo. Ora accoglie il marito, navigatore
stanco che ha terminato il suo periplo nell’oceano dublinese, ma la sua reazione è
quella di una qualsiasi altra fine di giornata. Impossibile immaginare un diverso atteggiamento di Molly.
La sentiamo fuori del tempo (il suo primo amante le è presente come se si trattasse di un incontro del giorno prima) e fuori dello spazio (la sua fantasticheria potrebbe
riferirsi a Gibilterra dov’è nata, come a Dublino dove ora si trova). La sua curiosità sensuale è simile a quella di Bloom e come lui essa è gelosa – gelosa del marito. Arriva a
provare un’inconscia gelosia nei riguardi della figlia e non perdona al marito le sue relazioni con altre donne. Molly è una figura viva nelle sue contraddizioni, nel suo amore
per il marito, come nei suoi tradimenti. È assolutamente priva di pudore. È al di sopra
e al di là del pudore.
Scarsamente collegato col resto del libro, dal punto di vista tematico, l’episodio è,
come la donna Molly, compiuto ed isolato in sé. Unico motivo centrale: la sua vita.
L’infanzia e l’adolescenza a Gibilterra, i suoi amori, l’incontro con Bloom, l’insoddisfacente relazione col marito, il suo amante attuale. Scarso peso ha la sua carriera artistica, cui si accenna nel settimo brano del soliloquio. E Stephen passa come un’ombra
James Joyce, Ulisse

davanti ai suoi occhi, appanna lievemente la sua coscienza ed è visto solo come un
ipotetico ennesimo amante. Molly riduce tutto al suo comune denominatore.
Ogni brano di «Penelope» è variamente intonato a seconda del diverso stato d’animo di Molly ed è questo l’unico episodio di Ulisse che possa essere interpretato come
variazione su un tema, la vita sessuale e sentimentale di Molly. L’altro grande monologo (quello di Stephen, terzo episodio) ha ben altra densità tematica, come abbiamo
visto: non essendo il ritratto della donna matura bensì quello più complesso dell’artista immaturo. «Proteo» è, piuttosto, la conclusione dell’iter di Dedalus e lo si può considerare l’ultimo capitolo «ideale» di Dedalus.
Il processo
di Franz Kafka
Franz Kafka (1883-1924) nasce a Praga. Il padre è un commerciante
ebreo riuscito dopo una vita durissima a raggiungere una certa agiatezza,
tanto da permettere al figlio una formazione con un’insegnante privata di
francese, il liceo tedesco e, dopo studi di chimica e germanistica, la laurea
in Giurisprudenza all’Università di Praga. Il giovane Franz coltiva intanto il
proprio amore per la letteratura (tra gli autori più frequentati Kleist,
Grillparzer, Flaubert, Dostoevskij) e a circa vent’anni scrive il suo primo
racconto.
Praga è una città «magica», ricca di contrasti sociali e culturali, una «città
maledetta» secondo Kafka, che l’amerà sempre e che, pur senza nominarla esplicitamente, ambienta nella sua atmosfera inquietante e oscura gran
parte della propria narrativa. A quel tempo è la capitale della Boemia, crocevia di un mosaico etnico e culturale molto particolare. Vi convivono
slavi, tedeschi ed ebrei tedeschi. Proprio i tedeschi costituiscono il gruppo
dominante: sono di fatto isolati dagli slavi, dei quali non comprendono la
lingua e la cultura e a cui riconoscono i caratteri minacciosi del «diverso».
Il gruppo ebraico, a sua volta, riveste un ruolo fondamentale nella vita
economica e culturale della minoranza tedesca.
Il processo di assimilazione degli ebrei alla cultura borghese-liberale
tedesca e austriaca mina i legami comunitari che nella tradizione ebraica
garantiscono la salvezza: è una situazione in cui sono facili lo sradicamento
e lo sgretolamento dell’identità collettiva e individuale. Kafka vive tale
atmosfera in prima persona, fino a soffrire di patologie nevrotiche che turbano la sua vita privata, innanzitutto nei rapporti con il padre (verso il
quale manifesta un rapporto aspramente ed esplicitamente conflittuale),
ma anche nei riguardi delle donne amate. Lo scrittore non riesce mai a stabilire un rapporto di coppia equilibrato; ogni fidanzamento si conclude
con una rottura, spesso tanto improvvisa quanto apparentemente inspiegabile. È poi attratto dalla vitalità e dal successo del padre, proprio mentre è schiacciato dal desiderio irrealizzabile e colpevole di prenderne il
posto, di raccoglierne l’eredità e «usurpare la sua autorità e la sua respon-
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R. Antonelli
sabilità». Il padre rappresenta ciò che Kafka vorrebbe e, secondo la tradizione ebraica, dovrebbe divenire, ma anche ciò che sente profondamente
di non poter mai essere.
Tra autorità paterna, peso della tradizione ebraica e incapacità individuale di vivere in modo non traumatico la propria condizione esistenziale
si apre per lo scrittore un mondo angoscioso e perturbante che non riesce
a trovare un punto di pacificazione. La vita appare allora un intermezzo
penoso. Quando Kafka scopre di essere malato di tubercolosi immagina
che nel suo corpo si instauri una trattativa fra cervello e polmoni affinché
i secondi, ammalandosi, assecondino le pulsioni autodistruttive del primo.
Di fatto egli accoglie con un certo sollievo la rivelazione della malattia
(1917), quasi fosse un pretesto per poter finalmente rinunciare alla lotta
imposta dalla vita e abbandonarsi passivamente all’infelicità: con l’occasione rompe infatti, significativamente, anche il fidanzamento con Felice, con
la quale pure scambia un intenso epistolario amoroso.
La scrittura diviene così ricerca di chiarezza, verità, conoscenza di sé e
del mondo, in un itinerario condotto attraverso l’analisi di circostanze estreme o irrealistiche, che però proprio per tali caratteristiche arrivano a esprimere nel modo più stringente e «realistico» il senso profondo di una situazione personale e, più in generale, di una condizione umana vista come
disperatamente sola e alienata.
Nel Processo l’alienazione raggiunge il culmine. Posto improvvisamente
di fronte a una colpa ignota, il protagonista è costretto ad affrontare l’angoscia più insopportabile per un uomo del Novecento e per un figlio
ossessionato dalla prepotente personalità del padre: il non veder riconosciuta la propria identità. Il personaggio, che l’autore indica lungo tutto il
romanzo con una semplice «K.», iniziale di Kafka e insieme espressione di
anonimato, è preda di un’ossessione che rende progressivamente più vana
e infine impossibile la sua vita così come la sua possibilità di difesa. Freud
e la teorizzazione del complesso d’Edipo, ossia del desiderio infantile di
uccidere il padre, appaiono idealmente vicini, nonostante l’assoluta indeterminatezza dell’accusa renda il romanzo aperto a molteplici interpretazioni, non necessariamente univoche, fino a porlo come una delle opere
simbolo del Novecento europeo («il mio tempo – dice Kafka – a cui mi
sento molto vicino, e che non ho il diritto di combattere ma, in un certo
senso, di rappresentare»). Dietro l’accusa indeterminata e assoluta è infatti
possibile riconoscere un paradigma dell’angoscia dell’uomo moderno,
incapace di comprendere le ragioni della frammentazione dell’Io e della
perdita della propria identità.
Gli incubi di Kafka di fronte a una condizione familiare e sociale segnata da paure e angosce, sono un riflesso della profonda crisi attraversata
Franz Kafka, Il processo

