Paolo Maurensig: il fantastico come lettura della modernità
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Paolo Maurensig: il fantastico come lettura della modernità
OLTRE LA FRONTIERA: IL FANTASTICO NELL’OPERA DI PAOLO MAURENSIG di Maria Grazia Cossu 1. Alcune note di lettura Benché la critica1 non abbia ancora opportunamente esplorato la produzione letteraria di Paolo Maurensig (Gorizia, 1943), egli appare già uno degli scrittori più interessanti e prolifici del panorama italiano2 degli ultimi anni. Ex agente di commercio con la passione della musica e degli scacchi, approda alla scrittura a cinquant’anni giungendo a confezionare una decina di romanzi in poco meno di vent’anni di attività. Le sue narrazioni presentano delle trame articolate e di grande suggestione nelle quali l’azione principale, dai contorni misteriosi e sfuggenti, è spesso ambientata nello scenario mitteleuropeo durante il nazismo. La struttura di queste opere esibisce quasi sempre certe procedure formali tipiche del genere fantastico3, alcune delle quali riprese dalla tradizione ottocentesca come la presenza di un narratore onnisciente e il frequente ricorso a un impianto metadiegetico più complesso (racconto di racconto), con l’alternanza di una pluralità di voci narranti, quasi sempre in prima persona, protagonisti e testimoni che, in qualità di mediatori di realtà, garantiscono la veridicità della vicenda. Altri elementi ricorrenti sono: la rappresentazione rigorosa di eventi riconducibili al sovrannaturale; il medium dell’espressione artistica (musica, scrittura, pittura), e della tecnica (scacchi, fotografia, scienze); la caratterizzazione ambivalente dei personaggi attraverso il tema del doppio; la presenza di un paesaggio straniante dalla forti connotazioni simboliche; l’esistenza di un sovrasenso allegorico espresso attraverso richiami intertestuali e citazioni apparentemente occasionali che riportano il significato ultimo del romanzo verso tematiche universali. L’immaginario di Maurensig sembra spaziare dalle grandi firme del fantastico 4 ottocentesco (Hoffmann, Poe), ai grandi scrittori italiani e mitteleuropei del Novecento 1 Claudia Provenzano, Avventure di carta: scrittori italiani dal 1979 al 1993, Alpha & Beta, 1994, pp. 337-342. Filippo La Porta, La nuova narrativa italiana. Travestimenti e stili di fine secolo, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 79-83. 2 Fra le storie della letteratura, compare in Eugenio Ragni, Toni Iermano, Scrittori dell’ultimo Novecento, in Storia della letteratura italiana, a cura di Enrico Malato, Salerno Editrice, Roma 2000, vol. IX, pp. 1138-1139. Giulio Ferroni, Quindici anni di narrativa, in La letteratura Italiana. I Contemporanei, De Agostini, Milano 2005, vol. XX, p. 453. 3 Si rimanda a Tzevetan Todorov, La letteratura fantastica, trad. it., Garzanti, Milano 1988, Remo Ceserani, Il fantastico, Il Mulino, Bologna 1996. 4 Claude Imberty, Maurensig où le phantastique deconstruit, in Dino Buzzati d’hier et d’aujourd’hui. A la memorie de Nella Giannetto, a cura di Angelo Colombo e Delphine Bahuet Gachet, Presse universitaire de Franche Comtè, Besançon 2009, pp. 35-47. 1 (D’Annunzio, Pirandello, Svevo, Landolfi, Mann, Roth, Kafka), dai quali egli ricava atmosfere, descrizioni minuziose e acute analisi introspettive, ma anche una predilezione per certe situazioni conturbanti e ossessive che lasciano intravedere, al di là della realtà rappresentata, un universo oscuro e misterioso che sovrasta gli slanci e le azioni dell’uomo. L’autore predispone con cura questo secondo livello della narrazione e sospinge i personaggi a interessanti riflessioni sui grandi interrogativi di ogni tempo: il bene, il male, l’amore, la morte, l’immortalità, la conoscenza. Tale livello sovrasensibile si apre in maniera palese anche ad un lettore medio che, guidato dai riferimenti disseminati nel testo, riesce a cogliere certe analogie e a scoprire il versante sotterraneo del discorso letterario messo a punto dall’autore e, soprattutto, l’intento allegorico delle sue opere che prediligono certi moduli stilistici del romanzo storico e fantastico. Per questi caratteri, la produzione di Maurensig si colloca fra le espressioni contemporanee del fantastico5 che Stefano Lazzarin ha descritto anche nel saggio Il punto sul fantastico italiano: 1980-20076, nel quale richiama gli interventi più recenti che la critica ha dedicato a questo genere. Riconducibile per impianto narrativo alle scritture del postmoderno7, l’opera di Paolo Maurensig suscita grande interesse anche per la lingua sobria e minimale di cui si avvale che, coniugando la salvaguardia delle norme, l’eleganza della forma e l’efficacia della rappresentazione, riesce a rinnovare gli stilemi della comunicazione letteraria adattandola alla modernità. Inoltre, come accade in certi romanzi ottocenteschi, la costruzione dell’intreccio sembra esplicitarsi intorno a una tesi fondamentale ricca di implicazioni metaforiche e di riflessioni che rivelano il vasto campionario di interessi, atteggiamenti ed esperienze esistenziali sui quali l’autore fa convergere la propria attenzione. Infatti, egli propone un’interessante contaminazione di motivi e tematiche relative ad ambiti culturali e artistici distinti (filosofia, psicologia, storia, musica, pittura, scienze, esoterismo), che poi innesta in maniera intertestuale sulle sue opere. L’esordio letterario avviene negli anni Sessanta con i quattro racconti della raccolta di I saggi fiori8 nei quali, come osserva Alessandra Santi9, è già evidente la presenza di 5 Stefano Lazzarin, Il modo fantastico, Laterza, Roma-Bari 2000. Stefano Lazzarin, Il punto sul fantastico italiano: 1980-2007, «Moderna», 2007, n. 2, pp. 215-252. 7 Si vedano Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997, e Matteo Di Gesù, La tradizione del postmoderno e studi su letteratura italiana contemporanea, F. Angeli, Milano 2003. 8 Paolo Maurensig, I saggi fiori e altri racconti, Ippocampo, Milano 1964. 9 Alessandra Santi, Paolo Maurensig: uno sguardo sul nuovo mondo. Gli esordi e i modelli letterari, «Il Lettore di Provincia», 2007, n. 128, pp. 37-44. 