Untitled

Transcript

Untitled
Sabina Ricca
Il peso
di esser stata
pesante
© 2010 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatrosilfilo.it
ISBN 978-88-567-XXXXX
I edizione febbraio 2010
stampato da Digital Team sas, Fano (PU)
Distribuzione per le librerie Mursia s.p.a.
Il peso di esser stata pesante
Dedicato con tanto e immenso amore a mio marito
che mi ha sempre sostenuta ed aiutata in tutti i modi
e alle mie figlie che hanno dovuto subire tutto ciò.
Vorrei dire, anzi vorrei scrivere
Tutto ciò che penso
Ma è molto complicato
Dovrei tornare indietro nel tempo
Molto indietro
Cioè a quando ero bambina
Bambina, non come tutte le altre
Sin dall’inizio ero una bambina grassa
Con poche speranze di essere magra
Tutto era sempre difficile, molto difficile
Presentazione
Mia moglie aveva pensato ad un’amica per la presentazione
del suo libro ma ho preferito farlo io, perché nessuno meglio
di me può essere testimone di tutte le sue sofferenze. Quando
torno indietro con i miei pensieri all’inizio di questo cammino
ricordo che ero convinto di vederla felice per come era ma
finalmente magra come aveva desiderato da sempre; tuttavia
quello era solo l’inizio delle sue sofferenze. In questi venti anni
si possono contare momenti di gioia e di sorriso, vissuti sempre con la paura che qualche altro malessere si presentasse.
Pochi come me possono capire quanto il dolore si raddoppi
quando non si raggiunge il risultato finale, che doveva essere
il miglioramento della vita. Sicuramente non ho conosciuto e
non conoscerò mai una donna così forte e amante della vita.
Vedere soffrire la persona amata provoca grandi sofferenze;
solo chi come me convive con ciò può capire. Vorrei vederla
felice e sorridente come venti anni or sono.
Sei forte sabina, ti amo.
Tuo marito
Antonio
11
Introduzione
DIVERSIONE BILIOPANCREATICA:
combinazione di due
provvedimenti chirurgici: una gastroresezione e una deviazione intestinale. La prima è responsabile della capacità gastrica
e determina il dimagrimento attraverso un minore introito di
cibo; la seconda procura una permanente riduzione dell’assorbimento intestinale con mantenimento del peso raggiunto.
Per poter vivere al meglio, dopo un intervento malassorbitivo come la diversione biliopancreatica, è fondamentale
godere di una certa stabilità economica, perché è necessaria
un’alimentazione iperproteica che ha ovviamente dei costi,
così come è necessaria una terapia farmacologica integrativa,
finora totalmente a carico del paziente.
VANTAGGI: calo ponderale significativo (65-75% del peso in
eccesso) in breve tempo. Necessita di poca collaborazione da
parte del paziente. È possibile l’approccio laparoscopico.
SVANTAGGI: elevata incidenza di complicanze (diarrea, anemia, pancreatite acuta). L’intervento è tecnicamente complesso e richiede riospedalizzazioni frequenti, oltre a una terapia
farmacologica integrativa a vita.
COMPLICANZE E RISCHI OPERATORI E POST OPERATORI:
ogni intervento chirurgico (non solo gli interventi bariatrici
per l’obesità) comporta dei rischi: l’inevitabile rischio anestesiologico, tanto più alto quanto più grave è il grado di obesità,
i coaguli di sangue (embolia), la polmonite, l’aritmia cardiaca e
l’infarto (a seguito dell’anestesia nel post operatorio ).
Le possibili complicanze comprendono: formazione di ematomi (raccolta o versamento di sangue) in prossimità o in corrispondenza dei tagli, difficoltà di cicatrizzazione delle ferite, infezioni dovute alla rottura delle suture della parete addominale.
13
POSSIBILI COMPLICANZE SPECIFICHE DELLE DIVERSIONI
BILIO-PANCREATICHE: diarrea grave, flatulenza, gravi carenze
vitaminiche (vitamine: A, B12, D, acido folico), gravi squilibri elettrolitici, emolisi, anemia, deficit da calcio, osteoporosi,
cirrosi epatica, pancreatite acuta, emorroidi, ragadi, ascessi e
fistole perianali, ulcera anastomotica (in prossimità dell’anastomosi che congiunge lo stomaco all’intestino).
14
Capitolo I
Obesità
Quando guardo un bimbo cicciottello mi trovo spesso a
sperare per lui che non lo sia per sempre, perché un bimbo grasso, che per la madre è comunque bello, se resterà
tale sarà soltanto un futuro ragazzo obeso e poi un futuro
uomo obeso.
Come si può spiegare tutto ciò? Come si può dire a quella
stessa madre che il suo bel bimbo cicciottello non è bello? Che
in futuro, anche nell’immediato futuro, avrà tanti problemi?
Da piccolo lo chiameranno pacchione1 per sottolineare la
diversità di cui egli è già cosciente: la diversità sarà evidente
nei giochi al parco, alla scuola materna, alle giostre.
Alle scuole elementari il peso dell’essere pesanti sarà ancora
più schiacciante. Il piccolo obeso osserverà gli altri bambini
e li vedrà normali; il piccolo obeso affermerà la sua diversità
occupando l’ultimo banco, non perché alto ma perché largo
e se desiderasse sedersi più avanti, più vicino alla maestra, gli
sarebbe consigliato di non farlo poiché la larghezza impedirebbe agli altri la visuale. Il suo sogno sarebbe sedersi a un
primo o a un secondo banco, ma conscio della sua diversità
accetterà senza problemi apparenti il suo ultimo banco, senza
mai dire che proprio il sentirsi diverso lo porterebbe naturalmente a chiedere maggiore attenzione, un modo per sentirsi
amato, accettato e non emarginato.
Ma questo è solo l’inizio perché poco a poco si presenteranno altri problemi. Ecco tutti i bambini che si riuniscono nella
pausa della merenda e guardano già con diversità il piccolo
obeso mangiare due merendine anziché una; tutti ridono e
insieme fanno su di lui anche delle scommesse su quanto cibo
riesca a ingerire. La difficoltà di inserirsi in un mondo che
1
Forma dialettale palermitana per indicare una persona grassa
17
lo prenderà in giro a scuola come al parco, come per strada,
come in famiglia, sull’autobus o in qualunque altro luogo ci
sia gente, non è che l’inizio di un cammino che già nel suo
primo compiersi appare incredibilmente in salita.
Il bambino obeso non è ancora in grado di nascondere il
cibo per mangiarlo lontano da occhi e da bocche che successivamente esprimerebbero commenti relativamente alla quantità e a come quella quantità gli si spalmerà uniformemente sul
corpo, arrotondando ulteriormente ciò che è già rotondo. Sin
da piccolo la vergogna sarà sua compagna di vita, imparerà a
nascondersi quando vorrà mangiare avidamente, quando una
presa in giro gli procurerà ulteriore fame, quando a una richiesta di affetto non vi sarà alcuna risposta.
Se poi, malauguratamente, il piccolo obeso fosse una piccola obesa, il peso dell’essere pesanti assumerà contorni maggiormente definiti verso il disprezzo di sé e l’evidente diversità. In un mondo dove l’immagine è il solo passaporto che
conta, una bambina grassa sa già che il suo guardaroba non
potrà contenere gli stessi vestiti delle amichette: non vi saranno pantaloni, sfiziose minigonne, colori accesi, ma soltanto
tristi e anonimi vestiti e gonne il cui orlo non sarà mai sopra
il ginocchio. Abiti che la faranno apparire più grande della sua
età, regalandole già qualche responsabilità in più.
Anche i pomeriggi a giocare dalle amiche si riveleranno fonte di sofferenza, poiché la sua visibilità è legata ai suoi chili:
tra risatine e strizzatine d’occhio le bambine, le sue amiche,
le chiedono quanto pesi, quanto mangi, e commentano incuranti del fatto che tu sia lì. Quando le loro mamme mettono a
tavola tutte le varie leccornie lei, che già ha avuto la sua dose
di cattiveria, comincia a coccolarsi davanti al bordo di quel
tavolo imbandito e si attacca adesso a tutto l’amore che una
bellissima fetta di torta con panna riesce a manifestarle: la
torta compiace con gusto il suo palato e la sua mente, le dà un
calore immediato, che si manifesta nel suo cervello alla vista
di quella bellissima panna con tanto pan di spagna e piccole
fragoline una sull’altra, che poggiandosi sulla sua lingua pizzicano leggermente avvolgendosi in quella soffice e morbida
panna. Le altre continuano a ridere incuranti del suo silenzio
18
e del suo attaccamento al tavolo dei dolci, senza nemmeno
accorgersi della sua sofferenza; lei continua con una bella tazza di cioccolata calda che con il suo calore cancellerà tutte le
loro cattiverie.
Un senso di impotenza si impossessa di te sin dalla più tenera età, vorresti essere sorda e cieca, non vedere e sentire le
maestre che fra di loro commentano non solo il tuo stato, ma
l’eventuale cecità dei genitori che nulla fanno per eliminare
questo handicap dalla tua vita. Ma, anche se si è piccoli, questi
modi di porsi si sentono e restano incisi nella memoria: quella
bambina – io bambina – spesso si ritrova in un angolo, triste,
a pensare perché sia diversa dalle altre e perché il buon Dio
si sia dimenticata di lei non creandola normale, perché deve
portare questo fardello così pesante. Pesante in tutti i sensi.
Ma torniamo a lei, a me, la piccola obesa, che è comunque
una bambina e desidera partecipare ai giochi, socializzare, e
insieme alle sue coetanee cerca di inserirsi come meglio può,
dando il massimo di sé Anche in un gioco come “piedino”
lei prova e riprova per riuscire almeno in parte come le altre:
lei fa di tutto, si impegna al massimo e dopo tanto esercizio
riesce pure bene, però basta che lei commetta un errore ed è
perduta, e se per caso inciampa e cade tutti scoppiano in una
sonora risata, accompagnata dai commenti – l’elefante rotola,
la balena non si alza più. Ma se fosse caduta una magrolina non sarebbe stata la stessa cosa: si sarebbero preoccupati,
l’avrebbero aiutata e soccorsa, e nessuno avrebbe insinuato
che quella caduta avrebbe avuto come conseguenza il ritrovamento di un pozzo petrolifero. «Abbiamo trovato il petrolio»
è una frase che una bambina e un’adulta obesa si sentiranno
ripetere sempre in una simile situazione. Eviterò di accennare
ad altri giochi, come la staffetta o bandiera, dove si gioca a
squadre e pertanto si scelgono i compagni. Io non sarei mai
stata scelta da nessuno; grassa quindi lenta, «con la balena in
squadra non vi sarà possibilità alcuna di vincere».
Così passano gli anni della fanciullezza, fra l’indifferenza e
la cattiveria, fra la tristezza e la solitudine, fra la speranza che
un giorno un miracolo salvi me e i piccoli obesi come me e
la certezza che sarà così per tutta la vita. Così giungo all’ado19
lescenza, crescendo quindi in altezza, ma soprattutto in peso.
È arrivato il giorno di inserirmi in una nuova scuola cerco
un sostegno per farmi avanti in un mondo nuovo, magari attraverso un’amica “normale” per farmi strada più facilmente;
sono pronta a dare tutto in cambio di un po’ d’amicizia sincera, per essere accettata e ben voluta, per inserirmi nel gruppo.
Ma i primi problemi nascono subito: tra ragazzine è naturale
parlare di moda, confrontarsi e verificare che io non avrei mai
potuto avere il vestitino come l’amica col cinturino stretto o
una normale tuta da ginnastica. I miei vestiti sono sempre legati ad un immagine di me più adulta della mia età, sono cuciti
da una sarta ma non sono vestiti per ragazzina, sono – come
dire – un po’ strani, diciamo pure “da vecchia”.
Il divario tra me e gli altri è sempre più ampio. Guardo le
mamme delle mie amiche preoccuparsi per le figlie che mangiano poco e penso che piacerebbe anche a me sentirmi dire
le parole che queste madri rivolgono alle loro bambine, come
ad esempio di mangiare per crescere perché sono troppo magre. A me dicono solo di mangiare poco e allora, come per
obbedire a quelle mamme preoccupate, anch’io assieme alle
mie compagne, figlie di quelle madri, fermavo a comprare una
bella pizzetta fumante appena sfornata. Il profumo impregnava tutto il mio zainetto e restavo in attesa del momento in cui,
aprendo l’involucro, avrei gioito nel vedere quella bella fetta di
prosciutto con sopra la mozzarella su una base di pomodoro;
e addentandola avrei provato compiacimento, per essere stata
una brava bambina, per aver obbedito a tutte quelle mamme
che raccomandavano alle loro figlie di mangiare.
Anche le ore di ginnastica a scuola diventavano un supplizio: per quanto mi piacesse muovermi e per quanto impegno
vi mettessi, mai avrei destato l’interesse dell’insegnante per
poi farmi partecipare alle gare fra istituti, non sarei stata scelta
neanche per il lancio del martello. Inoltre provavo invidia per
l’armonia dei corpi delle altre alunne, vederle muovere sinuosamente all’interno dei loro body mi feriva ulteriormente.
Martellante comincia a pulsare nella mia testa un solo pensiero: devo dimagrire, io devo dimagrire. Se fosse bastata solo
la forza e la volontà racchiusa nell’ossessivo pensiero di dima20
grire, sarei stata magra in brevissimo tempo, ma ancora una
volta la vita mi dimostrò che niente per me sarebbe stato di
semplice attuazione. Chiesi e ottenni di essere portata da un
dietologo, il quale dopo avermi guardata, visitata, pesata (e
ancora non sapevo quante volte ancora sarei stata scrutata in
questo modo e il senso di umiliazione che avrei provato tutte
le volte che mi sarei affacciata alla porta di uno studio medico), mi diede una dieta e mi disse che avrei potuto farcela, che
con un po’ di buona volontà e il suo regime dietetico il mio
sogno sarebbe stato realtà. Ma non è sempre per tutti così:
alcuni riescono nell’intento, altri no. Passa il tempo e quella dieta miracolosa si rivela non essere così miracolosa come
avrei pensato.
Non solo non avevo perso molto peso, ma per quel misterioso effetto che si chiama “effetto yo-yo” (così chiamato
poiché a una diminuzione drastica di peso si associa – nel
momento in cui si ingeriscono poche calorie in più rispetto a
quelle prescritte nel regime alimentare – un aumento di peso
rispetto a quello con cui si era iniziata la dieta), a distanza di
mesi chili ne avevo acquistati ancora. Si aggiungevano, alla
mia personale delusione per avere fallito ancora una volta, i
commenti impietosi di chi faceva inoltre notare che non solo
ero riuscita a dimagrire poco e per poco tempo, ma ero ulteriormente ingrassata.
Come potevo ricucire le ferite prodotte? Entrando in un
bel bar e regalandomi ciò che più mi faceva stare bene: allora
compravo bellissime scatole di cioccolatini e patatine in busta. Tornavo a casa e mi rifugiavo nella solitudine della mia
stanzetta, e cominciavo a mangiare tutto con gran gusto: prima le patatine che con un crick e poi un crock dopo l’altro
cancellavano tutte le delusioni della vita, poi continuavo con
i cioccolatini. Li assaggiavo tutti perché ognuno aveva un gusto diverso e una rivendicazione diversa, iniziavo una litania
e a ogni cioccolatino corrispondeva un sopruso, una presa in
giro, un momento di disagio. Gustare i cioccolatini è un’arte,
perché gustarli è una cosa stupenda. Il cioccolatino non si
mangia, si gusta: è come un bell’abbraccio caldo e sincero che
ti avvolge con il suo caldo sapore; bisogna scartarlo con amo21
re, guardarlo e portarlo con grazia alla bocca poggiandolo
sulla lingua, non masticandolo, ma dolcemente sciogliendolo
in bocca pian piano, pigiando la lingua sopra il palato, attivando così tutte le papille gustative. Scommetto che in questo
momento chiunque, pur non avendo con sé del cioccolato,
potrebbe sentirne il gusto e il piacere.
Piena la pancia , pieno il cuore, pieno il cervello d’amore.
Il cibo lo nascondevo, e lo avevo costantemente in testa. I
miei pensieri si dissociavano, mi immaginavo magra mentre
mangiavo di tutto, ma proprio di tutto, fino a non poterne
più, perché c’era ancora un vuoto, uno spiraglio, una fessura
ancora da riempire. Non mi sentivo mai sazia: a scuola portavo il doppio della merenda che portavano le mie compagne e
quando uscivo l’unico pensiero era trovare la pasticceria nella
quale avrei potuto comprare un cannolo, per poi tornare a
casa e mangiare ancora, dolce e salato senza scelta, senza pormi la responsabilità di capire cosa mi sarebbe piaciuto di più.
Avere l’acquolina in bocca in ogni momento della giornata
e provare disgusto nel guardarmi, pensare che le guance un
giorno avrebbero chiuso i miei occhi, per quanto si sarebbero
ingrossate, vedere il mio corpo dilatato, gonfiato, con un peso
che non mi apparteneva... Quella ragazzina che vedevo allo
specchio non ero io, quella ragazzina che soffocava nel suo
corpo non ero io, non sapevo come staccarmene e per allontanarlo mangiavo ancora, ancora, ancora...
E in questa situazione si giunge all’adolescenza e ai mutamenti che questa porta con sé: i primi amori, le prime cotte,
tutto quello che colorava il mondo delle mie coetanee a me
era vietato, i miei innamoramenti sarebbero stati la conferma
della mia inettitudine. Non mi sarei mai potuta permettere di
innamorarmi ed essere ricambiata. La consapevolezza però
non serve a non farmi innamorare; sempre più chiusa in un
mondo solo mio sognavo che, malgrado il fardello che mi
portavo addosso, anche per me l’amore sarebbe potuto arrivare. Sogni, tanti sogni.
Le delusioni giungono a cascata. Devo tra l’altro mettere
gli occhiali: un giovane elefante occhialuto, questo sembravo,
un perfetto prodotto da cartone animato della Walt Disney.
22
Le amicizie come gli amori mi sembravano ormai sentimenti
preclusi. Le amiche mi abbandonavano perché avevano il ragazzo e il tempo che avrebbero potuto dedicarmi lo avrebbero dedicato a lui, e poi di uscire in comitiva non se ne parlava.
Da un lato non uscivo perché mi sarei sentita in imbarazzo tra
tante coppie e me da sola, dall’altro mi si faceva notare che le
mie dimensioni erano eccessive per entrare in una Cinquecento senza che il mio peso non l’avesse sbilanciata. E quelle rare
volte in cui qualcuno mi invitava a uscire, il piacere dello stare
insieme si trasformava in supplizio quando mi accorgevo che
diventavo argomento di conversazione: le mie dimensioni,
parlare delle dimensioni del mio corpo, dei miei arti, era un
modo come un altro per lasciar trascorrere le ore di un sabato
pomeriggio.
C’è da dire che non tutti gli amici sono così: c’è qualcuno che
è pronto ad accettare un’amica grassa ed è talmente amico che
mi sembrava non accorgersi della mia diversità. Spesso però
ci pensavano gli altri “amici” a fargli cambiare idea, riuscivano
a farlo sentire in imbarazzo perché si accompagnava ad una
come me e, in gioventù, il branco ha sempre la meglio.
Spesso mi ritrovavo a piangere di me stessa e a promettermi
di non mangiare più sperando di morire, perché ci si sente
soli e abbandonati e una vita così non vale la pena di essere
vissuta. La sola sensazione che avevo era quella di essere sola,
abbandonata, incompresa, innamorata di un ragazzo che le
fa capire che non potrebbe mai amare un elefante. E ancora
lacrime, e ancora sogni: i sogni erano l’unico rifugio, l’unico
spiraglio di luce che vedevo in questo tunnel assolutamente
buio. Mi addormentavo ogni sera sognando ad occhi aperti che, per magia, la mattina mi sarei svegliata magra, senza
pancia, senza un filo di grasso, che toccandomi avrei sentito il
profilo delle mie ossa.
23
Capitolo II
I miracoli esistono
Ricordo come fosse oggi la domenica sera in cui una mia zia
mi chiese se avessi visto una trasmissione televisiva cui partecipava una ragazza che, a Genova, si era sottoposta a un intervento chirurgico per combattere l’obesità. Definitivamente.
Definitivamente fu la parola che mi colpì, l’unica che il mio
cervello raccolse, l’unica che il mio cuore desiderava sentire.
Io, che da quindici giorni mi ero lanciata in un nuovo tentativo
di dimagrimento mangiando mezza patata a pranzo e mezza
patata a cena (con l’evidente risultato di aver perso due chili
sui miei stabili centosei), le chiesi di cosa stesse parlando; non
capivo, ignoravo l’esistenza di un intervento del genere. La mia
mente cominciò a elaborare prospettive future al limite della
follia: una cascata di pantaloni taglia 42 cadevano a pioggia
dal cielo della mia immaginazione, minigonne di tutte le stoffe
più seducenti e completi intimi mi strizzavano l’occhio dalle
vetrine dei negozi... «Desidero conoscere ogni singolo aspetto
di questo intervento: chi lo pratica, dove, quando, come, perché! Adesso, sì adesso io voglio, io devo, io posso!!».
Ripresi con difficoltà il senso della realtà e mi affrettai a
chiedere ulteriori notizie a mia zia, la quale mi disse che sul
“Giornale di Sicilia” era apparso un articolo che presentava
il nuovo “Centro Per l’Obesità” del Policlinico, luogo in cui
praticavano l’intervento effettuato dalla ragazza apparsa in
televisione. Cercai di procurarmi il giornale e, in questo momento in cui mi sembrava di muovermi per me stessa per la
prima volta in vita mia, pensai che, finalmente, avrei potuto
conoscermi da magra.
In macchina con mio marito non feci altro che parlare ininterrottamente di ciò che sarei stata dopo questo intervento.
Gli dissi: «Ti ricordi come ci siamo conosciuti? Quando mia
cugina organizzò quella serata a quattro si guardò bene dal
25
dirti che la ragazza con cui aveva organizzato la serata era
grassa. Ricordo ancora il tuo sguardo quando aprimmo la
porta quella sera e voi vi metteste a ridere. Io pensai che mi
piacevi, ma che mai avrei potuto dirti nulla; poi la serata si
rivelò simpatica, forse perché riuscii a prenderti per la gola,
per il mio modo di cucinare la pasta alla carbonara, anche se
vedevo sempre gli sguardi complici fra te ed il tuo amico, le
risatine sotto al naso. Sapevo che mi stavate prendendo in
giro ma, non so come mai, dopo quella serata mi invitasti ad
uscire sempre più spesso. Tu mi deridevi ma poi mi abbracciavi: questo chiaramente mi confondeva, anche perché non
leggevo nella tua derisione nulla di offensivo». Quel modo mi
appariva amabile, affettuoso, e con il passare del tempo scoprii che l’amore può giungere anche lì dove sembra che non
debba mai varcare la porta d’ingresso, oltre l’adipe.
Successivamente mio padre seppe che noi stavamo insieme
ed essendo molto tradizionalista non accettava che sua figlia
andasse liberamente con un ragazzo, così ritenne opportuno
ufficializzare la relazione e le famiglie si conobbero.
«L’offesa più grande, lo sai, l’ho avuta quando tuo padre mi
vide per la prima volta: il suo sguardo mi fece sentire addosso
i miei 100 chili, sommati ad altri cento, altri mille; aveva lo
sguardo di chi ha visto un ippopotamo non in uno zoo safari
ma dentro il proprio appartamento. Anche i tuoi fratelli mi
guardavano in maniera strana, indecisi se pensare allo stesso ippopotamo cui pensava tuo padre o a un elefante; infatti
credo che si stupirono tutti molto quando dissi “Buonasera”
invece di barrire». Qualcuno come sottofondo musicale, per
farmi sentire a mio agio, cantava: «E bomba o non bomba,
arriveremo a Roma malgrado lei...». Negli sguardi, nelle parole, nelle canzoncine leggevo chiara solo una domanda: ma che
cosa avrai mai potuto trovare in questa – ehm – donna?
Qualche volta apparivo loro come una persona che si dava
delle arie e quindi gli sfottò si facevano maggiormente pressanti, ma con gli anni riuscirono a comprendere che le mie
“arie” erano solo il sintomo dell’insicurezza e della paura, la
paura di un’obesa che si era sempre sentita offendere, deridere, e si nascondeva sempre dietro a una maschera che ri26
uscisse in qualche modo a proteggerla dalle persone. «Così
anche loro per vedermi sorridere mi riempivano di dolcetti,
soprattutto tuo fratello che era ancora piccolo ma ricordo che
tornava sempre con delle caramelle o con un bel gelato per
me...». Anche loro cercavano, attraverso il cibo che sembrava
rendermi felice, di arrivare al mio cuore.