all’epoca dalla civiltà europea e rappresentano un’eco del massacro vissuto da un’intera generazione durante la prima guerra mondiale. Si sono inoltre rivelati tragicamente profetici con l’avvento del totalitarismo e di uno
sterminio teso a colpire proprio il popolo e la cultura da cui Kafka proveniva (le tre sorelle dello scrittore morirono in campi di sterminio nazisti).
Per questo oggi l’aggettivo «kafkiano» significa certamente «relativo alle
opere di Kafka», qualcosa «che ricorda l’atmosfera angosciosa e allucinante propria delle opere di Kafka», ma indica anche, più semplicemente e
immediatamente, «assurdo», «inquietante», ciò che Freud indica con «perturbante», ovvero il fondo oscuro dell’inconscio umano che la scrittura di
Kafka porta a chiarezza e verità.
Il processo
Un uomo, K., è arrestato, ma nessuno gli spiega il perché, anzi gli stessi accusatori dicono di non conoscere le ragioni dell’arresto. Lui, il protagonista, le ignora e chiede insistentemente ma senza esito di conoscerle;
tutti però sembrano insieme sapere e non sapere, tranne lui, che continua
a non sapere nulla. Anche il sacerdote nel duomo, che lo conosce, si rivela parte del sistema. Proprio il sacerdote dirà: «la sentenza non arriva d’un
tratto, è il processo che si trasforma a poco a poco in sentenza». Il mondo
è divenuto totalmente incomprensibile, dominato da un oscuro processo
totalitario: «La giustizia non vuole nulla da te. Ti prende quando tu vieni e
ti lascia quando tu te ne vai».
L’uomo scopre improvvisamente di essere solo e di non poter essere
che solo, totalmente solo e alienato: «Cerchi troppo l’aiuto degli altri»,
aggiunge il sacerdote, ovvero colui che nella tradizione avrebbe dovuto
fornire comprensione, solidarietà: «non si deve prendere tutto per vero, ma
solo per necessario».
È un mondo senza charitas, in cui la relazione ordinaria è il conflitto,
ma per l’uomo comune, per K. in quanto rappresentante di sé e di ogni
uomo (un nuovo e antico Everyman), è un conflitto senza speranza, senza
giustizia. Pur se si dice che «ognuno è giudicato per quel che è», non appare alcuna motivazione, salvo la Legge in sé, che perciò si presenta ormai
senza ragioni, senza senso, dunque delegittimata. Essa produce soltanto
angoscia: un mondo senza senso è un mondo alla deriva. Kafka non è
però uno scrittore dell’Assurdo, ma piuttosto di un mondo, l’Europa della
prima metà del XX secolo (ma non solo), ormai in balìa dell’Assurdo e
della morte.

R. Antonelli
L’arresto
Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse
fatto niente di male, una mattina fu arrestato. La cuoca della signora
Grubach, la sua affittacamere, che ogni giorno verso le otto gli portava la
colazione, quella volta non venne. Non era mai successo prima. K. aspettò
ancora un poco, guardò dal suo cuscino la vecchia che abitava di fronte e
lo stava osservando con una curiosità del tutto insolita per lei, ma poi, stupito e affamato insieme, suonò il campanello. Subito bussarono e un uomo
che K. non aveva mai visto prima in quella casa entrò. Era slanciato ma di
solida corporatura, indossava un abito nero attillato che, come quelli da
viaggio, era provvisto di varie pieghe, tasche, fibbie, bottoni e cintura, e
dava quindi l’impressione, senza che si capisse bene a che cosa dovesse
servire, di essere particolarmente pratico. «Lei chi è?», chiese K. subito sollevandosi a metà nel letto. Ma l’uomo eluse la domanda, come se la sua
comparsa fosse da accettare e si limitò a chiedere a sua volta: «Ha suonato?». «Anna mi deve portare la colazione», disse K. e cercò, dapprima in
silenzio, con l’osservazione e la riflessione, di stabilire chi mai fosse l’uomo. Ma questi non si espose troppo a lungo ai suoi sguardi, si volse verso
la porta e l’aprì un poco per dire a qualcuno che stava evidentemente subito dietro: «Vuole che Anna gli porti la colazione». Ci fu una risatina nella
stanza accanto, dal suono non poteva essere sicuro che non venisse da più
persone. Sebbene l’estraneo non potesse con questo aver appreso nulla
che già non avesse saputo prima, disse a K. con il tono di una comunicazione: «È impossibile». «Questa sarebbe nuova», disse K., saltò dal letto e
s’infilò in fretta i pantaloni. «Voglio un po’ vedere che gente c’è nell’altra
stanza e che giustificazione mi darà la signora Grubach per questa seccatura». Gli venne subito in mente che non avrebbe dovuto dire questo a
voce alta, e che in tal modo riconosceva all’estraneo un qualche diritto di
controllo, ma al momento la cosa non gli parve importante. L’estraneo,
comunque, l’intese così, perché disse: «Non preferisce rimanere qui?». «Non
voglio rimanere qui né che lei mi rivolga la parola finché non si sarà presentato». «L’intenzione era buona», disse l’estraneo e aprì ora spontaneamente la porta. Nella stanza accanto, dove K. entrò più lentamente di
quanto volesse, a un primo sguardo tutto pareva quasi immutato dalla sera
prima. Era il soggiorno della signora Grubach, forse nella stanza stracolma
di mobili, tessuti, porcellane e fotografie, c’era un po’ più spazio del solito, non lo si vedeva subito, anche perché il cambiamento principale consisteva nella presenza di un uomo, seduto vicino alla finestra con un libro
da cui ora alzò lo sguardo. «Sarebbe dovuto rimanere nella sua stanza! Non
glielo ha detto Franz?». «Ma lei che cosa vuole?», disse K., e volse lo sguar-
Franz Kafka, Il processo

do dalla nuova conoscenza all’uomo chiamato Franz, che era rimasto sulla
porta, e poi ancora all’altro. Dalla finestra aperta si vedeva di nuovo la vecchia che, con una curiosità veramente senile, si era adesso spostata alla
finestra dirimpetto per continuare a vedere ogni cosa. «Insomma, voglio la
signora Grubach…», disse K., e fece un movimento come per divincolarsi
dai due uomini, che pure stavano distanti da lui, e andarsene. «No», disse
l’uomo vicino alla finestra, gettò il libro su un tavolino e si alzò. «Lei non
può andarsene, è in arresto». «Si direbbe proprio», disse K. «E perché?», chiese poi. «Non siamo autorizzati a dirglielo. Vada in camera sua e aspetti. Il
procedimento è appena avviato, e lei saprà tutto a tempo debito. Vado
oltre il mio incarico parlandole così amichevolmente. Ma spero che non ci
senta nessuno al di fuori di Franz, e anche lui è gentile con lei contro ogni
regola. Se continua ad avere la fortuna che ha avuta con l’assegnazione
delle sue guardie, può sperare in bene». K. volle sedersi, ma ora si accorse che in tutta la stanza non c’era possibilità di sedersi, se non sulla seggiola vicino alla finestra. «Se ne renderà conto, di come tutto questo è
vero», disse Franz e mosse verso di lui insieme all’altro. Quest’ultimo,
soprattutto, era parecchio più alto di K., e gli batté più volte sulla spalla.
Tutti e due esaminarono la camicia da notte di K. e dissero che adesso
avrebbe dovuto indossare una camicia molto più brutta, ma che avrebbero custodito quella camicia, come pure tutta l’altra sua biancheria, e che
gliel’avrebbero restituita se la sua causa si fosse risolta favorevolmente. «È
meglio che lei lasci a noi le sue cose piuttosto che al deposito», dissero,
«perché al deposito spesso la roba sparisce e inoltre, dopo un certo tempo,
vendono ogni cosa senza vedere se il procedimento relativo è concluso o
meno. E quanto durano questi processi, specie negli ultimi tempi! Alla fine
lei riceverebbe, questo sì, dal deposito la somma ricavata, ma prima di
tutto questa somma è già scarsa in sé, perché alla vendita non è determinante tanto l’entità dell’offerta quanto quella della corruzione, e poi queste somme, per esperienza, si riducono ulteriormente passando di mano in
mano e con gli anni». K. prestò scarsa attenzione a questi discorsi, non
dava gran peso al diritto, che forse ancora possedeva, di disporre delle
proprie cose, molto più importante per lui era vedere chiaro nella sua
situazione; alla presenza di quella gente, però, non riusciva nemmeno a
riflettere, la pancia della seconda guardia – perché non potevano che essere guardie – lo urtava di continuo quasi amichevolmente, ma se alzava lo
sguardo vedeva un viso secco, ossuto, con un naso grosso e storto, che
non si accordava per niente con quel corpo grasso, che s’intendeva con
l’altra guardia senza badare a lui. Che gente era quella? Di che cosa parlavano? Da quale autorità dipendevano? Eppure K. viveva in uno stato di
diritto, dappertutto regnava la pace, tutte le leggi erano in vigore, chi osava