6 2 alcuni autori del realismo americano: oltre al prediletto Poe, l’autore friulano si accosta a Faulkner ed Hemingway. La caratteristica di maggior interesse di Maurensig è però la sua capacità di ancorarsi al passato per raccontare il presente dando volto al senso di precarietà e ai suoi fantasmi e ciò è evidente nel continuo ricorso al perturbante che spezza la narrazione e conduce il lettore verso una cesura di senso al di là della quale si colloca un’inquietante limen fisico e metaforico. La rappresentazione angosciosa di questa dimensione e il desiderio di oltrepassarla per esplorare aree interdette costituiscono certamente una vera e propria metafora ossessiva 10 che, pur con aspetti diversi, è presente in tutta la produzione di Maurensig, proprio perché dolorosamente radicata anche nella memoria e nell’immaginario dell’autore, testimone dell’orrore del filo spinato che a Gorizia, sua città natale, dal secondo dopoguerra e per oltre mezzo secolo, ha separato la frontiera italo-slava. Per valutare la forza e persistenza di tale immagine i cui contorni, inconfondibili, riprendono vita in molte pagine dei suoi romanzi, si può richiamare un articolo dal titolo Quando ripenso a quel filo spinato, comparso sul quotidiano “La Repubblica” nel quale Maurensig ricorda il momento in cui, da bambino, vede per la prima volta quel confine: Una matassa dipanata di filo spinato ti impediva di proseguire, e sembrava proprio che il mondo stesso finisse in quel punto e che oltre non ci fosse più nulla (…) Ecco dove finisce il mondo, nessuno sembra sapere che cosa ci sia oltre quel filo spinato (…). Con il tempo, l’immagine del confine si era fatta familiare, persino le sentinelle armate di moschetto e con i berretti di pelo non mi parevano più così minacciose (…). Quel luogo l’ho rivisto di recente (…) Non c’erano più i reticolati, eppure il confine restava ancora. I confini sono come ferite che quando si rimarginano lasciano visibile una cicatrice11. In un’altra intervista Maurensig precisa le conseguenze personali e culturali indotte da questa condizione: negli anni ’50 questo limite era vissuto come un muro che divideva due nazionalità, era come una cortina di ferro. Ho vissuto personalmente questa doppia anima già sui banchi di scuola, avendo iniziato i miei studi nelle scuole italiane e avendoli proseguiti poi in quelle slovene. (…) Ma io non ho mai vissuto questa divisione in modo traumatico come altre 12 persone: mi sento goriziano, italiano e nello stesso tempo sloveno. 10 Si veda Charles Mauron, Dalle metafore ossessive al mito personale. Introduzione alla psicocritica, Il Saggiatore, Milano 1966. 11 Paolo Maurensig, Quando ripenso a quel confine, La Repubblica, 28 aprile 2004, p. 37. 12 L’intervista intitolata Paolo Maurensig: un racconto cosmopolita, si legge in Alfonso Angelillo, Antonio Angelillo, Chiara Menato, Città di confine: conversazioni su Gorizia e Nova Gorica, Nuova Dimensione Edizioni, 1994, pp. 145-153, p. 146. 3 La frontiera è dunque luogo di incontri e contatti, via d’accesso e di osmosi culturale di cui è rimasta traccia nella vocazione cosmopolita dell’autore: vivere sul confine orientale gli ha permesso di affacciarsi sulla cultura mitteleuropea recepita profondamente inconsciamente, sin dall’infanzia nella suggestiva e continuamente riproposta, ambientazione dei forse romanzi, anche immersi nell’inconfondibile atmosfera dei luoghi che persistono immutati nella memoria: esiste un certo fascino mitteleuropeo che attira inconsciamente il goriziano verso l’area austriaca: i viaggi a Salisburgo, Graz, Vienna, sono una costante nel diario turistico di tutti i goriziani… ma c’è dell’altro: una forma di eredità culturale (si pensi al ghetto di Gorizia), che ci è stata sottratta a viva forza, estirpata con violenza e a cui si pensa come alla morte di una persona con cui si convive da lungo tempo (…) e che ora non c’è più e di cui, in fondo all’animo conserviamo solo il rimpianto.13 Senza dubbio, la dimensione concreta di uno spazio liminare ha anche prodotto in Maurensig un sentimento di esclusione e di assenza e le sue narrazioni ripropongono in chiave metaforica indecifrabili esperienze di confine: quello interiore, che separa l’arte dalla vita o la realtà dal sogno e dalla finzione, dove i personaggi si affacciano ripetutamente a soglie invalicabili o precluse ai più, mentre le vicende ripropongono ossessivamente i medesimi luoghi e un uguale destino, incerto e misterioso. 2. I romanzi Soggetto del primo romanzo, La variante di Lüneburg14 del 1993, è il gioco degli scacchi che trasfigura la vicenda sul piano metafisico15, traducendola nella perenne lotta tra il bene e il male descritta in maniera analoga anche da Boito nel racconto L’alfiere nero. Ambientato a Vienna, Maurensig affida il racconto a tre voci narranti: l’anziano Frisch, appassionato scacchista, direttore di una rivista specializzata e collezionista di preziose scacchiere; il giovane Hans, campione di scacchi conosciuto casualmente in treno, e Tabori, un ebreo inventore della “variante di Lüneburg” e avversario in gioventù di Frisch il quale, purista del gioco, disapprova questa mossa che prevede «il sacrificio di un cavallo in cambio di due soli pedoni» (VL, 26), in quanto pone l’avversario in una incerta condizione di difesa. 13 Ivi, p. 147. Paolo Maurensig, La variante di Lüneburg, Adelphi, Milano 1993, 20066. Le citazioni tratte da questo romanzo saranno indicate con VL. L’opera ha ricevuto numerosi riconoscimenti: è stato vincitore del Premio letterario Giuseppe Berto, Premio Procida, Premio Isola di Arturo - Elsa Morante, e del Premio letterario Pen Club italiano. 15 Si veda D Mangano, Sostiene Tabori: tematica dell’impegno in La variante di Lüneburg di P. Maurensig, in Marie Hélène Caspar (a cura di ), Scrittori degli anni novanta, Narrativa, 12 Universitè Pars X, Parigi 1997, pp. 51-66. 14 4 Il romanzo è il resoconto dell’ossessiva rivalità sorta mezzo secolo prima fra i due campioni, un conflitto proseguito a lungo anche nel campo di concentramento di Lüneburg fra l’aguzzino e la sua vittima, e giunto finalmente alla sua conclusione solo con la morte dell’uomo. L’ambientazione storica richiama dunque il tema della follia16 della Shoah, secondo l’interpretazione di Véra Terekhova che accosta gli scacchi alla follia proprio nella mossa vincente denominata “scacco matto”. Fra le regole tecniche e psicologiche del gioco, l’ebreo insiste sulla necessità di mantenere sempre estrema freddezza, lucidità e concentrazione, cosa che può avvenire solo se la posta in palio è di grande valore come «la tua stessa vita, o meglio (…) quella delle persone che ti sono più care» (VL, 58). L’attenzione, prescinde dunque dall’abilità tecnica ma investe la sfera psichica del giocatore sulle cui azioni grava il peso di una responsabilità universale: è questo il «tasto metafisico» (VL, 63) che Maurensig pone a fondamento del suo romanzo e che coinvolge ogni ambito dell’esistenza umana «chi ci può infatti assicurare con certezza che il nostro comportamento, o anche soltanto il nostro pensiero, non provochi inconsapevolmente delle catastrofi?» (VL, 63). In casa di Tabori, su un piccolo altare, sono esposte una quarantina di fotografie che mostrano «un numeroso parentado» (VL, 65), individui di varie fisionomie e nazionalità che hanno subito un’inaudita violenza, evidente perfino sulla carta che appare «sofferta, accartocciata, ferita, macchiata (…) di fango o di sangue» (VL, 65). Il romanzo raggiunge la sua massima tensione quando lo stesso Tabori rievoca la vita nel campo di sterminio, l’orrore del filo spinato e l’angoscia della morte, perché le partite che egli era costretto a giocare con Frisch avevano in palio il bene più prezioso presente nel campo, e cioè la vita umana, quella dei compagni di cui conserva le fotografie per il rimorso di aver «giocato agli scacchi la loro vita» (VL, 157). Il titolo del romanzo Canone inverso17, del 1996, allude ad un virtuosismo musicale frequente nella polifonia, nel quale la melodia viene eseguita ripetutamente invertendo la successione delle sue sequenze. L’opera evidenzia numerose analogie con alcuni racconti di soggetto musicale di Hoffmann incentrati sulla raffigurazione del demone della musica, nei quali il labile confine fra fantasia e realtà sembra intrecciarsi ed eludersi continuamente. Allo stesso 16 Sulla rappresentazione della follia come metafora della mossa vincente denominata “scacco matto” si veda la lettura comparativa offerta da Véra Terekhova, La diagonale du fou, èspace de l’échec? La défense Loujine (Nabokov, 1930), Le Joueur d’échiec (Zweig, 1942), La variante di Lüneburg (Maurensig, 1995), in Juliette Vion Dury (a cura di), Littérature, l’espace, Actes du XXXe Congrèe de SFLGC, (Limoges, 20-22 settembre 2009), Presse de l’Universitè de Limoges, 2003, pp. 189-200. 