«Non sono riuscita a dimenticare questi momenti perché la
tua famiglia imparò a volermi bene, malgrado io fossi grassa;
anzi mi coccolavano riempiendomi di cibo e anche se purtroppo era sbagliato sia io sia loro lo ignoravamo».
27
Gli dissi quindi: «Non ti basta tutto questo? Devo soffrire
ancora? Io voglio essere normale! Nessuno deve più ridere
di me, costi quel che costi!». Mai, neanche per un attimo ho
pensato al reale prezzo che successivamente avrei pagato e
tuttora pago. Mio marito malgrado ciò dubitava e piangendo
gli chiesi di non fare nulla per impedirmi di effettuare l’intervento. Voleva forse una moglie perennemente sofferente e insoddisfatta perché non solo gli altri non l’accettavano, ma lei
stessa per prima a non si accettava? Non volevo più sentirmi
dire che ero un viso carino su un corpo abnorme.
La gente, amici e parenti compresi, mi hanno fatto sentire
come ammalata; mi hanno sempre umiliata, scartata e spesso
derisa, mentre io mi ritrovavo sempre da sola a piangere di
tutto il mio malessere. Non è vero che essere grassi non è un
handicap; lo è, eccome se lo è, e mi fanno sorridere coloro i
quali dicono di sapersi accettare. L’ipocrisia di chi lancia slogan quali «grasso è bello»: li ho sempre trovati ridicoli, sicuramente li ha inventati un magro, così come i concorsi estivi per
eleggere più grasso e la più grassa d’Italia, un toro e una mucca in versione sexy sopra bilance che pesano animali prima di
essere portati al macello. Grasso è bello fa il paio con l’altro
luogo comune che i grassi sono persone allegre. È talmente
evidente che per avvicinare gli altri se non puoi usare il corpo
usi altri strumenti: l’ironia e la simpatia sono uno strumento,
subdolo anche quello: ti cercano per rallegrare una serata, non
perché sappiano chi sei e quali sono i tuoi desideri. Un’attrazione, un giullare di corte che alla fine di ogni manifestazione
sarebbe anche lieto di togliersi di mezzo, a volte per piangere
le proprie lacrime, a volte per uccidersi. Solo dopo, quando
ho visto la mia “normalità”, ho compreso quanti in verità mi
erano stati veramente amici, quanti durante la gioia dell’intervento e la sofferenza che ne è derivata successivamente mi
sono stati affettuosamente vicini, quanti oltre a quella corazza
di grasso vedevano una giovane donna desiderosa di vivere
una vita priva di umiliazioni.
Quel giorno sembrò non finire mai: le mie aspettative erano
enormi, e forse troppe per poterle ritenerle tutte attuabili; infatti
la mattina dopo pensai che fu tutto un sogno, un sogno lucido
28
nel quale io avevo trovato la soluzione radicale al mio solo vero
problema. Quando mia zia si presentò col giornale sul quale era
riportato l’articolo accantonai l’idea del sogno ad occhi aperti e
ripresi tutta quell’energia che aveva caratterizzato la precedente
giornata. Lo lessi tutto d’un fiato e mi misi immediatamente alla
ricerca dei riferimenti attraverso i quali avrei potuto attingere
ogni sorta d’informazione in merito. Cercai sull’elenco telefonico il numero del Policlinico, ma a quell’ora era già inserita la
segreteria telefonica e dovetti desistere dal tentativo di avere immediate informazioni. Mi misi a riflettere e mi ricordai che mio
marito conosceva una donna che lavorava al policlinico al reparto de endocrinologia, con la quale avevo avuto dei contatti telefonici relativi al mio problema. La chiamai e mi dimostrò una
disponibilità senza pari. Le spiegai ciò che avevo letto e che desideravo avere qualunque informazione in merito; mi disse che si
sarebbe informata e che mi avrebbe fatto sapere qualcosa.
Chiusi il telefono e pensai che il mio viaggio verso la normalità era già iniziato, anche se mi resi conto che la mia fretta
si scontrava con la burocrazia e con le segreterie telefoniche.
Quella donna fu di parola, mi richiamò dopo circa un’ora dalla nostra prima telefonata e fu prodiga di notizie, riferendomi
che vi erano molte possibilità di intervento. Una sola nuvola,
che reputai essere una nuvola passeggera, coprì per un attimo
quel cielo azzurro che era dipinto nei miei pensieri da qualche
giorno. Mi mise in guardia, mi disse che praticando al mio
corpo qualcosa di così definitivo sarei potuta andare incontro
a grandi pericoli e a disastrosi effetti collaterali. Spazzai quella
nuvola con un rapido colpo di vento: la sua lungimiranza mi
apparve quasi fuori luogo, pensavo che nessun effetto collaterale sarebbe potuto essere più invalidante del grasso che mi
portavo addosso e che presentavo al mondo.
Era solo l’inizio della guerra e non volevo prestare orecchio
a chi mi poneva dei dubbi, suggerendomi di non andare incontro al nemico con la spada sguainata ma di lavorare valutando i pro e i contro di un attacco così diretto. Senza nuvole
passò un altro giorno e la sera, fortunatamente, ci si era organizzati per giocare a carte con il nostro gruppo di amici con
cui settimanalmente ci riunivamo.
29
A metà notte, alle due circa, preparai la solita spaghettata;
anzi quella sera essendo più contenta non fu una semplice
spaghettata ma fettuccine con il ragù, come per festeggiare e
far passare il tempo più velocemente e soprattutto non pensare a ciò che quella donna mi aveva detto. Meglio affogare tutti
i dubbi in un piatto di calde fettuccine con ragù, pensando che
un giorno quelle stesse fettuccine non mi avrebbero prodotto
accumuli di grasso.
La mattina seguente telefonai al Policlinico, chiesi le informazioni e, dopo aver parlato con innumerevoli persone che
mi rimandavano ad altre persone, riuscii a ottenere il numero
di telefono del medico che effettuava quel tipo di intervento.
Eccitatissima digitai i tasti del telefono come se un invisibile
filo collegasse me e la voce che avrebbe risposto all’altro capo,
pensando che da quella voce avrei potuto avere il definitivo
nulla osta per percorrere la strada che avevo deciso di percorrere. Ma all’altro capo mi rispose una voce che mi comunicò
che il professore era in sala operatoria e non sarebbe stato
disponibile prima delle 13:30. Ancora attese, ancora dovevo
calmare il mio respiro e il mio cuore, il cui battito ormai sostava in gola da giorni senza nessuna intenzione di diminuire l’intensità con cui affermava la sua presenza. Quelle ore
d’attesa ebbero il carattere dell’eternità; nulla mi distraeva da
quell’impaziente attesa, mi sembrava di essere ai blocchi di
partenza della corsa più importante della mia vita, in attesa di
quello sparo che avrebbe messo in movimento ogni singolo
muscolo del mio corpo.
Alle 13:30 e un secondo afferrai la cornetta del telefono e
composi il numero. Mi pulsavano le tempie e riuscii a rilassarmi solo nel momento in cui sentii la voce del mio salvatore.
Mi ero riproposta di comunicare con calma il mio problema e
di mantenere un dignitoso distacco tale da fargli comprendere
l’importanza di ciò che desideravo fare senza che dall’altro
capo del filo si avesse la sensazione di parlare con una pazza
isterica in preda a una crisi.
Il distacco lo mantenni nei primi dieci secondi, poi iniziai
uno sproloquio nel quale gli comunicavo che la mia vita era
ormai nelle sue mani, che quella voce era per me l’ultima
30
spiaggia, che lui era il miracolo che da anni attendevo, lui era
la mia speranza, lui solo poteva dare senso alla parola futuro.
Dal canto suo il medico, che di sproloqui come il mio chissà
quanti ne aveva già sentiti, mi disse di richiamare per le 15:00
e di prendere un appuntamento con il suo assistente. Terminai la telefonata ringraziandolo con in cuore la sicurezza di
una speranza in più.
Attesi l’ora della telefonata cercando di calmarmi, di dirmi che era solo una questione di tempo, che avevo aspettato
ventiquattro anni e che non dovevo lasciarmi prendere dalla
fretta in questo modo così violento. Emozionata, nell’attesa
chiamai mia cognata. Cercavo sostegno, in questo momento
così entusiasmante ma carico di interrogativi, e mia cognata
era una delle pochissime persone che ho sempre voluto al mio
fianco; comprendeva senza giudicare, mi ascoltava, era il mio
aiuto psicologico, faceva da contraltare a chi mi dava della
matta, e sicuramente anche a me in quel periodo balenava in
mente che forse del tutto sana di mente non fossi. Ero così
determinata che non dissi niente ai miei genitori, proprio per
evitare che potessero opporre resistenza a questa mia decisione.
Riuscii finalmente a ottenere questo appuntamento così importante e i giorni che seguirono furono solo un’attesa sognante. Mentre mi beavo dei miei sogni, cercavo di rendere
felice anche mio marito: essendo io una brava cuoca e lui una
buona forchetta come me, preparai durante quei giorni tutti
i piatti preferiti che amavamo gustare insieme, e mentre sognavo mi coccolavo magari inzuppando del pane dentro il
sugo delle melanzane alla parmigiana che con il loro profumo
invadevano la mia cucina, facendo profumare anche i miei sogni. Una nuova vita, in cui avrei potuto guardarmi e vedermi
“normale”, desiderabile; avrei potuto muovermi senza avere
la sensazione di portare a passeggio una zavorra, indossare un
paio di pantaloni, comportarmi naturalmente con gli altri senza sentire occhi denigratori costantemente addosso, riavere i
miei quindici anni e ricominciarli a vivere un po’ di anni dopo
senza essere accompagnati dalle lacrime che costantemente
mi solcavano il volto perché ero grassa.
31
Arrivò quel giorno e mi sembrò che camminare per le strade
della mia Palermo assumeva un gusto del tutto particolare: mi
sentivo già leggera, nervosa e serena allo stesso tempo, certa
che quella era la scelta giusta, l’unica scelta che mi consentisse
di vivere serenamente, anzi, felicemente. Avevo la sensazione di stare affrontando un esame importantissimo, l’esame
del “tutto o niente”; non riuscivo neanche a immaginare cosa
sarebbe successo se mi avessero negato l’opportunità di sottopormi all’intervento.
In compagnia di mio marito, la sala d’attesa dello studio del
primario mi appariva come una gabbia e il pensiero di varcare
quella soglia era come piegare le sbarre della gabbia e guardare
la luce del sole lasciandomi abbagliare e scaldare. La visita si
svolse in modo abbastanza formale: mi fece delle domande per
costruire l’anamnesi, mi fece stendere sul lettino e mi visitò. Io
ero talmente emozionata che ancora oggi non ricordo nulla di
ciò che mi chiese. Ricordo soltanto che appena mi disse di rivestirmi io rivolsi a quel dio pagano una sorta di preghiera: «Per
piacere mi operi, io non sono mai stata magra!». Lui non poteva
saperlo, o forse sì. Chissà quante preghiere come le mie si è
sentito rivolgere negli anni; eppure a me sembrava di chiedergli
ossigeno, di restituire un braccio a un monco... Non mi rispose,
mi diede una ricetta, scrisse dei nomi su un foglietto e a ognuno
allegò un numero di telefono, mi disse di prendere contatto con
uno di quei nominativi e mi salutò.
Uscii da quella stanza scoraggiata, l’entusiasmo che mi aveva accompagnato per tutti quei giorni sembrava scemare. Eppure mi aveva detto di sì, che mi sarei potuta operare, ma la
strada mi appariva lunga e piena di imprevisti. Volevo affrettare i tempi, mi sentivo drogata; tutto quello che c’era intorno
a me non esisteva più, esisteva quella sala operatoria, quella
resezione che avrebbe annullato per sempre (che suono soave
aveva nella mia testa questo “per sempre”!) tutti i miei problemi.
Ottenni l’appuntamento con il medico indicatomi su quel
foglietto per un sabato mattina. Questi per telefono mi chiese
di raccogliere tutto quello che avevo fatto sino ad allora per
dimagrire: visite, esami, diete, riti vudu, qualunque cosa. Con
32
buona lena raccolsi tutto, lo misi in una busta e mi recai, sempre più elettrizzata, da lui. Gli spiegai tutto alla velocità della
luce; lui m’interruppe e mi disse che se avessi continuato a
parlare con quello stato di agitazione e di confusione non mi
avrebbe mai operato. Cercai di calmarmi, quella frase mi aiutò
a farlo, e iniziai a raccontare...
La prima dieta seguita da un dietologo la feci a tredici anni:
unita al regime alimentare mi diede una terapia farmacologica,
iniezioni di gonadotropina. Non ottenni risultati apprezzabili.
Tornai dallo stesso medico tre anni dopo, sedici anni e centosette chili. Quella volta diminuii di undici chili e, proseguendo con un altro medico, arrivai a pesare ottantaquattro chili.
Ricordo che tutte le volte che uscivo dalla visita di controllo
periodico e la bilancia mi sorrideva entravo in un bar e mi
premiavo con un bel cono gelato.
Se con la memoria torno a quel periodo mi sembra di vedermi felice, quasi magra, anche se magra non ero, sicuramente più
accettabile del solito quintale che portavo in giro. Avevo diciassette anni. Col passare dei mesi non mantenni quel peso, acquistai i chili persi con gli interessi e tornai a novantasei chili.
33
Quegli anni coincisero con il mio matrimonio e il matrimonio mi portò a sentirmi libera, libera di mangiare di tutto e di
più. Non c’erano più i miei genitori, che mi rimproveravano
per quanto stessi mangiando. Almeno loro riuscivano ancora
a farmi riflettere che forse, per me, il cibo era una droga; mio
marito dal canto suo cercava di darmi tutto il suo amore dandomi la mia droga sotto forma di dolcetti buoni, di ogni sorta
di prelibatezza. Ogni pubblicità su una nuova merendina o su
un nuovo cioccolato era l’occasione buona per dimostrarmi il
suo amore, lui correva subito a comprarla. Ricordo che tutte
le domeniche, spaparanzati sul divano, guardavamo insieme le
partite di calcio con davanti un vassoio di dolci; il vassoio era
equamente distribuito: una metà presentava deliziosi bignè
con panna – i miei preferiti – l’altra metà cannoli con ricotta
– i suoi preferiti. Senza freni inibitori esterni e interni divenni
enorme e quell’enormità naturalmente non mi regalava gioia,
anche perché nel frattempo desideravo diventare madre. Appena il ginecologo mi vide mi disse che in quelle condizioni
mai avrei potuto concepire un figlio; la cosa più importante
da fare era dimagrire e poi, lasciati per strada tutti i chili di
troppo, avrei potuto accarezzare il sogno di una gravidanza.
Di nuovo i miei desideri si scontravano con quella parte di
me che non voleva andarsene. Avrei dovuto di nuovo fare
appello a tutta la mia forza di volontà, di nuovo sedermi a
tavola e guardare piatti vuoti, di nuovo pesare ogni cibo che
avrei dovuto introdurre, di nuovo sentire quel vuoto interiore
e ancora desiderare di colmarlo con carboidrati, grassi saturi
e insaturi, trigliceridi. L’idea di un bambino però mi portò a
decidere di farmi ricoverare in un centro di dimagrimento;
era lontano da casa e soprattutto lontano da mio marito, ma
ci andai con la solita inutile speranza. Non avevo più avuto il
coraggio di pesarmi da quando mi ero sposata, e quando al
centro la bilancia mi mostrò i miei “centosedici-chili-virgolanovecento-grammi” pensai di aver solo voglia di morire inghiottita dal mio grasso e dalla mia vergogna.
Malgrado i buoni propositi riuscii a stare lontana da casa e
da mio marito solo diciassette giorni. In quel luogo mi sentivo
sola, vuota, inutile; mi sembrava che ciò che stavo facendo lì
34
avrei potuto farlo a casa amorevolmente curata da mio marito. Sola, senza nemmeno il suo sostegno, le giornate erano
veramente tristi. Non c’era neanche il tanto amato cibo per
rallegrarle. Ebbi modo di conoscere delle ragazze che erano
ricoverate per il motivo opposto al mio; loro avevano dentro
il loro zaino il mio mondo di coccole: cioccolato, merendine,
cotognate, insomma tutto ciò che a me sarebbe stato utile per
rallegrarmi.
Un giorno una di loro svuotò il suo zaino sul tavolo per
far vedere a me cosa, poverina, fosse costretta a mangiare. Io
afferrai una tavoletta di cioccolato e con l’aria triste e di chi
si commisera le dissi: «Questa ti serve?». Lei me la tolse dalle
mani e rispose: «A te non serve di sicuro». Mi sentii come un
orso a cui avevano tolto il barattolo del miele.
In ogni caso in quei diciassette giorni dimagrii di sette chili
e ancora ne persi tornando a casa e applicando il regime alimentare del centro da cui provenivo. Riuscii a perdere circa
venti chili ma stavo male. Non capivo cosa avessi: stanchezza,
sonnolenza, sintomatologie a me sconosciute.
Fu così che il medico mi consigliò di fare un test di gravidanza. A me venne un po’ da ridere: in passato ne avevo
fatti tanti, tutti negativi, e inoltre la mia obesità mi regalava
cicli mestruali irregolari se non assenti. Ero pronta all’ennesima delusione e invece mi apparvero, inequivocabili,
quelle lineette che dicevano «incinta». Fui felicissima ma
fu una felicità di breve durata poiché fu già un problema
riuscire a stabilire la settimana di gestazione. Attraverso
l’ecografia si capì che ero addirittura alla trentacinquesima
settimana e che le settimane che restavano sarebbero state
molto complicate. La bambina (sì, era una femmina) non
aveva spazio, lo spazio era tutto occupato dal mio grasso. Fu difficoltoso stabilire le dimensioni della piccola, fu
difficoltoso farla nascere. Infine venne alla luce con parto
cesareo e pesava appena 2.110 grammi, un pulcino sano e
una grande fortuna perché i medici pensavano che potesse
essere morta. Anche il parto fu umiliante: ricordo i medici
che ridevano del fatto che, per trasferirmi sul lettino operatorio, sarebbe occorsa la gru.
35
Neanche la nascita di mia figlia fu motivo di gioia per me.
Il mio grasso riuscì a rovinare anche quel momento. Ricominciai a saltare da dieta in dieta, da farmaci ad altri farmaci,
a digiuni forzati. Quando fu il tempo delle merendine per la
bambina, ricominciai con le grandi abbuffate di merendine e
cioccolato assieme alla mia bambina. Anzi, diciamo pure che
più che mangiarle lei le divoravo io. Sino ad arrivare qui, su
questa sedia a questa speranza.
Il medico ascoltò ogni mia parola e, iniziò ad informarmi verso cosa stavo andando incontro. Mi parlò anche degli effetti
correlati all’intervento, mi prescrisse degli esami diagnostici, mi
consigliò di cercare di rilassarmi e di guardare con obiettività i
pro e i contro dell’intervento. Mi portò con lui in reparto e mi
presentò una donna che era stata operata quattro giorni prima
dello stesso intervento che speravo di fare io. Trovai strano che
questa donna mi dicesse che ero troppo giovane per affrontare
quel tipo di intervento; la sua insistenza mi parve quasi fastidiosa, il suo domandare e cercare di farmi desistere non mi suonò
come un campanello d’allarme, ma soltanto come una forma
di protezione materna che non presi in seria considerazione.
Dissi alla donna dei miei problemi, del mio male di vivere,
dell’incapacità di avere relazioni che non fossero veicolate dalle
mie dimensioni. Fui talmente persuasiva che lei, a malincuore,
chinando il capo per non guardarmi negli occhi, mi disse: «Se
questo è ciò che desideri, fallo».
In qualche modo fui spaventata, non solo da lei che si prodigava nel mostrarmi il sondino nasogastrico descrivendone il
fastidio, i drenaggi che aveva nello stomaco, ma anche dal medico. Sembrava quasi fossero attori di una rappresentazione
allestita per farmi rinunciare. Finché fui in quella stanza pensai che, forse, non ne valeva la pena; ma mi bastò salutare la
donna, vedermi riflessa nei vetri delle porte della corsia che...
no, nessun dubbio, nessun passo indietro, nessuna paura.
36
Operatemi. Il solo imperativo che contava. Così lo ribadii
al medico che mi fissò un altro incontro per il sabato successivo.
Ritornai in ambulatorio dove mi aspettava mio marito, il quale mi chiese se ero ancora convinta. Gli risposi che non avevo
nessuna intenzione di tirarmi indietro. Cercavo di impormi
di stare calma, di ponderare bene tutto, di pensare ai pro e ai
37
contro, ma la mia idea era quella e soltanto quella. Continuavo
a sognarmi magra tanto da non vedere nemmeno i pericoli e
i problemi dell’operazione. Cercavo di convincermi, anzi non
pensavo affatto che avrei potuto avere dei problemi e che quei
problemi avrebbero, per sempre, modificato la mia vita.
Avevo paura che qualcosa negli esami diagnostici avrebbe
impedito il mio sogno. Fu un iter molto lungo. Andai dal medico di base e mi feci fare le prescrizioni; dovetti, tra l’altro,
fare dei giri burocratici enormi per avere le autorizzazioni agli
esami, dovetti fare ulteriori visite da diversi medici. Un viaggio infinito: pensavo che mai sarei giunta alla mia meta. Tra
un semaforo e l’altro mentre ci recavamo in ospedale, tra un
timbro e una visita, tra un’attesa e un procrastinare all’infinito pensavo a quelle persone che realmente hanno bisogno
di alcuni esami importanti e sono sprovvisti di un mezzo di
trasporto, e fanno uso di mezzi pubblici. Per riuscire a fare
autorizzare i loro esami hanno bisogno veramente di molto
tempo, di molta buona volontà e di infinita pazienza, per poi
vedere la propria ricetta pronta.
Così tra un pensiero e l’altro arrivammo all’ospedale e ci
recammo al reparto di endocrinologia, dove dovetti ancora
aspettare un turno. Finalmente riuscimmo ad arrivare al medico, che lesse gli esami e mi chiese per quale motivo dovevo
fare quel tipo di accertamenti. Gli risposi che era mia intenzione fare il nuovo intervento per l’obesità. Lui mi osservò e
mi disse: «Ma perché vuole fare una cosa del genere? Venga
qui, la seguiremo con un trattamento dietetico ad hoc». Mi
fece pesare e cercò in tutti i modi di dissuadermi, fino a quando capii che ero veramente convinta. Allora cominciò a parlare con mio marito dicendogli: «Sua moglie non sarà più la
stessa: avrà per sempre l’aria di un’ammalata». Finalmente fra
mille chiacchiere ci autorizzò la ricetta. Aveva ottenuto di far
sorgere a mio marito mille dubbi, tante paure, che io cercavo
continuamente di fugare. Insistevo con forza nel dirgli che
l’avrei fatto con o senza il suo consenso, perché era l’unica
soluzione che mi era rimasta.
Se ripenso alla mia determinazione mi dico che era solo frutto della disperazione: ero un condannato a morte che vedeva
38
quell’intervento come unica possibilità per evitare la sentenza
di morte sociale. Non esisteva possibilità di scelta; non che
non avessi paura del futuro, non che le parole del medico o i
dubbi di mio marito cadessero nel vuoto, ma finivano in un
angolo del mio cuore, del mio cervello, quell’angolo che loro
non avrebbero mai potuto vedere, perché non sapevano cosa
voleva dire vivere nelle condizioni in cui ero sino ad allora
vissuta.
Non esistono parole per spiegare la mia condizione di non
vita, nella quale mi trovavo da più di vent’anni. Il disagio coincideva con la mia età, dovevo trovare qualcosa in cui credere.
Era un mio bisogno primario, ritenevo che la sola magrezza
sarebbe servita a farmi stare bene, bene con me stessa prima
che con gli altri. Guardavo la mia scelta come un enorme atto
d’amore nei miei confronti, quell’amore che non avevo mai
avuto, che non avevo mai voluto darmi, concedermi. E a nulla
servivano quelle parole che cercavano di farmi comprendere
che l’atto d’amore sarebbe stato prendermi cura di me in maniera diversa: facendo sport, acquisendo un regime alimentare
sacrificato ma corretto. Ci sarebbe voluto del tempo, molto
tempo e io di tempo non ne volevo più, non ne avevo più.
Tutto e subito. Magra e subito. La diversione biliopancreatica
prometteva questo: tutto e subito!