R. Antonelli
aggredirlo in casa sua? Era sempre propenso a prendere ogni cosa con
disinvoltura, a credere al peggio solo quando il peggio era arrivato, a non
farsi preoccupazioni per il futuro, neanche quando si presentava minaccioso. Ma ora questo non gli sembrava giusto, si poteva considerare il tutto
uno scherzo, uno scherzo pesante, montato dai colleghi della banca per
motivi a lui sconosciuti, magari perché oggi compiva trent’anni, era senz’altro possibile, forse gli bastava ridere in un modo qualsiasi in faccia alle
guardie che avrebbero riso anche loro, forse erano fattorini dell’angolo
della strada, non sembravano troppo diversi – questa volta comunque, fin
dal primo momento che aveva visto la guardia Franz, era deciso a non
rinunciare al minimo vantaggio che forse possedeva di fronte a quella
gente. Più tardi avrebbero potuto dirgli che non aveva capito lo scherzo,
ma in questo K. vedeva un rischio minimo, eppure si ricordava – senza
che fosse sua abitudine imparare dall’esperienza – di alcuni casi, di per sé
insignificanti, in cui a differenza dei suoi amici aveva agito coscientemente con imprudenza, senza minimamente darsi pensiero per le possibili conseguenze, ed era poi stato punito dai fatti. Non sarebbe più successo,
almeno non questa volta; se era una commedia, lui sarebbe stato al gioco.
Era ancora libero. «Con permesso», disse, e passando fra le due guardie
tornò svelto nella sua stanza. «Sembra ragionevole», sentì dire dietro di sé.
In camera aprì subito con uno scatto i cassetti della scrivania, dentro tutto
era in ordine perfetto, ma nella sua agitazione non riuscì immediatamente a trovare proprio quei documenti d’identità che cercava. Finalmente
trovò la tessera di ciclista e con quella voleva subito andare dalle guardie,
ma poi gli parve un documento troppo poco importante e continuò a cercare finché trovò il certificato di nascita. Quando ritornò nella stanza
accanto, la porta di fronte si aprì e la signora Grubach fece per entrare.
La si vide solo un istante perché, appena riconosciuto K., rimase visibilmente imbarazzata, chiese scusa, sparì e chiuse con estrema cautela la
porta. «Entri pure», aveva appena fatto in tempo a dire K. Ma ora se ne
stava in piedi in mezzo alla stanza con i suoi documenti, guardò ancora
verso la porta che non si riapriva e si scosse solo a un richiamo delle guardie che sedevano a un tavolino vicino alla finestra e, come K. ora si accorse, consumavano la sua colazione. «Perché non è entrata?», chiese. «Non
può», disse la guardia più alta. «Lei è in arresto». «Come posso essere in
arresto? In questo modo, poi». «Non ricominci adesso», disse la guardia e
intinse una fetta di pane imburrata nel vasetto del miele. «A queste domande non rispondiamo». «Dovrà rispondere», disse K. «Ecco i miei documenti d’identità, fatemi vedere ora i vostri e soprattutto il mandato di arresto».
«Santo cielo!», disse la guardia, «possibile che lei non riesca a rassegnarsi
alla sua situazione e per giunta sembri mettercela tutta per irritarci inutil-
Franz Kafka, Il processo

mente, noi che adesso le siamo forse più vicini di qualsiasi altro essere
umano!». «È così, creda», disse Franz, e non portò alla bocca la tazza di
caffè che teneva in mano, ma fissò K. con un lungo sguardo, probabilmente carico di significato, ma incomprensibile. K. indulse senza volere a
un muto colloquio con Franz, poi batté la mano sui suoi documenti e
disse: «Ecco i miei documenti d’identità». «Che ce ne importa a noi?» gridò
la guardia più alta. «Si comporta peggio di un bambino. Ma che cosa
vuole? Vuole chiudere in fretta il suo grosso, maledetto processo discutendo con noialtre guardie di documenti e mandati? Noi siamo impiegati
in sottordine che ne capiscono a malapena di documenti d’identità e che
con la sua faccenda hanno a che fare solo per sorvegliarla dieci ore al
giorno ed essere pagati per questo. Tutto qui quello che siamo, e tuttavia
siamo in grado di comprendere che le alte autorità da cui dipendiamo,
prima di disporre un simile arresto s’informano con esattezza sui motivi
dell’arresto e sulla persona dell’arrestato. Qui non c’è errore. Le nostre
autorità, per quanto le conosco, e conosco solo i gradi più bassi, non è
che cerchino la colpa nella popolazione, ma, come è detto nella legge,
vengono attratte dalla colpa e devono mandare noi guardie. Questa è
legge. Dove ci sarebbe un errore?».
La fine
La vigilia del suo trentunesimo compleanno – erano circa le nove, l’ora
del silenzio nelle strade – vennero a casa di K. due signori. In finanziera,
pallidi e grassi, con cappelli a cilindro apparentemente inamovibili. Ci
furono alcuni convenevoli davanti alla porta dell’appartamento, su chi dei
due dovesse passare per primo, e gli stessi convenevoli si ripeterono in
misura maggiore davanti alla porta di K. Senza che la visita gli fosse stata
annunciata, K. sedeva, anche lui vestito di nero, in una poltrona vicino alla
porta e s’infilava lentamente dei guanti nuovi, ben tesi sulle dita, nell’atteggiamento di chi aspetta ospiti. Si alzò subito in piedi e osservò con
curiosità i due signori. «È per me che venite, vero?», chiese. I signori annuirono, e uno indicò con il cilindro nella mano l’altro. K. confessò a se stesso di essersi aspettato una visita diversa. Andò alla finestra e guardò ancora una volta la strada buia. Erano già buie anche quasi tutte le finestre sul
lato opposto della strada, molte avevano le tende abbassate. In una finestra illuminata, al piano, dei bambini piccoli giocavano insieme dietro una
grata e, ancora incapaci di muoversi dai loro posti, si cercavano a tastoni
con le piccole mani. «Mandano a cercarmi dei vecchi attori da strapazzo»,
si disse K. e si guardò attorno per convincersene ancora. «Vogliono liberarsi di me a buon mercato». K. si volse a un tratto verso di loro: «In che

R. Antonelli
teatro lavorate?». «Teatro?», si consultò uno dei signori con l’altro, con gli
angoli della bocca che tremavano. L’altro gesticolò come un muto che lotti
con il suo organismo riluttante. «Non sono preparati a ricevere domande»,
si disse K. e andò a prendere il cappello.
Già sulla scala i due signori fecero per prendere K. sottobraccio, ma K.
disse: «Aspettiamo di essere in strada, non sono malato». Ma appena fuori
del portone lo presero sottobraccio, in un modo come K. non aveva mai
camminato con nessuno. Tenevano le spalle premute da dietro alle sue,
non piegavano le braccia ma se ne servivano per avvinghiare le braccia di
K. in tutta la loro lunghezza, fin giù a stringergli le mani con una presa da
manuale, esperta, irresistibile. K. camminava rigido fra loro, tutti e tre formavano ora una tale unità che, se si fosse fatto a pezzi uno di loro, sarebbero andati a pezzi tutti. Era un’unità come quasi solo possono formarla
cose inanimate.
Sotto i lampioni K. cercò più volte, per quanto il camminare strettamente addossati glielo rendesse difficile, di vedere i suoi accompagnatori
meglio di quanto era stato possibile nella penombra della sua stanza.
«Forse sono tenori», pensò notando il loro pesante doppio mento. La pulizia dei loro visi lo ripugnava. Sembrava di vedere ancora la mano che
aveva pulito, passando nell’angolo degli occhi, strofinando il labbro superiore, grattando nelle pieghe del mento.
Nel notare questo K. si fermò, di conseguenza si fermarono anche gli
altri; erano al margine di una piazza vuota, deserta, ornata di aiuole.
«Perché hanno mandato proprio voi!», esclamò più che non chiedesse. I
signori parvero non avere risposta, aspettavano con il braccio libero penzoloni, come fanno gli infermieri quando il malato vuole riposarsi. «Io non
vado avanti», disse K. tanto per provare. I signori non ebbero bisogno di
rispondere, bastò che non allentassero la presa e cercassero di trascinare
via K., ma K. oppose resistenza. «Non avrò più bisogno di molta forza, la
userò tutta adesso», pensò. Gli vennero in mente le mosche che cercano
di staccarsi dalla pania strappandosi le zampine. «Questi signori avranno
un lavoro difficile».
In quel momento, salendo per una scaletta da un vicolo più basso,
sbucò davanti a loro sulla piazza la signorina Bürstner. Non era proprio
sicuro che fosse lei, certo la somiglianza era grande. Ma a K. non importava neanche che fosse con sicurezza la signorina Bürstner, solo ebbe
immediata coscienza dell’inutilità della sua resistenza. Non c’era nulla di
eroico se opponeva resistenza, se ora metteva in difficoltà i signori, se ora,
difendendosi, cercava di godere ancora l’ultimo barlume di vita. Si mise in
movimento, e una parte della gioia che con questo procurava ai signori gli
si trasmise. Ora gli permettevano di decidere il percorso, e lui lo decideva
Franz Kafka, Il processo