17 Paolo Maurensig, Canone inverso, Mondadori, Milano 1996, 200613 . Le citazioni da questo romanzo saranno indicate con CI. Dal romanzo è stato anche tratto un film diretto da Ricky Tognazzi. 5 modo, Maurensig elegge la musica a sublime ossessione in grado di scatenare la follia e l’epifania del fantastico: infatti, alcuni particolari della biografia del protagonista, Jenö Varga, (nome che evoca quello del grande violinista Jenö Hubay vissuto negli stessi anni in Ungheria), richiamano analoghe suggestioni presenti ne Il cavalier Gluck18 mentre, le misteriose evocazioni prodotte dal suo violino riecheggiano quanto accade al violino di Cremona, nel racconto Il Consigliere Krespel19. Soggetto della vicenda, che dagli anni Venti attraversa tutto il Novecento, è un prezioso violino tirolese del Seicento con una testina antropomorfa raffigurante il demone della musica, con un volto grottesco e feroce, dai lunghi baffi spioventi e la bocca spalancata in una smorfia indecifrabile di dolore o di maledizione. Il racconto alterna due voci narranti, la prima delle quali chiude anche il romanzo rivelando la propria identità. Dopo aver acquistato il violino ad un’asta londinese, il narratore riceve la visita di uno scrittore che gli racconta la storia dello strumento e le vicissitudini del suo possessore, un musicista ungherese di straordinario talento, Jenö Varga, da lui incontrato l’anno prima a Vienna e del tutto somigliante alla figurina sullo strumento: «portava vistosi baffi grigi e spioventi (…) gli occhi spiritati e una mimica da teatrante (…) sembrava un guitto scaricato da un carrozzone d’altri tempi» (CI, 21). Figlio naturale di una donna di umili origini e di un soldato che le aveva lasciato in dono il violino, sin da bambino Jenö si sente affascinato dallo strumento e a sette anni comincia a suonarlo. Quindi perfeziona gli studi in un prestigioso istituto in cui vige una ferrea disciplina e in cui conosce Kuno Blau, un coetaneo molto somigliante ma di nobile famiglia, che lo invita a trascorrere l’estate al loro castello tirolese dove la vicenda assume caratteri inquietanti, sconfinando nel sogno e nel mistero. Quest’amicizia violenta e morbosa, che rimanda alla raffigurazione del doppio diffusamente presente nell’opera di Hoffmann20, diviene nel tempo una personificazione del canone inverso: volevo riconoscermi in lui, ma ero costretto continuamente a confrontarmi. Era, il nostro, un rapporto dai contorni sfuggenti, dalle regole incomprensibili (…) ciò che aveva trovato il suo supremo compimento nella folgorazione iniziale, aveva già cominciato da tempo la sua corsa retrograda, il suo conto alla rovescia, o, se vogliamo usare un termine musicale: il suo canone inverso (CI, 125). 18 Il cavalier Gluck si legge in Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, Il Vaso d’oro. Pezzi di fantasia alla maniera di Callot, Einaudi, Torino, pp. 9-18. 19 Il consigliere Krespel si legge in Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, Racconti, Utet, Torino 1981, pp. 147-176. 20 Si veda Claudio Magris, Tre studi su Hoffmann, Milano-Varese, 1969. 6 Il romanzo indugia sulla cupa atmosfera del castello, i sotterranei e le torri - forse ispirati a Il castello d’Otranto di Walpole – che nascondono presenze conturbanti e inconfessabili segreti di famiglia materializzatisi di fronte al ritratto giovanile del conte Blau che tiene in mano il violino di Jenö, un cimelio di famiglia ritenuto perduto durante la guerra, quando il conte prestava servizio nel paese d’origine del ragazzo. Maurensig tesse dunque due vicende parallele ed inspiegabili che solo l’esistenza del violino sembra collegare insieme, ma in fondo il romanzo risulta incentrato «sulla vita e la morte, ovvero sulla ricerca dell’immortalità» (CI, 119), ampiamente dibattuta dai vari personaggi. Per Jenö Varga la musica è l’essenza stessa dell’immortalità ma ritiene che essa sia destinata solo a coloro che raggiungono la perfezione musicale, mentre per Kuno e la sua famiglia l’immortalità deve invece intendersi «come continuità, come memoria della schiatta» (CI, 135), una condizione di esaltazione legata alla certezza di avere ereditato nobili natali e un glorioso passato in grado di preservare la famiglia dall’anonimato e dall’oblio. Kuno condivide quest’atteggiamento aristocratico sicuro che un destino imminente21 avrebbe sconvolto la storia «Il passato si stava ridestando (…) chiamava a raccolta gli eletti» (CI, 121). Estrapolate dal loro contesto e collocate nel clima politico-culturale degli anni Trenta, tali affermazioni preannunciano l’avvento di masse inneggianti la superiorità della razza ariana. In questo modo Maurensig riconduce il romanzo all’epoca che più di tutte ossessiona la sua scrittura e proietta nella scena dell’assalto al teatro di Vienna l’inizio della stagione nazista, segno che nel mondo non vi è più posto per la musica e che la grandiosa civiltà mitteleuropea si sta ormai dissolvendo sotto l’indifferenza del mondo. L’ombra e la meridiana22 (1998) è un romanzo inconsueto e dai toni pirandelliani che trae spunto dalla passione dell’autore per la fotografia e indaga in chiave estetica il rapporto con la letteratura23, secondo riflessioni e concetti già espressi da Barthes e Sontag24. In particolare, Maurensig considera le varie analogie fra occhio umano e obiettivo fotografico «ciò che si svolge sotto i miei occhi è lo stesso processo che avviene dentro di noi» (OM, 14), perché in entrambi i casi l’individuo mette a fuoco dei frammenti 21 Claude Imberty, Paolo Maurensig: Canone inverso ou les jeux de l'étrange et du hasard in ITALIES, 2005, 9, pp. 283-304. 22 Paolo Maurensig, L’ombra e la meridiana, Mondadori, Milano 1998. Le citazioni tratte da questo romanzo saranno indicate con OM. Per una scheda sul romanzo si veda Giorgio Caproni, Giudizi del lettore: pareri editoriali, Il melangolo, 2006, pp. 58-59. 23 Su questi temi si veda Anna Dolfi (a cura di), Letteratura & fotografia, Bulzoni, Roma 2005. 