Ero talmente cieca che, quando finalmente ebbi tutti i risultati degli esami e un valore risultava incompatibile con l’intervento che avrei dovuto fare, non pensai che forse era un
ulteriore campanello d’allarme cui avrei dovuto dare ascolto,
bensì da pazza isterica corsi al lavoro da mio marito, gli sventolai quel foglietto sotto al naso urlando la mia rabbia. Ancora
una volta il sogno si allontanava, forse per sempre.
Apprezzerò per sempre la pazienza con cui mio marito mi
accolse e aiutandomi a calmarmi telefonò al medico per comunicargli quel valore. Il medico per nulla intimorito ci rassicurò,
dicendo semplicemente che avremmo dovuto aspettare che i
valori si normalizzassero e poi avremmo potuto procedere.
Strano a dirsi, l’unica cosa che mi rilassava in quei giorni era
la frase magica: «La opereremo». Aveva un suono delizioso,
entravo in un nirvana, una pace indescrivibile mi avvolgeva, il
39
mondo perdeva i suoi confini e io mi cullavo nel mio sogno
ad occhi aperti. Ancora non mi sarei dovuta svegliare.
Pur essendo ormai alle soglie del giorno tanto atteso avevo
lasciato che i miei genitori non venissero messi al corrente
della mia scelta. L’avevo fatto per varie ragioni, prima fra tutte
la possibilità che in qualche modo avrebbero potuto impedirlo. Loro avrebbero visto soltanto l’aspetto radicale e demolitore dell’intervento. Avrebbero immaginato la figlia intubata
forse per un capriccio, si sarebbero informati sulle limitazioni
del “dopo”, sulla qualità della vita che si sarebbe modificata
per sempre. Non a torto avrebbero voluto impedirmelo. Ma
io non volevo sentire, non potevo sentire. Facevo già fatica a
fare accettare questo cammino a mio marito e non avrei avuto
la forza di farlo accettare anche a loro.
Pertanto lasciai che i giorni scorressero lenti e fatti di normalità, normalità che coincideva con il matrimonio di un parente. Non avrei voluto partecipare, sinceramente non m’interessava nulla di ciò che si svolgeva intorno a me se non era in
relazione al mio sogno, ma visto che avevo deciso di lasciare
che tutto scorresse “normalmente” accettai di parteciparvi, e
di cercare il solito abito che coincideva con un’anonima tunica
che non segnasse il punto vita, che scivolasse sui fianchi, che
non si soffermasse in alcun modo sul corpo evidenziando ciò
che era già del tutto evidente. Nell’andare dalla sarta a fare il
solito mesto pellegrinaggio della “prova abito” vivevano in
me due sentimenti contrastanti: il primo era legato alla solita
vergogna, al guardarmi in uno specchio che rifletteva un orso
con addosso della stoffa pregiata; il secondo era legato alla
gioia, all’idea che il prossimo specchio non avrebbe più riflettuto un orso ma una donna.
Però in quel momento tutto sembrava pesarmi maggiormente perché sapevo che la soluzione era vicina; ero vicinissima al mio unico e grande sogno e non volevo nulla, proprio
nulla, solo quella benedetta operazione, quell’operazione che
mi avrebbe donato la felicità. Comunque feci fare l’abito e
partecipai a quel matrimonio, ma nel mio cuore c’era solo
l’operazione. Lasciai che tutti come sempre parlassero di
quanto fossi grassa: vidi le loro facce, qualcuno quel giorno
40
disse che non entravo più nemmeno su una sedia. Queste ed
altre cose le avevo sempre sentite dire, solo che prima mi colpivano nel cuore, mi facevano male dentro, sentivo bruciarmi
lo stomaco dal dolore delle loro parole cattive e mi chiudevo
sempre di più nella mia sofferenza. Ma adesso non più. Loro
non sapevano che possedevo la carta della felicità, la soluzione dei miei problemi, la realizzazione del mio sogno: essere
una persona “normale” tra i “normali”, non più un’obesa,
non più una pacchiona, cicciobomba, donna cannone, cicciona, grassona...
Giunse il giorno di un nuovo incontro con il medico. Come
sempre mi accompagnò mio marito, dubbioso, sempre più
perplesso. Sola contro tutti, certa, sicura della scelta mi sentii dire dal medico che il “giorno X” era prossimo e per tale
ragione mi condusse con lui a fare una passeggiata speciale
all’interno del reparto, dove incontrai una donna operata il
giorno prima. La passeggiata serviva per farmi capire, toccare
con mano, vedere con i miei occhi ciò che sarebbe stato il
post intervento.
Il medico vide mio marito turbato, insicuro, titubante. Gli
chiese un suo parere su ciò che mi accingevo a fare. Non
gli diedi il tempo di rispondere, lo bloccai e con fermezza
comunicai a entrambi che la scelta era mia e soltanto mia e
non avrei permesso a nessuno di opporre pareri contrari. Il
medico con altrettanta fermezza replicò che la decisione era
da prendere in due, perché ciò che mi aspettava dopo l’intervento non poteva essere affrontato da sola; l’aiuto di mio
marito sarebbe stato imprescindibile. Mi disse che molto probabilmente dopo l’intervento non avrei più voluto mangiare,
ma che avrei dovuto sforzarmi per farlo e che, se io da sola
non fossi riuscita a mangiare, era necessario che qualcuno mi
stesse vicino per obbligarmi a farlo.
Mi apparivano paranoie prive di senso: io, che vedevo il cibo
con amore, che amavo mangiare, mai e poi mai avrei potuto
pensare di non avere voglia di ingerire tutte le proteine che
mi diceva avrei dovuto ingerire. Tutto mi appariva semplice.
Dove sarebbe stato il problema? Dove si annidava l’incognita
che io mi ostinavo a non vedere?
41
Mio marito, malgrado il suo scetticismo, alla fine acconsentì
cedendo a un atto d’amore, cedendo al mio sguardo che non
prometteva nulla di buono se non avesse firmato anche lui le
carte che mi avrebbero dato l’accesso alla sala operatoria.
Firmò. Non so con quale stato d’animo, ma firmò; ponemmo quei sigilli sulle carte che davano il via libera all’imminente
ricovero.
Uscii da lì già magra, la mia testa era già magra: ballavo, ero,
mi sentivo felice. Sì, una condizione che scoprivo solo in quel
momento: io ero felice, felice di aver firmato un sogno, felice
della mia inconsapevolezza, ignara di aver firmato per un ergastolo. Il mio corpo, la mia magrezza, sarebbero stata la mia
prigione. Le complicazioni all’intervento il mio ergastolo.
42
Capitolo III
Un giorno di giugno
Per uno strano meccanismo che chiunque abbia atteso qualcosa o qualcuno per tanto tempo conosce perfettamente, il
tempo sembrava non aver voglia di passare; i giorni scorrevano soleggiati, il sole del giugno palermitano era già estivo e
in quel sole mi crogiolavo al pensiero del dopo, e fotogramma dopo fotogramma mi sentivo regista e protagonista del
film della mia vita, di quel buio “prima” e di quel luminoso
“dopo”. Vivevo con un sorriso stampato in volto, passeggiavo serena guardando le vetrine e memorizzando tutto ciò che
avrei comprato dopo, osservando la gente e pensando a come
li avrei messi tutti a tacere, a quale magnifico riscatto si stava
realizzando. Pensavo alla gioia con cui avrei potuto mangiare
di tutto senza dovermi nascondere, senza mangiare velocissima perché nessuno potesse vedermi. A volte mi turbavano
dei pensieri tristi, mai legati alla cattiva riuscita dell’intervento, sempre legati, caso mai, all’impossibilità di operarmi. Ma
scacciavo questi pensieri come fastidiose mosche che con il
loro ronzare interrompono un sano riposo pomeridiano.
Durante quei giorni decisi che era giunto il momento di
mettere al corrente i miei genitori. Lessi nei loro volti ansia,
sbigottimento, paura, scetticismo. Avevo la sensazione che mi
guardassero pensando che il grasso mi avesse fatto perdere la
trebisonda; mia madre mi disse che non solo non era d’accordo sulla scelta fatta, ma che l’idea di un intervento chirurgico
la terrorizzava. Non capiva come io avessi potuto optare per
una scelta del genere.
Non si può spiegare, no, non si può. Puoi usare tutto il vocabolario, fare appello a tutte le metafore esistenti, ma non si
può spiegare un sentire: il grasso è il mostro che ti divora e il
cibo è la medicina per combattere quel mostro. Il carnefice e
la vittima nell’obeso sono la stessa persona. Non ci fu nulla
43
da fare: i miei genitori dovettero arrendersi e naturalmente si
dichiararono pronti a starmi vicina nel momento in cui avrei
avuto bisogno della loro preziosa presenza.
Una sera, accadde qualcosa che fece accettare con maggiore tranquillità la mia scelta a mio marito. Tornavamo a casa
e ci fermammo ad acquistare delle pizze per cena. Durante
l’attesa mio marito vide un ragazzo che era certo di conoscere; lui si ricordava di un ragazzo molto grasso, ora invece
si trovava di fronte un’altra persona con gli stessi lineamenti
del volto. Un gemello magro o lui dimagrito? Lo avvicinò,
ed ebbe la conferma che era la stessa persona ma magra. Gli
chiese come fosse avvenuto quel miracolo; il ragazzo nicchiò
e poi gli rivelò di essersi sottoposto all’intervento cui io mi
sarei dovuta sottoporre a giorni. Mio marito ne approfittò
per sottoporlo a un interrogatorio che aveva il sapore dell’inquisizione e seppe che si era operato a Ravenna e che il post
intervento era stato estremamente impegnativo; il ragazzo si
soffermò su un aspetto del tutto tecnico e cioè la fondamentale importanza dell’uso della panciera nei giorni successivi
all’operazione. Non so dire se sia stato il caso o il destino,
certo è che quell’incontro servì moltissimo a mettere a tacere
i “se” e i “ma” di mio marito: finalmente era mio complice a
tutti gli effetti.
Una mattina a un orario antelucano squillò il telefono, mi
svegliò e io, già prima di rispondere, sapevo che era giunto
il momento tanto atteso. Una dottoressa all’altro capo della
cornetta mi chiese se ero io la persona che avrebbe dovuto
ricoverarsi, risposi di sì e mi disse che avrei potuto recarmi
il giorno stesso in ospedale per il ricovero. Confusa e felice
riuscii a preparare la mia valigia ed organizzare le cose per i
giorni della mia assenza. In compagnia di mio marito preparai
mia figlia e insieme la accompagnammo da mia suocera, dove
sarebbe rimasta per tutto il periodo della degenza. Mi fu difficile salutarla, ma ero certa che quel sacrificio avrebbe reso
anche la sua vita più semplice. Avevo come la sensazione che
il mio intervento non avrebbe risolto solo i miei problemi, ma
anche quelli di chi aveva dei legami profondi con me. Mi balenava sempre nella testa che un giorno portando la bambina
44
a scuola i suoi compagni l’avrebbero derisa perché sua madre
era una bomba.
Arrivammo in ospedale alle 13:30 e per disguidi burocratici
pensai di dover tornare a casa; invece tutto si appianò, il mio
viaggio ricominciò e io cominciai ad augurarmi che non ci
sarebbero state più fermate. Il treno che avevo preso doveva
portarmi al più presto alla stazione di arrivo.
Mi accompagnarono nella stanza che mi era stata assegnata:
era un’anonima stanza d’ospedale con nove letti. Fortunatamente il letto assegnatomi era in un angolo, mi sentivo un po’
protetta anche dalle mura. Sistemai il contenuto della valigia e
cominciai a socializzare con i pazienti che occupavano la mia
stessa stanza; tra queste, una signora che sarebbe stata operata anche lei del mio stesso intervento. Chiacchierammo a
lungo della trafila di esami cui ci eravamo dovute sottoporre;
mi disse che lei sarebbe stata operata la settimana successiva, e
mi disse anche che nella stanza di fronte alla nostra vi era sua
sorella che era già stata operata.
Andammo insieme a trovarla e sembrava stesse bene. In
quella stessa stanzetta con due lettini vi era un’altra donna,
anche lei operata di diversione biliopancreatica. La signora mi
disse che lei aveva già iniziato a mangiare e che la settimana
successiva sarebbe andata a casa; l’unico neo che la affliggeva
era il vomito costante.
I veri dubbi nacquero quando la convivenza con i pazienti
operati mi mostrò un quadro profondamente diverso da quello che mi ero immaginata. Durante il giorno una delle pazienti
sembrava stare bene, la sera invece si lamentava del freddo,
aveva dolori fortissimi, piangeva, e tutto questo mi impaurì
non poco. Malgrado ciò continuavo il mio iter diagnostico
preoperatorio, eseguivo i miei prelievi, e mi convinsi che quella donna doveva aver avuto dei problemi diversi da quelli degli
altri. In ogni caso, quando la sera lei stava male, sia io che la
sorella le stavamo vicine ed eravamo abbastanza preoccupate,
ma lei ci dava forza e ci diceva che non tutti hanno gli stessi
problemi postoperatori.
Eppure, la notte, da sola nel mio letto, non avevo pensieri
belli. Il mio sogno cominciava a sembrarmi un incubo, il fat45
to che dopo una settimana dall’intervento non avesse potuto
ancora né bere né mangiare nulla mi creava grande angoscia.
Io sapevo che non avrei avuto la forza di tornare indietro, ma
adesso penso che avrei voluto che qualcuno mi portasse via
anche contro la mia volontà.
Gli unici momenti di serenità, in ospedale, li avevo quando veniva a trovarmi mio marito: a lui esponevo tutti i miei
nuovi dubbi e avrei voluto che conoscesse quella donna per
potersi impaurire tanto quanto mi impaurivo io, in modo che,
forse, mi avrebbe portato via per sempre da quell’inferno. Ma
io malgrado tutto, anche in sua presenza, pur raccontandogli
parte delle mie paure, indossavo una maschera: mi mostravo
forte, coraggiosa, decisa, allegra, pronta alla battaglia con il
mio corpo. Andare via, dire di aver paura, mi sembrava solo
un atto di codardia che probabilmente non mi sarei mai perdonata; per questo avrei preferito che qualcun altro mi avesse
trascinato a forza fuori di lì, avrei voluto un capro espiatorio, qualcuno cui dare quella responsabilità che io non mi sarei mai assunta. E che non mi assunsi mai. Tra l’altro quella
donna incontrò mio marito, ma anche lei in quell’occasione
indossò una maschera, e gli disse che stava bene e che aveva
superato tutto magnificamente. Come avrebbe, mio marito,
potuto pensare che le mie paure avevano solide fondamenta
se alla prova dei fatti aveva di fronte una persona contenta di
ciò che aveva fatto?
Nei giorni seguenti conobbi gli altri medici dell’equipe: presero le misure per farmi fare la panciera, mi pesarono su una
bilancia enorme. Con me altri quattro obesi, io la più magra
con i miei cento e passa chili. Una donna ricordo ne pesava
duecentottanta: incredibile, come si può arrivare a un peso
del genere? Eppure era così. In quell’occasione fui protagonista di un evento terribilmente umiliante. Si vociferava nei
corridoi che quel giorno sarebbe rientrato dalle ferie un medico particolarmente piacente, anzi, proprio bello. Non davo
molto retta a quelle voci, però tra me e me pensavo che mai
avrei voluto che mi vedesse su quella bilancia e di quelle dimensioni. E invece arrivò: bello come il sole, abbronzato, mi
pesò e mi misurò e io avrei voluto sprofondare, e in quel mo46
mento nello sprofondare avrei desiderato trovare il petrolio.
Quella volta sì, avrei avuto una funzione sociale notevole e
soddisfacente.
A parte le routinarie operazioni e questi piccoli eventi che
coloravano un po’ la vita grigia dell’ospedale, di operazione
non si parlava. Io cominciavo a essere ogni giorno più impaziente, nervosa; assillavo in continuazione tutti i medici:
«Quando mi operate? Ho capito, non mi volete operare!». Li
facevo impazzire e loro con molta calma mi dicevano che prima o poi sarebbe toccato a me... Ma io ricominciavo con la
solita cantilena «Sì? E quando?». Mi venne dato l’appellativo
di paziente impaziente. Infatti impaziente lo ero sia per paura
che per fretta: era come se non volessi il tempo di pensare, di
restare sola con i miei pensieri, per paura di poter cambiare
idea. In ospedale conobbi molta gente simpatica; io regalavo
un po’ dall’allegria a tutti, non facevo minimamente trapelare
le mie paure. Dicevano che ero molto coraggiosa e quello era,
per me, il solo modo di darmi coraggio.
La prima prova di coraggio e il primo giorno che posso
definire veramente orrendo, fu quando ebbi il primo impatto
con il sale inglese. Da un punto di vista chimico si parla del
solfato di magnesio, del citrato di magnesio e dell’idrossido
di magnesio. A dire la verità questi sali agiscono a più livelli:
ad esempio, proprio in quanto irritanti a livello della parete
dello stomaco, generano una contrazione della colecisti che
provoca il deflusso biliare, e quindi possono avere un effetto
molto rapido se presi ad esempio al mattino a digiuno. Hanno
un secondo effetto aumentando la massa delle feci a causa
dell’acqua che trattengono, e un terzo effetto dovuto al fatto
che, sempre trattenendo acqua, impediscono alle feci di indurirsi. Erano le 5:00 del mattino quando un’infermiera mi
consegnò quattro bottiglie da mezzo litro di questa soluzione; dovevo berla tutta nell’arco di un paio d’ore, ma quando
portai il primo bicchiere alla bocca mi sentii morire. Era una
cosa imbevibile, ho ancora i brividi ripensandoci. Mi venne da
vomitare, stavo malissimo; infatti una delle signore che occupava la stanza si alzò di scatto dal letto: «Datemi un limone!
Nessuno ha un limone?». Ne trovò mezzo ma io non capivo
47
cosa ne volesse fare; mi disse di bere e dopo avere bevuto
di passare il limone sulla punta della lingua. La cosa cambiò
ma di poco e, in ogni caso, il mio primo vero ostacolo venne
superato. Così mi sottoposero a ulteriori esami; ero ancora
all’inizio e quindi mi auto convincevo che non era stato un
ostacolo da poco.
Il mondo mi crollò addosso quando, una mattina, il primario venne da me per informarmi che mi avrebbero dimessa
perché c’era qualche problema, ma che presto mi avrebbero richiamata per operarmi. Cominciai ovviamente a pensare
che non mi avrebbero operata, che era una scusa; telefonai a
mio marito e gli comunicai di essere stata dimessa. Ero nervosissima, lui diceva di calmarmi. Parlai con mia madre che,
attribuendo grandi poteri al destino, mi disse di lasciare perdere perché evidentemente «doveva andare così». Tornai in
camera piangendo: ero tristissima, pensavo che il mio sogno
fosse finito lì. Raccolsi tutte le mie cose ed ero a pezzi. Andai
a salutare i medici e il professore, il quale mi disse che risolti
i problemi mi avrebbero richiamata. Io non ci credevo più,
pensavo che ormai non mi avrebbero più operata. Mio marito
era meno certo di me che non mi avrebbero più richiamata e
intanto mi aiutò a raccogliere i miei effetti personali; insieme
andammo a prendere la bambina e tornammo a casa.
Non facevo altro che pensare che quel magico intervento
non fosse per me. Era solo un sogno, non credevo più a nulla.
In quei giorni la mia bambina compì tre anni ma non ebbi
nemmeno l’armonia e la voglia festeggiarla: ero troppo vuota, avevo il cuore a pezzi, avevo sfiorato il cielo con un dito
ma poi ero crollata insieme a tutti i miei sogni. Ma questo
una bimba non può capirlo e io, come madre, avrei dovuto capirlo. Invece mi mostrai egoista nei confronti di mia figlia; l’unica cosa che mi interessava era quel sogno infranto.
Avrei bevuto litri e litri di sale inglese, avrei affrontato i dolori
più indicibili, ma volevo assolutamente entrare in quella sala
operatoria. Lasciavo sempre il telefono libero, aspettavo ogni
giorno con ansia che squillasse, ma quel giorno sembrava non
arrivare mai. Ogni squillo mi provocava stati d’ansia, tachicardia e speranza; ma per giorni nulla di nuovo. Per sentire
48
dentro ancora quel clima mi tenevo in contatto con le persone
che erano rimaste ricoverate: seppi che la signora che stava
nella stanzetta era stata dimessa e che quindi la stanzetta adesso era occupata dalle due sorelle; nei giorni seguenti venne
operata l’altra sorella e io la chiamavo, le chiedevo se i medici
si ricordavano di me, di parlare con loro, di fare in modo che
non mi dimenticassero.
Finalmente, dopo tanti giorni di attesa, il tanto desiderato
squillo arrivò. Il medico che stava dall’altra parte dell’apparecchio telefonico mi disse che presto sarei stata operata e mi chiese se avevo fatto la dieta che mi avevano prescritto (mozzarella
e verdura scondita). Io risposi di no, perché uscendo dall’ospedale avevo lasciato i miei sogni e non credevo più a niente, e
quindi avevo cominciato nuovamente a mangiare di tutto per
compensare la mia ansia, la mia disperazione e ancora una volta
la mia ennesima sconfitta. Lui mi disse di cominciare la dieta
da subito e di recarmi il giorno successivo in ospedale perché
dopo un paio di giorni sarei stata operata. Allora ricominciai a
sistemare tutte le mie cose e quelle della bambina. L’indomani
mi recai in ospedale, dove per il rientro, ancora una volta, così
come per il primo ricovero vi furono degli intoppi, perché una
signora gravemente malata doveva essere ricoverata il mio stesso giorno. Anche a questo si trovò una soluzione e finalmente
venni ricoverata. Fu la volta decisiva.
Mi assegnarono finalmente il mio posto nella stanzetta a due
letti, molto confortevole rispetto alle altre perché provvista di
aria condizionata e altri confort, che in genere non si trovano
in un ospedale pubblico. Mi ritrovai così accanto alla signora
che era stata ricoverata insieme a me, e malgrado la differenza
d’età si rivelò simpaticissima, e provai subito affetto per lei.
Era l’anno dei mondiali di calcio che si svolgevano in Italia,
pertanto la sera ci si ritrovava nella nostra stanzetta a tifare
dimenticandoci anche un po’ di ciò che avremmo dovuto affrontare. Ogni tanto la mia amica d’avventura si rattristava
perché si sarebbe voluta trovare a Roma con le sue amiche a
tifare e fare baldoria e non in un letto d’ospedale.
Alle ore 14:00 di giorno 27 giugno, affissero in bacheca il
programma operatorio e quel giorno vidi il mio nome scritto
49
nero su bianco. Provai una strana sensazione, una gioia indescrivibile e una paura altrettanto indescrivibile; ma ciò che mi
colpì più di tutto fu che vicino al mio nome non lessi i nomi
dei medici che avevo sino ad allora conosciuto e con i quali si
sera stabilito un rapporto di totale affidamento. Venni presa
dal panico e dallo sconforto, iniziai a piangere e non perché
temessi che questi medici non fossero altrettanto bravi, ma
perché desideravo che mi operassero le persone che mi avevano seguito sino ad allora e di cui veramente mi fidavo. Sarei
stata in ogni caso incapace di dare un giudizio tecnico sull’altra equipe; era solo un problema emotivo e comprensibile, ma
lo scoramento fu forte.
Chiamai mio marito esponendogli la novità e ciò che questa novità mi causava; lui mi disse che mi avrebbe raggiunta
al più presto, ma io non mi tranquillizzai affatto. Percorrevo
il corridoio avanti e indietro senza una meta, senza pensieri,
con le lacrime che mi rigavano il volto; in preda a questo stato
raggiunsi l’ambulatorio, vi trovai uno dei medici che conoscevo e tutto d’un fiato gli chiesi conto di quel cambiamento. Mi
spiegò che esistevano dei turni da rispettare, fu gentile, cercò di calmarmi e mi promise che nel pomeriggio mi avrebbe
presentato i nuovi medici. Questo mi tranquillizzò molto; in
fondo non cambiava nulla, ma io avevo bisogno di dare un
volto a chi mi avrebbe scucita e ricucita durante il mio sonno
indotto dall’anestesia.
Tornai in camera e seppi che anche la signora che occupava
la mia stessa camera sarebbe stata operata. La signora piangeva perché aveva paura. Allora, cercando di cancellare la mia
paura, mi prodigai per cancellare la sua dicendole che era in
buone mani e che non si sarebbe accorta di nulla e presto
sarebbe guarita; ma lei continuava a piangere. Nel frattempo arrivò mio marito, che aveva un forte ascendente su di
lei; infatti fu l’unico che riuscì a tranquillizzarla. Lasciammo
la stanza per non disturbare e mentre eravamo in corridoio
passò il professore; fu allora che mio marito ne approfittò
per chiedergli del cambiamento e lui, appoggiandogli la mano
sulla spalla, gli disse: «Non si preoccupi, la opero io». Furono
queste parole che mi fecero tornare il sorriso e una certa sicu50
rezza. Mio marito lasciò l’ospedale certo ormai della mia tranquillità. Io tornai in camera, dove mi accorsi che la mia compagna di intervento si era calmata. Tutto sembrava riprendere
a scorrere nel migliore dei modi. Dopo pochi minuti venni
chiamata dall’infermiera per cominciare i primi preparativi
per l’operazione; ero sulla buona strada, stava per arrivare il
momento tanto importante e tanto desiderato della mia vita.