in base alla via che prendeva la signorina davanti a loro, non perché volesse raggiungerla, non perché volesse vederla il più a lungo possibile, ma
solo per non dimenticare il monito che ella significava per lui. «L’unica cosa
che ora posso fare», si disse, e l’uniformità dei suoi passi e dei passi degli
altri due confermò i suoi pensieri, «l’unica cosa che ora posso fare è conservare sino alla fine la capacità di discernere con calma. Ho sempre voluto allungare venti mani sul mondo e per di più a scopi non sempre lodevoli. Non era giusto. Dovrei far vedere, ora, che nemmeno un anno di processo mi ha potuto insegnare qualcosa? Dovrò andarmene come un tardo
a capire? Si dovrà poter dire di me che all’inizio del processo volevo concluderlo e che, ora che è alla fine, lo voglio cominciare da capo? Non
voglio che si dica questo. Sono grato che per compiere questo tragitto mi
abbiano dato per compagni questi due signori, che non parlano quasi e
non capiscono niente, e che sia stato lasciato a me di dirmi da solo il
necessario».
Nel frattempo, la signorina aveva svoltato in un vicolo laterale, ma K.
poteva ormai fare a meno di lei e si rimise ai suoi accompagnatori. In
pieno accordo, alla luce della luna i tre presero per un ponte, adesso i
signori assecondavano prontamente ogni piccolo movimento di K., quando lui si voltò appena verso il parapetto, si girarono anche loro facendo
fronte da quella parte. L’acqua, che tremolava e luccicava alla luce della
luna, si spartiva intorno a un’isoletta, sulla quale si addensavano, come
compresse, masse di fogliame di alberi e cespugli. Sotto di loro, ora invisibili, correvano sentieri di ghiaia con comode panchine, sulle quali più di
un’estate K. si era stirato per bene e allungato. «No, non intendevo fermarmi», disse ai suoi accompagnatori, umiliato dalla loro premurosità. Alle
spalle di K. uno parve fare all’altro un leggero rimprovero per quella fermata malintesa, poi proseguirono.
Percorsero vicoli in salita, dove qua e là sostavano o camminavano dei
poliziotti, ora lontani ora vicinissimi. Uno, con dei folti baffi, la mano sull’impugnatura della sciabola, si avvicinò come di proposito al gruppo non
proprio insospettabile. I signori si arrestarono, il poliziotto sembrava già
aprir bocca, ma K. trascinò avanti i due signori con forza. Più volte si voltò
cautamente per vedere se il poliziotto li seguiva; ma appena un angolo di
strada fu tra loro e il poliziotto, K. incominciò a correre, e i signori, malgrado il fiato grosso, dovettero correre anche loro.
Così furono presto fuori dalla città, che da quella parte finiva quasi
senza transizione nei campi. Nei pressi di una casa dall’aspetto ancora del
tutto cittadino, c’era una piccola cava di pietra, abbandonata e deserta. Qui
i signori si fermarono, sia che quel luogo fosse stato fin dall’inizio la loro
meta, sia che fossero troppo esausti per continuare a correre. Ora lascia-

R. Antonelli
rono libero K., che aspettò senza dire parola, si tolsero i cilindri e con i
fazzoletti si tersero il sudore dalla fronte, guardandosi intorno nella cava.
Dappertutto il chiaro di luna, con quella naturalezza e quiete che nessun’altra luce possiede.
Dopo uno scambio di convenevoli riguardo a chi spettassero i compiti
successivi – pareva che fra i signori gli ordini non fossero stati ripartiti –,
uno si avvicinò a K. e gli tolse la giacca, il panciotto e infine la camicia. K.
rabbrividì involontariamente, al che il signore gli diede un colpetto sulla
schiena per tranquillizzarlo. Poi ripiegò con cura gli indumenti, come cose
che si sarebbero usate ancora, anche se non proprio subito. Per non lasciare K. esposto immobile all’aria pur sempre fresca della notte, lo prese sottobraccio e camminò un poco con lui su e giù, mentre l’altro signore esplorava la cava alla ricerca di un posto adatto. Quando l’ebbe trovato, fece un
cenno e l’altro signore vi accompagnò K. Era vicino alla parete della cava,
lì si trovava un masso staccato. I signori fecero sedere K. per terra, appoggiato al masso, e su questo adagiarono la sua testa. Per quanti sforzi facessero e per quanto K. si mostrasse loro compiacente, la sua posizione risultava sempre molto forzata e non convincente. Allora un signore pregò l’altro di lasciare provare un po’ lui solo a sistemare K., ma neanche così andò
meglio. Alla fine lasciarono K. in una posizione che non era nemmeno la
migliore tra quelle che già avevano trovate. Poi uno dei signori aprì la
finanziera e da un fodero appeso a una cintura stretta intorno al panciotto estrasse un coltello da macellaio lungo e sottile, a doppio taglio, lo
tenne sollevato ed esaminò il filo alla luce. Qui ricominciarono i loro
disgustosi convenevoli, uno porgeva al di sopra di K. il coltello all’altro,
questi glielo restituiva, sempre al di sopra di K. Adesso K. sapeva con esattezza che sarebbe stato suo dovere afferrare il coltello mentre passava di
mano in mano sopra di lui e trafiggersi lui stesso. Ma non lo fece, girò invece il collo ancora libero e si guardò attorno. Non poteva dare pienamente
prova di sé, sottrarre alle autorità tutto il lavoro, la responsabilità di quest’ultimo errore cadeva su chi gli aveva negato quanto gli restava della
forza necessaria. Il suo sguardo cadde sull’ultimo piano della casa attigua
alla cava. Come una luce che si accenda improvvisa, si spalancarono le
imposte di una finestra, un uomo, debole e sottile per la distanza e l’altezza, si sporse d’un tratto e tese le braccia ancora più in fuori. Chi era? Un
amico? Una persona buona? Uno che partecipava? Uno che voleva aiutare? Era uno solo? Erano tutti? C’era ancora un aiuto? C’erano obiezioni che
erano state dimenticate? Ce n’erano di certo. La logica è, sì, incrollabile, ma
non resiste a un uomo che vuole vivere. Dov’era il giudice che lui non
aveva mai visto? Dov’era l’alto tribunale al quale non era mai giunto? Levò
le mani e allargò le dita.
Franz Kafka, Il processo

Ma sulla gola di K. si posarono le mani di uno dei signori, mentre l’altro gli spingeva il coltello in fondo al cuore e ve lo rigirava due volte. Con
gli occhi che si spegnevano K. vide ancora come, davanti al suo viso,
appoggiati guancia a guancia, i signori scrutavano il momento risolutivo.
«Come un cane!», disse, fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere.
(da F. Kafka, Il processo, trad. di E. Pocar, intr. di C. Magris, Milano 1975).
ROBERTO ANTONELLI