24 Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980; Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 20043 . 7 parziali di realtà, sottratti al divenire e consegnati ad una memoria umana o tecnologica che «dissangua (…) il flusso della vita stessa» (OM, 15), e la fissa in una forma irreversibile. Il romanzo esplora dunque il labile confine fra realtà e rappresentazione: le immagini affioranti dalla camera oscura sono prive di vita «come se dal fondo di uno stagno mi venisse incontro il cadavere di un annegato» (OM, 15), e quando fungono da aide à mémoire, assumono la forma di entità effimere e confuse «fantasia e memoria, fatti reali e immaginari…ogni cosa si fonde nell’altra e si dissolve come nuvolaglia in corsa» (OM, 15), dando luogo a ricordi apparentemente definiti e conclusi che l’individuo considera esperienze reali del proprio vissuto. L’ombra e la meridiana allude inoltre allo scorrere del tempo - rappresentato emblematicamente attraverso gli strumenti con i quali esso si misurava nell’antichità - e alla possibilità che l’immagine fotografica riesca a bloccare la folle corsa della vita. Io narrante e protagonista della vicenda è un fotografo che, separatosi da una moglie molto più anziana capace di stringerlo «con le sue braccia materne» (OM, 93), vive in una modesta locanda di provincia. L’apparecchio è ormai divenuto per il professionista un’appendice irrinunciabile con cui esplorare il mondo e l’umanità, per cogliere il lato oscuro di ogni esistenza, i disagi e i dissapori che si nascondono dietro ogni apparente felicità coniugale. Come accade a Serafino Gubbio, anche il protagonista considera la macchina un «prolungamento della (…) persona, un organo sussidiario della vista, della memoria» (OM, 9), anzi, ai suoi occhi, la fotografia ha il potere di demolire l’istituzione familiare smascherando finzioni e ipocrisie e catturando, invece, i sentimenti autentici del soggetto. Per questo, il fotografo ha accumulato un archivio segreto che raccoglie le controprove di quella «mielata menzogna» (OM, 19), con la quale le persone celano la loro vera natura. In particolare, il fotografo è attratto morbosamente da un vecchio violinista, lo zio Eugenio, divenuto il soggetto di scatti impietosi che documentano il decadimento fisico e mentale dell’ uomo che in passato è stato suo patrigno e lo ha privato dell’affetto della madre, verso la quale nutriva un complesso edipico. Accanto al violino, già oggetto magico di Canone inverso, l’elemento perturbante di L’ombra e la meridiana è però l’occhio del fotografo in grado di percepire la presenza stessa della morte, mimetizzata fra gli abiti «come un ingombrante piumaggio» (OM, 67). Il romanzo indaga dunque la differenza fra immaginazione e memoria psichica e fotografica, anche se per il narratore tutto finisce per coincidere: «in un punto 8 immaginazione e ricordo si fondevano per essere una cosa sola, e parte del passato si materiava nel presente come lo spirito nel corpo di un medium» (OM, 40). Dopo la morte del vecchio, il protagonista brucia tutte le fotografie per cancellarle dalla vista e dalla memoria e si appresta a partire dalla locanda, ma questa appare ormai disabitata e immersa in un’atmosfera allucinata: mentre infuria un’interminabile pioggia e la meridiana procede inarrestabile il suo moto, il personaggio sembra ormai perdere consistenza indugiando verso l’ora estrema privo di forze e della nozione del tempo. Il titolo del quarto romanzo, Venere lesa25 (1998), allude a una configurazione astrologica in cui Venere si trova in una posizione sfavorevole che può indurre situazioni negative come invidia, disordine, sfrenata sensualità. Il romanzo, ambientato in una imprecisata città italiana, è infatti incentrato sui moti del cuore e sulla pluralità di esperienze e sentimenti contrastanti che compongono la relazione amorosa sommariamente elencati nell’epigrafe di Péladan: passione, lussuria, desiderio, sfrontatezza, dissimulazione. Il narratore, un giovane scrittore che ha vissuto alcuni mesi nella villa, a distanza di anni rievoca i dettagli di quella pirandelliana comèdie humaine, sopravissuta intatta nella sua memoria come «un’interminabile pellicola che si dipana nel tempo» (VLS, 23), dispiegando le contraddizioni dell’esistenza. Gli altri protagonisti del racconto sono due coppie che si incontrano nella villa gentilizia - molto simile, per il parco e il campo da tennis, alla Magna Domus dei FinziContini - e dove si svolge un’esistenza effimera e solitaria, nonostante l’apparente vivacità dei suoi numerosi ospiti: il professor Ermes Deravines, biologo di fama e marito della giovane e inquieta Angèle, donna dotata di una fisicità fragile eppure sconvolgente «lui usciva da un naufragio, e io ero un’isola rigogliosa» (VLS, 20). Una moglie bambina, un po’ figlia e un po’ amante, consapevole di desiderare altri uomini perché il desiderio è l’unica «forza che sostiene e orchestra la nostra vita» (VLS, 23), e per questa compagna Deravines è disposto ad assumersi un ruolo faustiano ingrato e pericoloso: «recitavo la parte di Mefistofele: le lasciavo libero il corpo, riservandomi il possesso dell’anima» (VLS, 18); trofeo illusorio dato che pure l’anima, a volte, può beffarsi del diavolo e non appartenergli più, come accade sotto l’influsso di una “Venere lesa”, capace di distruggere la routine coniugale con scandali e gelosie. 25 Paolo Maurensig, Venere lesa, Mondadori, Milano 1998. Le citazioni tratte da questo romanzo saranno indicate con VLS. 9 La seconda coppia è formata da Flora, figura evanescente e sbiadita, promettente violinista un tempo amante di Ermes, e Giulio Colombi, vanitoso poeta quarantenne corteggiato dalle donne e proprietario della villa in cui vive anche la sua anziana madre, quasi «mummificata, immobile a galleggiare nel tempo» (VLS, 28), come un pezzo pregiato in un museo. Nel romanzo aleggia un’atmosfera di diffuso pessimismo e di chiusura alla vita che avvolge ciascun personaggio, e anche il narratore, a sua volta innamorato di Flora, abbandona progressivamente il ruolo iniziale di testimone lasciandosi assorbire dalle trame del gioco amoroso, incapace di prendere in mano il timone della propria esistenza. Maurensig esplora gli incerti confini del sentimento amoroso e si chiede se esso sia pienezza o assenza, sia davvero una forza vivificante o non piuttosto «il malessere continuo per una perdita» (VLS, 82) che si rinnova per tutta la vita e perciò il romanzo sembra riproporre un’ennesima variante del binomio “amore e morte”. Risulta quindi emblematico che Giulio - il quale sta sperimentando una profonda crisi dell’ispirazione artistica - abbia abbandonato la poesia per uno studio sulle iscrizioni funerarie intitolato La poetica della morte. Il romanzo indugia a lungo su dettagli minimi che attraversano le esistenze banali dei personaggi e la stessa Flora – rappresentata in una condizione di stasi e di equilibrio attraverso la simbologia zodiacale della bilancia - si chiede se il fallimento delle relazioni amorose si debba ricercare proprio in tale angosciosa