Ormai mancavano poche ore. Nel pomeriggio mi vennero
presentati i medici, o per meglio dire li associai ai loro cognomi perché in realtà li conoscevo già. Ormai ero abbastanza
soddisfatta e, soprattutto, pronta.
Alle ore 19:00 mi consegnarono quattro bottiglie di sale inglese, quella sostanza orribile che avevo già bevuto una volta: era lì sul mio comodino e dovevo berla nuovamente. Dio
come la odiavo! Raccolsi tutta la mia buona volontà, mi sedetti davanti il comodino e cominciai a bere il primo bicchiere.
Questa volta avevo i limoni ma non mi servirono a molto: a
metà della seconda bottiglia cominciai a stare male. Sentivo
freddo: mi misi addosso una coperta e continuai imperterrita a bere, e nel bere mi davo forza, ma a un certo punto
era tanta la nausea che mi venne da vomitare. Pur sapendo
che vomitare significava ricominciare a bere, fuggii in bagno
e vomitai quell’acqua orribile. La signora che aveva assistito
a tutto ciò suonò subito il campanello. Venne il medico, che
mi fece sdraiare, mi fece un iniezione, mi disse di aspettare un
po’ e poi ricominciare a bere. Era il 27 giugno di un’estate palermitana e io, a letto con due coperte di lana, sentivo freddo,
tanto freddo.
Nel frattempo arrivarono i miei genitori insieme a mio marito, mi trovarono in uno stato pietoso. Mia madre impaurita
e preoccupata cercò di imporsi dicendomi: «Lascia perdere,
non lo fare. Andiamo casa, andrai dal miglior dietologo». Non
risposi niente, mi alzai dal letto e ricominciai a bere quell’orribile sostanza. La visita dei miei genitori fu breve, ma mio
marito s’intrattenne. Presi commiato da lui e ci separammo.
Finii di bere la bevanda torturatrice e andai a dormire cercando di non pensare a nulla: a ciò che sarebbe stato, alla paura
che mi avrebbe assalito, al desiderio – forte – che tutto fosse
51
già finito. Forse per la stanchezza dell’attesa, forse per aver
bevuto quella schifezza immonda, riuscii a dormire un sonno
tranquillo. Alle ore 5:30 come di consueto passò l’infermiera
per prendere la temperatura; mi alzai e mi preparai. Alle 7:00
mia madre e mio marito erano lì; io ridevo, ero allegra, anzi
cercavo di rendere tutto più facile agli altri. Alle 7:15 venne
un’infermiera che mi disse che dovevano mettermi il catetere
e questa fu una cosa che m’impaurì, anche perché avevo preso
accordi con i medici che non mi venisse messo. Mi portarono
il camice verde, lo indossai e salii sulla barella. Erano le 7:30
ed ero pronta.
Baciai mia madre e mio marito, che mi seguì fino alla porta della sala operatoria. Pensavo e speravo che tutto sarebbe
andato per il meglio. Arrivò un medico che spinse la lettiga
su cui ero sdraiata e feci il mio ingresso in sala operatoria.
Augurando a tutti un buon giorno, scherzando e ridendo mi
guardavo attorno per cercare i visi dei medici che conoscevo. Erano tutti molto indaffarati; mi fecero passare sul lettino
operatorio, mi raccolsero i capelli con una cuffietta, mi misero il cateterino, mi fasciarono le gambe. A un certo punto
guardai il medico e gli dissi: «A questo punto ci si può ripensare?». Lui rispose: «Tutto si può fare» e io dissi: «Procedete e
vedete se trovate nel mio stomaco un mozzarellone gigante.
Entrò l’anestesista che cominciò a farmi le prime iniezioni; lo
guardai e pensai che ormai non avrei più potuto ripensarci,
che quello era il punto di non ritorno. L’ultima cosa che dissi
prima di entrare nel buio di quel sonno senza sogni fu: «Non
fatemi male».
Non ricordo nulla del mio risveglio, me lo raccontò mio marito. Erano le 14:15 quando mi vide. Racconta che ogni tanto
aprivo gli occhi dicendo di avere freddo. I miei primi ricordi
nascono quando sono già in camera e chiedo a mia madre di
farmi alzare. Volevo a tutti i costi alzarmi, non so per quale
ragione; forse per i dolori credevo che stando seduta ne avrei
sentito meno. Mia madre mi diceva che non poteva farmi alzare e che bisognava attendere l’arrivo dei medici; mi chiedeva se
volessi che mi bagnasse le labbra, ma io sapevo che era vietato,
per cui rifiutai. Alle 16:30 giunsero i medici, che mi fecero alza52
re e sedere sulla sedia e lì mi accorsi che effettivamente il sondino nasogastrico era particolarmente fastidioso. Mi sembrava
di avere un peso enorme che mi obbligava a tenere la testa
china, al punto tale che di quel pomeriggio non ricordo i volti
di nessuno, ma soltanto le scarpe. Riuscii a stare pochissimo
seduta, poi tornai a letto, ma non dovevo stare distesa, dovevo
tenere sempre parte del tronco sollevata. Ricordo gente che
entrava e usciva dalla stanza, ma ero semiaddormentata. Arrivò la prima sera e rimase con me, per starmi accanto, la persona che mi aveva fatto sapere di questo magico intervento, mia
zia. Cominciavo a essere più sveglia, maggiormente presente, e
mi rendevo conto che mi guardavano tutti un po’ impressionati anche se non ne capivo la ragione. Mi dissero che un parente
della mia compagna di stanza svenne nel vedermi e pensai che
forse non avevo fatto un grande affare se adesso, invece di
prendermi in giro, svenivano.
La prima notte mi lamentavo per il sondino perché non riuscivo a respirare bene, mi faceva soffocare. Avevo le allucinazioni, vedevo di fronte a me la mia bambina che mi correva
incontro e mi allargava le braccia, e pensavo: devo farcela,
devo sopportare tutto questo anche per lei. Capivo di avere
momenti di lucidità alternati alle allucinazioni, mentre in altri
momenti dormivo. In queste condizioni passò la prima notte.
Di giorno speravo di vedere tutto in maniera migliore. Purtroppo non fu così, quel sondino continuava a darmi un enorme fastidio alla gola e mi faceva vomitare continuamente; cercavo di non lamentarmi, sapevo già da prima che avrei dovuto
vivere tutto questo. Già, lo sapevo, ero stata messa al corrente,
credevo che sarei riuscita a sopportare di buon grado questo
piccolo calvario, ma viverlo era tutta un’altra storia. La pratica fu dolorosa: le mie giornate le passai tutte tra la sedia e
il letto, stavo lì e riflettevo, stavo in attesa. Trovavo consolazione dicendomi che presto sarebbe passato tutto; ogni sera
ammiravo il tramonto da dietro la finestra e pensavo che un
altro giorno era passato, però c’era la notte da affrontare. Che
brutta la notte! Avevo mia cognata accanto ma mi rendevo
conto che non poteva fare nulla. Mi dispiaceva per lei ma io
53
dovevo urlare, avevo dolori in tutto il corpo, mi lamentavo e
gridavo che desideravo venisse a visitarmi un medico. Gli infermieri continuavano a dirmi che lo avrebbero chiamato, ma
non arrivava; mi spiegavano che era inutile chiamarlo perché
non avrebbe potuto farmi nulla, dicevano di sapere che stavo
soffrendo ma che purtroppo era così. Per un po’ mi chetavo,
ma dopo poco ricominciavo la mia cantilena; finalmente arrivò il dottore, lo pregai di togliermi il sondino che mi graffiava
la gola e mi soffocava. Mi disse che il sondino avrei dovuto
tenerlo per forza; per darmi un po’ di sollievo me lo fece aspirare con una siringa. La situazione cambiò per poco, perché
il fastidio e la difficoltà a respirare ricominciarono ma ormai
avevo capito che le sofferenze dovevo tenermele. Non dormii molto quella notte, stavo lì e basta; avevo la mente vuota,
iniziavo a dare i primi segni di cedimento, non vedevo quasi
più nulla attorno a me. Quel mattino quando vidi entrare in
camera mio marito fu come rivedere la parte migliore della
mia vita: mi aiutò ad alzarmi, mi fece sistemare sulla sedia e,
successivamente, mi convinse a fare una passeggiata in corridoio, io col sacchetto con i due drenaggi con la busta del
sondino e lui che reggeva il bastone con le flebo, pian pianino
avanti e indietro. Ad un certo punto mio marito propose di
andare giù in ambulatorio; all’inizio io gli dissi di no perché mi
sembrava troppo percorrere tutto quel corridoio, ma poi mi
lasciai convincere, e così andammo dai medici. Chiesi loro di
togliermi il sondino e non mi dissero né sì né no, però, scettica com’ero, per me quel forse era un no. Risalimmo al reparto,
rientrai in camera, mi sedetti e subito dopo come per magia
avevo un medico accanto che mi stava per togliere il sondino.
Sì, proprio così, me lo levò. Mi sentii liberata da un grosso
peso, mi sembrava di cominciare in quel momento a rivivere. I
giorni seguenti cominciavano a sembrarmi molto più semplici. Desideravo tanto vedere la mia bambina; già stavo meglio
e la domenica pomeriggio la aspettai con mio marito davanti
alle scale, perché i miei suoceri avrebbero dovuto portarmela.
Provai una grande delusione quando vidi mio suocero senza
la bambina: lì veramente ripresi tutte le mie forze, ero nervosissima e fu tutto quel nervosismo a farmi dimenticare i miei
54
dolori. Diventai una furia, gli chiesi il perché e la sua risposta
fu stupida: disse che dormiva e che non gli sembrava giusto
svegliarla. Non riuscii a calmarmi per il resto del pomeriggio,
avevo tanto desiderato rivedere la mia bambina. In quei giorni
in cui ero stata tanto male non avevo fatto che pensare a lei; mi
mancava tantissimo e adesso che stavo meglio, che non avevo
più il sondino potevo finalmente vederla e lui non me l’aveva
portata. In tutto quello che ho ricordato sino ad ora, sembra
che mia figlia sia stata lasciata in secondo piano per fare unicamente posto al mio desiderio di dimagrire a qualunque costo
e da un certo punto di vista è così. In realtà, lei, insieme a mio
marito, erano le uniche presenze che, in qualunque momento,
con qualunque sofferenza si affacciavano nella mia mente. I
sentimenti che provavo e che naturalmente ancora provo nei
loro confronti erano talmente connaturati da non farmi pensare a quanto invece loro, e soprattutto la bambina, avrebbero
avuto bisogno di una presenza più stabile, meno dedicata al
mio chiodo fisso: il dimagrire e il dimagrire attraverso la diversione. Ciò che più mi addolora è che non potrò mai restituire
a mia figlia la sua festa per i tre anni sacrificata in nome di un
sogno rivelatosi poi amara realtà, non potrò mai più darle il
tempo che non ha utilizzato per giocare con me perché io stavo troppo male per potermi dedicare interamente a lei. Non
so se sono stata in grado, in questi anni, di farle comprendere
quanto la ami; ma desidererei, attraverso questo scritto, tributarle quell’amore di madre che, probabilmente, in diversi
momenti della sua giovane vita lei non ha sentito.
Il lunedì mi sentivo molto meglio, ma ancora non sapevo
che tutto non era finito lì. Il mio primo approccio con il cibo
era stato il giorno prima, ma erano appena due cucchiai di
pastina che non mi avevano procurato nessun problema.
Il vero problema arrivò con il primo pranzo fatto di carne:
non immaginavo si potesse fare tanta fatica per mandarla giù,
anche a piccoli pezzi; ad ogni boccone sentivo dolori fortissimi
allo stomaco, che mi bruciava al punto di dovere vomitare. Durante la medesima giornata mi furono tolti anche i due drenaggi
ma, contrariamente a quanto mi aspettavo, mangiare e bere si
rivelarono una tragedia; ancora, ripensando ad allora, riprovo
55
il senso di disgusto, avvertito per i cibi. L’acqua poi aveva un
gusto orrendo: avevo sete, sempre sete e l’unica cosa che riuscivo a bere con piacere e con gusto era il tè freddo. Ricordo che
in quei giorni ne bevvi tantissimo, odiavo invece il parmigiano
e il prosciutto che tutte le mattine dovevo obbligatoriamente
mangiare. Non avrei mai creduto che sarebbe stato così difficile
mangiare: non riuscivo più a mangiare una fetta di carne, solo
qualche piccolo pezzetto mandato giù a forza; l’acqua solo a
piccoli sorsi: col caldo dell’estate avevo tanta sete, ma bastava che ne bevessi un piccolo sorso e già mi sentivo scoppiare.
All’inizio il mio rapporto col cibo fu terribile: pensare di dover mangiare rappresentava un dramma, anche perché soltanto
bere un sorso d’acqua mi procurava dolore o vomito.
Sembrava un contrappasso dantesco: fino a qualche giorno
prima tutto quello che mi veniva dato da mangiare (carne,
parmigiano, prosciutto) l’avrei sbranato senza tregua, e invece, quando non solo avrei potuto, ma ero obbligata a mangiare, la sola vista di quei cibi mi provocava nausea e vomito
costante.
La cosa positiva di questa giornata fu che la sera finalmente
rividi la mia bambina. La strinsi forte a me, avevo tanto desiderato di riabbracciarla. La bambina giocò un po’ lì con me e
per me era un gioia immensa. Riuscii quasi per qualche momento a dimenticare i miei dolori; poi dovetti lasciarla andare
via. La sentivo piangere lungo le scale e il mio struggimento
era pari al suo ma non potevo fare nulla; io mamma ero impotente, non potevo tenerla con me.
I giorni passavano e cominciavo a riprendermi, così i medici
decisero che mi avrebbero dimessa. Il sabato mattina, dopo
una settimana di ricovero, dopo essersi consultati tra loro, ottenni il foglio di via. Lasciavo l’ospedale ed ero pervasa da
una gioia immensa e non descrivibile. Preparai le mie cose
in fretta e furia e credevo di stare bene, benissimo. I medici
mi fornirono sia il regime alimentare sia una serie infinita di
raccomandazioni tutte legate al fatto che dovevo prendermi
molta, moltissima cura di me.
Insieme a mio marito mi allontanai dall’ospedale progettando di passare da casa, fare un cambio di biancheria, passare
56
a riprendere la mia bambina e correre alla villa al mare dei
miei genitori. Pensavo che lì la convalescenza sarebbe stata
più rapida: l’affetto dei miei familiari, i ritmi di vita da casa al
mare, il relax totale... La bambina avrebbe potuto giocare con
i cugini e io mi sarei potuta perfettamente riprendere dall’intervento. Le mie aspettative furono deluse immediatamente.
Non mi sentivo più la stessa. Dove era finita Sabina? Sabina
allegra, che giocava con sua figlia e con i suoi nipoti, che amava il mare e che amava cantare riempiendo le stanze della sua
gioia di vivere? Dovevo essere rimasta in quel letto d’ospedale
perché io non c’ero più. I dolori allo stomaco, costanti, che
non abbandonavano mai il mio corpo mi fiaccavano al punto
da non aver voglia di parlare, muovermi, alzarmi dal letto.
Mangiare era la più grande tortura cui potessero sottopormi;
inoltre gran parte del tempo lo passavo in bagno.
Io sapevo che tutto questo faceva parte del post operatorio ed ero anche decisa a sopportarlo, ma non sapevo quanto
tempo avrei dovuto passare in questo stato. Andavo di corpo
anche trenta volte al giorno, vomitavo ogni volta che ingerivo
del cibo o che bevevo un po’ d’acqua. Per giorni fui preda di
una febbre altissima con delirio, e i pensieri di quei giorni erano strettamente legati al fatto che temevo che non sarei riuscita a vedere la luce dopo tutti questi giorni di buio. L’energia
per vivere derivava sempre dalla stessa sorgente: la sorgente
della magrezza, quella sorgente alla quale dovevo riuscire ad
abbeverarmi.
Malgrado la qualità della mia esistenza fosse notevolmente
peggiorata, il primo agosto io, mio marito e la bambina decidemmo di andare in vacanza. Avevamo preso in affitto una
casetta proprio vicino al mare; certo, avevo un mucchio di
problemi: non avevo molta forza, fui nuovamente costretta a
stare a letto con la febbre, ma non mi arresi, tant’è che dopo
che mi fu passata la febbre cominciai ad andare al mare a tutte
le ore. L’unico mio problema ormai era di non potermi allontanare troppo perché appunto avevo spesso bisogno del bagno. Si è occupato molto della mia alimentazione mio marito,
perché se fosse stato per me io non avrei più mangiato. Strane
parole e sentimenti escono dalla bocca di una divoratrice: al
57
mattino mi dava da mangiare le uova, durante il giorno mi
imboccava in continuazione con pezzetti di parmigiano e prosciutto. Mangiare mi procurava dolori fortissimi allo stomaco,
potevo mangiare poco e spesso. In aggiunta a questo, io ingannavo mio marito a tavola: fingendo di mangiare la carne
la davo al cane sotto al tavolo o la nascondevo avvolgendola
dentro i tovaglioli.
Non fu una bella vacanza ma a me servì moltissimo soprattutto da un punto di vista psicologico, perché avevo sempre
accanto mio marito. Dopo quindici giorni tornammo a casa;
mi pesai ed ero già dimagrita di nove chili. Il tempo passava e
io continuavo a dimagrire: in otto mesi perdetti tutto il peso in
eccesso. Non ho mai smesso di soffrire «ma adesso» pensavo
«peso cinquantaquattro chili. Sono normale, come una qualsiasi
altra donna a ventisei anni, con la differenza che la mia linea per
me è più bella perché io l’ho pagata, io l’ho desiderata, perché
non l’ho mai avuta e ho sempre pensato che mai l’avrei avuta».
Con gli occhi e con la mente dei miei ventisei anni, potrei dire
che sono stata felice e realizzata nel momento in cui ho fatto
l’intervento; malgrado i dolori e le sofferenze ho sempre pensato che un giorno, prima o poi, sarebbero passati e mi sarei
goduta soltanto la mia nuova, sottile identità. Nel mio soffrire
usavo lo specchio come rifugio che cancellava ogni dolore: mi
guardavo, mi osservavo come non ero mai stata e mi ripetevo
insistentemente che sì, ne era valsa la pena e ne sarebbe valsa la pena per tutta la vita. Lo specchio rifletteva un’immagine talmente nuova, diversa, che stentavo a credere che quella
persona fossi io. A volte dovevo soffermarmi a lungo davanti
a quell’immagine, dovevo cercare qualcosa di me che fosse rimasta uguale, che non fosse stata definitivamente modificata
e avevo anche timore di non trovare più niente che mi appartenesse. Altre volte avevo bisogno di guardarmi proprio per
dirmi che il mio passato non era mai esistito, che quella ragazza
grassa era il sogno e quella magrezza la sola realtà che contava.
Davanti a quello specchio mi sono ritrovata a piangere di gioia,
a piangere di gratitudine per chi aveva reso possibile quello che
mi appariva non più un sogno ma un miracolo, un miracolo
reso possibile da persone che si erano prese cura di me.
58
Adesso, adesso sono passati tanti anni da quei giorni, da
quei momenti. Ho acquistato una maggiore esperienza, ho
convissuto per quasi vent’anni con gli “effetti collaterali” della
diversione e sono in grado di avere una visione maggiormente
consapevole e razionale, meno legata all’emotività di quegli
anni. Il risultato è lucidamente poco confortante: oggi tocco
quotidianamente con mano cosa significa vivere senza una
parte di stomaco e senza metri di intestino. Non sono più
ciò che ero ma non diventerò mai ciò che desideravo essere:
una persona sana. Nel percorso fatto, nei passi, a volte lenti, a
volte rapidissimi riconosco di essere un’altra donna che nella
mente è rimasta grassa.
La relazione con gli altri, che è stata costantemente minata
dal mio peso, mi ha fatto guardare con disincanto agli altri,
scoprendoli profondamente ipocriti. Non trovo nessuno che
dica a una persona grassa: «Stai malissimo, sei brutta. Perché
non provi a fare qualcosa per la tua situazione?». No, apparentemente sono tutti comprensivi, ti dicono anche che te ne
devi fregare, che è importante essere “belli dentro”, e può
darsi pure che sia vero. Peccato però che l’interiorità passa
attraverso gli occhi degli altri che si trovano di fronte il muro
di grasso e, per questo, sono automaticamente respinti e respingenti. Da persona magra, quando mi trovo in presenza
di chi non sa nulla del mio passato e li sento prendere in giro
uomini e donne obese, sento riaprirsi una ferita mai chiusa
del tutto, e prendo inconsapevolmente e con foga le difese
di chi usa il grasso come maschera per non farsi attraversare
dagli altri, per non lasciare che le emozioni passino attraverso
il corpo e si depositino in qualche parte di noi a me ancora
sconosciuta.
L’intervento di diversione non è una soluzione, è una demolizione, del corpo e dello spirito; si resta fiaccati per sempre,
se si sopravvive. I dolori dello stomaco, dell’intestino sono la
mia quotidianità, la stanchezza è perenne. Per me non esiste
il mattino: il mio mattino lo passo in bagno, che adesso è diventato il mio regno.
Con queste parole desidero ardentemente fare comprendere che, a meno che l’obesità non metta a rischio la propria esi59
stenza, non bisogna mai farsi toccare. Il corpo è fatto di organi che hanno una funzione specifica, la natura è così perfetta
che mano d’uomo non dovrebbe mai permettersi di deviarla,
di costringerla pensando di poterla dominare.
È vero che la scienza progredisce rapidamente e che oggi lo
stesso intervento tende ad una demolizione parziale e porta
a problemi correlati meno distruttivi di quelli che ho vissuto
e vivo io; è vero che esistono metodi chirurgici differenti per
affrontare l’obesità, ma ho capito solo attraverso la mia sofferenza che, a meno che si sia affetti da patologie che solo
la chirurgia può guarire, l’unico modo per curare l’obesità è
legato allo stile di vita, a un’alimentazione regolamentata e a
un’attività fisica non massacrante ma costante.
So anche, perché è quello che ho provato, che un obeso non
comprende pienamente il valore delle mie parole. L’obeso si
sente ed è emarginato, e per tale ragione sogna soluzioni brevi
nel tempo, non ha voglia di mettersi in gioco, di mettersi in
sfida con se stesso e modificare quella parte di sé che gli rende
faticoso il vivere.
Chi ero? Non lo so.
Chi sono? Non lo capisco.
Ho solo confusione, dolore e confusione. Il mio cambiamento
non è stata una rinascita ma una morte lenta, e a volte ho desiderato davvero morire, perché questo calvario lo avevo prodotto
io: io, la mia giovane età, la mia mente infarcita di pensieri miracolistici e risolutivi. Adesso sono magra, anemica, senza energie,
amica del water, senza una vita sociale, colpevole nei confronti
di mio marito e delle mie figlie, ai quali ho fatto e faccio vivere
mesi di clausura forzata... Eppure io sono tra i fortunati: molti
non possono raccontare nulla di tutto questo, non hanno avuto
la possibilità di vedersi magri perché hanno lasciato questa terra prima di potersi vedere così come desideravano essere; altri
dopo anni di malattie invalidanti (sempre causate dagli effetti
collaterali dell’intervento) non si sono potuti godere la loro nuova immagine perché hanno chiuso gli occhi per sempre senza
avere assaporato neanche un po’ di gioia in questa “nuova vita”;
altri ancora, fisicamente e psicologicamente distrutti, non hanno
più riconosciuto la loro immagine suicidandosi.
60
Capitolo IV
Non ricominciare a vivere
Quando, nel tempo trascorso in attesa dell’intervento, i medici mi raccontavano dei problemi che mi avrebbe creato la
diversione, li guardavo con scetticismo pensando che stavano
solo facendo il loro mestiere, che stavano facendo tacere la
loro coscienza nel caso qualcosa fosse andato male in sala
operatoria; in verità non li ascoltavo neanche, dicevo di sì con
la testa, la quale invece viaggiava per paradisiaci luoghi in cui
io mi muovevo con la stessa grazia della Venere del Botticelli.