R. Antonelli
CLAUDIO MAGRIS, Kafka
da F. Kafka, Il processo, trad. di E. Pocar, intr. di C. Magris, Mondadori, Milano 1975
[…] Quando Josef K., all’inizio del Processo viene arrestato dai due misteriosi custodi inviati dall’indecifrabile tribunale, egli si affanna a farsi riconoscere, a esibire documenti personali, la tessera di ciclista che gli pare insufficiente o l’atto di nascita.
È la grandiosa intuizione di Kafka circa il nesso inestricabile che si è instaurato, nella
civiltà moderna, fra anonimato burocratico e anonimato esistenziale, fra l’irrazionalità
del mito arcaico e l’irrazionalità dell’apparato ultrarazionalistico della società borghese.
Non essere conosciuti, anzi ri-conosciuti significa sentirsi privi di qualsiasi autorizzazione a operare e a vivere, di qualsiasi status vitale; sentirsi privi di qualsiasi posto nel
mondo, dal quale collocarsi – come da un punto archimedico – per misurarsi con la
realtà minacciosa. Kafka riveste di una carica inquietante il motivo espressionista
dell’Uomo Nudo, essenziale e assoluto, che gli appare così nudo da essere senza qualifiche e senza attributi, senza segni che legittimino un suo legame con gli altri e quindi un suo diritto alla solidarietà e all’aiuto. L’uomo senza divisa non sa a chi appartiene e a chi rivolgersi per averne sostegno, mentre sa troppo bene che intorno a lui infuria una spietata battaglia nella quale nessuno, e men che meno chi è isolato, è al riparo dei colpi. Con odio, ma anche con attrazione, Kafka insiste nei suoi romanzi sull’ambiguo alone che irraggia dalle divise: il saluto «militaresco» di Artur e Jeremias, i due
aiutanti dell’agrimensore K. nel Castello, il vestito del custode che viene per arrestare
Josef K. nel Processo, «nero attillato, sul tipo degli abiti da viaggio, con diverse pieghe,
tasche, fibbie, bottoni e una cintura, e perciò, senza che si capisse a che cosa dovesse
servire, [sembrava] particolarmente pratico». In tal senso Kafka ha avuto un precursore
nel grande scrittore settecentesco Karl Philipp Moritz, il poeta e l’analista dei primi timidi ma già crudeli accenni di quella crisi dell’unità della persona individuale che già nel
XVIII secolo getta un’ombra di tragica distonìa sull’orgogliosa fede nell’autonomia e
nella creatività del soggetto. Nel suo romanzo Anton Reiser (1785-90) Moritz narra
come il suo inquieto protagonista, morbosamente dilacerato nel suo intimo, sia felice
d’essere accolto quale apprendista cappellaio nella comunità degli artigiani e di ricevere il grembiule nero da garzone che gli permette di «occupare una posizione» nel
mondo e lo «inserisce subito fra gli altri».
La poesia di Kafka ruota, con un misto di fascinazione e di repulsione, intorno a
questo perno dell’inserimento nella comunità. «Chi cerca, egli scrisse, non trova; chi
non cerca, viene trovato» […]
L’universo di Kafka è un universo nel quale l’uomo rilutta tenacemente al desiderio
e cerca di sfuggire alla sua forza tortuosa e struggente perché teme, o meglio perché
sa di non essere all’altezza del grande e trascinante respiro del desiderio e preferisce
bloccarlo, reprimerlo, distanziarlo; eluderlo piuttosto che venirne travolto. Nessuno ha
descritto come Kafka la debolezza e l’eccitata fragilità dell’uomo moderno, sradicato
dalla natura e scagliato come un sasso nella storia, di fronte alla lusinga, alla pienezza
del desiderio, che accosta l’individuo alla totalità vitale. Con la sua maniacale e rigorosa oggettività, Kafka traccia il ritratto di un mondo spietato e preciso nel quale l’individuo, per salvarsi, deve restare chiuso in casa e non avventurarsi nella notte quando lo
Franz Kafka, Il processo

svegliano per un appello misterioso, deve restare al suo scrittoio praghese e tener lontana la donna amata come Kafka stesso tiene lontana la sua prima fidanzata Félice a
Berlino, deve sotterrarsi in un labirinto di cunicoli come il protagonista del racconto La
tana. Ma una difesa di tal genere è sempre vana nella sua agguerrita perfezione tecnica e può tutt’al più differire la fine, come lo scarto inatteso della lepre braccata dai cani.
L’impossibilità di dire di sì implica pure la vanità della negazione. Kafka vive in un
mondo in cui l’individuo gli appare esautorato e manipolato, fagocitato da un potere
oscuro e tentacolare, anonimo e sfuggente: in questo mondo appiattito e deserto, che
il poeta ha il dovere di rappresentare imparzialmente e di non «defraudare della sua
vittoria», se questa è segnata dalla legge delle cose così come sono, l’uomo può essere soltanto ingannato e raggirato da tutto ciò che sembra corteggiare e sollecitare la sua
persona privata, la sua intimità, il suo corpo, la breve misura dei suoi sentimenti. Kafka
registra il vuoto dell’esistenza, il tramonto della calda vita e denuncia la spaventosa
tirannia collettiva che ha depauperato la condizione umana di questi legami e valori e
li usa ormai soltanto come trucchi e tranelli, per illudere che esistono ancora possibilità di vita piena e per far cadere la vittima, abbacinata da questa promessa, in un trabocchetto che rinsalda ancora di più le sue catene. Ma dire di no, rifiutarsi a questi insidiosi miraggi significa respingere ogni possibilità di salvezza per scansare il pericolo,
morire d’inedia per timore di morire avvelenati.
Tra l’imputazione e la sentenza, tra la minaccia e l’esecuzione resta allora soltanto
un intermezzo, un ristretto limite di tempo e di spazio nel quale l’individuo può muoversi, organizzare le sue difese, procrastinare la distruzione, afferrare quei minimi frammenti di gioia e di vitalità che questa zona intermedia gli concede. Kafka è il grandissimo poeta di questo intervallo, di questa vita ridotta a intervallo, e annota puntigliosamente i confini e i margini di tale territorio circoscritto, le piccole sortite che ne consentono qualche modesto ampliamento, le ritirate strategiche e le difese elastiche, la
tattica cinese di non offrire punti di presa alla stretta dell’avversario; il minuzioso rituale di gesti e abitudini quotidiane opposte al crudele dilagare del nuovo.
Sei personaggi in cerca d’autore
di Luigi Pirandello
Luigi Pirandello (1867-1936) è oggi considerato in tutto il mondo uno
dei massimi drammaturghi e narratori del Novecento. Come altri “classici”
contemporanei, Pirandello colloca al centro della sua opera il problema
della crisi del soggetto e il “disagio” della civiltà contemporanea, proponendo percorsi e soluzioni nuove per la scrittura letteraria, soprattutto in
ambito teatrale. È del resto proprio un suo testo teatrale, Sei personaggi in
cerca d’autore, che rappresenta agli occhi di molti «la quintessenza del
dramma moderno» (Peter Szondi).
Pirandello mette a nudo la perdita d’identità dell’uomo di fronte a una
modernità caratterizzata da uno sviluppo socio-economico che sconvolge,
con una rapidità mai sperimentata prima, assetti culturali, sociali e persino
antropologici, inclusa la percezione di sé e degli altri. Tale ricerca si traduce in una vorticosa elaborazione formale, caratterizzata da continui
rimaneggiamenti, avanzamenti, ritorni e, soprattutto, attraversamenti di
diversi generi letterari. A distanza di decenni dalla prima composizione o
pubblicazione, una novella può essere rielaborata in romanzo o pièce teatrale, sceneggiatura di film o opera musicale, così come un romanzo può
fornire lo spunto per un dramma o un film, o può essere riscritto in forma
di sceneggiatura. La sua produzione può essere insomma considerata un
sistema unitario proprio in quanto ininterrotta e poliedrica opera di scrittura, che riproduce in molteplici forme il “sentimento” del caos del mondo.
L’enorme successo di pubblico raggiunto su scala internazionale (fatto
abbastanza insolito per un autore italiano del primo Novecento) testimonia come Pirandello abbia colto nel segno.
Sei personaggi in cerca d’autore
Scritta tra il 1920 e il 1921, la commedia Sei personaggi in cerca d’autore
viene messa in scena per la prima volta a Roma, al teatro Valle, il 10 maggio 1921, suscitando con il suo impianto straordinariamente innovativo aspre

R. Antonelli
contestazioni e grandi entusiasmi. L’opera è un capolavoro indiscusso del
teatro del Novecento. Pirandello vi mette in crisi i canoni fondamentali del
teatro tradizionale, disintegrandone la struttura drammatica e scenica.
L’idea di portare il teatro nel teatro non comporta solo una riflessione
sulle possibilità espressive della scrittura per la scena e, a livello più immediato, una satira dell’ambiente teatrale stesso, ma innesca un gioco di specchi con la realtà: mediante la rappresentazione di una rappresentazione,
Pirandello sviluppa in modo autonomo una delle sue metafore preferite,
quella della vita come messa in scena teatrale.
Il dato che emerge in modo più netto dal dramma è l’assenza di un
significato universale. Non solo la vicenda rimane emblematicamente
inconclusa, ma i sei personaggi stessi non sono in grado di fornirne una
ricostruzione oggettiva e coerente, facendosi invece ognuno portatore
della propria verità; inoltre non si riconoscono nelle interpretazioni degli
attori, a ulteriore prova dell’irriducibile relativismo che domina la realtà.
La scissione fra personaggi e attori, caratterizzata da reciproche incomprensioni, rispecchia la disgregazione dell’identità individuale: «Il dramma
– dichiara il Padre – per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho,
che ciascuno di noi […] si creda “uno” ma non è vero: è “tanti”, signore,
“tanti”, secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: “uno” con questo, “uno” con quello – diversissimi. E con l’illusione, intanto, d’essere sempre “uno per tutti”».
Il teatro nel teatro
Atto I
È l’inizio della commedia (che, come precisa lo stesso Pirandello in una nota, «non
ha né atti né scene»). Le puntuali didascalie dell’autore forniscono tutte le informazioni necessarie per seguire lo sviluppo dell’azione. Fin dalla didascalia iniziale diviene
chiaro come la commedia pirandelliana rompa tutti canoni tradizionali della rappresentazione teatrale. Gli spettatori, entrando in sala, trovano «alzato il sipario, e il palcoscenico com’è di giorno, senza quinte né scena, quasi al bujo e vuoto, perché abbiano fin da principio l’impressione di uno spettacolo non preparato». Le implicazioni di
tale «impressione» sono enormi. Viene infatti infranta la convenzione che separa la rappresentazione teatrale dalla realtà (è emblematico che il sipario, la barriera che divide
le due dimensioni, si trovi già aperto), e, quindi, violata la stessa «sacralità» artistica
della scena. Gli spettatori si trovano ad assistere alla costruzione della finzione teatrale, che non viene più presentata come una dimensione illusoria che imita la realtà,
bensì come una prosecuzione della stessa realtà (si noti la presenza delle scalette che
permettono ai personaggi di accedere al palco dalla sala, e non da dietro le quinte).
Sulla scena si sta provando una commedia dello stesso Pirandello, Il giuoco delle
parti. L’autore ne approfitta per giocare in modo dissacrante con alcuni stereotipi del
Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore

mondo del teatro (riducendo così gli stessi attori a maschere fisse): dalla Prima Attrice
eternamente ritardataria al Primo Attore che si rifiuta di indossare un berretto da cuoco
perché lo trova ridicolo. Inoltre, Pirandello ironizza sull’ostilità che hanno incontrato le
sue innovative commedie, accusate di essere troppo sofisticate e astruse. Di fronte alle
proteste del Primo Attore, il Capocomico si sfoga: «Che vuole che le faccia io se… ci siamo
ridotti a mettere in iscena commedie di Pirandello, che chi l’intende è bravo, fatte apposta di maniera che né attori né critici né pubblico ne restino mai contenti?».
A questo punto irrompono in teatro, debitamente introdotti dal fondo della sala
dall’Usciere gallonato, i sei personaggi in cerca d’autore. Pirandello, in un’accurata
didascalia, che suggerisce anche l’uso di «speciali maschere d’una materia che per il
sudore non s’afflosci», spiega che i «Personaggi non dovranno apparire come fantasmi,
ma come realtà create, costruzioni della fantasia immutabili: e dunque più reali e consistenti della volubile naturalità degli attori». I Personaggi insomma, invenzioni incomplete della fantasia dell’autore, con indosso una maschera che fissa «immutabilmente
l’espressione del proprio sentimento fondamentale», debbono risultare paradossalmente
più veri degli attori, gli esseri umani che debbono rinunciare alla loro identità per
impersonarli.
Le parole con cui il Padre cerca di convincere l’incredulo Capocomico a mettere in
scena il loro dramma sono una rivendicazione della legittimità della follia di fronte
all’assurdità della vita reale, tema assai caro a Pirandello. Il Padre osserva infatti come
la realtà sia di per sé talmente assurda che il teatro per riprodurla non deve apparire
verosimile, anzi, più ricerca il verosimile, cosa «che può stimarsi realmente una pazzia»,
meno appare vero.
Troveranno gli spettatori, entrando nella sala del teatro, alzato il sipario, e il palcoscenico com’è di giorno, senza quinte né scena, quasi al bujo e vuoto, perché abbiano fin
da principio l’impressione d’uno spettacolo non preparato. Due scalette, una a destra e
l’altra a sinistra, metteranno in comunicazione il palcoscenico con la sala. Sul palcoscenico, il cupolino del suggeritore, messo da parte, accanto alla buca. Dall’altra parte,
sul davanti, un tavolino e una poltrona con la spalliera voltata verso il pubblico, per il
Direttore-Capocomico. Altri due tavolini, uno più grande, uno più piccolo, con parecchie sedie attorno, messi lì sul davanti per averli pronti, a un bisogno, per la prova. Altre
sedie, qua e là, a destra e a sinistra, per gli Attori, e un pianoforte in fondo, da un lato,
quasi nascosto. Spenti i lumi della sala, si vedrà entrare dalla porta del palcoscenico il
Macchinista in camiciotto turchino e sacca appesa alla cintola; prendere da un angolo in fondo alcuni assi d’attrezzatura; disporli sul davanti e mettersi in ginocchio a
inchiodarli. Alle martellate accorrerà dalla porta dei camerini il Direttore di scena.
IL
IL
IL
DIRETTORE DI SCENA.
Ohi! Che fai?
Che faccio? Inchiodo.
DI SCENA. A quest’ora?
MACCHINISTA.
DIRETTORE
Guarderà l’orologio.
Sono già le dieci e mezzo. A momenti sarà qui il Direttore per la prova.

IL
IL
IL
IL
R. Antonelli
MACCHINISTA.
Ma dico, dovrò avere anch’io il mio tempo per lavorare!
L’avrai, ma non ora.
MACCHINISTA. E quando?
DIRETTORE DI SCENA. Quando non sarà più l’ora della prova. Su, su, pòrtati via tutto, e
lasciami disporre la scena per il secondo atto del Giuoco delle parti1.
DIRETTORE DI SCENA.
Il Macchinista, sbuffando, borbottando, raccatterà gli assi e andrà via. Intanto dalla
porta del palcoscenico cominceranno a venire gli Attori della Compagnia, uomini e
donne, prima uno, poi un altro, poi due insieme, a piacere: nove o dieci, quanti si suppone che debbano prender parte alle prove della commedia di Pirandello Il giuoco delle
parti, segnata all’ordine del giorno. Entreranno, saluteranno il Direttore di scena e si
saluteranno tra loro augurandosi il buon giorno. Alcuni si avvieranno ai loro camerini; altri, fra cui il Suggeritore che avrà il copione arrotolato sotto il braccio, si fermeranno sul palcoscenico in attesa del Direttore per cominciar la prova, e intanto, o seduti a crocchio, o in piedi, scambieranno tra loro qualche parola; e chi accenderà una
sigaretta, chi si lamenterà della parte che gli è stata assegnata, chi leggerà forte ai compagni qualche notizia in un giornaletto teatrale. Sarà bene che tanto le Attrici quanto
gli Attori siano vestiti d’abiti piuttosto chiari e gai, e che questa prima scena a soggetto2
abbia, nella sua naturalezza, molta vivacità. A un certo punto, uno dei comici potrà
sedere al pianoforte e attaccare un ballabile; i più giovani tra gli Attori e le Attrici si metteranno a ballare.
IL
(battendo le mani per richiamarli alla disciplina). Via, via, smettetela! Ecco il signor Direttore!
DIRETTORE DI SCENA
Il suono e la danza cesseranno d’un tratto. Gli Attori si volteranno a guardare verso la
sala del teatro, dalla cui porta si vedrà entrare il Direttore-Capocomico, il quale, col cappello duro in capo, il bastone sotto il braccio e un grosso sigaro in bocca, attraverserà il
corridojo tra le poltrone e, salutato dai comici, salirà per una delle due scalette sul palcoscenico. Il Segretario gli porgerà la posta: qualche giornale, un copione sottofascia3.
IL
IL
IL
CAPOCOMICO.
Lettere?
Nessuna. La posta è tutta qui.
CAPOCOMICO (porgendogli il copione sottofascia). Porti in camerino.
SEGRETARIO.
Poi, guardandosi attorno e rivolgendosi al Direttore di scena:
IL
Oh, qua non ci si vede. Per piacere, faccia dare un po’ di luce.
Subito.
DIRETTORE DI SCENA.
Si recherà a dar l’ordine. E poco dopo, il palcoscenico sarà illuminato in tutto il lato
destro, dove staranno gli Attori, d’una viva luce bianca. Nel mentre, il Suggeritore avrà
preso posto nella buca, accesa la lampadina e steso avanti a sé il copione.
IL
CAPOCOMICO
(battendo le mani). Su, su, cominciamo.
Al Direttore di scena:
Manca qualcuno?
Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore
IL
IL