fissità, dal momento che la stabilità fisica ed emotiva pare presente solo nel «triangolo equilatero» (VLS, 123), configurazione dinamica e inesauribile che corrisponde al trigono astrologico e a quella meno prosaica del ménage à trois. In questo romanzo un po’ atipico, Maurensig analizza le diverse sfumature del sentimento amoroso mostrando come ogni relazione sia quasi sempre destinata ad esaurirsi per sopravvivere pacificata solo nella memoria. L’autore mette dunque in scena gli ostacoli che impediscono l’incontro autentico con l’altro e dimostra come l’amore sia una disperata illusione che, nutrendosi del reciproco possesso degli amanti, finisce per svelarne la solitudine e l’inquieta ricerca di stabilità. L’Uomo Scarlatto26 (2001), presenta un incipit letterario convenzionale perché i cinque capitoli del romanzo sono la trascrizione del contenuto dei cinque nastri di cui il narratore è entrato in possesso, mentre il titolo deriva dall’ideogramma dell’uomo 26 Paolo Maurensig, L’uomo scarlatto, Mondadori, Milano 2001. Le citazioni tratte da questo romanzo saranno indicate con US. 10 fiammeggiante che contrassegna le registrazioni. Il testo, inizialmente in forma dialogica, sfuma poi progressivamente in ampie sezioni narrative nelle quali l’andamento della seduta psicoanalitica viene appena percepito dal lettore. Gli incontri si svolgono tra il dottor Klein e un uomo misterioso dal volto sfigurato nel quale il rosso scarlatto della carne è andato a sostituire la pelle bruciata. L’Uomo Scarlatto frequenta da molti anni una clinica svizzera sul lago di Costanza, la Neuhaus, dove subisce degli avanzatissimi trapianti di pelle volti alla ricostruzione del suo viso. L’ambientazione e la tessitura dialogica del romanzo richiamano immediatamente le atmosfere e gli interminabili discorsi proferiti dai protagonisti della Montagna incantata di Thomas Mann, romanzo peraltro citato espressamente quando si allude ai sigari «prediletti da Castorp nella Montagna incantata» (US, 8), ma anche al clima angoscioso di attesa presente nel testo sveviano La rigenerazione. Tuttavia Maurensig conduce il tema dell’isolamento e della malattia verso esiti inquietanti che chiamano in causa lo stesso Hoffmann, considerato il potenziale ideatore di uno dei personaggi. Del resto, l’autore tedesco ha diffusamente trattato il tema dell’immortalità e del patto faustiano – ad esempio nel romanzo Gli elisir del diavolo27 – per cui non è casuale che anche Maurensig alluda a misteriosi esperimenti per i quali si utilizzerebbe «l’elisir di lunga vita» (US, 24), conservato nella clinica. Fra gli indizi intertestuali disseminati nel romanzo, pare degno di attenzione il richiamo a un racconto di George Wells, probabilmente The Story of the Late Mr. Elvesham28, in cui è descritto il fenomeno della trasmigrazione dell’anima per cui un individuo giovane e sano si ritrova nel corpo di un uomo vecchio e malato. Proprio questo racconto sarebbe, pertanto, l’ipotesto di L’Uomo Scarlatto: l’idea nacque da un racconto di Wells, dove si narra di uno scienziato che in punto di morte riesce, grazie a un determinato composto chimico, a trasferire la propria anima nel corpo di un giovane. Nel caso del mio personaggio, però, l’esperimento non riesce, il laboratorio di ricerca genetica va in fiamme, lo scienziato muore senza coronare il suo sogno di immortalità. L’Uomo Scarlatto è il soggetto dell’esperimento, e si chiama così perché porta sul volto e sul corpo, come uno stigma, il ricordo dell’incendio nel quale è perito il demiurgo (US, 43). L’Uomo Scarlatto è un individuo dall’età indefinibile «potrei essere anche un vecchio, eppure pare che abbia compiuto da poco i trent’anni» (US, 32), un giornalista con la 27 Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, Gli elisir del diavolo, Einaudi, Torino 1989. Il fu Signor Elvesham si legge in Guido Davico Bonino (a cura di), Io e l’altro. Racconti fantastici sul doppio. Einaudi, Torino 2004, pp. 127-145. 28 11 passione delle trame poliziesche e del disegno, che ha inventato e illustrato un alter ego fittizio anche se in parte autobiografico, un personaggio che interviene fra le creature mortali come un giustiziere, sul quale egli riversa impressioni e paure personali: L’Uomo Scarlatto è uno straniero in terra, è un essere unico, senza padre, né madre, un orfano metafisico, nato da una cellula conservata in vitro per lungo tempo, e che non si sa a chi sia appartenuta. E’ il risultato di un esperimento fallito, o realizzato solo in parte. E’ l’uomo più solo della terra e di tutto l’universo (US, 42). Il giornalista è l’unico sopravvissuto di un incendio in un collegio svizzero dove sono morti una cinquantina di ragazzi e che ha cancellato dalla sua mente ogni ricordo, anche se spesso ha la sensazione di consumarsi «nell’esistenza di un altro, di brancolare nella memoria di uno sconosciuto» (US, 40). La clinica in cui trascorre lunghi periodi, la Neuhaus, può essere definita «il nuovo ospedale della Resurrezione» (US, 24), e in essa si aggirano dei personaggi misteriosi interessati esclusivamente ai progressi della medicina, alla possibilità di debellare ogni malattia e di raggiungere l’immortalità. Ciascuno di essi porta avanti una porzione del racconto e la loro apparizione crea un'atmosfera allucinata e perturbante che infittisce il mistero: l’immortalità che essi perseguono non è però un’indefinita durata del corpo, incapace di ritrovare la giovinezza perduta, quanto piuttosto «una forma di trasmigrazione in un corpo rinnovato» (US, 44), attraverso una amnesia totale e ristoratrice in grado di simulare «quel rinnovamento assoluto» (US, 48), conferito soltanto dalla morte e indispensabile per cancellare dalla memoria gli eventi e gli errori passati. Fra i personaggi più inquietanti vi è il chirurgo Hohen e la medium Madame Orlava, una vecchia che indossa abiti sgargianti e vistose parrucche rosse e che, nonostante l’età, è ancora «preda di passioni irrefrenabili» (US, 53). La descrizione di questo personaggio e del suo insaziabile erotismo accosterebbe questa figura alla Donna Scarlatta descritta nel capitolo 17 dell’Apocalisse. Il testo biblico parla infatti di una donna ammantata di porpora e di scarlatto, seduta sopra una bestia scarlatta, e additata dall’Angelo come la madre della prostituzione e degli abomini della terra (17, 3-5). Se nel linguaggio visionario dell’Apocalisse e nella complessa simbologia biblica, la Donna Scarlatta allude alla dimensione teologica del peccato e alla perenne seduzione operata dalle potenze del male, la sua figura risulta piuttosto nota nell’ambito dell’occultismo e dei riti esoterici di magia sessuale ed è con questa connotazione che riteniamo abbia voluto intenderla lo stesso Maurensig, dal momento che Madame Orlova manifesta una sfrenata lussuria e ha frequentazioni con le creature dell’oltretomba evocate nel corso di sedute spiritiche. 