Sorgendo da una conchiglia, io, magra, mi sarei mossa nel
mondo con una leggiadria che la natura, più che mai matrigna,
non mi aveva donato. Mentre parlavano, io facevo sfilare una
per una le persone che mi avevano sempre preso in giro e le
ammaliavo con la mia nuova figura, riducendole in poltiglia,
vendicativa e felice. Il mio vecchio mondo sarebbe stato una
passerella sulla quale sfilare destando invidiosi gridolini.
Dopo diciotto anni posso raccontare di un calvario, di una
vita vissuta tra gli alti e i bassi di un post operatorio che è
per sempre; gli unici gridolini sono quelli di mio marito o
delle mie figlie, scaturiti non dall’invidia, ma dalla paura di
vedermi stare male, vomitare in continuazione e dal chiedersi cosa ancora possa succedermi. Il primo anno successivo
all’intervento lo affrontai con coraggio e – può apparire strano – con gioia. Alla fine dello stesso ho creduto di toccare il
cielo con un dito: ero magra, ero ciò che avrei voluto essere e,
pur avendo affrontato momenti di grande difficoltà, mi ripetevo incessantemente che finito l’anno sarebbero finiti anche
i dolori e le sofferenze. Avrei potuto ricominciare la mia vita
sociale senza dover andare in bagno trenta volte al giorno e
avrei vomitato la metà.
No, non fu così semplice. Dovetti subire un nuovo intervento, perché i punti interni si erano scuciti. Quale delusione,
61
era necessario che io mi facessi ricoverare, ma ero ancora spumeggiante: credevo, speravo che avrei potuto superare anche
questa. E invece no, le delusioni non erano finite perché il laparocele mi causava molti disturbi, l’addome si gonfiava e mi
procurava dolori estremamente violenti. Mi sentivo mancare
il respiro, era come se le mie viscere volessero uscire dall’addome. Giunta a un tale punto di sofferenza, ancora una volta,
i medici decisero di intervenire chirurgicamente; fui nuovamente ricoverata per sottopormi mio malgrado a un intervento. Ero già stata ricoverata qualche mese prima: in quella
occasione avevano fatto tutti i controlli e già allora avevano
deciso per l’intervento, ma io non avevo voluto farlo, forse
perché avevo solo voglia di godermi un po’ di vita; ora tuttavia risultava essere inevitabile.
Mi dissero che l’intervento sarebbe stato semplice ma in realtà non si rivelò tanto semplice, perché ebbi numerose complicazioni. Viva, in un incubo, dovetti stare a letto per quattro
giorni, senza potermi muovere. E in questa tragica situazione,
la sola cosa cui anelavo con desiderio era una sigaretta. Ho
iniziato a fumare per lenire il dolore, per trovare conforto in
qualcosa che mi desse un momentaneo quanto inutile piacere;
la sigaretta mi è amica, è un breve rifugio per le mie pene. Ho
la sensazione che fumando senta meno dolore, è come il bastone cui un vecchio ama appoggiarsi perché gli fa credere di
avere ancora un arto solido. Ebbi anche allucinazioni relative
alla sigaretta: mi appariva la visione di un’enorme sigaretta
che, ondeggiando, si incamminava verso di me e mi chiedeva:
«Fumami, fumami...».
Passò anche questo momento, tornai a casa e lentamente,
molto lentamente, ebbi la sensazione che qualcosa si stesse
muovendo verso il benessere. Come sempre le mie aspettative
non coincidevano con il reale andamento delle mie condizioni fisiche: improvvisamente, nuovi e incomprensibili dolori
all’intestino iniziarono a farsi vivi, talmente forti da obbligarmi a trascinarmi piangente per casa: Mi sembrava di impazzire; l’unico aiuto giungeva da un antidolorifico, talmente potente da stordirmi e farmi dormire per ore. Parti dell’intestino
si erano ulcerate: nuova gita in ospedale, nuova vacanza in re62
parto, nuovo intervento, nuovo momento di speranza quando
riuscii a essere dimessa. Uscii meno gioiosa, mi accorsi che il
tempo scorreva e io ero sempre in bagno, sempre più debilitata: una candela che pian piano si spegneva, priva di forze. Mi
faceva compagnia il freddo, un grande enorme freddo. Ogni
boccone veniva vomitato e il vomito provoca dolori allo stomaco tali da non aver parole per poterli descrivere. E il mio
sorriso, la mia voglia di ricominciare, anzi, di cominciare, latitava e forse mai sarebbe tornata. Il primo anno sei una roccia
e affronti tutto, ma poi? Quante lacrime ho pianto, quanto mi
sono disperata dentro ad un bagno a domandarmi il perché
avevo voluto a tutti i costi fare l’intervento di diversione bileopancreatica; quante ore passate lì a soffrire così tanto da
pensare che il darmi fuoco sarebbe stato meno doloroso dei
dolori che provavo! Posso dire oggi che metà della mia vita l’
ho sciupata dentro ad un bagno pensando sempre: «Passerà,
passerà».
Ma quando passa? Si dice che esiste un prezzo per tutto; io
me ne sono resa conto, e non parlo di un prezzo metaforico.
No, parlo del prezzo di tutti i farmaci assunti dal 1991 ad oggi
e di quelli di cui avrò bisogno in futuro: ho perso il conto di
quanti antibiotici, antidolorifici, gastroprotettori, vitamine ho
comprato; senza calcolare i soldi spesi per una superalimentazione fatta solo di proteine. La mia gioielleria è la farmacia,
la mia boutique preferita la macelleria. Magnifica la vita da
magra, la sfrutto pienamente, in bagno o in ospedale.
Spesso stavo a tavola davanti al piatto senza più il sorriso,
con l’aria afflitta non di chi deve mangiare ma di chi è costretto ai lavori forzati: guardavo il cibo sul piatto e continuavo a
girarlo e rigirarlo in continuazione, alla ricerca di Sabina che
amava mangiare di tutto e di più. Mi chiedevo dove fosse finita la mia droga, che mi riempiva di gioia e felicità, mi dava
tutto l’affetto di cui avevo bisogno. Ora non avevo l’affetto,
avevo l’affettato; ma io non volevo più l’affettato che prima
riusciva a farmi stare bene, ora anche il mio amato cibo mi faceva male, mi faceva soffrire creandomi dei forti dolori fisici.
Un bel momento mi chiesi come adesso avrei ricucito le mie
ferite se il cibo non fosse più stato la mia ancora di salvezza,
63
non più il compenso alle mie sconfitte. Avevo perso il gancio
cui mi aggrappavo quando avevo dei problemi. Non potevo
più rifugiarmi nel cibo perché adesso anche questo era ormai
fonte di grande dolore: scappavo alla vista di una tavola apparecchiata, dove un tempo mi sarei aggrappata. Detestavo e
detesto ancora oggi quel tipo di alimentazione obbligatoria
che mi imponevano e mi impongono.
Ricordo un giorno in particolare: era estate tutti mangiavano fichi d’india, anguria, gelato, e io dovevo mangiare la
carne; piansi come una bambina perché volevo mangiare un
fico d’india e non me lo fecero mangiare. È indescrivibile il
desiderio che provai in quella occasione. Un altro episodio
fu quando ero in preda al desiderio di mangiare un piatto di
pasta al pomodoro fresco, ma questa volta il mio desiderio
si avverò perché mia suocera lo rese possibile. Preparò un
fumante piatto di spaghetti con i pomodorini e io lo mangiai
di gran gusto, mi sentivo felice e appagata. Solo pochi minuti
dopo, chiaramente, lo vomitai. Non parliamo poi dei dolci e
gelati con cui ancora adesso non ho quasi più nessun rapporto; dico quasi, perché qualche volta mi lascio trascinare nel
mangiarli anche se so che l’esito è il solito: dolore e vomito,
vomito e dolore.
Negli anni che seguirono l’intervento entrare in un bar non
era più regalarmi nulla. Potevo solo bearmi nel guardare e con
lo sguardo riuscivo a fare l’assaggio di tutto; cioè di niente:
tutto mi faceva senso, disgusto. Le fasi comunque negli anni
sono state diverse e alternate, perché in alcuni periodi sentivo di avere una strana fame che partiva dal cervello ma non
poteva arrivare allo stomaco perché lo stomaco non voleva il
cibo: era il mio cervello che diceva «Ho fame» ma lo stomaco
rispondeva «Non ricevo». Posso dire di avere subito la mancanza del cibo perché mi mancava quella parte di me dove
ormai mi ero abituata a rifugiarmi, l’amore di quella droga
che coccolandomi riusciva comunque a farmi dimenticare le
mie pene, le mie amarezze e caso mai anche a gratificarmi.
Mi mancava il mio sfogo: un particolare ricordo fu nel cercare sempre nel cibo il mio gancio. Scoprii qualcosa di piccolo che occupava poco spazio nel mio stomaco ma occupava
64
la mente, e non pensando che avrebbero potuto farmi male
cominciai a mangiare in continuazione semini di zucca; questi andavano sbucciati e sgranocchiati, dandomi l’illusione di
avere trovato un qualcosa che riuscisse a compensare quella
mancanza. Ma quegli stessi semini mi crearono ben presto
nuovi problemi all’intestino. Altro cibo di cui mi drogai furono le patatine in busta: ne mangiai così tante che occupavano
anche il posto del cibo che per regola avrei dovuto mangiare,
causandomi così altri problemi come l’anemia. In tutti questi
anni ho comunque continuato a cercare fortemente sempre
quel qualcosa (come un tempo era una bellissima e gustosissima fetta di torta piuttosto che una bella scatola di cioccolatini)
che prima riempiva quel gran vuoto che tutti i miei problemi
mi avevano creato: per dimenticare il non essere accettata per
l’obesità e per sopraffare il giudizio della gente. Oggi il mio
stato di salute chiaramente non è quello che avevo desiderato,
perché dimagrendo volevo andare incontro alla vita uscendo
al mattino, beandomi di stare in mezzo alla gente e godendo
delle belle giornate non da dietro i vetri di una stanza; oggi
le giornate in cui sto meglio le passo a fare qualche controllo
medico. Oggi ho trovato finalmente qualcosa di nuovo che
non è il cibo, un nuovo sfogo che riesce in qualche maniera
a non farmi pensare alla cattiverie e tiene la mia mente occupata ad altro; ma questo lo racconterò in seguito. Forse il mio
vero male non era l’obesità, ma tutte le varie cattiverie subite
a causa di ciò.
Parecchi mesi dopo l’intervento cominciai a stare meglio, mi
sembrava che pian piano potessi ricominciare ancora a vivere.
Cercando di cominciare a gestire quelli che sono i problemi
dell’intervento, ricominciavo ad essere più allegra. Cercando
di non pensare sempre ai dolori ma di affrontarli in maniera
diversa, sembrava appunto che pian piano cominciavo a godere di qualcosa che non fosse la conta delle mattonelle del
bagno mentre mi dannavo per quella scelta avventata. Le giornate cominciavano a sembrarmi più belle e ringraziavo ogni
mattina Dio di esserci ancora. Durante la serenità di questo
periodo mi recai in ospedale a fare uno dei controlli di routine
e appresi una brutta notizia che influì negativamente sul mio
65
stato psicologico. Durante il primo ricovero, era insieme a me
una donna molto colta per la quale nutrivo grande stima. Lei si
domandava quanto tempo avrebbe retto il corpo con un’iperalimentazione come quella che ci veniva prescritta. Quanto
il nostro fegato avrebbe resistito a insaccati, carne, uova, in
quantità massicce? Forte del suo – assolutamente corretto –
ragionamento, aveva deciso di fare il reintervento. Lei sosteneva: «Sono dimagrita; posso mangiare meno o a limite posso
ingrassare cinque-dieci chili, cosa importa? Intanto consento
al mio fegato di riprendere aria e a me di riacquistare una qualità di vita decisamente migliore». La sera prima dell’intervento aveva scherzato e riso con tutti i suoi compagni di stanza;
avevano mangiato tutti insieme nel reparto la pizza, mentre lei
si preparava a quell’intervento con sereno affidamento. Non
si risvegliò più.
Quella mattina, quando appresi la notizia, mi sentii morire. Andai via dall’ospedale con una tristezza nel mio cuore
incolmabile. Non so cosa mi prese, forse una specie di ribellione: cominciai a rifiutare il cibo, non volevo più mangiare,
non sopportavo la vista di una tavola apparecchiata, guardavo
con odio le persone che mangiavano. Rifiutavo cibo, rifiutavo
aiuto, rifiutavo me stessa e tutto quello che mi circondava,
tutte le vite che mi ero lasciata per strada per questa maledetta
operazione che avevo voluto con tutta me stessa e che avrei
voluto vomitare per liberarmene così come facevo con il cibo.
Non c’era nulla che mi desse ottimismo, nulla per cui valesse
la pena lottare, resistere e andare avanti. Sembrava proprio
che mi fossi digerita il cervello, non ragionavo più e mi rendevo sempre più conto che non ero del tutto lucida: avevo solo
voglia di annientarmi, spegnermi, annullarmi, cancellarmi,
sparire dalla faccia della terra.
Persi talmente tanto peso che dovettero ricoverarmi nuovamente per nutrirmi con le flebo; fu la prima volta che conobbi
il “reintegro”. Ero un corpo vuoto, un involucro di cartone,
leggero come il cartone che un solo alito di vento avrebbe
potuto portare con sé e, finalmente, fargli vedere il mondo e
non uno scorcio di vita da una finestra, che fosse la finestra di
un bagno o di una corsia di ospedale. Fu talmente tanta la de66
dizione dei medici che superai questa crisi: quel cartone prese
un po’ di consistenza e riuscì a rimettersi in piedi. Non credo
furono solo le flebo; credo che l’affetto dei medici, la loro vicinanza, il loro sostegno mi furono di grande e fondamentale
aiuto. Ritornai a casa imponendomi un regime alimentare che
mi facesse stare abbastanza bene: piccoli pasti molto frequenti, pasti nutrienti.
A poco a poco riuscii a gestire in maniera sempre più appropriata i problemi primari dell’intervento. Capii che certi
alimenti magari mi facevano mettere su qualche chilo ma in
compenso non vomitavo e non dovevo correre immediatamente in bagno. Non ho mangiato gelati per dieci anni, non
ho mangiato pasta per un anno, non ho mangiato pane per
otto mesi, bevo l’acqua a piccolissimi sorsi. Non ricordo più
invece il gusto delle verdure, della frutta, dei legumi: riesco
a sognare i piatti di lenticchie e ne sento il profumo ma non
potrei mai ingerirle. Una cosa che posso mangiare e di cui
faccio scorpacciate sono le patatine fritte in busta; è un gesto,
il mangiarle, che mi riappacifica con il mondo, sia perché non
mi procurano problemi, sia perché era uno di quegli alimenti
che da obesa mangiavo di nascosto, perché se qualcuno mi
vedeva mangiarle cominciava a sfottermi, a dirmi che per il
mio corpo, per renderlo maggiormente rotondo, sarebbero
mancate solo le patatine. E allora le mangio fiera per strada,
come per far tacere chi, un tempo, mi avrebbe certamente
criticato.
Cominciavo così a sentirmi più in salute e acquisivo maggiore sicurezza. Iniziai a uscire di casa solo a determinate ore,
per quel tempo che sapevo essere gestibile, in cui non avrei
dovuto cercare un bagno nel raggio di dieci metri. I primi
anni non mangiavo nulla fuori di casa perché vomitavo in
continuazione e provavo vergogna; ora riesco ad affrontare
anche questo. Nel frattempo curandomi e alimentandomi in
maniera corretta cercavo di godermi il piacere e la grande
soddisfazione di essere dimagrita, avevo momenti belli alternati comunque sempre a momenti di grande dolore ma ormai
sapevo cosa fare, come utilizzare i farmaci più efficaci e tutto
ciò che mi ridava le forze. Comunque ora come allora al mat67
tino io sono una persona inesistente: rarissimamente esco di
casa, solo quando è proprio necessario.
Nei momenti di grazia riuscivo a capire che ero dimagrita,
anche se soffrivo. In altri momenti sapevo che il mio sogno
era diventato realtà, ma nella mia testa rimanevo grassa: ricordo che quando entravo in un negozio d’abbigliamento e
chiedevo qualcosa per me non mi guardavano più in maniera
strana come se avessi chiesto la luna. Il non sentirmi dire:
«Non abbiamo grandi taglie signora, ci scusi» mi creava disorientamento, infatti comunque sceglievo misure sempre più
grandi... Era solo il mio cervello ad essere rimasto obeso. A
questo punto cercavo in tutti i modi di godermi il mio bel sogno e di poter vivere qualche giornata in piena allegria.
Durante questo periodo, ricevetti una telefonata dall’ospedale: mi contattavano affinché io prenotassi una biopsia epatica. Quando mi recai a eseguire la biopsia, i medici, nel visitarmi, si resero conto che a seguito del repentino dimagrimento,
il tessuto adiposo che si appoggiava all’addome era eccessivo,
procurava problemi respiratori e di movimento. Per tale ragione mi proposero un nuovo intervento di plastica addominale, in modo da togliere quell’eccesso di adipe “stendendo” il
tessuto addominale. Fui contenta di accettare, anche se si trattava di un ennesimo ricovero, di un nuovo intervento. Pensai
che era la cosa giusta da fare in quel momento e mi misi in
lista per il ricovero. In realtà io non mi sentivo perfettamente
in forze, anzi direi che mi sentivo eccessivamente debole, ma
ritenni che i medici sarebbero stai in grado di valutare se fosse
il caso di intervenire o meno. Mi fecero tutti i controlli ematochimici che normalmente si fanno prima di un intervento e
al mattino mi prepararono per l’intervento: mi portarono con
la barella in sala operatoria, mi misero le prime flebo, quando si avvicinò l’anestesista cominciandomi a fare le domande
di rito; mentre cominciava a preparare le dosi per l’anestesia
aprì la cartella medica e leggendo fece un balzo seguito da un
urlo – non lo dimenticherò mai. Arrabbiatissimo disse che
non avrebbe mai fatto un’anestesia ad una persona con valori
di emoglobina così bassi, perché solo in serio pericolo di sopravvivenza avrebbe rischiato un’anestesia su un paziente così
68
debilitato. Si rifiutò e io venni portata fuori dalla sala operatoria, con mia grande delusione e contemporanea gratitudine
verso quest’uomo che nella sostanza mi aveva concesso di
vivere ancora.
A quel punto mi vennero dei seri dubbi: come mai tentavano l’intervento essendo al corrente del mio stato fisico? Ma,
domanda ancor più seria: quale era, veramente, il mio stato
fisico? Quali nuovi e gravi problemi erano sorti? E dovevano
essere realmente gravi per avere prodotto in quell’uomo una
tale reazione! Mi dimisero comunicandomi la presenza di una
grave anemia e dicendomi che mi sarei dovuta rivolgere al
più presto a un ematologo per ristabilire la mia quantità di
sangue nel corpo; a questo aggiunsero una terapia farmacologica ricca di complessi vitaminici. Nello scorrere di brevissimo tempo le mie condizioni peggioravano ulteriormente. Le
forze mi avevano totalmente abbandonata. Apparivo, ed ero,
uno zombie. Cadevo a pezzi, e non c’è nulla di metaforico in
questa frase: in breve tempo persi quasi tutti i capelli e quasi
tutti i denti. Avevo momenti in cui mi si offuscava totalmente la vista, mi stendevo sul letto e mi sembrava di vivere in
un’altra dimensione. Non avevo reazione alcuna, non sentivo più gli stimoli tattili, mentalmente avrei desiderato reagire
ma non avevo la forza di alzare un braccio o una mano. Un
giorno ebbi un crollo tale per cui dovettero portarmi d’urgenza in ospedale; lì immediatamente mi trasfusero due unità
di sangue e iniziarono una terapia a base di albumina umana,
Dobetin e altri componenti atti a ripristinare lo stato anemico
nel quale ero sprofondata. Ancora una volta, con lentezza,
ricominciai a risalire la china. «Il periodo peggiore è passato»
mi dicevo a ogni nuovo, grave intoppo. A volte mio marito
doveva correre a casa, ovunque si trovasse, per potermi fare
immediatamente un antidolorifico; ricordo che lui arrivava a
casa e io davanti la porta lo aspettavo con la siringa in mano
pronta per fare tacere l’ennesimo dolore, per poi addormentarmi per non sentire il dolore. Dormivo per non pensare e
per non sentire.
Finalmente, dopo questo lungo e bruttissimo periodo, dopo
le trasfusioni e le cure, cominciai a stare meglio ma mai bene
69
al cento percento. Ormai se non avevo un dolore ne avevo
un altro, magari di diversa natura. In questo periodo mi venne impiantata una protesi dentale, sia perché esteticamente
una donna appena sopra i trent’anni senza denti non è il top
del fascino, sia perché rispetto all’intervento di diversione e al
tipo di alimentazione che bisogna mantenere la masticazione
è fondamentale.
Dopo l’intervento e negli anni che seguirono anche cucinare
diventò difficoltoso, non avevo più voglia di farlo e se lo facevo era per dovere, senza nessun interesse, senza nessun gusto. Dopo tanti anni sono riuscita a superare questa resistenza
e, fortunatamente, adesso riesco a cucinare nuovamente con
amore e gusto, anche se la ripresa è stata difficile perché avevo
anche dimenticato alcune ricette, cosa che mi appare assolutamente incredibile. Oggi per la grande felicità di mio marito e
delle mie figlie sono tornata ad essere nuovamente una brava
cuoca. In questi anni ho anche imparato a truccarmi bene,
per nascondere agli altri tutto il mio malessere. Non voglio
che vedano il mio viso segnato dal dolore, ma soprattutto non
voglio essere commiserata, perché sono in grado di farlo abbastanza bene da sola. So come medicarmi le ferite ed è per
questo che quando sto male e convivo con i miei problemi
preferisco isolarmi e chiudermi dentro le mie quattro mura,
esattamente come quando il problema era l’obesità.
70
Capitolo V
La vita dentro
Cominciai a stare meglio e, per tale ragione, trovai strano
che improvvisamente un giorno mi tornò una delle mie crisi
con totale mancanza di forze. Andai a stendermi sul letto e,
in quella fase di totale annullamento dal mondo, vidi intorno
a me numerosi congiunti ormai defunti: mia nonna e alcuni
miei zii. Parlottavano fra loro sostenendo che sarei dovuta
andare con loro, ma un mio zio intervenne dicendo che avevo qualcosa di più importante da fare prima di poter andare
con loro. Provo ancora i brividi quando mi torna alla mente
questo episodio: un sogno da sveglia, che poi si rivelò effettivamente premonitore.
Avevo davvero qualcosa di più importante da portare a termine prima che potessi riunirmi con i defunti. Scoprii, dopo
pochi giorni, di essere incinta. Nei fui sorpresa, spaventata, mi
sembrò che il mio corpo, ormai privo di parti di sé, sezionato,
umiliato e violentato da malanni e medicine, rispondesse a
ciò che c’è di più naturale in natura per una donna. Procreare.
Sarei stata nuovamente madre. La gioia tuttavia durò solo pochi istanti: quella gravidanza avrebbe messo in serio pericolo
la mia vita. Iniziai un nuovo pellegrinaggio presso i medici, a
partire dalla mia ginecologa, la donna che mi aveva seguito
anche per la prima gravidanza, che pure fu difficoltosa, ma
per cause diverse. Fu molto chiara e sincera: mi consigliava
l’interruzione di gravidanza. Con la mia anemia, con i miei valori costantemente al di sotto della soglia minima, non c’erano
molte speranze che il feto ricevesse il giusto nutrimento e non
c’erano molte speranze che io potessi nutrire me e lei. Disse
che non sarebbe stata in grado di seguirmi in questo percorso e per tale ragione io, indignata ma conscia della sua razionalità, presi appuntamenti con luminari della ginecologia.
Avrei voluto portare avanti la gravidanza, avrei voluto dare
71
una sorellina o un fratellino a Valentina, avrei voluto sentirmi
nuovamente una donna, nuovamente madre, avrei voluto che
un medico mi dicesse «Sì, signora, mi occuperò di lei e del
bambino che porta in grembo, riusciremo a farlo nascere».
Ma tutti, tutti mi dissero la stessa cosa: troppo debole, io, per
nutrire una creatura che si deve formare.
Una sera io e mio marito dopo un’ultima visita tornammo
sconsolati con l’idea che avrei dovuto dare la morte al mio
piccolo feto. Valentina con i suoi undici anni fu illuminante.
Ci disse: «Abbiamo passato anni a desiderare che arrivasse un
altro bambino, hai passato anni a lottare e sopportare dolori
di ogni genere. Vuoi arrenderti per un obbiettivo così bello?».