DIRETTORE DI SCENA.
CAPOCOMICO.
Manca la Prima Attrice.
Al solito!
Guarderà l’orologio.
Siamo già in ritardo di dieci minuti. La segni, mi faccia il piacere. Così imparerà a
venire puntuale alla prova.
Non avrà finito la reprensione4, che dal fondo della sala si udrà la voce della Prima
Attrice.
LA
PRIMA ATTRICE.
No, no, per carità! Eccomi! Eccomi!
È tutta vestita di bianco, con un cappellone spavaldo in capo e un grazioso cagnolino
tra le braccia; correrà attraverso il corridojo delle poltrone e salirà in gran fretta una
delle scalette.
IL CAPOCOMICO. Lei ha giurato di farsi sempre aspettare.
LA PRIMA ATTRICE. Mi scusi. Ho cercato tanto una automobile per fare a tempo! Ma vedo
che non avete ancora cominciato. E io non sono subito di scena.
Poi, chiamando per nome il Direttore di scena e consegnandogli il cagnolino:
IL
Per piacere, me lo chiuda nel camerino.
(borbottando). Anche il cagnolino! Come se fossimo pochi i cani qua.
CAPOCOMICO
Batterà di nuovo le mani e si rivolgerà al Suggeritore:
Su, su, il secondo atto del Giuoco delle parti.
Sedendo sulla poltrona:
Attenzione, signori. Chi è di scena?
Gli Attori e le Attrici sgombreranno il davanti del palcoscenico e andranno a sedere da
un lato, tranne i tre che principieranno la prova e la Prima Attrice, che, senza badare
alla domanda del Capocomico, si sarà messa a sedere davanti ad uno dei due tavolini.
IL CAPOCOMICO (alla Prima Attrice). Lei dunque è di scena?
LA PRIMA ATTRICE. Io, nossignore.
IL CAPOCOMICO (seccato). E allora si levi, santo Dio!
La Prima Attrice si alzerà e andrà a sedere accanto agli altri Attori che si saranno già
tratti in disparte.
IL
IL
(al Suggeritore). Cominci, cominci.
(leggendo nel copione). «In casa di Leone Gala. Una strana sala da pranzo e da studio.»5
IL CAPOCOMICO (volgendosi al Direttore di scena). Metteremo la sala rossa.
IL DIRETTORE DI SCENA (segnando su un foglio di carta). La rossa. Sta bene.
IL SUGGERITORE (seguitando a leggere nel copione). «Tavola apparecchiata e scrivania con
CAPOCOMICO
SUGGERITORE

R. Antonelli
libri e carte. Scaffali di libri e vetrine con ricche suppellettili da tavola. Uscio in
fondo per cui si va nella camera da letto di Leone. Uscio laterale a sinistra per cui
si va nella cucina. La comune è a destra.»
IL CAPOCOMICO (alzandosi e indicando). Dunque, stiano bene attenti: di là, la comune.
Di qua, la cucina.
Rivolgendosi all’Attore che farà la parte di Socrate:
Lei entrerà e uscirà da questa parte.
Al Direttore di scena:
Applicherà la bussola6 in fondo, e metterà le tendine.
Tornerà a sedere.
IL
IL
(segnando). Sta bene.
(leggendo c. s.). «Scena Prima. Leone Gala, Guido Venanzi, Filippo detto
DIRETTORE DI SCENA
SUGGERITORE
Socrate.»
Al Capocomico:
Debbo leggere anche la didascalia?
Ma sì! sì! Gliel’ho detto cento volte!
SUGGERITORE (leggendo c. s.). «Al levarsi della tela, Leone Gala, con berretto da cuoco
e grembiule, è intento a sbattere con un mestolino di legno un uovo in una ciotola. Filippo ne sbatte un altro, parato7 anche lui da cuoco. Guido Venanzi ascolta,
seduto».
IL PRIMO ATTORE (al Capocomico). Ma scusi, mi devo mettere proprio il berretto da cuoco
in capo?
IL CAPOCOMICO (urtato dall’osservazione). Mi pare! Se sta scritto lì!
IL
IL
CAPOCOMICO.
Indicherà il copione.
IL
IL
PRIMO ATTORE.
Ma è ridicolo, scusi!
(balzando in piedi sulle furie). «Ridicolo! ridicolo!» Che vuole che le faccia io se dalla Francia non ci viene più una buona commedia, e ci siamo ridotti a
mettere in iscena commedie di Pirandello, che chi l’intende è bravo, fatte apposta
di maniera che né attori né critici né pubblico ne restino mai contenti?
CAPOCOMICO
Gli Attori rideranno. E allora egli, alzandosi e venendo presso il Primo Attore, griderà:
Il berretto da cuoco, sissignore! E sbatta le uova! Lei crede, con codeste uova che
sbatte, di non aver poi altro per le mani? Sta fresco! Ha da rappresentare il guscio
delle uova che sbatte!
Gli Attori torneranno a ridere e si metteranno a far commenti tra loro ironicamente.
Silenzio! E prestino ascolto quando spiego!
Rivolgendosi di nuovo al Primo Attore:
Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore

Sissignore, il guscio: vale a dire la vuota forma della ragione, senza il pieno dell’istinto che è cieco! Lei è la ragione, e sua moglie l’istinto: in un giuoco di parti assegnate, per cui lei che rappresenta la sua parte è volutamente il fantoccio di se stesso. Ha capito?
IL PRIMO ATTORE (aprendo le braccia). Io no!
IL CAPOCOMICO (tornandosene al suo posto). E io nemmeno!
Andiamo avanti, che poi mi loderete la fine!
In tono confidenziale:
Mi raccomando, si metta di tre quarti, perché se no, tra le astruserie8 del dialogo e
lei che non si farà sentire dal pubblico, addio ogni cosa!
Battendo di nuovo le mani:
Attenzione, attenzione! Attacchiamo!
Scusi, signor Direttore, permette che mi ripari col cupolino? Tira una
cert’aria!
IL CAPOCOMICO. Ma sì, faccia, faccia!
IL
SUGGERITORE.
L’Uscere del teatro sarà intanto entrato nella sala, col berretto gallonato in capo e, attraversato il corridojo fra le poltrone, si sarà appressato al palcoscenico per annunziare al
Direttore Capocomico l’arrivo dei Sei Personaggi, che, entrati anch’essi nella sala, si
saranno messi a seguirlo, a una certa distanza, un po’ smarriti e perplessi, guardandosi attorno.
Chi voglia tentare una traduzione scenica di questa commedia bisogna che s’adoperi con
ogni mezzo a ottenere tutto l’effetto che questi Sei Personaggi non si confondano con gli
Attori della Compagnia. La disposizione degli uni e degli altri, indicata nelle didascalie,
allorché quelli saliranno sul palcoscenico, gioverà senza dubbio; come una diversa colorazione luminosa per mezzo di appositi riflettori. Ma il mezzo più efficace e idoneo, che
qui si suggerisce, sarà l’uso di speciali maschere per i Personaggi: maschere espressamente costruite d’una materia che per il sudore non s’afflosci e non pertanto sia lieve agli Attori
che dovranno portarle: lavorate e tagliate in modo che lascino liberi gli occhi, le narici e
la bocca. S’interpreterà così anche il senso profondo della commedia. I Personaggi non
dovranno infatti apparire come fantasmi, ma come realtà create, costruzioni della fantasia immutabili: e dunque più reali e consistenti della volubile naturalità degli Attori. Le
maschere ajuteranno a dare l’impressione della figura costruita per arte e fissata ciascuna immutabilmente nell’espressione del proprio sentimento fondamentale, che è il rimorso per il Padre, la vendetta per la Figliastra, lo sdegno per il Figlio, il dolore per la Madre
con fisse lagrime di cera nel livido delle occhiaje e lungo le gote, come si vedono nelle
immagini scolpite e dipinte della Mater dolorosa9 nelle chiese. E sia anche il vestiario di
stoffa e foggia speciale, senza stravaganza, con pieghe rigide e volume quasi statuario, e
insomma di maniera che non dia l’idea che sia fatto d’una stoffa che si possa comperare
in una qualsiasi bottega della città e tagliato e cucito in una qualsiasi sartoria.
Il Padre sarà sulla cinquantina: stempiato, ma non calvo, fulvo di pelo, con baffetti folti
quasi acchiocciolati attorno alla bocca ancor fresca, aperta spesso a un sorriso incerto