12 Il romanzo, che si chiude con un apocalittico sabba, sollecita la ricerca di una chiave di lettura: i misteriosi esperimenti richiamati nel racconto, dalla metempsicosi alla clonazione, finalizzati a raggiungere l’immortalità e l’ambientazione mitteleuropea di un’ampia sequenza, sembrerebbero alludere alle efferate ricerche condotte dai nazisti. Oltre a ciò, in chiave più moderna, L’uomo Scarlatto potrebbe rappresentare un’efficacissima metafora della esasperazione della scienza e del falso progresso che hanno ormai perso di vista il valore supremo: il Bene dell’umanità. Nel romanzo del 2003, Il guardiano dei sogni29, Maurensig indaga ancora l’inquietante frontiera fra la vita e la morte. Il racconto, costruito in prima persona e secondo il modello dell’indagine poliziesca, presenta numerosi risvolti fantastici e onirici che però si traducono in un percorso edificante di ricerca interiore e di fede in un’esistenza ultraterrena, culminante nella contemplazione del Regno. Il protagonista è un giornalista quarantenne, vedovo da poco e in visita alla biennale di Venezia che, colpito da un infarto e ricoverato in ospedale, incontra uno stravagante personaggio che riesce a leggere i sogni altrui, mentre si manifestano sopra la testa del soggetto simili a immagini in dissolvenza. La mente umana sarebbe infatti come «un universo inesplorato» (GS, 64), che permette all’uomo di sognare anche allo stato di veglia; inoltre, i sogni offuscano la percezione della realtà e gli stessi pensieri che attraversano la mente sono soltanto «sogni, ricordi, fantasie» (GS, 65). Il visionario afferma di essere il conte Antoni Dunin, di appartenere ad una nobile famiglia polacca e di avere un palazzo sul Canal Grande. Maurensig lo descrive come un personaggio sfuggente e misterioso, assai somigliante a Tolstoj e imparentato con altre figure della letteratura: infatti, si vanta di essere nipote di Jan Potocki, celebre autore del Manoscritto ritrovato a Saragozza e lontano cugino di Tadzio, l’adolescente protagonista di La morte a Venezia. Il polacco avvia dunque un fitto discorso sull’arte, la letteratura, la magia, la religione, sollecitando il giornalista a vedere nella vita e nella morte delle realtà concrete e inesauribili. Si tratta di un invito a osservare e a vigilare attentamente, perché essere vivi non significa essere svegli e accorgersi delle esperienze essenziali dell’esistenza. Dal canto suo, il giornalista avvia uno scavo interiore per dare un senso al proprio lutto perché, dopo la morte di Claire, non intende rinunciare all’idea dell’esistenza 29 Paolo Maurensig, Il guardiano dei sogni, Mondadori, Milano 2003. Le citazioni tratte da questo romanzo saranno indicate con GS. 13 dell’anima e di una vita ultraterrena «negare una possibile vita dopo la morte equivaleva a un’ammissione di una sua perdita definitiva» (GS, 63). Il giornalista si chiede dunque chi sia Dunin - un taumaturgo, un mistico, un impostore senza una fissa dimora, un baro? - ed è pronto a calarsi in una città notturna e labirintica per compiere una vera e propria discesa ad inferos descritta attraverso le suggestioni dell’arte: «la gondola oscillava come una bara portata a spalla (…) e quella luce, a tratti, penetrava gli abissi (…) mi ricordava L’isola dei morti di Böcklin» (GS, 80). Finalmente l’uomo ritrova il compagno di degenza e conosce da lui il racconto del viaggio nel Regno, un’esperienza mistica avvenuta in Polonia durante la tragica occupazione nazista. Come avviene nel mito platonico della caverna - peraltro espressamente citato da Maurensig quando allude all’anamnesi come «reminiscenza di quanto l’anima ha contemplato nel mondo iperuranio prima di incarnarsi in un corpo terreno» (GS, 21) l’uomo avverte nella propria memoria una traccia sbiadita di un’esistenza anteriore che gli appare sotto forma di sogno o fantasia, simile a quella creata dall’immaginazione degli artisti. Del resto, solo i bambini o i puri di cuore possono trovare la via per il Regno, ma è possibile raggiungere questo paradiso perduto anche grazie al misterioso libretto nero da cui il visionario non si separava mai: «il più antico manuale per realizzare i sogni (…) un libro di preghiere» (GS, 165). In Vukovlad. Il signore dei lupi30 (2006), Maurensig introduce il soggetto del lupo mannaro protagonista, insieme al vampiro, di antiche leggende dell’Europa centrale. Fra le fonti implicite del romanzo, l’autore richiama John Polidori e Bram Stoker nonché gli studi antropologici di Augustin Calmet, ma a noi sembra piuttosto che il romanzo si possa accostare ad un racconto di Tommaso Landolfi, Il Lupo mannaro31 nel quale, attraverso elementi surreali, è descritta l’aspirazione del soggetto a liberarsi dal mal di luna e approdare ad una condizione di normalità. Anche Maurensig opera infatti un capovolgimento del motivo fantastico del licantropismo che, pur mantenendo la componente cupa e tenebrosa, aspira a una dimensione fiabesca e quasi moraleggiante. Fin dalle pagine iniziali di questo romanzo a tesi, l’autore tenta di sfatare i pregiudizi circa l’esistenza di creature mostruose e fenomeni misteriosi in quanto si tratterebbe di 30 Paolo Maurensig, Vukouvlad. Il signore dei lupi, Mondadori, Milano 2006. Le citazioni tratte da questo romanzo saranno indicate con V. 31 Il lupo mannaro si legge in Tommaso Landolfi, Il mar delle blatte e altre storie, Adelphi, Milano 1997, pp. 47-62. 14 credenze e paure ancestrali che impediscono di discernere il confine fra realtà e immaginazione. La vicenda si svolge sulla frontiera fra la Polonia e la Germania nell’agosto del 1939, alla vigilia dell’invasione nazista, ma viene resa pubblica dopo cinquanta anni, quando un anziano sottufficiale ungherese, Emil Ferenczi, sottopone ad uno scrittore incontrato ad un convegno sulla letteratura del soprannaturale, un episodio di cui è stato testimone in gioventù, durante il quale ritiene di aver incontrato un lupo mannaro. La narrazione pur rigorosa e realistica, si serve profusamente degli espedienti del fantastico, a cominciare dall’ambientazione - una landa desolata e ostile su cui regnerebbe una creatura infernale, un vukodlak - specchio fedele dello smarrimento che si impadronisce del drappello che attraversa paesaggi che sembrano presagire immani catastrofi e in cui si avverte maggiormente il terrore dell’ignoto e della morte. Maurensig arricchisce il romanzo di suggestioni prodotte dalla condizione di isolamento; dalla presenza di figure inquietanti come gli zingari o la vecchia cieca; dalla memoria di crimini efferati avvenuti nelle notti di luna piena; dalla visione di castelli tenebrosi e di cimiteri abbandonati, con le lapidi in rovina e le croci divelte, perché simili rappresentazioni sono «in grado di alimentare la paura del Male» (V, 41). Inoltre, sono presenti altri elementi riconducibili alla sfera magico-religiosa, come la riflessione sulla diffusione di credenze e superstizioni popolari, la funzione scaramantica svolta da amuleti ed ex voto raffiguranti delle fanciulle miracolosamente illese grazie all’intervento di San Michele a cavallo che infilza una bestia