Riflettei a lungo e mi dissi che avrei preferito morire per fare
nascere una nuova creatura piuttosto che morire per una nuova infezione, per un’anemia non più curabile, per una qualunque complicanza dopo la diversione bileopancreatica.
Decisi che quel feto avrebbe visto la luce, anche a costo di
dover chiudere per sempre i miei occhi: mi serviva un medico, un grande medico che potesse aiutarmi a portare avanti
la gravidanza, che avesse a cuore la vita tanto quanto l’amavo
io. Mia madre mi diede quel nominativo: era ginecologo al
reparto di gravidanza ad alto rischio dell’ospedale “Cervello” di Palermo. Lo incontrai esponendogli la situazione senza
omettere nessun particolare. Fu confortante e pur non nascondendo tutti i rischi che avrei corso, ironicamente mi disse
che la “patata bollente” l’avrebbe acchiappata lui. E così fu.
Il quadro clinico, a seguito di tutti gli esami e i controlli non
era affatto rassicurante; per tale ragione mi sottoponevo a ricoveri periodici, durante i quali integravano il mio nutrimento
con flebo di albumina umana, Freamine, ferro, Esafosfina,
complessi vitaminici di ogni genere ecc.
Durante uno di questo ricoveri, mentre camminavo per la
corsia del reparto di ematologia, mi sentii chiamare per nome,
mi voltai e vidi una donna su una sedia a rotelle che mi guardava sorridente. Non la riconobbi subito, appariva molto malata. Poi mi ricordai che aveva subito il mio stesso intervento
nello stesso periodo; la sedia a rotelle era un dono della diversione, una complicanza che questa volta si era dedicata ai mu72
scoli e ai nervi. Mi resi conto sempre con maggiore lucidità
che quell’intervento non era stato risolutivo per nessuno. Tutti magri, magri e malati... se vivi. Io non metto in discussione
la tecnica: la tecnica è perfetta, i chirurghi sono bravissimi, ma
non si tratta di prove su cavie. La cavia non parla, la cavia non
ti dice che ha una qualità di vita schifosa, la cavia o sopravvive
magra o muore. Noi, cavie umane, non moriamo, non sempre
almeno, ma sicuramente soffriamo al punto che non esiste
una sola ragione perché questo debba avvenire. È vero, è stata
una mia responsabilità, non sono stata obbligata da nessuno;
ma appunto per questo scrivo queste parole, perché desidero
far recedere da questo pazzo sogno chiunque vi si accosti.
I mesi passavano, il mio pancione continuava ad aumentare
e le mie forze a diminuire. Fui costretta a letto, perché non
appena mi alzavo svenivo. Non avevo più la forza di prendere
i farmaci, ero veramente come annullata, mi sembrava di morire poco a poco. Era la mia bambina a dare le medicine alla
mamma, era lei che si prendeva cura di me e non il contrario.
Un giorno si tagliò con un fialetta e venne da me piangendo
e scusandosi per non essere stata abbastanza accorta. Aveva
solo undici anni e invece dei giochi con gli amichetti curava la
mamma incapace di alzarsi in piedi.
Una notte mio marito dovette portarmi d’urgenza al pronto
soccorso, mi stavo spegnendo come una candela senza ossigeno. Mi ricoverarono. La mia gravidanza era giunta al settimo mese e due settimane, ma il mio corpo non riusciva più
ad alimentare la bambina (era una femminuccia) e me stessa.
Non avevo più forza e pregavo il medico di fare nascere la
bambina. Gli accertamenti presentarono un quadro tragico: i
medici si resero conto che la bambina non riceveva più nutrimento e praticarono un parto cesareo d’urgenza. Il chirurgo
fu molto chiaro: le possibilità di sopravvivenza, sia per me che
per la piccola, si aggiravano intorno al venti percento. Fui preparata per il cesareo. Sapevo ciò cui stavo andando incontro:
salutai i miei familiari con la consapevolezza di avere poche
possibilità di restare in vita. Mi fu spiegato che durante l’intervento mi avrebbero fatto delle trasfusioni e un’alimentazione
parenterale costituita da complessi vitaminici che, a detta del
73
medico, sarebbe potuta servire a risvegliare un morto. Entrai
in sala operatoria con le lacrime agli occhi. Il chirurgo mi disse: «Sono abituato a vincere, stai tranquilla. Vincerò per te e
per voi anche questa volta».
La mia bambina venne al mondo il 14 settembre 1998. Pesava 1.660 grammi e venne trasportata d’urgenza in neonatologia.
Il mio risveglio non fu affatto facile. Ricordo tanta gente
intorno, una gran confusione; li vedevo ma non avevo alcuna
reazione, non riuscivo a parlare e a muovermi. Vedevo i medici
affannarsi intorno all’ossigeno, sentivo mia madre chiedere a
gran voce di farmi un’iniezione di un farmaco che mi avrebbe
dovuto risvegliare e ricordo ancora i medici che dicevano che
se non avesse funzionato mi avrebbero dovuto portare in rianimazione. Sentii una puntura sulla mano. Ascoltavo tutto ma
non reagivo, mi sembrava di risalire verso la veglia e, subito
dopo, ridiscendere verso l’abisso. Ascoltai una conversazione
tra mia madre e mia zia: l’una, piangendo, diceva all’altra che
se mi avessero portato in rianimazione non sarebbe potuta
andare a porgere l’ultimo saluto, prima che la seppellissero,
a sua mamma, mia nonna, morta quel giorno. Non so bene
cosa mi procurò ascoltare quella conversazione, ma, in quel
momento mi resi conto che una forza incredibile stava tornando nel mio corpo, un’energia vitale voleva impedire che
mi portassero in rianimazione e permettere a mia mamma di
andare a Ivrea a salutare mia nonna. Quell’energia raggiunse il
cervello e ordinai al mio braccio di muoversi e, quasi miracolosamente, si mosse e feci comprendere che ero sveglia.
Finalmente mi portarono in reparto e mi sistemarono nel
mio letto. Mia madre continuava a rassicurarmi sullo stato di
salute della bambina, ma diceva che non avrei potuto vederla
perché l’avevano portata in neonatologia. Dormii quasi tutto
il resto del giorno e, tra un lamento e l’altro, verso sera fui in
grado di capire meglio e parlare. Mia madre mi disse: «Ora tu
puoi farcela, io devo andare via». Non dissi nulla, anzi forse
non gliel’ho mai detto che avevo sentito quella conversazione
e che avevo trovato la forza di risvegliarmi anche per quello.
In seguito seppi che, mentre in sala operatoria i medici salva74
vano la vita a me e alla mia bambina, una mia amica portò in
ospedale un’immagine di padre Pio, la porse a mia madre e
tutti si rivolsero a lui con fede.
Alle 5:00 del mattino telefonai a mio marito, il quale fu incredulo nel sentire la mia voce brillante, allegra, positiva, carica e
piena di forze. Gli dissi di fare in fretta e di accompagnarmi a
conoscere nostra figlia. La forza me la dava lei, la mia piccola
creatura, il mio grande miracolo. Non fui in grado di aspettare
mi marito, liquidai in tutta fretta mia madre e mia suocera e,
contro il parere di tutti, mi alzai e andai in neonatologia. Io, la
flebo e l’immagine di Padre Pio, dalla quale, da allora, non mi
sarei più staccata. Mi avviai lungo il corridoio mentre le altre
pazienti cercavano di fermarmi, chi chiamando l’infermiera,
chi consigliandomi l’uso di una sedia a rotelle. Io, indifferente
a ogni richiamo, continuai il mio cammino. Con la mia asta
presi l’ascensore – saranno state le 6:30 del mattino – e mi
recai in neonatologia. Volevo vederla. Volevo la certezza che
fosse viva.
Arrivata al piano la porta del reparto di neonatologia era
chiusa. Non mi fermai e suonai il campanello. Aprì un medico
che mi guardò stupito; lo fissai negli occhi chiedendogli il permesso di vedere la bambina. Mi disse che a quell’ora nessuno
poteva entrare in reparto, ma evidentemente la mia storia doveva aver fatto grandi giri in quell’ospedale: fu lui a chiedermi
se fossi la cesarizzata del giorno precedente. Gli risposi di sì e
fu lui stesso ad accompagnarmi da lei. Mi avvicinai con passi leggeri alla culletta termica dove la mia piccolina dormiva.
Dovrei dire, come tutte le mamme, che la trovai bellissima;
invece no, era bruttina, piccolissima, un piccolo topolino indifeso, con tanti tubicini che la rendevano ancora più tenera.
La sfiorai con un dito e mi sciolsi in un’emozione non descrivibile. Il tempo intorno a me era fermo: io e lei, vive, insieme,
indivisibili. Era lei ad avere dato a me la voglia di vivere, ero
io ad avere dato a lei la vita. È stato dono di Dio e, per quanto
non sia bigotta, ho motivi per credere che anche Padre Pio fu
artefice di questa nascita e della mia resurrezione.
Felice per avere conosciuto la mia bambina tornai in reparto
dove trovai mio marito incredulo. Incredulo perché mi vedeva
75
camminare come se tutto quello che avevo patito il giorno
prima fosse stato solo frutto della sua immaginazione.
Stetti in ospedale tre giorni; non sopportavo l’idea di dover stare in un reparto dove altre mamme stringevano i loro
bambini mentre a me veniva negato. Per il suo bene, certo, ma
le sensazioni sono terribili e io non volevo provarle. Preferivo stare a casa mia a organizzare il ritorno della mia piccolina. Quando me lo permisero cominciai ad andare a trovarla
quotidianamente. Vivevo in attesa di quell’ora in cui potevo
vederla, non ancora abbracciarla e tenerla stretta a me. Ma riuscivo ad aspettare, sapevo che quel momento sarebbe giunto
e io dovevo dedicarmi completamente al mio benessere per
poter, di conseguenza, fare stare bene mia figlia.
Dopo un mese, finalmente, ricevetti la tanto attesa notizia:
potevo portare a casa mia figlia. Vi fu grande gioia nella nostra
famiglia; tutti insieme andammo a prendere Santina all’ospedale e la nostra felicità traspariva da ogni sguardo, da ogni
gesto. Fu un periodo festoso; tutti sapevamo che la piccola
era un miracolo, e di questo miracolo ci nutrivamo. Peccato
però che il mio stato di salute non mi aiutava e che, oltre alla
responsabilità del mantenermi in salute (sempre che si possa definire “salutare” il mio stato), c’era l’assoluta necessità
di dedicarmi alla piccola. Ricordo numerose mattine in cui
io, in bagno con i miei problemi e dolori sentivo piangere la
bambina perché aveva fame e non potevo muovermi da lì per
andare da lei. Le parlavo da lontano, sperando che si calmasse,
sperando che capisse, che cogliesse la mia disperazione di non
potere essere lì con lei a consolare il suo pianto di fame.
I miei problemi influivano in maniera negativa sulla crescita
della bambina: ero felice perché lei c’era, ero disperata perché
non potevo dedicarmi al lei nel modo in cui avrei desiderato;
o molto più semplicemente nel modo in cui una madre si dedica ad una figlia. Ancora oggi mi dico che sono stata molto
fortunata ad avere l’amore di mio marito, amore che è servito
a fare sì che tutte le volte che io non riuscivo a dedicarmi alla
bambina lo facesse lui. Con dedizione, con passione, senza
mai una lamentela, senza mai rinfacciarmi la follia che mi aveva portato fin lì, fino al punto di dover restare in bagno invece
76
di dare da mangiare alla bambina. Era, tra l’altro, complicato
alimentare la piccola: aveva bisogno di piccolissime ma frequenti poppate e lui era lì, sempre pronto ad aiutare.
Nelle difficoltà di quei momenti avevo la netta sensazione
che la mia famiglia fosse avvolta da un aurea speciale; “sentivo” che qualcuno ci guidava, ci muoveva nel modo giusto,
come se noi, piccoli pezzi di un puzzle, ci incastrassimo perfettamente per rendere sereno un momento di grande gioia
ma di grande difficoltà. Questo mio sentire è avallato da un
evento la cui spiegazione mi è tutt’ora ignota, anche se devo
ammettere che, dopo tanto tempo, non mi chiedo più il perché: è successo e si vede che così doveva essere. Un pomeriggio entrai in camera da letto per sincerarmi che la bambina
stesse dormendo; la stanza era quasi al buio, solo la luce di una
piccola abat-jour permetteva una visone vaga dell’ambiente.
La culla, posta vicino al letto, mi rimandava l’immagine di mia
figlia che dormiva serena. Mentre ammiravo tanta serenità,
quella che solo un neonato mentre dorme sa infondere, sentii avvolgere me e la stanza da un intenso profumo di rosa.
Seduta sul letto gettai lo sguardo sul pavimento e mi accorsi che c’era qualcosa. Alzandomi per andare ad accendere la
luce pensai che il nostro cagnolino avesse combinato qualche
piccolo disastro. I miei occhi provarono una meraviglia non
descrivibile quando mi accorsi che tra la culla e il letto giacevano sul pavimento piccolissimi petali di rosa. Ne raccolsi un
po’; ero stupita ma non spaventata. Non avevo fiori in casa, la
finestra era chiusa, nessuno era passato da quella stanza prima
di me. Incredula accettai l’idea che la protezione di Padre Pio
non era solo un atto di fede, ma che quei petali erano il segno
tangibile del miracolo che viveva nella culla e del miracolo che
era la mia vita. Dopo tutti gli interventi subiti, le gravissime
complicazioni, l’essere stata più volte tra la vita e la morte,
senza mai attraversarne il confine, pensai che una guida gestiva la mia vita e che a quella guida io sarei dovuta essere grata
per sempre, finché non avrei esalato il mio ultimo respiro.
Sono grata a Dio perché con la vita della mia bambina ha
ridato vita a me. Avevo un nuovo e importantissimo motivo
per restare su questa terra: crescere quella vita che, ignara e
77
serena, dormiva nella culla. La gioia provata superava di gran
lunga ogni mio singolo dolore, ogni mia umana sofferenza e
la forza che sentivo dentro non aveva nulla di umano. Sono
convinta, sempre più convinta che sia dono di Dio.
Grazie Dio
Grazie Dio di avermi fatto il dono più grande: la vita
la vita della mia bambina.
Grazie dio di farmi essere ancora qui a lottare anche per la
mia vita ma adesso con un motivo in più per esserci, per andare avanti per lei, che ha tanto bisogno di me.
Grazie dio per avermi regalato questa grande e immensa
gioia dentro tutto il mio dolore.
Cosa importa del dolore quando hai tra le braccia una e così
grande gioia?
Oggi dico grazie Dio anche del dolore che provo perché
è solo una conferma che esisto, che ci sono, che sono qui a
godere di questo grande dono da te donato.
Grazie Dio.
Trovata questa nuova consapevolezza i giorni e gli anni successivi furono dedicati unicamente a lei, soprattutto i primi
tre anni. Uscivo solamente per portare la bambina ai controlli,
per fare le mie visite dall’ematologo e per gestire il reintegro
alimentare. Ero sempre prigioniera, ma quella prigione mi appariva deliziosa, perché avevo la possibilità di occuparmi di
Santina. Ogni suo sorriso, ogni sua piccola evoluzione mi generavano motivi di felicità. Ogni suo respiro era il carburante
che faceva andare avanti me e il mio corpo disastrato. Tutte
le volte che stavo così male da non potermi dedicare a lei
passavo le ore a guardarla, oppure la tenevo sul letto vicino a
me. Il suo respiro mi infondeva fiducia; non toglieva il dolore,
quello no, ma lo rendeva sopportabile. Antonio, mio marito,
era sempre vicino a noi. Tutte le volte che io non riuscivo a
dedicarmi alla bambina lui interveniva, cambiava il pannolino, le faceva il bagnetto. Soprattutto al mattino si occupava
di tutto, era addirittura diventato più bravo di me nel darle
78
il biberon. Erano indubbiamente grossi sacrifici: lui doveva
uscire per recarsi al lavoro e dunque doveva organizzarsi in
modo da accudire prima la bambina e poi andare al lavoro. Io
disperatamente cercavo le forze per non pesare troppo su tutti loro, anche su Valentina che si dedicava a Santina facendola
giocare e ridere.
Ancora una volta l’esito degli esami fu impietoso: nuove trasfusioni all’orizzonte. Il mio sangue, dov’era il mio sangue?
Dove se ne andava lasciandomi priva di vita? Per non assentarmi troppo da casa facevo i day hospital, oppure in casa un
infermiere mi somministrava la terapia di reintegro (flebo di
ferro e complessi vitaminici) e anche se desideravo fortemente accantonare il mio disagio fisico lui era lì, sempre presente
a ricordarmi che il conto va comunque saldato. Sempre. Un
giorno mi sentivo talmente male che mio marito si improvvisò infermiere e cercò di somministrarmi la terapia; non riuscì
ad inserire l’ago in vena e a questo seguì una cospicua perdita
di preziosissimo sangue con conseguente ulteriore malessere.
Ci si improvvisava medici, infermieri, tuttofare. Si era forse
anche incoscienti, ma ci sono momenti in cui la razionalità
lascia il sopravvento all’istinto o alla necessità e gli errori, soprattutto in questo campo, sono sempre in agguato.
Tra un’emergenza e l’altra la bambina finalmente ebbe l’età
per recarsi all’asilo. Io vidi in questo periodo una sorta di premio: lei poteva giocare con altri bambini e non vivere attaccata
al malessere materno, alle sofferenze di una madre che si sentiva sempre come se avesse tolto momenti fondamentali alla
crescita delle proprie figlie. L’asilo la rese particolarmente allegra e serena e questo mi spronò a prendermi sempre più cura
di me; settimanalmente mi recavo in ospedale per il reintegro,
seguivo un’alimentazione regolamentata e attenta. Iniziai ad
avere una vita “normale”: riuscivo a uscire con una mia amica che mi diceva che finalmente non apparivo più una zombi
ma una donna normale. In questa normalità andavo al parco
con le bambine, uscivo con mio marito, avevo la sensazione di
essermi svegliata da un lungo incubo. Questa cura dava i suoi
effetti a lungo termine ed ebbi per un bel periodo di tempo
l’idea che i pezzi si stessero rimettendo al proprio posto.
79
Questa sensazione mi portò ad affrontare un elemento ancora irrisolto nel mio dimagrimento, ovvero l’eccesso di pelle
che mi ritrovavo sull’addome. Il forte e rapido calo di peso annullò l’elasticità della mia pelle e mi ritrovavo sull’addome un
grosso sacco che andava tolto; inoltre la gravidanza lo aveva
ulteriormente dilatato, pertanto prospettai a mio marito l’idea
di farmi fare la ricostruzione dell’addome. Un intervento di
chirurgia plastica per (ri)darmi un aspetto gradevole. Mio marito di primo acchito mi guardò come se fossi una marziana.
In cuor suo si domandava se non fossi del tutto impazzita:
dopo tutti gli interventi, le degenze ospedaliere, i day hospital,
le flebo, non ne avevo ancora abbastanza? Davvero volevo
trasformare la mia esistenza in un costante viaggio tra sale
operatorie? Non potevo dargli del tutto torto, ma gli dissi che
alcune donne chiedono in dono costosi gioielli, io chiedevo
un addome da donna di trentadue anni e non di novantasei.
Tutto faceva parte di quel percorso che era iniziato con la
diversione ma che continuava con la ricostruzione dell’addome. Volevo vedermi perfetta, volevo che il mio corpo fosse
bello... Quindi volevo togliermi quel grosso sacco che avevo
davanti.
Sempre un po’ titubante accolse il mio punto di vista e cominciammo a informarci su cliniche o studi privati che facevano quest’intervento, non dimenticando mai che ero un
soggetto a rischio a causa della diversione e di questo avrebbero sempre dovuto tenerne conto. Alla fine optammo per
lo studio di un famoso chirurgo il quale nel visitarmi mi fece
notare che, prima di intervenire sull’addome, sarebbe stato
più utile fare delle protesi al seno poiché avrei ottenuto un
risultato migliore da un punto di vista estetico. In effetti il
mio décolleté era stato segnato dal dimagrimento, non riuscii
a dargli torto; l’aggiunta delle protesi si prospettava come la
cosa più ragionevole da fare. Presi molto seriamente questa
proposta e, nell’accettarla, sapevo di dover accettare anche il
fatto che mi sarei dovuta scrupolosamente attenere alle regole comportamentali, alimentari e trasfusionali. Andavo a ogni
appuntamento con l’ematologo, mi nutrivo solo di alimenti
sostanziosi come carne, pesce, affettati e parmigiano; non tra80
scuravo nessun dettaglio, desideravo arrivare all’intervento di
protesi con un quadro clinico inappuntabile.
A questo punto mi recai dal chirurgo chiedendo di programmare la data dell’intervento. Scelsi la protesi più adatta al
mio corpo e alla mia personalità: niente che potesse suonare
esagerato, una normale terza misura si adattava perfettamente
al mio fisico. In quella stessa giornata fissammo l’appuntamento con l’anestesista che, per altro, già conoscevo. Questo
mi dava molta sicurezza: lui era perfettamente al corrente sia
della diversione che di tutti i problemi scaturiti di conseguenza. Iniziai quindi a sentirmi sicura e pronta a questo nuovo
passo. L’appuntamento con l’anestesista si rivelò così come
lo avevo previsto: mi rassicurò ma mi disse anche che i desiderava gli esami ematochimici effettuati il giorno antecedente
l’intervento. Il mio quadro clinico poteva mutare nel giro di
ventiquattro ore e lui non voleva affidare nulla al caso.
Il suo prendersi cura mi fece molto bene da un punto di
vista psicologico, anche perché non ho mai voluto affrontare
tutti i miei problemi da quel punto di vista; guardavo al mio fisico come una macchina priva di anima, aspiravo a pezzi di ricambio che avrebbero dovuto darmi la sicurezza che mi mancava. Sicurezza che non ho mai avuto: obesa perché insicura,
la diversione non era stato un mezzo per darmi la sicurezza
cui anelavo. La demolizione fisica che aveva prodotto era una
demolizione psicologica, io non mi riconoscevo in quel corpo
nuovo ma non mi riconoscevo neanche nella sofferenza se
non come giusta punizione per essere stata affrettata e avventata. E allora un intervento di chirurgia estetica diveniva
un altro capro espiatorio. Una donna “normale” pensa ad un
intervento di chirurgia estetica per migliorarsi; io vi ricorrevo
anche per credere di essere “normale”, annullando, con questo pensiero, la realtà. Realtà che invece parlava di invalidità
permanente. Magra ma invalida, magra ma non serena, magra
e malata, magra e depressa, sempre con il pensiero che un
piccolo cambiamento del quadro clinico mi avrebbe portato
alla morte.
Giunsi al giorno dell’intervento molto fiduciosa; mi prepararono e poi mi dissero che avrei dovuto attendere. At81
tendere cosa? Era un ambulatorio privato, il mio intervento
era programmato per quel giorno e per quell’ora, cosa mai
avrei dovuto attendere? Iniziarono a suonare, nella mia testa,
migliaia di campanelli d’allarme, acuiti dalla spiegazione che
ebbi riguardo alla mia attesa. Era giunto, d’urgenza, un ragazzo che sarebbe stato operato di ragadi anali. A quel punto
il mio pensiero e il mio sesto senso mi dicevano che sarei
dovuta fuggire. Insomma, un intervento di ragadi e dopo uno
di mastoplastica: la sterilità della sala operatoria andava a farsi
benedire!!! Fui talmente stupida che non dissi nulla, non volevo che pensassero che fossi paurosa. Pur di nascondere le
mie perplessità stetti zitta ed entrai in quella sala dopo aver
allegramente salutato mio marito, mia figlia e la mia amica.
Entrai in quella sala spaventata e curiosa, ma la curiosità derivava solo dal fatto che quell’appartamento trasformato in sala
operatoria era nello stabile in cui ero cresciuta, e quella sala
operatoria era speculare al salone di casa mia. In pochi minuti
migliaia di ricordi di bambina mi tornarono alla mente, ma
vennero spazzati via immediatamente quando vidi l’anestesista, il chirurgo, e, come assistenti, la segretaria e un uomo
che bazzicava in quell’ambulatorio le volte in cui andai a fare
le visite. Non erano infermieri, non erano adatti a ricoprire
il ruolo che stavano ricoprendo, e io ero già lì, stesa sul lettino in preanestesia, incapace di fuggire ma terrorizzata. Nulla
appariva normale in quell’ambiente, non avevo più nessuna
sicurezza se non nelle capacità dell’anestesista. Temevo che
mi avrebbero fatto del male o che comunque non sarebbero
stati capaci di fare un intervento serio. Ormai dormivo e le
loro mani erano sul mio corpo. In seguito la mia amica mi
disse anche che, dopo aver posizionato la prima protesi la
fecero entrare per farle ammirare il risultato. La mia amica? In
sala operatoria, senza che nulla di lei fosse stato sterilizzato?