R. Antonelli
e vano. Pallido, segnatamente nell’ampia fronte; occhi azzurri ovati, lucidissimi e arguti; vestirà calzoni chiari e giacca scura: a volte sarà mellifluo10, a volte avrà scatti aspri
e duri.
La Madre sarà come atterrita e schiacciata da un peso intollerabile di vergogna e d’avvilimento. Velata da un fitto crespo vedovile, vestirà umilmente di nero, e quando solleverà il velo, mostrerà un viso non patito, ma come di cera, e terrà sempre gli occhi bassi.
La Figliastra, di diciotto anni, sarà spavalda, quasi impudente. Bellissima, vestirà a lutto
anche lei, ma con vistosa eleganza. Mostrerà dispetto per l’aria timida, afflitta e quasi
smarrita del fratellino, squallido Giovinetto di quattordici anni, vestito anch’esso di
nero; e una vivace tenerezza, invece, per la sorellina, Bambina di circa quattro anni,
vestita di bianco con una fascia di seta nera alla vita.
Il Figlio, di ventidue anni, alto, quasi irrigidito in un contenuto sdegno per il Padre e in
un’accigliata indifferenza per la Madre, porterà un soprabito viola e una lunga fascia
verde girata attorno al collo.
L’USCERE (col berretto in mano). Scusi, signor Commendatore.
IL CAPOCOMICO (di scatto, sgarbato). Che altro c’è? l’uscere (timidamente). Ci sono qua
certi signori, che chiedono di lei.
Il capocomico e gli Attori si volteranno stupiti a guardare dal palcoscenico giù nella sala.
IL
(di nuovo sulle furie). Ma io qua provo! E sapete bene che durante la
prova non deve passar nessuno!
CAPOCOMICO
Rivolgendosi in fondo:
Chi sono lor signori? Che cosa vogliono?
(facendosi avanti, seguito dagli altri, fino a una delle due scalette). Siamo qua
in cerca d’un autore.
IL CAPOCOMICO (fra stordito e irato). D’un autore? Che autore?
IL PADRE. D’uno qualunque, signore.
IL CAPOCOMICO. Ma qui non c’è nessun autore, perché non abbiamo in prova nessuna
commedia nuova.
LA FIGLIASTRA (con gaja vivacità, salendo di furia la scaletta). Tanto meglio, tanto meglio,
allora, signore! Potremmo esser noi la loro commedia nuova.
QUALCUNO DEGLI ATTORI (fra i vivaci commenti e le risate degli altri). Oh, senti, senti!
IL PADRE (seguendo sul palcoscenico la Figliastra). Già, ma se non c’è l’autore!
IL
PADRE
Al Capocomico:
Tranne che non voglia esser lei…
La Madre, con la Bambina per mano, e il Giovinetto saliranno i primi scalini della scaletta e resteranno lì in attesa. Il Figlio resterà sotto, scontroso.
IL
IL
CAPOCOMICO.
PADRE.
Lor signori vogliono scherzare?
No, che dice mai, signore! Le portiamo al contrario un dramma doloroso.
Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore

LA FIGLIASTRA. E potremmo essere la sua fortuna!
IL CAPOCOMICO. Ma mi facciano il piacere d’andar via, che non abbiamo tempo da perdere coi pazzi!
IL PADRE (ferito e mellifluo). Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena d’infinite assurdità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili; perché
sono vere.
IL CAPOCOMICO. Ma che diavolo dice?
IL PADRE. Dico che può stimarsi realmente una pazzia, sissignore, sforzarsi di fare il contrario; cioè, di crearne di verosimili, perché pajano vere. Ma mi permetta di farle
osservare che, se pazzia è, questa è pur l’unica ragione del loro mestiere.
(da L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, in Maschere nude, vol. I, Mondadori,
Milano 1958).
Note
1. Giuoco delle parti: è una commedia dello stesso Pirandello, scritta nel 1918 e rappresentata
a Roma nel medesimo anno, senza peraltro riscuotere particolare successo.
2. a soggetto: senza un copione definito, fondata solo su indicazioni di massima dell’autore.
3. copione sottofascia: il testo del dramma corredato di indicazioni per la messa in scena.
4. reprensione: ‘rimprovero’.
5. «in casa … da studio»: è la didascalia iniziale del secondo atto del Giuoco delle parti, i cui
personaggi, citati più avanti, sono Leone Gala, Guido Venanzi, Filippo detto Socrate.
6. bussola: una sorta di paravento.
7. parato: ‘vestito’.
8. astruserie: ‘sottigliezze incomprensibili’.
9. Mater dolorosa: la Madonna addolorata.
10. mellifluo: ‘di una dolcezza affettata’.
ROBERTO ANTONELLI

R. Antonelli
CESARE SEGRE, La comunicazione teatrale in Pirandello
in C. Segre, Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Einaudi, Torino 1991
Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera
si recita a soggetto (1929) furono raggruppate da Pirandello stesso, nel primo volume
del suo Tutto il teatro (1933), sotto l’etichetta unificante del «teatro nel teatro».
L’etichetta, che tra l’altro fa torto alla novità portata da Pirandello, risulta, a un’analisi
attenta, imprecisa. Se si guarda a quelli che sono i grandi paradigmi del «teatro nel teatro», o, come preferisco dire, della «scena en abyme», voglio dire ad Amleto, a Pene d’amar perdute, al Sogno di una notte di mezza estate, si nota che, là, il dato caratterizzante sta nell’inserzione, entro il dramma tradizionale, di un altro dramma o spettacolo teatrale, di norma incompleto. La rappresentazione seconda costituisce una forma di
comunicazione tra i personaggi della rappresentazione inglobante. Le cose non mutano molto con La bisbetica domata, in cui il dramma tradizionale costituisce la parte
inglobata, comunicata.
Ciò che della «scena en abyme» passa in Pirandello sono alcune caratteristiche tecniche della scenab, la scena seconda. Anzitutto è esplicitata la modalità di trasmissione:
si mette in evidenza la natura artificiale della rappresentazione, perciò antillusionistica;
si lascia che gli attori oscillino tra lo statuto o la personalità che hanno nella scenaa e
quelli della scenab; si esibisce l’aspetto di «prova», con incertezze e ripetizioni, e 1’artificialità della messinscena. Viene pure ripreso il procedimento di recupero analettico di
fasi precedenti di una vicenda rappresentata solo nel suo momento conclusivo o nel
massimo del climax. Per il resto, la «scena en abyme» appare un precedente molto
remoto. L’enchassement [‘incastonatura’] non avviene tra una rappresentazione tradizionale ed una in fieri, ma tra la scena e l’extrascena; anzi, più che di enchassement si
dovrebbe parlare di intrusione, invasione apparentemente incontrollata. È una cancellazione della barriera tra scena ed extrascena, ben solida ancora nel caso della «scena
en abyme», in cui entrambe le finzioni sono rigorosamente collocate al di là della barriera. In più, sussistono differenze notevoli fra le tre commedie di Pirandello.
In SP, 1’extrascena è costituita appunto dai personaggi, che, invaso il palcoscenico,
finiscono per sostituirsi agli attori, a parte il breve e fallito tentativo di questi ultimi di
rappresentare la loro vicenda. L’extrascena di CSM è costituita da persone reali che
sarebbero state prese a modello nella vicenda scenica, nonché da un finto pubblico.
Infine gli attori, che in scena appaiono alternativamente come tali, o come personaggi, in QSRS si mescolano anche col pubblico, in questo caso solo come personaggi.
Dal punto di vista della finzione attoriale, si presentano vari schemi, di cui sono nuovi,
rispetto alla «scena en abyme», i tipi E, F:
A attore1 → personaggio rappresentato
B attorel → regista (SP, QSRS)
C attore1 → finto spettatore o critico, personale del teatro (CSM, QSRS)
D attorel → Attore2 Æ personaggio rappresentato (con alternanza tra fase 2
e fase 3) (SP, QSRS)
E attorel → personaggio reale • personaggio rappresentato (con alternanza
Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore

tra fase 2 e 3) (SP)
F attorel → persona reale (CSM).
Confrontando con la «scena en abyme» classica, si rileva: che in SP si succedono, in
parte sovrapponendosi, tre tipi di scena: I. Dialogo tra i personaggi reali e il regista,
con vicenda raccontata desultoriamente; II. Messinscena parziale della vicenda da parte
degli attori; III. Ripresa del dialogo tra personaggi reali, che ormai punta verso (e culmina con) una messinscena della vicenda da parte dei personaggi reali. Dunque la
scena enchassée è semmai quella degli attori. In CSM è l’extrascena che incastona la
scena tradizionale, irrompendovi in parte e alla fine interrompendola. In QSRS si alternano le fasi-attore, con prevalenza della narrazione e del discorso metateatrale, e le
fasi-personaggio, recitate normalmente. Di enchassement si può parlare solo per il
frammento di opera lirica alla cui esecuzione assiste, in un finto teatro, una parte dei
personaggi.
Finito di stampare nel mese di marzo 
presso Grafica Editrice Romana - Roma