spaventosa proveniente dal castello. L’incontro con il Signore dei lupi, così soprannominato per l’immagine del lupo che regge lo scettro con la zampa, presente nello stemma araldico, avviene nella sua dimora, una roccaforte simile ad un immenso e oscuro labirinto che i soldati devono requisire per fermare l’invasione tedesca. Al suo interno, il margravio ha accumulato immense ricchezze che sono il segno del potere assoluto e della sua insaziabile brama: «brama di possesso, brama di dominio, brama di conoscenza» (V, 80), Inoltre, egli appare come un individuo sconvolto da oscure tensioni, quasi «in attesa di una catarsi» (V, 90), e i suoi discorsi riecheggiano la violenta propaganda ariana di quegli anni: la lotta agli uomini mediocri che affollano ogni ambito della vita civile ed economica e la necessità di una salutare epurazione poiché «la distruzione è un fatto primario della vita e dell’evoluzione» (V, 85), e guerre e calamità sono destinate a dar rinascere «un mondo nuovo» (V, 85). Infine, la presenza di una fanciulla vestita in abito da sposa e 15 dall’aria smarrita sembra alludere ad un abominevole ius primae noctis che il margravio continua ad esigere esercitare dalle ragazze in procinto di sposarsi. Il romanzo lascia irrisolti molti interrogativi: la morte del margravio, la sua ombra che abbandona il castello e si rifugia nella foresta. Ferenczi chiama in causa il tema del doppio e suppone l’esistenza di un gemello ma è opinione comune che le creature soprannaturali sono «personificazioni del Male» (V, 11), ed esse traggono origine da «un’unica feconda matrice» (V, 11), la mente umana, che le elabora per rappresentare particolari condizioni di paura e di pericolo quale fu certamente «l’orrore che regnò in quegli anni in Polonia» (V, 16). In questo modo, la licantropia diviene allegoria del nazismo, quando certi uomini si lasciarono travolgere dall’istinto più bestiale e realizzarono la condizione ferina riassunta da Hobbes nella formula homo homini lupus, che potrebbe costituire la tesi fondativa del racconto. Tuttavia, Maurensig si spinge anche oltre e, ricorrendo alle parole del Timeo di Platone, illustra con un efficace contrapasso i rischi e le conseguenze della malvagità umana: e se l’uomo persistesse nella sua malvagità, a seconda del suo peccato, ogni volta si trasformerebbe in una qualche creatura ferina, a somiglianza di quello che fu il suo vizio (V, 43). Protagonista de Gli amanti fiamminghi32 (2008), è un io narrante senza nome con il quale l’autore sembra condividere numerose analogie poiché si tratta di uno scrittore affermato e non più giovanissimo che ama gli scacchi e la musica e le cui opere, tradotte in molte lingue, sono divenute anche dei soggetti teatrali. Ma al di la di queste intuitive corrispondenze, il romanzo entra anche nel vivo del discorso metaletterario affrontando la questione della genesi della scrittura e della crisi dell’ispirazione artistica, perché il narratore omodiegetico vive da qualche tempo una sterilità interiore che gli impedisce di costruire nuove trame. L’opera è inserita in una cornice che svela progressivamente i personaggi e le loro reciproche tensioni: il protagonista e la seconda moglie Manola, una pittrice argentina incontrata da poco, e un’altra coppia formata dall’amico d’infanzia Jacopo e dalla nuova compagna Emma. Jacopo propone un viaggio da Milano in Catalogna, seguendo un percorso piuttosto dispersivo attraverso la Costa azzurra e la Provenza, ma muore improvvisamente durante un’escursione solitaria nelle Gorges du loup, mentre il narratore legge avidamente il manoscritto di Jacopo Gli amanti fiamminghi, racconto eponimo incastonato nel romanzo. Al lettore non sfugge però l’allusivo riferimento al 32 Paolo Maurensig, Gli amanti fiamminghi, Mondadori, Milano 2008. Le citazioni tratte da questo romanzo saranno indicate con AF. 16 racconto di Poe Il barilotto di Amontillado, nel quale un uomo uccide il proprio amico e tale evento, sia pure soltanto fantasticato dall’io narrante, appare invece possibile nella realtà «e la cosa peggiore fu che vidi me stesso compiere il misfatto» (AF, 24). Il manoscritto complica però i piani di realtà della vicenda e restituisce i retroscena di un amore giovanile vissuto da Jacopo in quei luoghi di Provenza dove ha voluto condurre i suoi amici e dove ha forse lucidamente premeditato di concludere i suoi giorni, sospinto dal ricordo di una passione travolgente e incancellabile per una giovanissima attrice, Armande, suicidatasi circa trent’anni prima in quelle stesse Gorges du loup. Il viaggio coincide dunque con un inquietante itinerario della memoria teso a recuperare una vicenda amorosa densa di oscuri limina che impediscono una comprensione univoca del racconto. Negli Amanti fiamminghi sono presenti alcuni motivi ricorrenti nell’immaginario di Maurensig come il tema del doppio (Armande ha provocato con la sua nascita la morte della gemella Alfonsine di cui avverte sempre la malefica presenza), e l’ossessione per una dimensione onirica che si contrappone continuamente alla realtà e pare sostituirla. Il romanzo contiene inoltre un raffinato gioco di rimandi artistici e allegorici all’opera di Bruegel Il trionfo della morte di cui viene visualizzata, in particolare, una scena minore dove è effigiata una coppia di giovani innamorati che suonano il liuto accanto alla personificazione della Morte la quale, lasciata la falce, li accompagna con la lira. Proprio tale dettaglio, apparentemente insignificante, illumina la visione cupa e pessimista della morte, restituendo in parte al dipinto – ma anche all’ambigua morale del romanzo – il senso dell’anelito inestinguibile alla vita, al sentimento e alla passione dei sensi, di fronte al quale anche la morte sembra annullarsi per seguire il richiamo sublime dell’amore assoluto, dell’arte e della poesia. Attraverso questi ingredienti, l’autore scandaglia impietosamente la mediocrità di certe azioni umane e formula un’acuta riflessione sulla giostra di falsità che, segnando dolorosamente i rapporti umani, svuota ogni slancio e sottrae a ciascuno e agli altri l’espressione di sé e della propria anima. Il penultimo romanzo La tempesta. Il mistero di Giorgione 33 (2009), porta a maturazione temi e suggestioni in parte già indagate dall’autore e legate al mondo della pittura e della creazione artistica. Anche questo romanzo si svolge a Venezia ai nostri giorni e ruota intorno al famoso dipinto di Giorgione richiamato nel titolo. 