Un incubo, sono stata dentro un incubo e non me ne sono
accorta o, ancora peggio, non me ne sono voluta accorgere. Al risveglio balzai giù dal lettino, felice di essere sveglia;
volevo fugare i miei timori uscendo di lì il più presto possibile. Era tale la mia fretta che me ne stavo andando a seno
nudo, fu mia figlia che mi guardò incredula e mi fece notare la
82
mia nudità. Mi rivestii, saldai il conto e corsi fuori da lì quasi
correndo. Passai addirittura dal laboratorio dei miei genitori,
dove lavorava mio marito e nessuno si accorse di nulla. Avevo
una carica di vitalità immensa, pensai che tutto era finito bene
malgrado i miei giustificati timori.
I giorni successivi continuai a prendermi cura di me: esami,
reintegro ecc. Eppure i seni mi dolevano in maniera eccessiva,
soprattutto il sinistro. Il medico mi rassicurava dicendo che
era assolutamente normale avere dolori dopo un intervento
di mastoplastica e io gli credevo, però non riuscivo a stare
supina, solo in piedi stavo abbastanza bene; se mi piegavo
sentivo che il respiro veniva meno, come se un tir mi stesse
attraversando la gabbia toracica. Sopportai, mi dicevo che la
convivenza con il dolore era la conseguenza di ogni mia scelta, e ne ero così convinta che neanche per un attimo pensai
che quell’intervento fosse stata un’accozzaglia di errori su errori. La conferma mi giunse il giorno in cui andai a togliere
le bende. I tagli erano stati praticati troppo in alto, le protesi
erano estremamente piccole, forse una seconda scarsa. Me ne
lamentai e mi fu risposto che era giusto così.
Ebbi appena il tempo per rendermi conto che quella risposta era una “non risposta” che altri problemi si affacciarono
immediatamente. I punti, praticati sul seno sinistro, non si
erano ancora chiusi; quelli al destro, ancora bagnati. Fui costretta a recarmi più e più volte in ambulatorio sia per richiudere il seno sinistro (i punti mi furono dati senza anestesia) sia
perché dal seno destro, attraverso un piccolo foro nella pelle,
cominciava ad uscire della materia biologica dall’origine a me
incomprensibile. Ad ogni modo il seno sinistro si cicatrizzò,
il destro invece non trovo mai pace. Infezione, mi dissero,
una piccola infezione che sarebbe passata in breve tempo assumendo degli antibiotici. L’assunzione degli antibiotici non
diede alcun miglioramento, allora il chirurgo (mi fa senso dargli quest’appellativo, ormai lo associavo più ad un macellaio),
riaprì la ferita e la richiuse. Non una volta, non ricordo più
quante. So soltanto che una delle ultime volte anche chi l’assisteva mi guardava con compassione chiedendomi dove trovassi tutta la forza per sopportare un simile calvario. Una delle
83
innumerevoli volte in cui riaprì e richiuse mi raccomandò di
non toccar nulla per una settimana; di aspettare il suo ritorno,
andava a farsi un operazione agli occhi. Agli occhi? Che problema aveva agli occhi il mio competente chirurgo? Ci vedeva
bene il chirurgo? Attesi quella settimana, tornai da lui, tolse le
bende e fece notare alla mia amica che le ferite erano ormai
chiuse. La mia amica gli disse che per lei non erano ferite chiuse, ma da ciò che vedeva le sembravano totalmente bagnate.
Ci liquidò rapidamente ignorando ciò che lei aveva detto, ma
mi rivide quello stesso pomeriggio, poiché, mentre ero a letto
a riposare, sentii sgorgare dalla ferita liquido a fiotti; bagnai
tutto il letto e riuscii a tamponarlo con un lenzuolo. Andai lì
con il lenzuolo. Con un freddezza che mi fece quasi paura mi
disse che era tutto normale e continuò a prescrivermi antibiotici, ad aprire e a chiudere.
Cosa era normale? Era normale che avessi subito un intervento a gennaio e, all’inizio dell’estate non ero ancora totalmente ristabilita? O era normale che il chirurgo avesse seri problemi agli occhi? Era normale che quando viaggiavo in macchina
sentivo le protesi schizzare fuori dalla sede come se vagassero
libere nell’incavo mammario? Normale avere dolori alle braccia? Tutto questo non era normale, non lo era affatto.
E ne ebbi assoluta certezza quando finalmente decisi che
dovevo assolutamente cambiare medico. Chi legge probabilmente, e plausibilmente, penserà che sono stata una folle a
non averlo fatto prima. Non so rispondere, non so perché
continuai per mesi a fidarmi di qualcuno di cui ebbi dubbi sin
dal momento in cui mi addormentò su quel lettino.
Tutto ha un filo conduttore: l’intervento di diversione, la
chirurgia plastica, tutto si svolgeva nel filo rosso della mia insicurezza. Mi recai da un nuovo medico, il quale, non appena
vide lo scempio mi disse che l’unica cosa da fare era togliere le
protesi, guarire dall’infezione e poi, in un secondo momento
rifare l’intervento. Fu una bastonata violentissima. «Come?»
dissi io «Sto soffrendo da mesi e lei vuole togliere tutto?». Mi
disse che non dovevo neanche rammaricarmi del fatto che
avrei dovuto togliere le protesi: la situazione era assolutamente compromessa.
84
Ciò che mi convinse fu che questo nuovo medico disse che
quelle protesi portavano la firma di... E disse il nome di chi
aveva eseguito l’intervento. Io e la mia amica, che ormai mi
accompagnava in tutti i pellegrinaggi, ci guardammo in faccia
sconvolte. Allora non era la prima volta, allora il chirurgo era
noto nell’ambiente per essere un macellaio autorizzato. Mi accomiatai dal medico accordandomi per ricoverarmi il giorno
successivo.
Ero letteralmente sconvolta da quelle parole, non volevo
credere a ciò che mi era successo, non potevo credere di essere stata presa in giro in modo così plateale. Per me era impossibile pensare che quel medico avesse agito consapevolmente,
che sapesse di non essere in grado. I medici non dovrebbero
agire solo nell’interesse del paziente? I miei parenti erano infuriati e il giorno successivo, mentre io mi recavo in ospedale
per gli esami e il ricovero, loro andarono dal primo chirurgo
a chiedere conto dei propri errori. Io non so cosa successe in
quello studio medico, ma so che li convinse che non dovevo mettermi nelle mani di nessun altro se non di lui, che mi
avrebbero rovinato togliendomi le protesi, che sarei dovuta
tornare da lui e non avrei dovuto parlare con nessuno di ciò
che mi stava succedendo.
Non sapevamo più di chi fidarci, di lui che aveva detto che
era un decorso normale? Alla resa dei conti, non so per quale
ragione, decidemmo di restare con lui, di farmi dimettere e di
aspettare che tutto sarebbe tornato a posto. Io non fui affatto
convinta di questa scelta e lo fui ancora meno quando, il giorno successivo, ricevetti a casa la telefonata dell’anestesista che
mi aveva assistito durante l’intervento; l’anestetista che io conoscevo, di cui mi fidavo, che stimavo e che tutt’ora stimo. Io
non posso avere la certezza che quella telefonata non fu fatta
spontaneamente, so soltanto che nelle parole dell’anestesista
lessi poca convinzione, quando mi sollecitava a continuare il
mio percorso con il chirurgo che mi aveva operata. Fui oltremodo stupita dalle telefonate che mi fece direttamente il
chirurgo, telefonate nelle quali mi diceva che se mi fossi fatta
togliere le protesi non avrebbero più potuto rimetterle e avrei
perso del tutto la mia femminilità.
85
Aveva buon gioco quando mi parlava così, perché io ero
talmente provata psicologicamente che tendevo a credergli.
Ero depressa, convinta che il malfunzionamento dell’intervento era stata una forma di autopunizione per averlo voluto
fare, per essermi permessa ciò che non mi sarei mai dovuta
permettere. Mi dicevo che con tutti i miei problemi di salute
mi mancava soltanto quest’ultima avventura; ne avevo proprio bisogno per crollare definitivamente. Ero al limite di una
forte depressione; persino mia figlia si sentì causa di questo
mio star male, mi chiedeva scusa perché mi aveva detto che
quella pelle cadente era brutta. Una bambina che si scusava
per le parole che aveva detto, ma in quale terrificante baratro
stavo portando me e la mia famiglia?
Si avvicinava l’estate e già ero in grado di capire che la situazione non si sarebbe modificata: avrebbe potuto peggiorare,
ma non migliorare. Non lottavo più, mi guardavo la ferita infetta senza provare più niente se non pietà per un corpo devastato, prima dalla mia mano, poi da quella dell’uomo. Pensavo
che non avrei potuto far godere un periodo di vacanza alle
mie figlie; tra l’altro ero diventata ragione di scherno da parte
di parenti e amici che avevano creduto che il mio intervento
plastico era assimilabile a un intervento fatto per moda, perché molte donne lo fanno quando, già belle,non vogliono vedersi invecchiare. Non era il mio caso, per me era necessario
ricostruire la pelle che era ceduta per il dimagrimento. Avrei
potuto farne a meno, ma non era solo un problema estetico:
la pelle “cadente” era pesante, facevo fatica a portarla in giro.
Il momento peggiore venne quando dissi al medico che mi
aveva proposto di togliere le protesi per il mio bene che avrei
rinunciato; non gli diedi nessuna spiegazione, andai via da lì
piangendo e tutt’ora ringrazio quell’uomo perché fu estremamente comprensivo. Mi disse che sarebbe stato comunque a
mia disposizione in qualunque momento avessi voluto. Fu
un grande sollievo e forse furono le sue parole ad indurmi
ad affrontare la situazione di petto (e in questo caso non è
soltanto un modo di dire). Chiamai il chirurgo che si trovava
in ferie nella sua casa di campagna, gli dissi che andavo lì per
definire la mia situazione e che non avrei più accettato nessu86
na scusa. In un primo tempo mi disse di aspettare settembre
e il suo ritorno; poi, visto il modo in cui mi rivolsi e le parole
che usai, accettò di vedere me e mio marito il giorno stesso.
Ma prima di accettare ammise che da un occhio vedeva soltanto ombre e dall’altro aveva avuto il distaccamento della
retina. Era questa la ragione del suo procrastinare e prendere
tempo: non ci vedeva. Sperava di riacquistare totalmente la
vista per “rimettermi a posto”. Fui io in quel momento a
non vederci più. Mi ha preso in giro per sei mesi, sei mesi! E
chissà per quanto tempo sarebbe andata avanti la storia se io
non mi fossi decisa a intervenire con forza. Dopo numerose
insistenze ci comunicò il luogo in cui si trovava; io e mio
marito corremmo in macchina da lui, che serafico guardò la
ferità e decretò il fatto che nulla era cambiato. «C’è un buco»
disse. «Questo non è un buco» risposi io «È la distruzione di
una donna». Mentre parlavo osservavo un muretto costruito
con maniacale perfezione nel suo giardino e gli feci l’esempio
dell’operaio che aveva costruito per lui quel muretto, esattamente come lui lo desiderava. Immaginai che avesse pagato
un prezzo per avere quel muretto, non un abbozzo di muretto, non una cosa dalla quale filtrava acqua e che si sarebbe
in breve tempo distrutto. Gli chiedevo solo un’assunzione di
responsabilità: volevo che mi dicesse che in questo intervento
gli errori erano stati enormi e numerosi. Non volevo sapere il
perché, non mi interessava più; quello che avevo visto mi era
sufficiente: i suoi occhi non erano più in grado di operare, e
mi era assolutamente chiaro. Avevo già deciso di rivolgermi
altrove, ma pretendevo non solo le scuse, che non mi sarebbero servite a niente, volevo che ammettesse i suoi innumerevoli errori. Lo fece e non lo vidi più; ma la mutilazione che mi
provocò non si cancella con le scuse né con un’assunzione di
responsabilità. Quel medico senza un briciolo di dignità aveva ferito indissolubilmente il mio corpo e l’anima, come se
già non fosse provata da quanto aveva già precedentemente
subito con l’intervento di diversione.
Tagliai i ponti anche con la mia città, mi recai da un chirurgo plastico romano che avevo visto in televisione. Mi era
sconosciuto, ma almeno ero certa che non esisteva nessuna
87
connivenza, così non ci sarebbe stato nessuno da accusare
né da colpire. Telefonammo, spiegammo per sommi capi ciò
che mi era successo e furono gentilissimi nel fissarmi un appuntamento il primo di settembre. Eravamo già a fine agosto
pertanto dovevo attendere veramente poco.
Nel tempo d’attesa dovetti fare il reintegro e ricominciare
l’alimentazione iperproteica che avevo abbandonato per un
po’. Desideravo recarmi a Roma nel pieno delle mie forze.
Giunsi a Roma e nel visitarmi il chirurgo non mi disse nulla di
nuovo rispetto a quanto non mi disse il medico che avevo interpellato a Palermo. Una protesi era da togliere al più presto
e per due mesi sarei dovuta stare obbligatoriamente senza. Fu
impressionato dal tipo di tagli effettuati, troppo grandi e fuori
posto. Organizzò l’intervento di rimozione per il tre settembre e malgrado mi sentissi distrutta decisi che era giusto fare
così. Ritornai a Palermo perché non volevo che le mie figlie
stessero troppo tempo senza di me. Passai quei due giorni
nella tristezza, perché per me era una sconfitta enorme dover subire l’asportazione della protesi e, per quanto ritenessi
necessario agire, psicologicamente vivevo un stato di vuoto
totale. Mi sentivo annientata: le mie scelte, dettate dalla fretta
e dall’insicurezza si erano rivelate sbagliate e poco accorte. Mi
rimproveravo silenziosamente ma costantemente. L’ambiente
romano non aveva nulla a che vedere con quello studio palermitano. Respiravo fiducia incondizionata: la pulizia e la sterilità erano più che evidenti. Tolsero la prima protesi e il chirurgo
mi disse che aveva trovato un’infezione enorme; pertanto non
poté chiudere la ferità, perché andava costantemente pulita
dall’interno e medicata con una crema apposita finché non si
fosse rimarginata da sola. Nello stesso frangente prendemmo
appuntamento per novembre per il secondo intervento.
Durante il ritorno in aereo mi sentii male: arrivai a casa con
una febbre altissima, chiamammo subito Roma e il professore
si mise in contatto con il nostro medico di base. Il medico
di base tolse la medicazione e fece un lavaggio interno alla
ferita per diversi giorni. Stavo talmente male che un giorno
mia figlia mi trovò svenuta in bagno; giunsero mia madre e
mio marito che non riconoscevo e dopo questo episodio, che
88
segnò il culmine dell’odissea che stavo vivendo, cominciai a
riprendermi.
Lottare era il mio verbo preferito: lottai per dimagrire, lottai
per migliorare il mio fisico rovinato dal troppo dimagrimento.
E cosa era rimasto? Infezioni e due enormi tagli. Vissi quei
due mesi in uno stato psicologico penoso. Dormivo male e
avrei voluto urlare al medico che mi aveva praticato quei tagli:
«Perché? Perché? Perché?». Perché se gli avevo spiegato la mia
situazione intervenne lo stesso? Perché non parlò chiaramente e disse che non era più in grado di operare? Avrebbe potuto
indirizzarmi a un altro medico, avrebbe potuto agire in maniera corretta. Sapeva che ero una donna già provata nel fisico
e nella mente dall’intervento di diversione; perché non aveva
avuto nessuna cura per la mia persona? Mai mi sarei data una
spiegazione. Intanto le mie figlie vivevano una vita infernale:
non riuscivo a sollevare una bottiglia d’acqua, a sollevare una
tapparella. Un fantasma con un cuore che batteva e con un
cervello pieno di dubbi, di domande, senza uno straccio di
risposta.
I due mesi passarono in queste condizioni, arrivò novembre
e tornai a Roma. Non ebbi neanche la possibilità di visitare la
magnifica Roma, i miei percorsi erano obbligati: dall’aeroporto un’automobile veniva a prenderci e ci portava in clinica. Mi
ricoverarono e, pur sapendo che finalmente sarebbe stata l’ultima volta, avevo ormai la nausea di ricoveri e stanze d’ospedale, per quanto accoglienti fossero. L’intervento durò più del
previsto e quando il chirurgo plastico me ne spiegò le ragioni
rischiai di svenire nuovamente. Per la rabbia, però. Tolta l’altra
protesi per il nuovo inserimento, si accorsero che era infetta
anche quella e che l’infezione era maggiore rispetto a quella
del seno destro: il chirurgo dovette ripulire sino alla pleura.
Non si sentì di farmi nuovamente uscire dalla sala operatoria
con una protesi sì e una no e allora fece il possibile per finire
tutto durante un solo intervento. Non gli era chiaro come il
precedente chirurgo avesse creato delle tasche per inserire le
protesi, che in realtà non erano inserite ma semplicemente
poggiate; quei tagli enormi non giustificavano affatto l’inse89
rimento delle protesi. Fui comunque felice che fosse riuscito
a salvare il salvabile anche se nulla, per il momento, avrebbe
potuto fare per quelle cicatrici; disse che in futuro si sarebbe
adoperato affinché potessero essere meno visibili.
Tornai a casa acquistando un minimo di serenità in più: finalmente avevo un aspetto guardabile, anche se quelle cicatrici mi avrebbero per sempre ricordato quanto sia facile cadere
nelle mani sbagliate. Avevo imparato una lezione importante:
mai affidarsi con leggerezza a qualcuno, mai. Avvertito il primo campanello d’allarme, ormai cerco di ascoltarlo con calma e razionalità; non mi lascio più influenzare da quello che
dicono gli amici degli amici, ormai mi informo su tutto e non
lascio più niente al caso.
Attualmente continuo a vivere con le complicanze dell’intervento, ho dovuto subire un nuovo intervento causato sempre dalla diversione. Mia figlia cresce splendidamente e io se
seguo pedissequamente i protocolli di reintegro e di ipernutrizione vivo una vita passabile, mai completamente sana. I controlli sul sangue devono essere costanti, settimanalmente mi
devo recare in ospedale per le flebo per dare al mio organismo
tutto quello che non riesce ad acquisire con l’alimentazione;
in casa devo sempre tenere e somministrarmi iniezioni di ferro, calcio e altri principi fondamentali per la sopravvivenza. Il
mio stato di salute è definitivamente compromesso e per un
motivo o per un altro sono sempre in ospedale.
È questa la ragione per cui ho voluto scrivere queste pagine:
voglio, con la mia testimonianza, mettere in guardia tutti gli
obesi che credono che con l’intervento di diversione possano
risolvere i loro problemi. Risolvono solo un problema, ma ne
acquistano migliaia e non saranno mai felici di avere optato
per questa scelta.
Io capisco quanto l’obesità renda difficile il vivere; ma, se
non esistono motivazioni per cui l’intervento si renda obbligatorio, l’unico modo per dimagrire è quello di seguire un
regime alimentare corretto e un’attività fisica costante. E non
esistono soluzioni miracolistiche: ci vuole tempo e impegno,
impegno costante. Bisogna essere consapevoli che la mutilazione di parti del proprio organismo non serve a rendere
90
serena un’esistenza. Serve solo a distruggere fisicamente e
psichicamente un corpo già segnato dalla grassezza. Il giudizio degli altri è una spada di Damocle che sempre peserà
sulla nostra testa, da grassi perché ci deridono ed emarginano,
da magri perché quando ci vedono soffrire dicono che ce la
siamo cercata e, col senno di poi, mi tocca pure dare loro ragione. Insegnate ai vostri bambini ad avere un sano rapporto
con il cibo e con lo sport, vi ringrazieranno da adulti per aver
permesso loro di essere uomini e donne sani.
Sabina.
91
Nota dell’autrice
Ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale...
In realtà le cose descritte in questa storia sono del tutto autentiche; se non del tutto o quasi, appartengono alla mia vita
e a chi mi sta intorno. Quindi è giusto ringraziare chi, suo
malgrado, cosciente o non, ha contribuito a questo romanzo.
Non faccio comunque quasi nessun riferimento alla vita di
coppia o eventualmente in famiglia, in quanto preferisco tenere per me questa parte di privato. Vi assicuro tuttavia che questo cambiamento influisce anche sulla sfera della vita privata,
che io preferisco rimanga tale; devo tanto a mio marito per
avermi sostenuta e aver fatto di tutto per andare avanti insieme, anche quando io ho avuto dei momenti di cambiamento
e di confusione di identità dovuti all’operazione.
La diversione biliopancreatica viene ancora oggi praticata,
ma con dei cambiamenti che evitano sicuramente qualche
sofferenza; in che misura io non posso saperlo.
Ringrazio chi ha collaborato alla pubblicazione consigliandomi e assistendomi: “Delia Promozioni per la Cultura”, nella
persona del dott. Vincenzo D’Elia, della dott.ssa Francesca
Viti, della dott.ssa Carmen Arzano e di Rosy Tocco che ha
riveduto e corretto quanto io avevo scritto.
Un ringraziamento particolare al prof. Giovanni Savettieri,
neurologo e psichiatra, ordinario di neurologia presso l’Università di Palermo; al prof. Giuseppe Mastrandrea, primario
di chirurgia, professore a contratto presso l’Università di Palermo, specialista in chirurgia generale e vascolare; al prof.
Walter Bertolino, specialista in ostetricia e ginecologia, ecografia, diagnosi prenatale, titolare del modulo di gravidanze
a rischio presso l’ospedale “V. Cervello” di Palermo; al prof.
Giuseppe Leopizzi, specialista in chirurgia plastica, specialista
in chirurgia maxillo-facciale, specialista otorino-laringoiatra;
alla dott.ssa Alessandra Di Paola, dietologa.
93
Prof. Giovanni Savettieri
Neurologo - Psichiatra
Ordinario di Neurologia
Università di Palermo
Disturbo del comportamento alimentare. Questa è l’esemplificativa definizione psichiatrica di una sofferenza straziante
che accompagna la vita di coloro per cui il cibo non è solo
nutrimento ma appagamento, rituale, gratificazione colpevole
di delusioni e frustrazioni. Storie che il più delle volte restano
all’interno della famiglia, dentro asettici studi medici o che,
talvolta, si liberano nella luce soffusa di studi di psicoterapeuti. Storie che soprattutto restano nell’animo e nella mente di
chi vive il disagio della discordanza tra ciò che appare e ciò
che si vorrebbe che apparisse.
Il disagio si accompagna ad un desiderio di “normalità”
frustrato spesso dai preconcetti o dai “consigli” superficiali
e maldestri e le frustrazioni subite portano ancora all’abuso
gratificante del cibo. Il corpo sembra slegato dai contenuti del pensiero, dai desideri, dalle aspirazioni. L’adolescente
immagina il primo bacio, le carezze, sorride fantasticando,
piange di fronte all’immagine del proprio corpo riflesso da
specchi che ineluttabilmente ripropongono una realtà. Allora le soluzioni, il dietologo, i tentativi sollecitati dai familiari.
Ma una condizione complessa può mai sciogliersi di fronte
ad una riduzione del cibo? Può una circolarità fatta di frustrazione - gratificazione arrendersi ad elenchi di cibi proibiti e cibi che lecitamente possono essere portati alla bocca?
Ancora frustrazioni, delusioni ed ancora una ricerca affannosa di altre soluzioni, mentre la vita trascorre senza che da
essa si riceva quanto sperato, quanto dovuto. Gli insuccessi
non portano a pause, seppur transitorie, di rassegnazione,
ma spingono ad esplorazioni successive, considerando anche interventi estremi. È l’ansia di vedersi come si immagina
dover essere a far sì che qualsivoglia proposta di soluzioni
non accettata.
94
Diversione bilio-pancreatica, altre fredde parole che non
rendono il malessere caotico che partendo dalla presunzione
di un’offesa fisica cerca soluzioni che si riveleranno poi offese più pesanti. L’intervento chirurgico si immagina definitivo,
come quando l’operatore rimuove un tumore che era causa di
sofferenza. Qui però è la sofferenza della mente alla quale il
chirurgo non è in grado di accedere. Ostacolare l’assorbimento degli alimenti e ridurre la capacità dello stomaco a contenere cibo certamente determina una riduzione di peso, ma i
rischi, anche per la vita, le sofferenze, la mortificazione del
corpo che l’intervento comporta sono una violazione all’integrità del fisico anche maggiore della violenza che il corpo
subisce per la assunzione compulsiva di cibo.
E la storia continua con speranze e la ricerca di altri rimedi,
con il desiderio di poter tornare indietro, desiderio ostacolato
da una condizione fisica che mal sopporterebbe altri interventi in un corpo devastato.
Sabina Ricca ci propone il suo malessere attraverso il racconto della sua vita segnata dal desiderio di veder trasformato
il suo corpo. Ci racconta anche come in questo percorso di
sofferenza abbia trovato dei momenti di pausa ed abbia potuto godere di alcune delle cose che la vita può offrire: l’amore
del marito, la gioia della maternità. Il racconto di Sabina è
esemplare nel ricostruire il proprio disagio ed i tentativi frustrati di tradurre in realtà un desiderio devastante.
95
REGIONE SICILIANA
AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE N.6 – PALERMO
Presidio Ospedaliero “G. GIGLIO”
C .da Pietrapollastra – tel. 0921 920111
CEFALÙ (PA)
---------
DIVERSIONE DI CHIRURGIA GENERALE
Primario: Dr. G.ppe Mastrandrea
Accolgo con piacere l’invito della Sig.ra Ricca a scrivere
queste poche righe sull’intervento di diversione bilio-pancreatica.
Il trattamento chirurgico dell’obesità grave, pur se in fase di
applicazione clinica da più di 50 anni, è nato negli USA nel
1954, solo negli ultimi tempi è diventato una realtà importante nel panorama terapeutico dei pazienti obesi e costituisce
ormai un pilastro fondamentale nella cura di questa malattia.
Tra tutti gli interventi chirurgici proposti (circa 40 tecniche
diverse) solo alcuni hanno mantenuto le aspettative terapeutiche, e, fra questi, sicuramente è da annoverare la diversione
bilio-pancreatica, intervento messo a punto da Scopinaro e
Collaboratori e realizzato per la prima volta a Genova il 12
Maggio del 1976.
La tecnica originale prevedeva un ampia resenzione gastrica
ed un bypass intestinale con un’ansa alimentare (percorsa solo
dagli ingesti) ed un’ansa bilio-pancreatica (attraversata solo
dalle secrezioni biliari e pancreatiche) di uguale lunghezza, che
si riunivano a 50 cm di intestino tenue (valvola ileo-cecalea).
In tal modo gli alimenti e venivano a contatto con i succhi
digestivi solo negli ultimi 50 cm di intestino e quindi potevano
essere digeriti ed assorbiti solo in minima parte.
Questo tipo di intervento, definito “Half-Half ” (HH-BPD),
venne subito dopo modificato per passare all’AHS-BPD (diversione bilio-pancreatica “stomaco ad hoc”) nel quale il volume
gastrico veniva diminuito rispetto al modello originario adattandolo alle caratteristiche del paziente (sesso, età, soprappeso, abitudini alimentari) e l’ansa alimentare veniva ridotta ad
96
una lunghezza di 200 cm,lasciando il restante intestino tenue
come ansa bilio-paancreatica.
La riduzione del volume gastrico condizionava così un minore introito di alimenti, mentre la diversione delle secrezioni
biliari e pancreatiche era responsabile del ritardo di digestione
e dello scarso assorbimento degli stessi.
Tutto ciò provocava una drastica perdita di peso che poteva
arrivare fino al 100 % del soprappeso iniziale nel corso del
primo anno,per poi stabilizzarsi nel tempo.
La mal digestione ed il malassorbimento provocano comunque alcune carenze alimentari (ipoproteinemia, ipovitaminosi,
ipocalcemia, iposideremia...) che necessitano di controlli clinici ripetuti e supplementazioni farmacologiche, giungendo tal
volta alla necessità di reintervenire chirurgicamente per ricostruire il normale processo digestivo.
La diversione bilio-pancreatica costituisce un drastico cambiamento esistenziale per il paziente, che incide profondamente sulle sue abitudini e sulla sua qualità di vita.
Si passa infatti da una alimentazione libera, e spesso disordinata, alla necessità di assumere pasti ricchi di proteine, per ridurre il
rischio di malnutrizione, scontrandosi spesso con l’inappetenza
per tali cibi provocata dalle modificazioni fisiologiche realizzate
dall’ intervento ed il rifiuto psicologico di una dieta controllata. A
ciò si associa un cambiamento nelle proprie abitudini igieniche,
per la frequenza delle scariche diarroiche e per la flatulenza che
spesso condizionano fortemente la vita di relazione.
A tutto ciò si aggiunge la necessità di controlli clinici e di
laboratorio frequenti sopratutto per i primi anni e di terapie
farmacologiche ripetute. Tutte queste considerazioni hanno
portato negli ultimi anni a scegliere interventi chirurgici più
semplici e meno invasivi, anche se con risultati a lungo termine ancora da verificare e certamente inferiori rispetto alla
diversione bilio-pancreatica.
Di contro gli effetti sul soprappeso sono veramente straordinari e consentono non solo un indubbio vantaggio estetico,
ma, soprattutto,permettono di ridurre drasticamente tutti i
fattori di rischio per malattie cardio-vascolari, metaboliche,
respiratorie, ortopediche etc. legati all’obesità.
97
La diversione bilio-pancreatica, realizzata per via laparotomia, cioè con l’ apertura dell’addome, ha conosciuto una larga
applicazione clinica in tutto il mondo occidentale, diventando
una delle operazioni chirurgiche per obesità più eseguite nel
mondo.
Con l’avvento delle tecniche mini invasive (bendaggio gastrico, gastroplastica verticale...) eseguite per laparoscopica,
cioè senza aprire l’addome e realizzando l’operazione attraverso 5 buchetti per fare passare la telecamere e gli strumenti
chirurgici, la diversione bilio-pancreatica è stata un po’ messa
da parte, a causa della sua maggiore invasività.
Successivamente, con l’aumentare dell’esperienza dei chirurghi in laparoscopia anche la diversione bilio-pancreatica è
stata e continua ad essere realizzata per via laparoscopica e
quindi con un approccio mini invasivo.
Cioè ha consentito una ripresa di interesse per questo intervento che rappresenta sempre uno dei cardini più importanti
di questo tipo di chirurgia.
Resta da sottolineare che non esiste ancora oggi l’intervento
chirurgico ideale per il trattamento della obesità grave, e ogni
paziente necessita di un trattamento personalizzato, eseguito
da sanitari che abbiano maturato una esperienza specifica nel
settore e siano in grado di offrire soluzioni differenziate.
Solo una grande disponibilità dell’equipe chirurgica assieme
alla fiducia riposta in essa da parte dei pazienti può garantire
risultati soddisfacenti e prevenire complicanze e problemi alimentari inevitabili.
98
Prof. Walter Bertolino
Specialista in ostetricia e ginecologia
Ospedale “V. Cervello” di Palermo
Cosa c’è di più bello per una coppia della nascita di un figlio?
A pensarci bene una felicità maggiore esiste, perché gli stessi
sentimenti di gioia sono enormemente amplificati se la nascita
di un bambino corona con successo una gravidanza difficile,
i cui esiti incerti si accompagnano ad ansie e grandi paure. A
maggior ragione se in precedenza quella donna ha già vissuto
esperienze negative per cui, scoraggiata, si è quasi rassegnata
al fatto che non sarebbe mai diventata una mamma.
In questi casi il lieto evento interrompe un incubo.
Dagli occhi delle mamme traspare un contentezza mista a
incredulità e stupore .
Con questi sentimenti mi sono confrontato, sin dall’inizio
della mia ormai trentennale carriera, condividendo con i genitori le ansie ed i problemi di gravidanze difficili, entusiasmandomi alla ricerca di soluzioni, di nuove terapie, sempre attento
alla valutazione di quei segni precoci di complicanze che, se
diagnosticate e trattate per tempo, consentono di guadagnare
giorni preziosi per raggiungere epoche gestazionali compatibili con la vita del feto anche se prematuro.
È così che, quasi senza accorgermene, mi sono sempre più
interessato alle problematiche delle gravidanze cosiddette “a
rischio”, mentre di pari passo aumentavano sempre più le pazienti che cercavano in me un aiuto per esaudire il desiderio
di maternità che non riuscivano a realizzare.
Se è vero, che nel corso degli anni la mia esperienza andava
crescendo, è altrettanto vero che spesso si sono rivolte a me
pazienti con patologie così rare, per le quali non esistevano
precedenti di gravidanze descritte in letteratura la cui gestione
è stata, per usare un termine marinaresco, una “navigazione a
vista” nella spasmodica attesa di veder comparire in lontananza le luci di un porto.
Ricordo benissimo quando Sabina si è rivolta a me. Aveva
già consultato diversi colleghi che le avevano sconsigliato di
99
continuare la gravidanza. Per prudenza? Per paura? Io dissi,
come è mia abitudine in tutta onestà, che ovviamente quella
gravidanza presentava dei rischi, che però non avevo nessuna
idea dell’intervento di “diversione bilio-pancreatica” a cui si
era sottoposta, delle complicanze che avrebbe potuto determinare in gravidanza, ma che comunque mi sarei documentato e al successivo incontro avremmo potuto affrontare con
più concretezza le varie problematiche. In ogni caso poteva
contare sul mio aiuto.
Infatti mi documentai.
Quell’intervento aveva lo scopo di ridurre soprattutto l’assorbimento dei grassi, ma in questo modo si comprometteva
irrimediabilmente anche l’assorbimento di alcune vitamine
che sono fondamentali per il metabolismo, specialmente di
un organismo in crescita, ma anche di sostanze indispensabili
per una corretta coagulazione del sangue.
Il riferimento è soprattutto alle Vitamine A, D, E e K.
Per di più la paziente, prima del suddetto intervento, aveva
avuto una gravidanza che era stata complicata dalla gestosi. Era
nata allora una bimba prematura e con ritardo di crescita.
A questo proposito diversi studi hanno collegato deficit nutrizionali ad un maggiore rischio di gestosi.
Questa grave complicanza poteva pertanto ripresentarsi a
maggior ragione forse in forma ancora più severa.
Per la sua prevenzione sono state nel tempo proposte supplementazioni dietetiche con Calcio, Acidi Grassi
Polinsaturi,Magnesio, Vitamine etc.
Ma nel caso in questione l’assorbimento di tali sostanze era
già estremamente ridotto!
Cosa fare? Cosa somministrare?Per quale via? Quali dosaggi? Con quali risultati?
È vero che le popolazioni che assumono diete ad alto contenuto di calcio hanno una bassa incidenza di gestosi.
Ma il metabolismo del calcio è fortemente influenzato dalla
Vitamina D che era fra quelle carenti nella nostra paziente.
Altrettanto carente anche l’assorbimento degli acidi grassi polinsaturi che hanno la funzione di ridurre la sintesi di
Trombossano nelle Piastrine evitandone l’aggregazione.
100
In questi casi aumenta il rischio di trombosi.
Per non parlare anche della vitamina E che ha un’importante azione antiossidante, fondamentale per la prevenzione dei
danni vascolari.
All’opposto la carenza di vitamina K può essere responsabile di rischio emorragico.
Per finire la vitamina A è indispensabile per il corretto
sviluppo dei tessuti, soprattutto della cute, delle mucose e
dell’apparato visivo.
La sua carenza, ma anche un suo eccesso, può essere responsabile di malformazioni fetali.
A tutti i rischi descritti in precedenza si aggiungevano l’anemia cronica della paziente dovuta anche alla presenza di un
trait- Talassemico ed anche considerazioni di carattere tecnico
riguardanti le difficoltà del successivo taglio cesareo.
La pancia di Sabina era martoriata infatti da un’incredibile
quantità di cicatrici: quella del precedente taglio cesareo, quella dell’appendicectomia, quella dell’intervento di diversione
bilio-pancreatica e, per finire, quelle dei due interventi di correzione di altrettanti laparocele.
Le mie ricerche inoltre non sortirono alcun risultato.
Nessun dato era presente in letteratura riguardo a gravidanze in donne operate di diversione bilio-pancreatica.
Avevo notato però diverse segnalazioni di decorsi post-operatori particolarmente complicati esitati con la morte delle
pazienti.
Ovviamente tutte queste considerazioni furono ampiamente esposte a Sabina, e furono oggetto di severe riflessioni e
preoccupazioni ma, aldilà di qualunque discussione, avevo capito immediatamente che la decisione di portare avanti quella
gravidanza, a qualunque costo, era già stata presa!
Non restava altro da fare che cominciare ad impostare un
programma di terapia di supporto dietetico, farmacologico, di
monitoraggio dei vari parametri clinici e di laboratorio, perché
la nuova avventura era già iniziata!
Ci avvalemmo della consulenza di esperti ematologi ed internisti, perché fu subito chiaro che la paziente avrebbe avuto bisogno
di terapie parenterali e probabilmente anche di molte trasfusioni.
101
Già alla 24^ settimana la crescita del feto aveva subito un
rallentamento di circa 15 giorni.
Appena due settimane dopo,alla 26^, il valore dell’emoglobina raggiunse livelli così preoccupanti che furono necessarie
diverse trasfusioni ed infusioni farmacologiche in regime di
ricovero.
Il quadro clinico migliorò ma, dopo altre due settimane, un
nuovo calo preoccupante dell’emoglobina, una severa alterazione degli esami di laboratorio con grave ipocalcemia, iposideremia, ipopotassiemia, e un’importante alterazione anche
dei parametri della coagulazione, consigliarono un nuovo ricovero.
Eravamo alla 28^ settimana, ancora troppo presto per far
nascere quella bambina, che nonostante tutto cresceva, lentamente, ma cresceva!
Per fortuna la situazione clinica migliorò nuovamente, i parametri di laboratorio sembrarono normalizzarsi.
Tra alti e bassi giungemmo alla 32^ settimana, e questa volta
fu la bambina a richiamare la nostra attenzione.
Adesso era lei che risentiva di quel metabolismo così alterato e precario, infatti le sue misure corrispondevano alla 28^
settimana.
Non si trattava più di una crescita lenta, stavolta sembrava
proprio che non crescesse più.
Nuovo ricovero quindi, per un monitoraggio continuo delle
condizioni fetali.
I giorni passavano e la situazione sembrava stazionaria, comunque non peggiorava. Ed ogni giorno serviva ad aumentare la maturità polmonare di quella bambina, necessaria per
sperare nella sua sopravvivenza a prescindere dal suo peso. In
questi casi l’incremento di peso diventa un dato irrilevante.
Incredibilmente passarono altre due settimane, e questa volta gli esami di laboratorio evidenziarono la complicanza più
temuta: la gestosi.
A questo punto è imprescindibile per il buon esito della gravidanza stabilire il “timing” del parto.
Decidemmo infatti, dopo l’ennesima trasfusione, di far nascere la bambina!
102
Pesava soltanto 1600 gr., ma stava bene. Anche la mamma,
dopo le prime ore e i primi giorni di grande preoccupazione cominciava a stare bene. Ancora una volta scorgevo negli
occhi dei genitori una felicità infinita: quella di cui parlavo
all’inizio di questa storia.
103
Prof. Giuseppe leopizzi
Spec. Chirurgia plastica
Spec. Chirurgia maxillo-facciale
Spec. Otorinolaringoiatria
Oggi si fa un gran parlare di quanto la chirurgia estetica possa essere utile, superflua o addirittura dannosa! Il tutto non
può essere ridotto a favorevoli o contrari, perché molte sono
le sfumature che possono far pendere l’ago da una parte o
dall’altra. Solo da un accurato colloquio medico‑paziente possono scaturire le vere motivazioni che spingono alla richiesta
di questo particolare tipo di chirurgia. Alcune volte esse risiedono nell’insoddisfazione e frustrazione della vita quotidiana,
da cui può nascere l’illusione che un cambiamento del proprio
aspetto possa cambiare tutto il resto della propria vita. Questa
speranza è, ovviamente, destinata ad essere disillusa da qualsiasi intervento, aumentando inevitabilmente le frustrazioni
preesistenti, sono questi i casi che non devono essere operati!
Qualche tempo fa è arrivata nel mio studio una signora non
più giovane, vestita in modo vistoso e mi ha detto sedendosi:
Ora basta, ho deciso di dare una svolta alla mia vita. Rovistando in una voluminosa borsa ha cominciato a tirar fuori
ritagli di giornali ed ha aggiunto: ora le spiego cosa mi deve
fare. Alcuni dei ritagli parlavano di cose sensate, mentre i più
parlavano di tecniche o prodotti fortemente criticabili dal
punto scientifico e sicurezza. Quando provai a spiegare che
quella cosa era scorretta o quell’altra non era indicata nel suo
caso, mi guardò con aria scettica dicendo: ma guardi, è scritto
sul giornale. E qui tocchiamo il dolente tasto della pubblicità
che condiziona in modo negativo le scelte dei pazienti. Crea
spesso aspettative irrealistiche e spinge verso l’uso di tecniche
non corrette! È necessario che la scelta del chirurgo plastico
venga fatta con gli stessi criteri con cui scegliamo un altro genere di medico. Andremmo mai da un cardiologo solo perché
abbiamo letto una pubblicità in cui ci assicurano che avremo
un cuore sano ed esente da mali d’amore? Quindi informia104
moci da conoscenti soddisfatti o rivolgiamoci all’associazione
di categoria, per essere sicuri d’incontrare un professionista.
Questo non ci metterà al riparo totalmente da rischi, sempre
insiti in un intervento chirurgico, ma ridurrà le probabilità di
andare incontro ad una brutta avventura.
La maggior parte dei pazienti giunge al colloquio con il medico con idee piuttosto chiare, attribuendo al difetto estetico
che li affligge il giusto valore.
Nella mia esperienza ho visto molte persone in cui un cambiamento estetico ha determinato la scomparsa d’insicurezze,
aumentando la fiducia in se stessi e la comunicativa col mondo, che è il punto di partenza per la gioia di vivere. Un genitore mi telefonò dopo qualche mese che avevo sottoposto ad
intervento la figlia diciottenne per delle orecchie a ventola.
Mi disse che non la riconosceva più e non riusciva più a controllare la sua esuberanza. Prima era una ragazza riservata e
chiusa, dopo l’intervento, improvvisamente, era come esplosa, piena di idee ed attività, in continuo movimento. Un’altra
signora quarantenne, con il seno molto svuotato dopo due
gravidanze, aveva rischiato di mettere in seria crisi il proprio
matrimonio, perché aveva vergogna a farsi vedere svestita dal
proprio marito, anche nei momenti più intimi. Dopo un intervento d’inserimento di protesi mammarie mi confidò: io e
mio marito siamo molto contenti del risultato!
Sono queste le esperienze che giustificano la chirurgia estetica, da qualcuno ritenuta erroneamente superflua; essa ha
la capacità di liberare da antichi complessi i pazienti e dona
gratificazione al chirurgo, conscio di contribuire con la sua
opera non solo ad un miglioramento dell’estetica, ma anche al
miglioramento della qualità della vita del suo paziente.
105
DOTT. ALESSANDRA DI PAOLA
Dietista
Libero professionista roma
cell. 3475982144
E mail: [email protected]
Ai tempi d’oggi si parla ovunque di alimentazione, di calorie, di cibo “buono” e cibo “cattivo”, di “magrezza” come
ideale da perseguire a tutti i costi. In un contesto del genere,
poche sono le persone che realmente non sanno come dovrebbe essere una corretta alimentazione, eppure l’obesità è
un fenomeno in continuo aumento, soprattutto nel mondo
occidentale.
C’è da dire che l’obesità è una vera e propria patologia, in cui
concorrono diversi fattori: socio-culturali,genetici,psicologici.
In ambito socio-culturale, sicuramente in questi anni hanno svolto un ruolo fondamentale i mass media, lanciando dei
modelli estremi e categorici, una realtà dove l’aspetto estetico
è tutto, dove l’essere magri o meno diventa metro di giudizio
personale più assoluto, più che lo stare bene con se stessi.
L’ideale di “magrezza” viene così perseguito morbosamente
con cibi e bevande ipocaloriche, calcoli di calorie, meticolose
grammature, continui controlli di peso e diete restrittive perenni, che però non danno alcun risultato.
Ed ecco che il cibo non viene più vissuto serenamente. Talvolta può essere visto come “nemico” da sconfiggere, al quale
dover resistere, talvolta diventa un vero e proprio rifugio da
mancanze affettive, interiori (nella diceria “mangiare cioccolato in mancanza di affetto”c’è del vero!). Entrano quindi in
gioco fattori psichici, spesso importanti, che danno inizio a
un circolo vizioso dal quale può essere veramente difficile
uscire senza un adeguato supporto psicologico.
Poi ci sono anche ,come detto prima, fattori genetici che,
influendo sui meccanismi deputati alla regolazione del tessuto
adiposo, ne alterano il metabolismo, favorendo una condizione di obesità spesso importante e difficile da trattare.
Bisogna tener conto, insomma, di tutte le problematiche
106
che hanno portato a quella determinata condizione di obesità
o sovrappeso, nello stilare un piano terapeutico adeguato alla
risoluzione del problema.
In generale in quanto Dietista posso dire che, tranne per
quei soggetti con obesità patologica francamente importante
e che hanno concomitanti complicazioni dovute a questa, la
terapia dietetica, insieme ad una regolare attività fisica, rappresenta il trattamento di primaria importanza nella prevenzione e nella cura del sovrappeso e dell’obesità.
Da qui l’importanza della “dieta”, non intesa semplicemente come dieta dimagrante, ma come insieme di tutte quelle
sane abitudini non solo alimentari, ma anche di vita, per la
propria salute prima di tutto, per il benessere dell’organismo,
il che aiuta ad essere in armonia con se stessi. La dieta non
dev’essere vissuta come una camicia di forza che ci si cuce
addosso per ottenere a tutti i costi una taglia 40, ma dev’essere
uno “stile di vita” sano e naturale atto al proprio benessere
psico-fisico.
È ormai accertato infatti, che la maggiore causa di tumore
sta proprio nell’alimentazione, seguita dal fumo e l’inquinamento. Questo dato è spiegabile sia con il fatto che nel cibo
che noi mangiamo,oramai per questione di business e/o comodità, vengono aggiunte delle sostanze che talvolta possono
interagire negativamente con il nostro organismo, sia perché,
per mancanza di tempo, ritmi di vita frenetici, stress, motivi
psicologici, si segue un’alimentazione sbagliata.
Una buona dieta associata ad una regolare attività fisica (anche moderata, come camminare a passo spedito almeno 30
minuti al giorno) aiuta a mantenersi tonici, con un metabolismo attivo, e a rafforzare le difese immunitarie; di conseguenza l’organismo si mantiene giovane ed elastico più a lungo,
migliorano la performance e la qualità di vita.
Per questo motivo è bene essere educati sin da piccoli alle
corrette abitudini alimentari: un bambino obeso o in sovrappeso, che passa in media 4-5 ore al giorno davanti alla Tv o ai
videogiochi, ha molta più probabilità di essere un futuro obeso nell’età adulta rispetto a uno normopeso che pratica sport.
In più, sarà maggiormente esposto a tutte quelle patologie
107
correlate all’obesità, anche sin dall’infanzia: ipertensione, insulino-resistenza, iperlipidemia, rischio cardio-vascolare ecc...
Ma in cosa consiste una sana alimentazione?
Tutt’oggi esistono milioni di diete differenti in circolazione, dalle più conosciute (la dieta “a zona”, la “dissociata”, l’
“iperproteica”, la vegetariana ecc.) alle più disparate (dieta
della banana, la “Beverly Hills”, dieta del gelato ecc.), ma tra
tutte queste la più completa, oltre che efficace anche a lungo
termine, rimane sempre la nostra “mediterranea”. Non necessariamente infatti per fare dieta bisogna togliere pane e pasta,
basta semplicemente non abbondare. Quindi, in termini pratici, è bene compiere 5 pasti al giorno: 3 principali (colazione,
pranzo e cena), e 2 spuntini (a metà mattina e metà pomeriggio), senza omettere nessun alimento, dando spazio al consumo di cereali integrali e verdura per il buon contenuto di fibra,
che ha molteplici effetti benefici sull’organismo. Preferire il
consumo di carni bianche ed incrementare quello di pesce,
almeno 3-4 volte la settimana. Tutto ciò, come detto prima,
correlato a una regolare attività fisica.
Con delle piccole accortezze si può dimagrire o mantenersi
in linea, in modo sano senza soffrire la fame e senza ricorrere
alla Chirurgia Bariatrica (laddove non ci sia una condizione di
obesità grave e patologie correlate rischiose).
Basta avere la volontà!
108
Indice
Il peso di esser stata pesante
11
Presentazione
13
Introduzione
17
25
43
61
71
Capitolo I – Obesità
Capitolo II – I miracoli esistono
Capitolo III – Un giorno di giugno
Capitolo IV – Non ricominciare a vivere
Capitolo V – La vita dentro
93
Nota dell’autrice