33 Paolo Maurensig, La tempesta. Il mistero di Giorgione, Morganti, Pezzan di Carbonera, 2009. Le citazioni tratte da questo romanzo saranno indicate con T. 17 Come accade però in quasi tutte le opere di Maurensig, i piani temporali si moltiplicano e la vicende narrate richiamano altre epoche: il Rinascimento in cui operava Zorzon da Castelfranco e gli ultimi anni dell’800, quando Venezia diviene la meta ambita di molti scrittori stranieri fra cui Henry James che vi soggiorna a lungo ambientandovi diverse opere fra cui Il carteggio Aspern34 (1882). L’intreccio di figure reali (James e Giorgione), e personaggi sfuggenti e indecifrabili (fra cui un seguace della dottrina rosacrociana), il frequente ricorso a suggestioni dannunziane 35 – sulle quali anche James aveva scritto delle pagine di critica letteraria 36 - e preraffaellite relative soprattutto al paesaggio, ai personaggi e alla funzione dell’arte espressi nel Fuoco (1900). In entrambi i romanzi incombe infatti un’atmosfera quasi metafisica di malinconia, struggimento e attesa evidenti, ad esempio, nella rappresentazione dannunziana del Corteo dell’estate defunta, sostituita da Maurensig col richiamo esplicito al dipinto di Millais Ofelia, con il quale presenta singolari analogie di gusto e interpretazione. Oltre a queste palesi corrispondenze, l’autore friulano arricchisce l’intreccio indagando in chiave estetica ed esoterica il significato allegorico della Tempesta, e inserendo la suggestiva ricostruzione di un racconto inedito a partire da alcune carte di James di cui il protagonista entra in possesso. La vicenda presenta inoltre la delicata ed intensa relazione d’amore fra il protagonista, uno scrittore giunto nella città lagunare per predisporre la sceneggiatura del suo primo film tratto dal racconto di James Il carteggio Aspern, e Olimpia, una restauratrice che lo porta a conoscere molti scorci di una città labirintica che richiama in qualche punto anche le atmosfere descritte nel romanzo di Thomas Mann La morte a Venezia. La ragazza, a tratti evasiva e sfuggente, lo guida alla scoperta del quartiere che fu di Giorgione e rimasto immutato nel tempo e, soprattutto, lo conduce fra le sale dell’Accademia, alla contemplazione del misterioso dipinto, forse un’epifania della condizione umana dopo la cacciata dal paradiso terrestre? Con questi elementi, Maurensig costruisce dunque una trama intrigante e mentre il manoscritto perduto di James prende lentamente forma sotto gli occhi del lettore, le analogie con il romanzo diventano sempre più numerose ed evidenti: anche in quelle 34 Henry James, Il carteggio Aspern, Marsilio, Venezia 1992. D’Annunzio si interessò al pittore veneto dopo aver letto il Giorgione di Angelo Conti, opera a sua volta influenzata dal saggio di Walter Pater La scuola di Giorgione. Si vedano in proposito le note al romanzo Il Fuoco in Gabriele D’Annunzio, Prose di romanzi, a cura di Niva Lorenzini, Milano, Mondadori, II, pp. 1230-1231. 36 Si veda la sezione dedicata agli studi dannunziani in Henry James, d’Annunzio e Flaubert, Serra e Riva, Milano 1983, pp. 29-80. 35 18 pagine uno scrittore americano giunge a Venezia, si innamora di una ragazza, Annelien, che prima di scomparire dalla sua vita gli fa conoscere la Tempesta di Giorgione. La sensazione prodotta da una tale mise en abyme è dunque «l’esaltante consapevolezza di tornare al passato» (T, 24), e ciò suscita l’idea di un’esperienza ancora più affascinante, cioè che i personaggi e le vicende narrate in un romanzo «possano prendere vita nei corpi di persone reali, le quali devono ancora nascere (…) Lui non verrebbe mai a conoscenza degli effetti della sua storia e noi non verremo mai a conoscenza della sua esistenza» (T, 142). Se la letteratura rende possibile simili ipotesi metafisiche, la pittura e l’arte non sono da meno, perché l’emozione prodotta dal celebre dipinto veneziano dura fino a che si mantiene immutato il suo mistero: infatti, nella dolcissima figura della madre che allatta al seno il suo bambino, Giorgione avrebbe raffigurato la sacralità dell’amore femminile e il mistero della creazione senza i quali «nessun progresso spirituale è possibile» (T, 190). Il soggetto dell’ultimo romanzo di Paolo Maurensig L’oro degli immortali37 (2010), riporta il lettore nel cuore della Germania nazista e, in particolare ai terribili esperimenti pseudoscientifici condotti in quegli anni. Il protagonista, Léon Acquaviva, è un famoso professore di archeologia che casualmente entra in contatto, in Svizzera, con un misterioso individuo, Albert Radeck, il quale gli racconta di alcuni studi segretissimi sulla trasmissione dei caratteri ereditari ancestrali condotti da un gruppo di scienziati guidati da alcuni ufficiali del Terzo Reich. Attraverso le tecniche dell’alchimia, dell’ipnosi e della regressione a stadi precedenti, a cui si sottopone lo stesso Hitler, essi sarebbero entrati in contatto con le antiche figure della mitologia ariana e avrebbero prodotto il leggendario Elisir di lunga vita. Come accade nei romanzi dell’autore friulano, la vicenda scivola con le sue tentacolari conseguenze anche nell’epoca contemporanea, dove questi Immortali continuano a fronteggiarsi in una lotta titanica nella quale le forze del Bene alla fine prevalgono, grazie ad un medaglione d’oro dagli straordinari poteri, forgiato nel Cinquecento da Benvenuto Cellini. Questo romanzo indica che Maurensig si è posto alla ricerca di nuovi filoni narrativi e che, alla ricostruzione dell’ambiente nazista a cui ha legato la propria notorietà sin da La variante di Lüneburg (1993), l’autore sta esplorando il filone esoterico con un thriller dal plot avvincente e di ampio respiro che spazza via le atmosfere rarefatte e 37 Paolo Maurensig, L’oro degli immortali, Morganti, Pezzan di Carbonera, 2010. Le citazioni tratte da questo romanzo saranno indicate con OI. 19 sospese degli ultimi romanzi, caratterizzati da un progressivo intimismo e spesso avvitati intorno ad una conflittualità composta e borghese che si serve del fantastico per piegare le trame ad un mix di sentimento e mistero. In L’oro degli immortali, invece, Maurensig ha rinnovato in parte i suoi strumenti per comporre un affresco nel quale all’ambientazione nazista e al tema dell’immortalità – quest’ultimo già espresso in Canone inverso e L’uomo scarlatto – si aggiungono la descrizione della mitologia ariana e le suggestioni prodotte dalle grandiose saghe fantasy del cinema e della letteratura, come la trilogia di Tolkien richiamata esplicitamente nella postfazione insieme ad altre fonti significative: Il mattino dei maghi di Pawuels e Bergier, e lo studio di Pierluigi Tombetti I misteri del Nazismo, in cui sono presenti anche i riferimenti all’alchimia e all’immortalità contenuti nel romanzo. L’autore spiega anche il senso di questa operazione perché, coniugando romanzo storico e fantasy, egli desidera sollecitare l’interesse e il desiderio di conoscenza del suo pubblico, come afferma nella postfazione: credo (…) che la letteratura (anche quella di evasione) possa portare qualche insegnamento, o che perlomeno stimoli il lettore ad affrontare altre letture più illuminanti (OI, 404). In conclusione, che si impieghi «l’allegoria guerresca, o fantascientifica» (OI, 403), o il fascino delle ambientazioni storiche, a Paolo Maurensig preme sopratutto suscitare la curiosità intellettuale dei lettori e ciò riconferma positivamente il valore e l’originalità delle sue opere all’interno del panorama letterario italiano degli ultimi due decenni. Maria Grazia Cossu 20